CULTURA- Pagina 84

Spettacoli, ecomusei, editoria: il Piemonte punta sulla cultura. In arrivo i fondi regionali

In arrivo circa 9 milioni di euro dedicati al comparto della Cultura con i bandi regionali del Piemonte. Restano aperti fino al 30 settembre 2022: 1,4 milioni al settore librario e all’editoria, 6,5 milioni alla promozione culturale (spettacolo, cinema mostre convegni rievocazioni e carnevali) e 720.000 euro per ecomusei e società di mutuo soccorso.

I progetti saranno valutati nel merito e  per molti bandi cambierà  il modo di programmare le attività, distribuite su 36 mesi invece che annualmente, per dare la possibilità di adottare i modelli di sviluppo delle imprese.

È stato infatti approvato dal Consiglio regionale il Programma Triennale della Cultura voluto dall’assessora Vittoria Poggio, ed enti e associazioni spalmando la pianificazione su più anni potranno alzare il livello delle produzioni senza dispersioni economiche. La Regione ripropone tutti i capitoli dell’anno precedente, in più un pacchetto  di 350.000 euro, per accompagnare la trasformazione delle sale cinematografiche in luoghi da cui assistere a eventi culturali o spettacoli in streaming e a incontri tra autori e pubblico o con gli operatori del settore.

La linea che veglia su chi è stato: il Cimitero Monumentale

Oltre Torino: storie miti e leggende del torinese dimenticato

È l’uomo a costruire il tempo e il tempo quando si specchia, si riflette nell’arte

L’espressione artistica si fa portavoce estetica del sentire e degli ideali dei differenti periodi storici, aiutandoci a comprendere le motivazioni, le cause e gli effetti di determinati accadimenti e, soprattutto, di specifiche reazioni o comportamenti. Già agli albori del tempo l’uomo si mise a creare dei graffiti nelle grotte non solo per indicare come si andava a caccia o si partecipava ad un rituale magico, ma perché sentì forte la necessità di esprimersi e di comunicare. Così in età moderna – se mi è consentito questo salto temporale – anche i grandi artisti rinascimentali si apprestarono a realizzare le loro indimenticabili opere, spinti da quella fiamma interiore che si eternò sulla tela o sul marmo. Non furono da meno gli autori delle Avanguardie del Novecento che, con i propri lavori “disperati”, diedero forma visibile al dissidio interiore che li animava nel periodo tanto travagliato del cosiddetto “Secolo Breve”. Negli anni che precedettero il primo conflitto mondiale nacque un movimento seducente ingenuo e ottimista, che sognava di “ricreare” la natura traendo da essa motivi di ispirazione per modellare il ferro e i metalli, nella piena convinzione di dar vita a fiori in vetro e lapislazzuli che non sarebbero mai appassiti: gli elementi decorativi, i “ghirigori” del Liberty, si diramarono in tutta Europa proprio come fa l’edera nei boschi. Le linee rotonde e i dettagli giocosi ed elaborati incarnarono quella leggerezza che caratterizzò i primissimi anni del Novecento, e ad oggi sono ancora visibili anche nella nostra Torino, a testimonianza di un’arte raffinatissima, che ha reso la città sabauda capitale del Liberty, e a prova che l’arte e gli ideali sopravvivono a qualsiasi avversità e al tempo impietoso.

 

Torino Liberty

Il Liberty: la linea che invase l’Europa
Torino, capitale italiana del Liberty
Il cuore del Liberty nel cuore di Torino: Casa Fenoglio
Liberty misterioso: Villa Scott
Inseguendo il Liberty: consigli “di viaggio” per torinesi amanti del Liberty e curiosi turisti
Inseguendo il Liberty: altri consigli per chi va a spasso per la città
Storia di un cocktail: il Vermouth, dal bicchiere alla pubblicità
La Venaria Reale ospita il Liberty: Mucha e Grasset
La linea che veglia su chi è stato: Il Liberty al Cimitero Monumentale
Quando il Liberty va in vacanza: Villa Grock

Articolo 9. La linea che veglia su chi è stato: il Cimitero Monumentale

Il Liberty al Cimitero Monumentale
Il Cimitero Monumentale, un tempo chiamato Cimitero Generale, si trova a Nord della città, in una zona non lontana dalla Dora Riparia, nell’area del Regio Parco. Nel 1827 la città di Torino ne deliberò l’edificazione decidendo di situarlo lontano dal centro abitato, in sostituzione del piccolo cimitero di San Pietro in Vincoli, nel quartiere Aurora. L’opera si poté attuare grazie alla donazione di 300 mila lire piemontesi del marchese Carlo Tancredi Falletti di Barolo. Aperto nel 1828, su progetto dell’architetto Gaetano Lombardi, con disegno a pianta quadrata dagli angoli smussati, il Monumentale fu presto ingrandito con una parte aggiunta a cura dell’architetto Carlo Sada Bellagio, collaboratore di Pelagio Palagi e vincitore del concorso per la realizzazione della chiesa dedicata al primo vescovo torinese, San Massimo. Seguirono poi necessari ampliamenti, e negli anni tra Ottocento e Novecento l’alta società borghese di Torino affidò a celebri scultori il mandato per la costruzione di imponenti edicole funerarie, a solenne affermazione del prestigio raggiunto dalle singole famiglie. Proprio l’estetica Liberty, sintesi raffinata di natura, tecnica e arte, riuscì ad interpretare il compianto pietoso verso il defunto, delineando il triste tema della morte attraverso pure ed efficaci metafore di una grande arte funeraria.

Tra le opere che possiamo visionare in rigoroso e rispettoso silenzio vi è il Monumento Porcheddu, dedicato al grande ingegnere Giovanni Antonio Porcheddu, che ha introdotto in Italia la tecnica delle costruzioni in cemento armato. Figura essenziale per l’imprenditoria torinese, alla sua impresa si devono imponenti opere, quali l’immenso Stadium del 1911 (demolito nel 1946), il progetto dello stabilimento Fiat Lingotto del 1922, il Ponte Risorgimento a Roma. Il monumento, realizzato dallo scultore Edoardo Rubino e dal decoratore Giulio Casanova, è composto da un semplice sacello marmoreo su cui è posto un corpo femminile, lievemente ricoperto da un lenzuolo che ne lascia scoperto il volto e che scivola appena oltre i bordi del sepolcro. Da una parte e dall’altra di questo, quattro figure femminili, due per ciascun lato, vegliano il feretro: quelle che stanno dal lato del capo porgono su questo le mani un poco rialzate come in segno di protezione, dall’altro lato una delle due donne veglia sul corpo con il capo reclino e l’altra alza il braccio sorreggendo una lampada. La compostezza delle figure lascia trasparire una sobrietà di sapore classico, nei gesti, nei panneggi, nella postura, mentre un delicato senso di pietas avvolge con intensità l’intera struttura compositiva. Sullo sfondo compare una particolare croce con tralci stilizzati di rose nella parte verticale e motivi dorati nel lato orizzontale. Al centro della croce una corona di rose bianche è posta intorno all’inquadratura dorata con la scritta “IHS” (sigla intesa come “Gesù salvatore degli uomini”, ma in realtà è la trascrizione latina abbreviata del nome greco di Gesù). Sulla volta del portico che accoglie il gruppo scultoreo, un cielo stellato d’oro mosaicato su fondo blu inquadra una grande croce.

Un’altra opera che richiama la mia attenzione in questo luogo di assordante silenzio è il Monumento Kuster, realizzato da Pietro Canonica nel 1921. Esso mostra una figura femminile con abito succinto che, inarcando la schiena, si solleva con il busto in posa quasi teatrale, ed emerge da un giaciglio posto di fronte ad una croce. I suoi lunghi capelli sono scompigliati dal vento che gonfia anche un drappo posto sulla croce e agita le foglie morbidamente rappresentate sulla bronzea stele verticale. Tra le note di tristezza e di intenso pathos, vi aleggia in primo piano la spettacolarità della scena, la figura si pone come la “divina” del cinema muto, la nuova arte che nei primi anni del Novecento andava affermandosi in città.La protagonista del Monumento Roggeri è una fanciulla inginocchiata e piegata dal dolore, le mani le coprono il volto, e i capelli fluenti e raccolti dietro il capo le scendono fin oltre la schiena. Il lungo abito, movimentato dal panneggio di morbide linee, scende e si posa sul basamento in travertino e in parte lo ricopre. La nota di un patire intenso e irrefrenabile è il messaggio che viene dalla donna che, inginocchiata e chiusa al mondo, sembra pregare, tormentata da un affanno senza fine. Su di un lato, si intravvede appena la firma di O.Tabacchi, allievo di Vincenzo Vela, al quale succederà nella cattedra di scultura presso l’Accademia Albertina di Torino.

È ancora un’altra fanciulla ad essere al centro della composizione funebre del Monumento Maganza, posta tra colonnine in marmo verde Roja, una giovane dal volto delicato, da cui traspare una espressione affranta; una sottile tunica le avvolge lieve il corpo esile, ha un’acconciatura alla moda, con i capelli corti, il volto, appena piegato e reclinato sulla mano sinistra, sembra voler trasmettere un messaggio di triste rimpianto. Alle spalle, marmorei tralci di fiori e, dietro, la croce. Soffermiamoci ancora sull’opera che si trova sulla sinistra, entrando dall’ingresso principale del Cimitero. Si tratta di un gruppo statuario che comprende una figura velata da un ampio panneggio, rappresentata mentre sta per avvolgere in un abbraccio simbolico una giovane figura femminile in piedi, con le braccia abbandonate lungo il corpo e il capo reclinato su una spalla. Dal basamento crescono steli e boccioli di rosa che paiono voler avvolgere i corpi sovrastanti: si tratta di una sintesi di decorazione Art Nouveau, completata dalla dedica dei committenti. L’opera fu eseguita da Cesare Redduzzi, scultore affermato e insegnante di scultura presso l’Accademia Albertina, più noto ai Torinesi come l’autore dei gruppi scultorei allegorici: l’arte, il lavoro, e l’industria, collocati nel 1909 a coronare le testate verso corso Moncalieri del ponte dedicato a Umberto I.
Moltissimi sono i monumenti funebri di squisito gusto Liberty davanti ai quali sarebbe opportuno soffermarsi, e numerose le figure femminili modellate con l’estetica della Nuova Arte, o che, con il loro atteggiamento da “dive” affrante del cinema muto, sorvegliano le anime di chi non c’è più e accompagnano silenziose gli sguardi di chi le va a trovare.

Alessia Cagnotto

Mostra all’Egizio: Champollion, 200 anni di geroglifici

Una stele in calcare di Età Ramesside, appartenuta al defunto Nekhatum, sacerdote-wab, in atto di preghiera verso il faraone Amenhotep I, divinizzato, è il reperto sotto la lente della nuova mostra del ciclo “Nel Laboratorio dello Studioso”, a cura di Beppe Moiso e di Tommaso Montonati.

Questa stele fu studiata e descritta da J. F. Champollion nel suo soggiorno torinese, e sono proprio i fatti avvenuti durante la permanenza di Champollion a Torino il focus della nuova mostra.

Visitabile dal 26 agosto fino al 30 ottobre 2022, la mostra presenta volumi e documenti inediti, oltre ad oggetti e reperti che hanno catturato l’attenzione di Champollion.

Il soggiorno torinese fu un periodo assai complicato per Champollion anche per le divergenze sorte con Giulio Cordero di San Quintino, incaricato dalla Regia Accademia delle Scienze di procedere ad un primo riconoscimento degli oggetti ed alla loro esposizione all’interno del palazzo del già Collegio dei Nobili, e sede dal 1783 dell’Accademia.

Il racconto della mostra si sviluppa in quattro momenti dedicati ai diversi aspetti della vicenda e del contesto torinese del tempo.

La figura di Champollion è ben nota nel panorama dell’Egittologia: fu lui a scoprire, nel 1822, la chiave di decifrazione della scrittura geroglifica. Il Museo Egizio inaugura con questa mostra un mese molto speciale in cui ricorrono i 200 anni dalla decifrazione dei geroglifici.

Nel giardino di Casa Lajolo, a Piossasco, presentazione dell’ultimo libro di Enrico Camanni

“La discesa infinita”

Domenica 28 agosto

Piossasco (Torino)

Un noir decisamente intrigante. E la montagna. Colta e raccontata (sempre protagonista, mai comprimaria) in quei sussurri, in quei sentori, in quelle ombre, misteri e silenzi che segnano il tempo di mezzo – affascinante e perfino poetico – fra l’estate pronta ad andarsene e l’autunno ormai quasi ai nastri di partenza. “In autunno la montagna scivola in una stasi tutta sua, tra l’estate ormai ricordo e la neve da aspettare”. Nasce qui e in questo tempo “La discesa infinita” (Mondadori), l’ultimo romanzo di Enrico Camanni – scrittore, giornalista e alpinista torinese, classe ’57 – che sarà presentato domenica prossima 28 agosto (ore 18) nel sontuoso giardino all’italiana (articolato su tre livelli) di “Casa Lajolo”, settecentesca dimora storica, dal 1850 proprietà dei conti Lajolo di Cossano, situata nell’antico Borgo di San Vito sulla collina di Piossasco, alle pendici del monte San Giorgio. L’incontro con Camanni si inserisce nell’agenda di “Bellezza tra le righe”, la rassegna promossa da  “Fondazione Casa Lajolo” “Fondazione Cosso”, realizzata con il contributo della Regione Piemonte. Nella chiacchierata e nel volume Camanni offrirà la sua personale e affascinante commistione tra mistero noir e romanzo di montagna, capace di dar vita ad avvincenti pagine “in cui spicca l’analisi attenta e curata degli animi di chi, tra le vette, ritrova se stesso e la libertà, tema al centro di ‘Bellezza tra le righe 2022’”.

L’appuntamento, per chi lo desidera, sarà seguito da aperitivo nel prato, su prenotazione, con omaggio dall’orto.

L’incontro con Camanni è compreso nel biglietto di ingresso alla Casa e al giardino: 8 euro. Aperitivo su prenotazione 10 euroPrenotazione obbligatoria333/327 0586info@casalajolo.it

Enrico Camanni è approdato alla scrittura ed al giornalismo di montagna, attraverso la passione e la pratica dell’alpinismo. Molto attivo sulle Alpi, come alpinista ha aperto una decina di vie nuove e ripetuto circa ottocento itinerari di roccia e ghiaccio. E’ stato inoltre membro del “Gruppo Alta Montagna”, istruttore della Scuola Nazionale di Alpinismo “Giusto Gervasutti” e direttore della Scuola Nazionale di Scialpinismo della “Sucai” di Torino. Come giornalista collabora con numerosi quotidiani e periodici, da “La Stampa” a “L’Unità” al “Sole 24 Ore” a “Meridiani” e a “L’Indice dei libri del mese”. Nel 1985 ha fondato il mensile “ALP”, che ha diretto per tredici anni. Ha affrontato, fra l’altro, anche il problema della museografia alpina contemporanea, curando la progettazione scientifica del “Museo Nazionale della Montagna” di Torino, del “Museo delle Alpi” nell’Opera Carlo Alberto e de “Le Alpi dei ragazzi” nell’Opera Vittorio al valdostano Forte di Bard. Nel giugno 2012 ha fondato con un gruppo di torinesi e l’appoggio esterno di Carlo Petrini la rivista “Turin, storia e storie della città”. Si è dedicato contemporaneamente alla Narrativa, pubblicando vari romanzi ambientati in diversi periodi storici.

  1. m.

Napoli Milionaria: l’attualissima lezione di Eduardo 

Sono trascorsi 38 anni da quel 31 ottobre del 1984 in cui moriva Eduardo De Filippo. Drammaturgo, attore teatrale e cinematografico, regista e sceneggiatore, grande poeta: Eduardo  è stato tra  i massimi esponenti della cultura italiana del Novecento. Dotato di personalità schiva, burbera, lontana dalle mondanità, ebbe un grande pregio: teneva in grande considerazione i giovani.

Ne sapeva riconoscere il valore e il potenziale, dando a molti una chance. Non sopportava i furbetti o i meschini. Ricordarlo è importante. Oggi più che mai. Con una riflessione più larga. C’è chi ha scritto che il Paese uscirà  da questa crisi imposta dalla pandemia come da una guerra. In parte lo dicono i dati, le analisi, le previsioni. Ma ancora di più lo dice la dignità ferita di molti. Se così è occorre a maggior ragione ritornare a quello spirito di riscossa civile che segnò la stagione della ricostruzione dopo l’ultima vera guerra che gli italiani hanno vissuto. Pensando a questo e pensando al teatro di Eduardo, viene alla mente un episodio, una storia particolare, che parla di lui ma , al fondo,  parla anche di noi. Il 25 marzo del 1945 al San Carlo di Napoli  andò in scena la prima rappresentazione di Napoli Milionaria. La vicenda è nota. C’è Gennaro Jovine, che è un uomo perbene. E’ andato in guerra e quando torna a casa trova la moglie che si è arrangiata e ha fatto un po’ di denaro con la borsa nera. E il resto della famiglia più o meno lo stesso: la figlia maggiore è incinta di un soldato americano. L’altro figlio traffica con piccoli furti e persino la più piccola è stata contagiata dal clima. Il terzo atto è quasi una storia a sé. La bambina più piccola è malata, molto, e serve una medicina che non si trova in tutta Napoli. Il medico dispera quando entra il vicino – un uomo che Amalia ha rovinato con l’usura – e che adesso è lì con la medicina in mano. E il dialogo diventa duro. Lei gli chiede cosa vuole in cambio. Lui le risponde che non può restituirgli la vita che gli ha tolto e quindi in cambio non vuole nulla. Ma le apre gli occhi sull’oscenità di quel suo arricchimento. Poi consegna la medicina al dottore e se ne và. Per Amalia è il crollo di un mondo. O anche il risveglio da un incubo. Così quando rimangono soli, marito e moglie, finalmente Eduardo (Gennaro) parla e le dice quello che pensa. Di quella brama di ricchezza, di quei biglietti da mille accumulati sulle disgrazie degli altri. Glieli butta sul tavolo e le dice “vedi, a me queste mille lire non mi fanno battere il cuore. E a te? Com’è che te lo fanno battere?”. C’è del moralismo? Forse, ma può starci nel teatro di Eduardo. Ma il talento è talento, e stupisce. E allora Amalia, che si è svegliata dal suo sonno, risponde. Poche frasi nelle quali c’è tutto. Lei si chiede: “Ma che cosa è successo?Che cosa ha travolto così le nostre vite, le cose che avevamo, principi semplici ma puliti – e ripete – ma che è successo?”. Sono le battute finali. Il figlio torna a casa perché non è andato a rubare; la figlia maggiore terrà il bambino e Gennaro finalmente può darsi coraggio con quella battuta immortale sulla notte che deve passare (“Ha da passa’ ‘a nuttata” ). Per la bambina, per la sua famiglia, per il Paese. Eduardo disse che il terzo atto lo recitò impaurito e in un silenzio assoluto. E raccontò che calato il sipario il silenzio proseguì per qualche secondo. Dopo esplosero “un applauso furioso” e un “pianto irrefrenabile”. Piangevano tutti, attori, comparse, il pubblico, gli orchestrali nel golfo mistico. E anche Raffaele Viviani che era corso ad abbracciare il Maestro perché aveva interpretato il “dolore di tutti”. La domanda banale è chissà come sarebbe oggi avere Eduardo tra di noi. Lui o qualcuno capace come lui di mettere in prosa la stessa domanda: ma che è successo? Come è accaduto che in un paese con la nostra storia e cultura ci sia chi abbia perduto la rotta? E che chi ha avuto o ha il potere, o vorrebbe averlo abbia pensato o pensi di poter fare a meno del popolo, magari perché abbagliato dal potere stesso? Però, e crediamoci una buona volta, la “nottata” deve finire, anche per noi, ora. E con un tempo nuovo, crediamoci ancora, si dovranno riconquistare i principi, l’onestà e la speranza di futuro come la famiglia Jovine.

 Marco Travaglini

A Coassolo, toccante retrospettiva dedicata a Domenico Riccardo Peretti Griva

“Il mondo fotografico di Riccardo”, illustre magistrato e fotografo coassolese

Fino al 31 agosto

Coassolo (Torino)

A sessant’anni dalla scomparsa, avvenuta l’11 luglio del 1962, il Comune di Coassolo (dove nacque il 28 novembre del 1882) torna a ricordare il suo figlio più celebre ed indimenticato, Domenico Riccardo Peretti Griva, attraverso una ricca retrospettiva fotografica curata da Giovanna Galante Garrone, storica dell’arte e nipote delle stesso Peretti Griva, in cui si presentano fotografie facenti parte della collezione privata di famiglia (furono più di 25mila gli scatti a sua firma), riproduzioni da originali del “Museo Nazionale del Cinema” di Torino (che custodisce il fondo donato dalla figlia Maria Teresa) e del Comune di Lanzo Torinese, che già ospitò la mostra nel luglio scorso. Tutte riunite in un’unica esposizione, fino al prossimo mercoledì 31 agosto, presso la “Sala Consigliare” del Comune, “si tratta di opere – sottolinea Giovanna Galante Garrone – realizzate nella prima metà del secolo scorso e che restituiscono una preziosa sintesi delle predilezioni tematiche e delle scelte estetiche di Riccardo Peretti Griva”. “Le sue fotografie in bianco-nero – prosegue – testimoniano una forte attenzione al chiaroscuro che nel procedimento di stampa, assume caratteri pittorici di particolare liricità”. Magistrato, giurista, fervente antifascista e provetto alpinista – come l’amico magistrato Umberto Balestrieri, che lo iniziò alla passione per la fotografia – in magistratura Peretti Griva rimase per 43 anni, partendo come pretore di Morgando e arrivando (in una carriera per molti “scomoda”, da “magistrato del vecchio Piemonte” come ebbe a definirlo il genero Alessandro Galante Garrone) fino a ricoprire la carica di primo presidente della “Corte d’Appello” di Torino”. Sua costante compagna di strada, l’inesauribile passione per la Fotografia. Formatosi nella “Scuola Piemontese di Fotografia Artistica”, è nel 1905, sull’onda dell’“Esposizione Internazionale” tenutasi a Torino che inizia la sua incalzante avventura artistica, che lo porterà, fra il 1920 ed il 1950, ad essere considerato uno dei principali esponenti del cosiddetto “pittorialismo” italiano, attratto in particolare dal tema della natura, cristallizzata in poetiche atmosfere romantiche, attraverso la sofisticata tecnica al “bromolio”, con l’utilizzo di interventi manuali in grado di conferire alle foto le sembianze di un disegno a carboncino, e meno frequentemente con quella al “bromuro d’argento”. Nel 1923 viene premiato alla “Prima esposizione internazionale di fotografia, ottica e cinematografia” e da allora partecipa costantemente ai “Salons d’arte fotografica internazionale di Torino”, nonché a numerose altre manifestazioni in Italia e all’estero. Molte anche le mostre dedicategli in seguito.

Le più recenti, fra le postume, al “Museo Nazionale del Cinema” e al Museo “Arnaldo Tazzetti” di Usseglio (2018), a cura di Daniela Berta e di Giovanna Galante Garrone. Nel febbraio del 1962, gli venne assegnata l’onorificenza di “eccellenza” da parte della prestigiosa “Féderation internationale de l’art photographique”. E’ l’occhio della poesia, della semplicità e della sincerità che guidavano e guidano ancor oggi la vita dei contadini e dei suoi montanari, dall’Alpe Vaccarezza alla Cima dell’Angiolino fra le Valli Tesso e Malone, a “marchiare” in ogni angolo e prospettiva la sua opera. Dalla dolcezza compiaciuta della “madre” di Gubbio alla meravigliata curiosità della piccola di “Purità”fino ai due vecchietti intenti a leggere e a commentare un giornale in due sulla panchina posta davanti alla Chiesa del paese e al silente tappeto di neve, promessa generosa di frutti buoni che verranno. In ogni opera l’insegnamento delle radici.

L’onestà che guidò ogni gesto, ogni decisione, ogni attimo della sua vita. Congedandosi dalla Magistratura, il 19 aprile del 1953, Peretti Griva scriveva in un “Discorso ai Coassolesi”: “Io voglio bene a Coassolo…E’ qui che sono sempre accorso a rinfrancarmi…Qui mi rinfrescavo l’anima coi ricordi gentili nella grande pace non profanata dalle contese cittadine” . E ancora, ricordando il giorno in cui vi salì (“nelle limpidezze del piano di Coup”) quando a Torino arrivò il Duce: “Trovai un contadino che mi chiese ‘Come mai Riccardo si trova quassù mentre Mussolini è a Torino?’. Mi fu facile rispondere che ero lassù, nell’aria pura, proprio per liberarmi dall’aria asfissiante delle adunate forzate”.

Gianni Milani

“Il mondo fotografico di Riccardo”

Sala Consigliare Comune di Coassolo, via Capoluogo 198, Coassolo (Torino); tel 0122/45617 o www.comune.coassolo.to.it

Fino al 31 agosto

Orari: nei giorni feriali, 9/12

Nelle foto:

–       “Purità”, stampa alla gelatina ai sali d’argento, 1930 ca.

–       “La madre”, Gubbio, bromolio trasferto, 1939 ca.

–       “Il giornale”, bromolio trasferto, 1925-‘30

–       “La lunga attesa”, gelatina ai Sali d’argento, 1930-‘40

Spirito geniale. Scrittori, ispirazione e alcol

Penne e drink, capolavori e banconi dei bar, centinaia di righe scritte in compagnia di cocktail che hanno ispirato la creatività e donato leggerezza a molti scrittori, indiscussi talenti della letteratura

 

Alcuni ne hanno abusato, ne hanno fatto uno stile di vita non sempre benefico, altri sorseggiando meravigliosi cocktail e istaurando con l’alcol un rapporto affettivo più equilibrato, di equa e sobria distanza, hanno dato vita a opere letterarie altresì straordinarie.

Il bevitore per eccellenza fu Hernest Hemingway, “bevo da 15 anni e nessuna cosa mi ha dato più piacere” affermava. Genio della forma scritta, coraggioso nei reportage di guerra, Premio Nobel per la Letteratura con Il vecchio e il mare, non si vergognò mai della sua debolezza terrena, del suo amore per il vino anzi “un uomo intelligente a volte è costretto a ubriacarsi per passare il tempo tra gli idioti” diceva. Tra i sui cocktail preferiti il Mojito, foglie di menta, lime, zucchero bianco di canna, ghiaccio spezzato, rum e soda e il Daiquiri, da egli stesso reso celebre, fatto con una miscela di rum, limone, zucchero, ghiaccio tritato e maraschino. Tra le sue preferenze pare ci fosse anche il whisky, assolutamente senza ghiaccio. Oscar Wilde, eccezionale scrittore e drammaturgo irlandese, era un tradizionalista e amava moltissimo lo Champagne. In seguito, dopo il suo trasferimento a Parigi in seguito a vicende giudiziarie che biasimarono la sua moralità, si dedicò all’Assenzio che considerava poetico, incline all’amore e per cui “è necessario il silenzio, la meditazione, la dolce pazzia”.

L’autore del mistero e del terrore Edgar Allan Poe amava invece il Brandy. L’alcol è spesso protagonista delle sue opere come ne Il gatto nero dove colui che narra la storia è proprio un bevitore ostinato. A causa del suo vizio ebbe problemi già ai tempi dell’università, la sua vita fu difficile, ma il suo animo tormentato diede vita a opere incredibili, poetiche e passionali. “Ciò che non cura il brandy è incurabile” dichiarava, riferendosi molto probabilmente al dolore per la morte della moglie, un evento che lo fece sbandare ma che non gli impedì di scrivere magnifiche e indimenticabili capolavori del brivido.

La birra, signora alcolica morbida ma decisa, “scoperta più grande del fuoco” come affermava Wallace è stata magnificata da molti scrittori. Charles Bukowsky la mischiava con qualsiasi altra bevanda, Goethe affermava che sapere dove si “spilla” la birra aiuta a conoscere la geografia, Poe le dedicava poesie, Rimbaud scriveva che “giugno sa di vigne e birra” e Milan Kundera: “Non è la birra una santa libagione di sincerità? La pozione che dissipa ogni ipocrisia, ogni sciarada di belle maniere?”. Il nostro Gabriele D’annunzio, poeta esuberante e trasgressivo, fu testimonial dell’Amaro Montenegro e Amaretto di Saronno, ma il suo rapporto con il vino rimane ancora un mistero, “non bevo vino dall’infanzia” diceva, “Iersera bevvi una certa “malvasìa” a me donata dai Càlabri! E tu sai che io son quasi astemio”.

Forse, come scriveva Euripide, ”bevendo gli uomini migliorano” e sicuramente l’alcol avrà favorito momenti di pura creatività e attutito periodi bui di dolore esistenziale, ma bere non può essere una condotta abituale, una consuetudine giornaliera che diventa indispensabile, una terapia o una automedicazione. Un bicchiere con gli amici, un drink dopo il lavoro, una concessione saltuaria per rilassarsi un po’ e distendere le tensioni che la quotidianità ci procura, solo questo può essere, un piacere effimero. Bere responsabilmente invece può anche aiutare l’organismo infatti l’alcol può funzionare come antiossidante, grazie al polifenolo contenuto nella buccia dell’uva, e come antinfiammatorio, maggiormente attivo nel vino rosso.
Insomma, come dice un anonimo è molto probabile che l’alcol sia un propellente che fa andare lo spirito in orbita, ma rimanere ben ancorati e sobriamente a terra è molto più salutare.

 

Maria La Barbera

Torino e i suoi musei. Il MAO

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Torino e i suoi musei

Con questa serie di articoli vorrei prendere in esame alcuni musei torinesi, approfondirne le caratteristiche e “viverne” i contenuti attraverso le testimonianze culturali di cui essi stessi sono portatori.

Quello che vorrei proporre sono delle passeggiate museali attraverso le sale dei “luoghi delle Muse”, dove l’arte e la storia si raccontano al pubblico attraverso un rapporto diretto con il visitatore, il quale può a sua volta stare al gioco e perdersi in un’atmosfera di conoscenza e di piacere.

1 Museo Egizio
2 Palazzo Reale-Galleria Sabauda
3 Palazzo Madama
4 Storia di Torino-Museo Antichità
5 Museo del Cinema (Mole Antonelliana)
6 GAM
7 Castello di Rivoli
8 MAO
9 Museo Lomboso- antropologia criminale
10 Museo della Juventus

8 Mao

“Oriente”: una parola così piccola che cela un significato così grande. Geograficamente il termine indica il “mondo” che si estende ad est, il Vicino, Medio ed Estremo Oriente, rispetto all’Europa, con le sue numerose culture e religioni assai lontane da noi, forse più da un punto di vista concettuale che del territorio. Oggigiorno, nel mondo della globalizzazione e del livellamento culturale, nulla pare irraggiungibile, aerei, treni ad alta velocità e colossali transatlantici inaffondabili ci portano ovunque e noi godiamo mentre, abbronzati, ci scattiamo “selfie” con sfondi esotici e che fanno tanto moda “blogger”: è evidente che non si esce dal tranello della società dei consumi.  Per me l’ “Oriente” è qualcosa che conosco appena, un’infinità di mistici saperi che ancora non ho avuto modo di approfondire e studiare.
L’ “Oriente” è un enigma che l’ “Occidente” non potrà mai risolvere. La parola deriva dal latino “orior”, “nascere”, riferito al Sole che sorge; in geografia diventa sinonimo di “levante”, termine che per assonanza di significato si collega a “Nippon”, uno dei nomi del Giappone, “Ji Pen Kwo”, letteralmente traducibile con “Paese dove sorge il Sole”.

Una delle tante definizioni recita: “L’opposto dell’oriente è l’occidente, associato viceversa al concetto di tramonto e decadenza”. E con questa serafica affermazione potrei anche terminare qui le mie riflessioni di oggi, ma volutamente continuo perché voglio portarvi nel luogo in cui Torino conserva il suo “Sol Levante”.  Nel cuore del Quadrilatero romano, mimetizzato tra ristorantini, “torterie” e locali chiassosi, sorge il MAO-Museo d’Arte Orientale. Il museo, uno dei più recenti tra quelli ospitati dalla città, ha sede a Palazzo Mazzonis, noto come “Palazzo Solaro della Chiusa”, abitazione dell’omonima famiglia. L’edificio venne restaurato nel 1870, divenendo proprietà del Cav. Paolo Mazzonis di Pralafera, importante industriale tessile. Successivamente esso fu adibito a sede della Manifattura Mazzonis s.n.c. fino al 1968, anno in cui l’attività cessò. Nel 1980 fu ceduto al Comune di Torino, nel 2001 il palazzo fu oggetto di altri restauri e finalmente il 5 maggio 2008 si inaugurò l’apertura del MAO. L’esposizione del MAO è formata dalle collezioni già precedentemente conservate nel Museo Civico d’Arte Antica e dai reperti provenienti dalle raccolte della Regione Piemonte, della Compagnia San Paolo e della Fondazione Agnelli.

Lo scopo è quello di rendere note al pubblico opere emblematiche della produzione artistica orientale. Il compito di curare l’allestimento interno è stato affidato all’architetto Andrea Bruno, il quale ha previsto una tipologia di esposizione a rotazione di circa 1500 opere disposte in cinque sezioni corrispondenti ai diversi piani del Palazzo: il primo ed il secondo piano sono dedicati al Giappone, il terzo ospita la “Galleria Himalayana” mentre il quarto, che conclude il percorso, offre preziosi esempi d’arte islamica.
Vi sono poi anche altre collezioni, come quella del Gandhara che comprende la produzione artistica dell’Afghanistan e del Pakistan nord-occidentale; una zona è dedicata all’India, in cui sono visibili sculture, busti, bronzi, terrecotte e dipinti su cotone originari del Kashmir e del Pakistan Orientale; un’altra area è dedicata al Sud-est asiatico, nella quale sono esposte opere della Cambogia, Myanmar, Thailandia e Vietnam. Un’ultima sala espositiva si propone di presentare al pubblico interessanti elaborati dell’arte islamica provenienti dalla Turchia, dalla Persia e dall’Asia Centrale.

Eccoci allora pronti per la visita.
“Saltellando” tra un sanpietrino e l’altro, finalmente raggiungo l’ingresso del Museo. Appena varcata la soglia, pare subito evidente che stiamo entrando in un altro mondo: l’atrio fatto di vetrate e sabbia bianca propone un’elegante ricostruzione di un giardino “zen” giapponese con tanto di muschio e, proprio in linea retta con il mio sguardo, un saggio “Buddha” mi sorride, conscio della sua superiorità filosofico-intellettuale. Mi dimentico sempre di quanto sia grande il MAO, con i suoi quattro piani ricolmi di opere meravigliose, abilmente disposte e illuminate. Come molto spesso mi capita di dire, penso “la teoria la so”: i primi due piani sono dedicati al Giappone, dovrei trovare dapprima dipinti, paraventi e sculture lignee, poi armature e preziose stampe, al terzo piano, invece so che ci sono rari esemplari di “thang-ka” tibetani mentre all’ultimo dovrei trovare, tra gli altri ricercati oggetti, alcune copie del Corano.
Solo per non creare più dubbi del necessario, “thang-ka” in tibetano significa “messaggio registrato” o “arrotolato” e indica dei dipinti didascalici che danno degli aiuti per la vita, in quanto ogni dettaglio rappresentato cela un significato preciso e profondo. Questa è la teoria, in pratica inizio il percorso e subito mi perdo, un po’ a causa del mio inesistente senso dell’orientamento, un po’ perché appositamente mi voglio abbandonare in questo minuscolo viaggio sensoriale alla scoperta di ciò che “so di non sapere”.

Quando mi imbatto nel “Kongo Rikishi stante su base rocciosa” mi sembra quasi di incontrare un demone di Luca Signorelli: non sono riuscita a lasciare il mio occidentalismo fuori dalla porta. La scultura che mi trovo davanti è enorme, eseguita in legno di cipresso giapponese dipinto, alta 230,5 cm e risalente al periodo Kamakura, (seconda metà XIII secolo). L’opera è stata realizzata con la tecnica “yosegi-zukuri”, (pezzi assemblati) e rappresenta uno dei due “dvarapala”, ossia i guardiani del tempio e della dottrina buddhista, generalmente posti in coppia ai lati della porta dei monasteri. Il viso espressivo è segnato dalla particolare illuminazione della sala, gli occhi esorbitanti sono eccessivamente in fuori, la bocca è contratta ed esprime l’esplosività della sillaba “hum”, il terribile mantra delle divinità furiose. La penombra segna il petto nudo, ne esalta i muscoli e le vene in rilievo, la figura, imponente e possente, rispecchia i canoni della “Scuola Kei”, apprezzata dalla casta militare che a quell’epoca dominava il paese.

Mi sento come in un viaggio fantastico, le opere che vedo le percepisco come esseri alieni che mi dispiace non identificare e forse proprio per questo li scruto con l’attenzione di un pioniere.
Continuo a perdermi e intanto che tento di capire geograficamente dove mi trovo, incontro “Zhenmushou” e quasi mi spavento. Capisco di essere in Cina, sto guardando una creatura protettrice delle tombe, è una scultura in terracotta a impasto marrone-rosato, ingobbio bianco e pigmenti appartenente alla seconda metà VII secolo d.C, (dinastia Tang). Mi sento osservata di rimando, il mostro multicolore,-bianco, arancione, nero e rosso- è accucciato in una postura rigida e frontale, ha testa di animale, il muso largo e schiacciato, tiene le fauci spalancate, lunghe corna da antilope e piccole ali sul dorso. Mi accorgo della coda sinuosa che pare muoversi appena distolgo lo sguardo, ha artigli aguzzi nelle zampe e pancia piatta. Forse non è cattivo, ma preferisco allontanarmi.
Come inseguendo una bussola rotta mi trovo magicamente in India. I reperti sono assai numerosi, eleganti, agghindati e sinuosi come la “shalabhanjika” che mi conquista con la sua danza immobilizzata nella pietra. L’immagine, scolpita a rilievo nel marmo, raffigura la tipica movenza del corpo chiamata “tribhanga” che subito mi rimanda all’iconografia della danza del ventre, l’anca è incurvata, il busto si dispone di conseguenza e a me sembra di sentire dei campanelli sonanti in risposta a quei movimenti. La fanciulla ha il braccio alzato sopra la testa e con la mano sta afferrando un ramo rigoglioso, è la posa dello “shalabhanjika”, ossia “colei che spezza un ramo dell’albero”.

Un altro balzo temporale e geografico e sono in Tibet. Qui l’iconografia del Buddha la fa da padrona ed è proprio davanti ad uno di questi Buddha che decido di fermarmi. Mi avvicino alla teca e scruto la scultura –o forse è lui a guardare me- leggo la targa, c’è scritto: “akshobhya” che significa “l’Irremovibile”, “l’Imperturbabile”. La nomenclatura è più che azzeccata, il Buddha del Paradiso d’Oriente non si smuove davanti alla tentazione di Mara, “Morte” (dalla radice sanscrita “mri”), l’asura che cerca di distogliere il Buddha dal “Risveglio”. Gautama Buddha raggiunge così l’Illuminazione. La figura maestosa, il volto scolpito con un sorriso appena accennato, tipico del periodo Pala, siede in “vajrasana”, la mano sinistra è nel tipico atteggiamento meditativo, con l’altra sfiora il suolo, è, cioè, in “Bhumisparshamudra” ossia con il “gesto che chiama la Terra a testimone del diritto maturato in infinite vite precedenti”.
La sintesi non rientra nei requisiti necessari per raggiungere il Nirvana.

Trasportata dalla penombra arrivo al termine del percorso, sono circonda da preziosità islamiche e anche qui sento la vastità della definizione -tutta occidentale- di “arte islamica”, con cui si identifica la produzione artistica eseguita in quasi mille anni, dalla fondazione dell’Islam (ad opera del profeta Maometto, nel VII sec. d.C,) fino al XVII secolo, quando iniziano a definirsi i grandi imperi islamici. Soprattutto in un primo momento i motivi che caratterizzano tale produzione artistica sono disegni geometrici e vegetali, come quelli che decorano la cupola della roccia di Gerusalemme (VII sec. d.C.). L’artista musulmano deve seguire alcuni dettami estetici, definiti dal Profeta: “Dio è bello e ama la bellezza”; “Dio ha iscritto la bellezza in tutte le cose”; “Dio desidera che se fate qualche cosa, ciò sia fatto alla perfezione”; “Il Lavoro è una forma di adorazione”.  In questo contesto mi colpisce un manoscritto proveniente dalla Persia, il Commentario sulle “40 Tradizoni”, databile al periodo timuride. L’opera è attrib uita al Profeta, tradotta dal poeta Ahmad al-Jami e copiata dal calligrafo Muhammad al-Sabzevari. Il testo, scritto in grandi caratteri “muhaqqaq” è stilato in oro con vocalizzazioni in blu, i caratteri più piccoli e neri sono persiani (“rayhani”), i primi due fogli sono interamente miniati in oro e colori.
Immersa tra tali reperti, mi sembra difficile capire come sia stato possibile arrivare alle miserie violente che purtroppo continuano a non cessare là dove l’integralismo religioso ha vinto sulla cultura e sulla bellezza.

Il mio viaggio è finito, l’astronave su cui ero salita mi ha riportato a “riveder le stelle” occidentali, non mi resta che mescolarmi tra la folla chiassosa, conscia del fatto che quando si torna da un viaggio, non si è mai la stessa persona di prima.

Alessia Cagnotto

Prosegue l’estate al Museo Nazionale del Cinema

Il Museo Nazionale del Cinema sarà regolarmente aperto per tutto il periodo estivo.

Oltre alla ricca collezione permanente sarà possibile visitare la grande mostra Dario Argento – The Exhibit realizzata dal Museo Nazionale del Cinema Solares Fondazione delle Arti, il primo omaggio completo dedicato al genio e all’opera del cineasta, visionario maestro del thriller. La mostra, a cura di Domenico De Gaetano e Marcello Garofalo, sarà ospitata in Mole fino al 16 gennaio 2023.

Nel rinnovato piano di accoglienza della Mole Antonelliana, il Museo Nazionale del Cinema presenta fino al 26 settembre 2022 IL GUARDIANO DEI NOSTRI INCUBI, una raccolta di 21 tavole tratte dal numero monografico di LINUS (maggio 2022), edito da La nave di Teseo, dedicato a Dario Argento e pubblicato in occasione di DARIO ARGENTO – THE EXHIBIT.

L’esposizione ripropone le tavole che, con stili differenti propri a ogni autore e autrice, narrano e danno vita ad altrettante visioni contemporanee di Dario Argento e delle sue opere, capaci di coinvolgere il visitatore e di attirarlo a compiere un passo oltre in quell’universo onirico in cui il cinema di Argento invita ogni spettatore ad affacciarsi e immergersi.

Come durante tutto l’anno, si confermano per il periodo estivo le visite guidate previste tutte le domeniche: il percorso “Alla scoperta del Museo” permette di conoscere il Museo e le sue meraviglie, dal teatro d’ombre ai fratelli Lumière, fino ai grandi protagonisti della storia del cinema.

Durata: 1 ora e 30’. Costo visita: 6.00 euro a persona + biglietto d’ingresso ridotto.

Inoltre, su prenotazione per famiglie e piccoli gruppi lo speciale percorso di visita “Scopri il Museo”. Il visitatore può scegliere direttamente con la guida il percorso che più lo interessa e incuriosisce.

Al piano dedicato all’Archeologia del cinema le diverse sale tematiche consentono di scoprire i dispositivi ottici, le tecniche, i giochi e gli spettacoli che hanno portato al “Cinématographe” dei fratelli Lumière; La Macchina del cinema è invece l’area dedicata ai protagonisti e alle fasi della realizzazione del film: dalla sceneggiatura alla postproduzione, dai costumi alle riprese sul set.

Durata: 1ora / 1-5 persone – Costo: euro 85.00 complessivo (Incluso ingresso + attività).

Per orari, informazioni, tariffe e prevendite www.museocinema.it

La prevendita online è fortemente consigliata.

Il Cinema Massimo sarà chiuso per la pausa estiva da giovedì 14 luglio a mercoledì 24 agosto 2022 compresi, mentre la Bibliomediateca “Mario Gromo” e l’Archivio saranno chiusi al pubblico da lunedì 8 a venerdì 26 agosto 2022 compresi.

La Valcerrina per i torinesi raccontata nella vecchia guida

“Questo piccolo e modesto opuscolo è stato preparato con un solo scopo: fare conoscere una bellissima zona del Monferrato, raggiungibile da Torino in poco meno di un’ora, percorrendo la S.S. 590, tutta panoramica, partendo da San Mauro e passando per Gassino, Cavagnolo e Brozolo.

Chi ci va una volta, ci ritorna una seconda volta, e poi un’altra ancora, e poi periodicamente sente il bisogno di passare una giornata fra quei colli”. In queste poche righe si condensa la ‘Guida breve della Valcerrina – (Alla scoperta del Basso Monferrato’ realizzata da Giuseppe Negro ed edita nel 1974 dalla Tipografia Editrice Cav. G. Capella e Figli di Ciriè. Si tratta di una rarità nel suo genere perché, se è vero che di guide sul Monferrato se ne annoverano diverse e tutte di qualità, opere specifiche sulla Valcerrina, in realtà, non se ne trovano, quanto meno in tempi recenti. Questa, pur non essendo analitica (rinvenuta tramite un amico in un mercatino antiquario a Moncalieri qualche mese fa) tuttavia ha il pregio di focalizzarsi su una parte dei comuni della Valle in Provincia di Torino (Murisengo, Villadeati, Valcerrina (Cerrina Monferrato), Gabiano, Mombello, Serralunga di Crea) e di Asti (Robella). Qualcuno potrà obiettare, giustamente, che mancano altri centri come Odalengo Grande, Villamiroglio, Moncestino (e poi ancora Odalengo Piccolo, Ponzano Monferrato, Alfiano Natta)  in Provincia di Alessandria e Moransengo nella provincia astigiana, oltre a quelli nell’attuale Città Metropolitana di Torino, toccati dalla  ex Strada Statale 590 (oggi provinciale) ma il pregio della pubblicazione, che si snoda in 66 pagine con fotografie che all’epoca erano attualissime, è focalizzarsi su una zona che non ha mai realmente valorizzato il suo enorme potenziale turistico, pur trovandosi lambita da due Patrimoni dell’Umanità Unesco (il Santuario di Crea ed il territorio di Langhe-Rosero e Monferrato) oltre che dalla Collina Po. L’autore, così almeno si evince leggendola sua premessa, ha voluto illustrare soprattutto a chi vive a Torino le bellezze e le ricchezze della Valle, posta ad una breve distanza dal capoluogo regionale e facilmente raggiungibile in auto. E la direttrice di Torino, ancora oggi all’inizio del secondo ventennio del XXI secolo, è quella privilegiata perché la Valcerrina possa accogliere quei flussi turistici della gita fuori porta della domenica o dei festivi, più che quelli provenienti dal Milano o dalla Lombardia che sinora si sono sempre orientati verso un asse Casale Monferrato – Crea – Moncalvo. Naturalmente non è un’affermazione assoluta ma un’attenta osservazione non può che portare a queste conclusioni. Prima di entrare nelle caratteristiche dei 7 paesi visitati Negro ha affidato a Giuseppe Colli, un contributo su ‘Paesi e Castelli’. Colli, nato a Lu (oggi Lu e Cuccaro Monferrato) e scomparso a Torino nel 201, fu nel secondo dopoguerra uno dei più intraprendenti artefici della ricostruzione culturale torinese, fondando alcune associazioni e nel 1952 il periodico letterario ‘Il Solitario’. Tra le sue opere una ‘Monferrato’ del 1960 è stata ristampata da Alzani Editore nel 2005. Un altro interessante contributo è quello di Remo Grigliè ‘Monferrato alla sbarra’ nel quale viene evidenziato come il Monferrato sia oggi (1974) ‘trascurato ancor più che in passato’, pur essendo fra le ‘subregioni italiane, una delle più note per la sua storia millenaria’. Grigliè, autore di ‘Invito al Monferrato’ edito da Andrea Viglongo nel 1965 e di un ‘Invito alla Collina Torinese’, comasco di origine, aveva diretto la Gazzetta dello Sport per un anno tra il 1975 ed il 1976. Ma i riflettori della Guida breve sono tutti sulla Valcerrina ed i suoi paesi descrivendone, sia pure succintamente, l’economia, la storia, le tradizioni, i luoghi dove si mangiava e si beveva bene, le fondi idropiniche (Murisengo e Villadeati) e dedicando, nella parte di Serralunga di Crea una lunga descrizione al Santuario di Crea. Nello spazio dedicato a Gabiano, una scheda è riservata a Cantavenna ed ai suoi ristoranti e vini. Il pregio dell’opera è di focalizzarsi unicamente sulla Valcerrina, area che è ricca di storia e tradizioni e, che pur essendo parte del Monferrato, tuttavia è opportuno che riesca a mantenere una propria identità, andando anche al di là dei suoi confini provinciali alessandrini nella direzione di Asti e di Torino. Un’opera della quale di avverte la necessità che venga ripresa, seguendone la traccia che ha dato, anche con uno sguardo al futuro che non dimentichi il passato

Massimo Iaretti