CULTURA- Pagina 4

Antisemitismo ieri e oggi. Conferenza di Quaglieni al “Pannunzio”

MERCOLEDÌ 20 MARZO ALLE ORE 17.30, al Centro Pannunzio, via Maria Vittoria 35h, Pier Franco QUAGLIENI parlerà sul tema “ANTISEMITISMO STORICO DI IERI E ANTISEMITISMO DI OGGI.

Lo storico vuole prendere in esame come l’aggressione anti israeliana di Hamas e le relative reazioni abbiano fatto riparlare di un antisemitismo palestinese, e più in generale arabo, che ha accompagnato la nascita di Israele. Per la prima volta la parola Genocidio che riguardava la Shoah di sei milioni di ebrei, è stata usata per ciò che riguarda lo Stato di Israele. Una versione paradossale che indica le tensioni e l’odio di un Medio Oriente sempre più possibile focolaio di una guerra di vaste dimensioni.
“Interveniamo numerosi per reagire alla cappa di conformismo che offende il libero Pensiero”, esorta il Pannunzio.

Il cav. Carlo Antonio Napione (Torino, 1756 – Rio de Janeiro, 1814) presupposti e pretesti per una postilla

La Storia ha il delicato compito di far conoscere la verità di quelli che non ci sono più. Talora allo storico è permesso di formulare delle ipotesi, che altri potranno, nel tempo, verificare e anche smontare, ma tutti dovremo sempre rispettare scrupolosamente la verità …

Carlo Antonio Napione a Rio abitava non lontano da dove, prima di rientrare a Torino nel 1985, ho vissuto i miei ultimi anni in Brasile. Ai suoi tempi si parlava di “Morro do Castello” (cioè Collina del Castello) mentre, negli anni Ottanta, là non rimaneva più traccia di una zona alta e il nome designava appena una regione al Centro della città, vicina all’Aeroporto Santos Dumont. Quella zona era nata nel 1922 a seguito dello spianamento della collina omonima, ma, con lo spostamento di terra e altri materiali di sgombero, si alterò irreversibilmente la morfologia del territorio, non solo eliminando ogni traccia dell’altura, ma addirittura ricolmando alcune insenature della costa. Per documentare visivamente l’ambiente, ricorro qui a un delicato acquarello del 1809, mentre più avanti darò testimonianza dei funerali di Napione al convento di Sant’Antonio a Rio con l’immagine dello stesso luogo con un corteo funebre (la litografia è tratta dal libro «Voyage pittoresque et historique au Brésil» che il parigino Jean Baptiste Debret pubblicò a Parigi da Firmin Didot et frères tra 1834 e 1839, dopo aver vissuto a Rio per quindici anni, a partire dal 1816).

Nell’ambito del Castello, Napione era proprio di casa, e tra noi, torinesi, sebbene distanti nel tempo, si venne a creare una buona sintonia intanto che, per conoscerlo, indagavo su di lui e lo studiavo. – Ai miei tempi, quando si facevano questi studi dal Sud America, si partiva un po’ svantaggiati, perché, non essendoci ancora internet, i contatti si svolgevano esclusivamente per posta, e questo costringeva a lunghi periodi di attesa tra la richiesta e l’arrivo delle informazioni (che spesso non arrivavano neppure) …

Personalmente, non mi lamento affatto di aver utilizzato ancora i mezzi di comunicazione più tradizionali. Infatti, così facendo, ho meglio apprezzato in un lettera di Napione per il fratello, quando scriveva di doversi affrettare per chiudere la pagina poiché la candela stava consumandosi ma, col moccolo ancora acceso, avrebbe ancora dovuto sciogliere la ceralacca per sigillarla, prima di consegnarla al postiglione che era pronto a partire… perché sono quelle delle considerazioni di grande vivacità. Su quei fogli però, le annotazioni di chi aveva ricevuto le lettere, non sono meno significative perché ci permettono di dire come non fosse poi così lento il servizio postale internazionale tra Sette e Ottocento! Soprattutto, tornando alle considerazioni sulle nostre corrispondenze però, dirò che quelle lettere mi hanno permesso di stabilire buoni contatti con studiosi di tutto il mondo (dei quali conservo gli autografi), in particolare voglio ricordare che, dall’Italia, Luigi Bulferetti mi rispose subito (chiamandomi “collega”, titolo che, subito, mi premurai di rettificare) e poi mantenne con me un’amicizia che sarebbe durata fino alla sua morte (per questo mi domando perché mai, a richiesta di un innominato e innominabile referee, io dovrei raccontare di un mio alunnato presso di lui, se mai ci fu?). Nella Rio de Janeiro, di quei miei anni, incontrai anche il generale di divisione Francisco de Paula e Azevedo Pondé, storico militare di fama mondiale (il cui nome Luciano Tamburini pretendeva che io rettificassi per adeguarlo alla forma errata riportata da un repertorio statunitense)! Ma, lasciamo da parte quelle assurde pretese, posso ricordare che, in entrambi i Paesi, i due studiosi furono i primi che, negli anni Sessanta, si occuparono di Napione. (Io, che sono intervenuto collegando le indagini e gli studi fatti in Europa con quelli brasiliani, sono stato il primo a fare questa sintesi, rimediando alla dicotomia che è nelle biografie di tanti i personaggi le cui vite si sono svolte su continenti diversi.

Ho dedicato una ventina d’anni ai miei approfondimenti, e li ho conclusi pubblicando gli esiti dei miei studi in due corposi volumi (le cui copertine riprendo qui sopra), (che, prima che fossero stampati, un’operatrice culturale, che a Torino ha voce in capitolo, con tutta la delicatezza dell’elefante nel negozio di porcellane, definì un “mastodonte”). Ora per allora le ribatto che per un personaggio come Napione, la cui vita fu ricca di attività e di viaggi, non bastava un profilo minimo ma, poiché su di lui si era detto poco o nulla, era necessario ricostruirne la storia e, siccome i documenti che lo riguardano erano tantissimi e per lo più inediti, bisognava raccoglierli, studiarli, renderli pubblici un po’ come si fa nelle cause di canonizzazione dei santi.

Non si trattava neppure di un lavoro semplice perché si doveva ricollegare il periodo piemontese (e europeo) della sua vita a quello portoghese (e brasiliano), quindi, una volta raccolti i documenti in giro per il mondo, era necessario trascriverli (ed erano tanti) e poiché, tra quelli, molti erano in Portoghese, Svedese e Tedesco, bisognava tradurli, mentre si poteva credere che, trascritti, bastasse solo pubblicare quelli in Italiano e Francese (però, se si pensa al riferimento a Lagrangia nelle carte di Papacino D’Antoni che vi ho già segnalato, si può pensare che serva a poco pubblicare i documenti dopo averli recuperati, e questo anche se li abbiamo anche trascritti e annotati)!

Napione fu un artigliere, un chimico, un mineralogista e un metallurgo notevole, e in vita aveva avuto onori (come le nomine a Cavaliere dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, di Torre e Espada, Grande de Portugal) e riconoscenze [quali la chiamata alle: Reale Accademia delle Scienze di Torino, Societät Der Bergbaukunde (Società Montanistica di Germania), Kungl. Vetenskapsakademie (Accademia delle Scienze di Stoccolma), Jenaische Mineralogische Societät (Società Mineralogica di Jena), Academia Real de Sciencias e Sociedade Real, Maritima, Militar, e Geografica di Lisbona], nel tempo aveva poi anche assunto (come specificherò più avanti) diversi incarichi di responsabilità, ma la sua vita, un po’ come quella della più parte di noi, non fu mai distinta per degli atti eroici, ché, come, da giovane, ebbe a scrivere al fratello, nello scendere e salire per le miniere dell’Alta Europa, si trovava soddisfatto anche se era stanco come un mulo e sporco come un maiale!

Mi domando allora a chi giovi sapere che nella biografia sintetica, che di lui pubblicò il Dizionario Biografico degli Italiani, citando i miei studi, qua e là, quasi di proposito, abbia disseminato notizie fake che non si potranno mai confermare. Io lo segnalo domandandomi che senso ha per la Storia dire che un simile racconto è ispirato ai miei studi? Infatti quelle affermazioni mi denigrano, accusandomi indirettamente di falsità, e screditano il mio onesto e scrupolosissimo lavoro … – allora ribatto, ricordando che i pezzenti “più fortunati” vivono nella Capitale, perché sanno che, se allungano la mano sulle cose degli altri, ci sarà sempre un’indulgenza plenaria che concederà loro l’assoluzione piena della colpa e, senza che sia loro richiesto di restituire il mal tolto e senza che debbano nemmeno scusarsi, non saranno mai tenuti a pentirsi di nulla? – Ben altra cosa sono il senso di dignità e l’orgoglio per un “bel lavoro” fatto che i nostri vecchi, geograficamente più vicini a Cornelis Jansen e a Jehan Cauvin (vulgo: Giansenio e Calvino), ci hanno trasmesso col ricordo della loro sana e serissima operosità!

Ma torniamo alla fine del nostro Napione che, per essere avvenuta nella “cidade maravilhosa”, fu davvero tutta tinta di colori foschi, non già da quelli vivaci di un carnevale carioca (dove con l’aggettivo intendo, come si deve, la città di Rio e non “tutto ciò che è brasiliano”, come erroneamente riferiscono tanti comunicatori disinformati). Su di essa domina il grigio con cui terminano tanti sogni e si sviluppano, per l’intera durata, gli incubi … per questo ora ritornerò meglio sull’ultimo periodo della sua vita, perché devo definire alcuni aspetti che avevo lasciato appena accennati. Nella fattispecie, nel capitolo 16° del mio Napione, accenno a una Donna Gertrude Maria Pereira Caldas, la quale, dopo aver assunto, per il nostro, un ruolo di governante, nel testamento, fu da designata sua erede universale. Dopo la pubblicazione del mio saggio, sono ritornato su quel personaggio femminile… in nessuno degli Almanacchi storici (quello di Lisbona per il 1807, ripubblicato integralmente nella «Revista do Instituto Histórico e Geográfico Brasileiro» Apêndice ao vol. 290 – 1971, e quello di Rio per il 1811, ripubblicato integralmente nel vol. 282 – 1969 della stessa rivista) non c’è traccia di lei… Questo potrebbe significare che fosse ancora troppo giovane, poiché i nostri documenti sono tutti di un intorno di tempo prossimo al 1814! Però tanto giovane io predo che non lo fosse, all’assumere la gestione e la custodia dell’abitazione del nostro cinquantaseienne.

Il Torinese abitava nel così detto “Calabouço” (nome che significa letteralmente “dungeon” e indica una “prigione”, una “segreta” o un “sotterraneo”, ma che, analogamente all’italiano “dongione”, può anche essere usato per la torre interna di un castello) su quei locali io già scrissi che erano accolti in una struttura, decentrata rispetto al vero e proprio castello, nei quali aveva funzionato una prigione e che erano stati scelti perché, in essi, Napione avrebbe installato anche il suo laboratorio chimico. Non dimentichiamo che si occupava di esplosivi (motivo per cui il laboratorio doveva presentare caratteristiche particolari e, nel caso, i muri rinforzati di una prigione potevano andare bene anche per quest’altro uso) e, poi, che, tra gli elementi che, normalmente, maneggiava, c’erano l’arsenico e il mercurio, solo per ricordarne due tra i più velenosi (ma di questo, se mai se ne occuperà chi vorrà approfondire il suo decesso) … Certamente poi, quella casa era frequentata dai militari subalterni suoi collaboratori. Ora, se ricordiamo che egli era Direttore della Fabbrica della Polvere e del Real Orto Botanico della Laguna Rodrigo de Freitas, Is­pettore Generale di Artiglieria, Consigliere di Guerra del Consiglio Supremo Militare, Is­pettore della Real Giunta degli Arsenali, Fabbriche e Fonderie, e che per quegli incarichi lui, che era straniero era apprezzato a corte e pagato bene, si può immaginare che questo causasse qualche gelosia, se non anche invidia tra alcuni esponenti dell’ambiente militare portoghese; e poiché si sa che, alla corte portoghese di Rio, erano abbastanza comuni i complotti e le congiure… così … dobbiamo ipotizzare che succedesse proprio contro di lui che, da qualche anno, essendo venuto meno il Conte di Linhares, aveva perso il protettore ufficiale, che non solo era ministro della guerra, ma un suo personale amico da lunga data, profondamente legato all’ambiente torinese dove aveva vissuto parecchi anni e aveva sposato un’Asinari di San Marzano!

Ma torniamo al Brasile! Casualmente, nella História Geral do Brasil di Francisco Adolfo de Varnhagen (vol. 3, t. V), ho ritrovato per ben due volte il nome di un portoghese, proprietario in Olinda, provincia di Pernambuco: Manuel José Pereira Caldas. La prima volta il 6 marzo, e l’altra, durante il governo repubblicano provvisorio di quelle terre, il 18 maggio 1817. Il nome, alla data del 9 maggio 1817, è accompagnato dall’epiteto di Robespierre della rivoluzione di Pernambuco e, nello stesso anno, un’efemeride ne chiarisce bene il perché, infatti riferisce che: «Il governo repubblicano di Pernambuco manda a fucilare un uomo impiegato al servizio del mare, per mantenere comunicazioni con il blocco del porto. Per questo e altri eccessi di potere contro gli europei, Manuel José Pereira Caldas meritò il soprannome di Robespierre». (Ephemerides nacionaes colligidas pelo Dr. J. A. Teixeira de Mello e publicadas na Gazeta de Noticias – tomo 1° – Rio de Janeiro, 1881, p. 295). Altri scritti più recenti poi, come la tesi di dottorato di Breno Gontijo Andrade (A Guerra das Palavras: cultura oral e escrita na Revolução de 1817, discussa a Belo Horizonte nel 2012), permettono di connotare meglio il personaggio. Così sappiamo che era portoghese di nascita, “doutor” (dottore, laureato in diritto), che iniziò la sua carriera in Brasile, nell’allora provincia della Paraiba, dove fu “ouvidor” (cioè: difensore civico), e che si dedicava anche all’amministrazione di uno zuccherificio di sua proprietà. In ultimo si ricorderà che, all’inizio del 1817, passava già i sessant’anni di età, quindi, citando lo storico Oliveira Lima, sapremo, ed è ciò che più importa, che era “dedicadíssimo à República e foi sanguinario nos seus ditos e pareceres, o que se confirma na documentação” e che, per quei suoi “pregi”, fu incaricato di scrivere la costituzione repubblicana di Pernambuco.

Uniti dallo stesso cognome (il quale è comune nella città portoghese di Braga), non sappiamo se e in che grado fosse parente della Gertrude, governante del generale, ma ci sono buoni presupposti per pensarlo e, quindi, per immaginarli coinvolti in un complotto ordito contro Carlo Antonio Napione, per questo ipotizzo che la morte del Cavaliere avvenisse per un omicidio deciso da un complotto ordito da un gruppo di rivoluzionari (vicini a quei repubblicani di Pernambuco che si sarebbero messi in luce per i fatti successivi) infatti, alla corte di Rio, essi contavano sull’appoggio di chi, appartenendo alla loro stessa organizzazione segreta, li avrebbe coperti e protetti… L’ipotesi non è così stravagante: nell’America Latina del tempo dominata dall’emblematica e sanguinaria figura di Simón Bolívar. Per questi motivi crediamo che la nostra non sia un’ipotesi del terzo tipo…

Carlo Alfonso Maria Burdet

(Dedico queste pagine alla memoria di Andrée MansuyDiniz Silva, Luigi Bulferetti e Raimondo Luraghi, storici di fama mondiale che, nel corso degli anni, seppero esprimermi la loro amicizia insieme alla stima per i miei studi).

Pietro Micca, nel bronzo la storia di un eroe popolare

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Nel 1863, dopo un primo e vano tentativo di fusione della statua, il fonditore francese Pietro Couturier portò a termine l’incarico assegnatogli; il Consiglio Comunale scelse quindi di innalzare la statua poco lontano dal luogo stesso dove un secolo e mezzo prima era successo il fatto, cioè di fronte al Mastio della Cittadella il quale, in onore dell’evento, venne opportunamente restaurato a carico del Ministero della Guerra

Il monumento è collocato all’angolo tra via Cernaia e corso Galileo Ferraris, nel giardino dedicato ad Andrea Guglielminetti. La statua ritrae Pietro Micca, posto sulla sommità di un alto basamento modanato, in posizione eretta con la divisa degli artiglieri presumibilmente nell’atto fiero e consapevole che precede lo scoppio delle polveri. Infatti, mentre nella mano destra tiene la miccia, la sinistra è serrata a pugno quasi a voler enfatizzare, unitamente alla tensione della leggera torsione, il momento decisivo che precede l’innesco delle polveri (in riferimento all’episodio eroico che lo rese celebre).

 

Pietro Micca nacque a Sagliano il 6 marzo 1677 da una famiglia dalle origini modeste. Arruolato come soldato-minatore nell’esercito del Ducato di Savoia, è storicamente ricordato per l’episodio di eroismo durante il quale perse la vita al fine di permettere alla città di Torino di resistere all’assedio del 1706, durante la guerra di successione spagnola.La tradizione narra che la notte tra il 29 ed il 30 agosto 1706 (e cioè durante il pieno assedio di Torino da pare dell’esercito francese) alcune forze nemiche entrarono in una delle gallerie sotterranee della Cittadella, uccidendo le sentinelle e cercando di sfondare una delle porte che conducevano all’interno. Pietro Micca, che era conosciuto con il soprannome di passepartout, decise (una volta capito che lui ed il suo commilitone non avrebbero resistito per molto) di far scoppiare della polvere da sparo allo scopo di provocare il crollo della galleria e non consentire il passaggio alle truppe nemiche. Non potendo utilizzare una miccia lunga perché avrebbe impiegato troppo tempo per far esplodere le polveri, Micca decise di impiegare una miccia corta, conscio del rischio che avrebbe corso. Fece allontanare il suo compagno con una frase che sarebbe diventata storica “Alzati, che sei più lungo d’una giornata senza pane” e senza esitare diede fuoco alle polveri.

Morì travolto dall’esplosione mentre cercava di mettersi in salvo correndo lungo la scala che portava al cunicolo sottostante; era il 30 agosto del 1706.Il gesto eroico del minatore-soldato sarà riconosciuto in seguito durante tutto il Risorgimento come autentico simbolo di patriottismo popolare, sino ad essere ricordato ai giorni nostri.L’idea di celebrare con un monumento l’eroe popolare, nacque già nel 1837 dal Re Carlo Alberto alla morte dell’ultimo discendente maschile del soldato ‘salvatore’ della Città. Modellato dallo scultore Giuseppe Bogliani, il busto di Pietro Micca (rigorosamente in bronzo) ritraeva l’eroe con il capo coronato di gramigna con accanto una Minerva-guerriera seduta con una corona di quercia. Il monumento però non sembrava rispondere completamente al concetto di popolare riconoscenza con cui si sarebbe voluto ricordare Pietro Micca e così venne per così dire abbandonato all’interno dell’ Arsenale di Torino. Dopo circa vent’anni, nel 1857, da parte di uno scultore dell’Accademia Albertina di Belle Arti, Giuseppe Cassano, venne ripresa l’idea di ritrarre Pietro Micca.

Il Consiglio comunale, in seduta del 29 maggio 1858, approvò l’iniziativa ed il Re Vittorio Emanuele II espresse il desiderio che la statua del Micca venisse realizzata in bronzo ed eseguita nelle fonderie dell’Arsenale. In momenti differenti il Parlamento stanziò per il monumento L. 15.000 con le quali vennero pagate le sole spese di fusione; unitamente la sottoscrizione pubblica stanziò L. 2.200 (appena utili al rimborso dello scultore Cassano), L. 7.700 a Pietro Giani per la realizzazione del piedistallo e L. 2.000 per la posa in opera, arrivando così ad un costo totale di L. 26.900.

Nel 1863, dopo un primo e vano tentativo di fusione della statua, il fonditore francese Pietro Couturier portò a termine l’incarico assegnatogli; il Consiglio Comunale scelse quindi di innalzare la statua poco lontano dal luogo stesso dove un secolo e mezzo prima era successo il fatto, cioè di fronte al Mastio della Cittadella il quale, in onore dell’evento, venne opportunamente restaurato a carico del Ministero della Guerra. La sera del 4 giugno 1864 venne finalmente inaugurato il monumento ad onorare il gesto eroico del soldato-minatore di Sagliano.L’importanza dell’impresa di Pietro Micca è celebrata anche nel Museo che porta il suo nome, luogo dove è esposto il monumento a Pietro Micca del Bogliani del 1836.

 

Ed anche per questa volta la nostra “passeggiata con il naso all’insù” termina qui. Ci rivediamo per il prossimo appuntamento con Torino e le sue meravigliose opere.

 

Simona Pili Stella

Il Museo Egizio festeggia il suo bicentenario a Lisbona con Christian Greco

Il 14 marzo un pubblico vario e qualificato è confluito a Lisbona in occasione della conferenza “Il Museo Egizio e le sfide del futuro: Ricerca, inclusione e transizione digitale“, tenuta dal suo direttore Christian Greco. L’evento, organizzato dall’Istituto Italiano di Cultura di Lisbona, si è distinto come contributo significativo alla celebrazione del bicentenario della fondazione del museo, consentendo di tracciare nuovi orizzonti per il museo del futuro e di anticipare gli ambiziosi progetti di questa centrale istituzione torinese, all’insegna dell’apertura, dell’inclusione e del coraggio.

Presso la splendida cornice dell’auditorium del Museo della Farmacia di Lisbona tra il numeroso pubblico presente sono intervenute diverse personalità del mondo accademico locale. Oltre al direttore del Museo della Farmacia e presidente dell’Associação Portuguesa de Museologia, João Neto, erano presenti in sala António Carvalho, Direttore del Museu Nacional de Arqueologia (MNA) e gli archeologi intervenuti nel convegno “The Khedives’ Gift”, parimenti organizzato dall’Istituto: Alessia Amenta, curatrice del Reparto Antichità Egizie e del Vicino Oriente dei Musei Vaticani, Paola Buscaglia, restauratrice e coordinatrice del Laboratorio di Scultura Lignea della Fondazione Centro Conservazione e Restauro “La Venaria Reale”, Patricia Rigault-Deon del Museo del Louvre, Anne Haslund del Museo nazionale danese, Daniel Soliman del Museo nazionale delle antichità di Leida, Jaume Vilaró Fabregat e Agnese Iob.

L’incontro, moderato dal direttore dell’Istituto Stefano Scaramuzzino, è stato incentrato sul rinnovamento permanente del concetto di museo, aperto verso la città e il mondo e incardinato sull’asse della ricerca, visitabile secondo paradigmi mutevoli. Un luogo in cui la collaborazione e la scoperta accademica, con l’ausilio delle nuove tecnologie, diviene base per la partecipazione delle comunità.

Come riferito dallo stesso Greco l’anno del bicentenario sarà attraversato da profonde trasformazioni sia dal punto di vista architettonico, sia con riallestimenti innestati sugli ultimi risultati della ricerca internazionale. Il museo si rinnova in un’ottica di apertura metaforica e fisica verso la città, attraverso la rifunzionalizzazione dei suoi spazi. Il pubblico ha così potuto sia assistere ad esempi di integrazione delle nuove tecnologie all’interno degli spazi attuali, sia interrogarsi sulle tematiche che il mondo museale deve affrontare per guidare il dibattito delle società e restare al passo con i nuovi valori emergenti: rimozione degli ostacoli materiali e normativi all’accesso al sapere, dialogo con le sensibilità delle culture dei luoghi di rinvenimento delle opere, trattamento dei resti umani.

Particolare emozione hanno suscitato l’annuncio del film documentario “Uomini e Dei – Le Meraviglie del Museo Egizio” (2023) e l’illustrazione delle coraggiose riformulazioni dell’iconica galleria e del cortile del palazzo barocco dell’Accademia delle Scienze, sede del Museo, che diverrà uno spazio coperto, accessibile liberamente e profondamente connesso con l’interno del Museo.

La presentazione del volume “Alla Ricerca di Tutankhamon“, pubblicato nel 2023 in occasione del centenario della storica scoperta di Howard Carter e ristampato nel 2024 in seconda edizione, è stata fortemente intrecciata alle tematiche presentate, consentendo di aprire un dibattito con il pubblico sugli interrogativi che l’archeologo e i musei si pongono nel rapporto col passato, e sulla consapevolezza della centralità del metodo e delle forme espositive, tanto negli allestimenti quanto nelle pubblicazioni. Nella sessione di autografi che ha seguito la conferenza il volume ha registrato il tutto esaurito.

Re Umberto I, il conservatore che abolì la pena di morte

Alla scoperta dei monumenti di Torino / Prese parte alla Seconda Guerra d’Indipendenza, distinguendosi nella battaglia di Solferino del 1859.Il 9 gennaio del 1878, alla morte del padre, salì sul trono italiano con il nome di Umberto I e con il nome di Umberto IV su quello sabaudo, dal momento che suo padre aveva stabilito, malgrado l’unità nazionale, il prosieguo della tradizione nominale sul trono sabaudo

Nel piazzale, davanti alla Basilica di Superga, si innalza imponente il monumento dedicato al Re Umberto I di Savoia. Su un basamento di marmo si erge un Allobrogo, guerriero capostipite dei piemontesi, con indosso un elmo alato, lunghe trecce, ascia e corno di guerra. Il guerriero tiene un braccio levato mentre con l’altro punta una spada sulla corona ferrea circondata dalle palme del martirio, in segno di fedeltà e con accanto uno scudo sabaudo lambito da due serpenti, simboli rispettivamente della dinastia reale e del tempo. Alle spalle del guerriero si trova un’ alta colonna corinzia di granito, il cui capitello in bronzo si prolunga in una figura d’aquila imperiosa ad ali spiegate, trafitta da una freccia; allegoria del re assassinato.

 

Umberto I nacque il 14 marzo 1844 a Torino, precisamente a Palazzo Moncalieri, da Vittorio Emanuele II (allora duca di Savoia ed erede al trono sabaudo) e da Maria Adelaide d’ Austria. Ebbe, come da tradizione sabauda, un’educazione essenzialmente militare e nel marzo del 1858 intrapreseproprio la carriera militare, cominciando con il rango di capitano; successivamente prese parte alla Seconda Guerra d’Indipendenza, distinguendosi nella battaglia di Solferino del 1859.Il 9 gennaio del 1878, alla morte del padre, salì sul trono italiano con il nome di Umberto I e con il nome di Umberto IV su quello sabaudo, dal momento che suo padre aveva stabilito, malgrado l’unità nazionale, il prosieguo della tradizione nominale sul trono sabaudo.

Assunse, sul fronte della politica interna, una posizione rigida e autoritaria soprattutto in senso anti-parlamentare: le insurrezioni e i moti, come quelli dei Fasci dei Lavoratori in Sicilia e l’insurrezione della Lunigiana (1894), che minacciavano l’ordine interno e l’unità stessa dell’Italia, lo portarono a firmare provvedimenti come ad esempio lo Stato d’Assedio. A seguito di questi e di altri gravi avvenimenti, si procedette, ad opera del governo Crispi,allo scioglimento del Partito Socialista, delle Camere del Lavoro e delle Leghe Operaie. Il suo regno fu contrassegnato da opinioni e sentimenti opposti, infatti se da alcuni venne elogiato per per il suo atteggiamento dimostrato nel fronteggiare sciagure come l’epidemia di colera a Napoli del1884 ( si prodigò personalmente nei soccorsi), o ad esempio per la promulgazione del cosiddetto codice Zanardelli che portò all’abolizione della pena di morte, da altri fu aspramente avversato per il suo duro conservatorismo. Fu aspramente criticato dall’opposizione anarchico-socialista e repubblicana italiana, soprattutto per la decorazione del generale Fiorenzo Bava-Beccaris che fece uso dei cannoni contro la folla a Milano per disperdere, il 7 maggio 1898, i partecipanti alle manifestazioni di protesta scatenate dalla tassa sul macinato. Dopo esser sfuggito a due attentati, Umberto I venne ucciso a Monza il 29 luglio del 1900, per mano dell’anarchico Gaetano Bresci.

A pochi mesi di distanza dall’attentato di Monza, il vice-presidente dell’Unione Artisti ed Industriali di Torino, Alessio Capello, propose l’erezione di un monumento in memoria di Umberto I, con l’idea di farlo sorgere sul colle di Superga, presso le tombe degli avi di Casa Savoia. L’assemblea dell’Unione Artisti ed Industriali, presieduta da Giacomo Rava, acconsentì all’ iniziativa e venne immediatamente costituito un Comitato esecutivo che aprì una sottoscrizione e raccolse, nel giro di pochissimo tempo, una somma di 15.000 lire provenienti da oltre ottanta comuni piemontesi e da circa cento Associazioni. L’incarico di scolpire il monumento fu affidato allo scultore Tancredi Pozzi che concluse l’opera in poco più di un anno dall’approvazione del progetto. L’inaugurazione avvenne l’ 8 maggio del 1902 alla presenza del sindaco di Torino Severino Casana, del presidente del Comitato esecutivo Alberini e del canonico Amedeo Bonnet, prefetto della Basilica di Superga, che prese in custodia il monumento per conto della Casa Reale. 

 Simona Pili Stella

 

Foto Xavier Caré / Wikimedia Commons

“Borders”. Boschi e ancora boschi nelle fotografie di Cocis Ferrari

L’inquietante suggestione dell’“ignoto” nelle labirintiche immagini boschive del fotografo genovese, in mostra alla “BI-Box” di Biella

Fino al 13 aprile

Biella

Istruzioni per l’uso! Osservate bene la foto di apertura dell’articolo. Seduto a terra, le gambe incrociate e le mani posizionate a comodamente reggere il peso del busto, potete vedere un visitatore (o lo stesso artista) osservare i “muri di vegetazione” fermati da attenti minuziosi scatti fotografici, capaci di raccontare – nell’intricato gioco di rami, fiori o piante erbacee d’ogni genere e forma – le più accese e intriganti fantasie. Roba da perdercisi dentro. Ora, non dico di seguire alla lettera la comoda posizione del visitatore di cui sopra. Ma certo, davanti agli scatti, alle misteriose architetture boschive portate in mostra alla “BI-Box Art Space” di Biella, fino a sabato 13 aprile, dal giovane fotografo genovese (oggi residente a Torino) Cocis Ferrari, l’atteggiamento giusto – dallo stesso artista consigliato – è quello di porsi in uno stato di intima riflessione. Come esigono, del resto, le immagini d’impronta allegorica, pur nell’esatta definizione dei contorni e delle forme, cristallizzate in modo tecnicamente superlativo dall’obiettivo dell’artista. E allora, al limitare del bosco che ti trovi davanti, tu, spettatrice o spettatore, prova a chiederti, al pari di Cocis (forse nome-tributo a Cochise, fra i più celebri condottieri Apache dell’Ottocento?) che faccio, entro o non entro? Dubbio amletico. O ancora, se ne fossi appena uscito, ma come ho fatto a venirne fuori … e quali sensazioni mi sono portato dentro e addosso? Questa tensione emotiva vuole essere il nodo di fondo di “Borders”, titolo evocativo (“frontiere” o “confini” al limitare di corpose strutture naturalistiche) del progetto fotografico esposto alla biellese “BI-Box” da Cocis Ferrari, vincitore assoluto, fra l’altro, del “Premio Nocivelli 2023”, creato nel 2009 dalla moglie di Luigi Nocivelli, grande imprenditore bresciano ed appassionato cultore di arte contemporanea.

A cura di Irene Finiguerra, l’esposizione propone una selezione di dieci fotografie scattate a muri di vegetazione, “uno spazio fitto – sottolinea la curatrice – pieno di alberi, foglie, ombre, che lascia intuire una vita nascosta di piccoli animali, di suoni di rami spezzati e insieme la speranza che nella natura possa celarsi il fantastico. Natura che diventa così un pretesto per creare fotografie e al tempo stesso offrire a chi guarda pezzi di luoghi portandolo lì, sul quel limite, su quella soglia del bosco”. Parole cui ben s’agganciano le riflessioni dello stesso Ferrari: “Le prime immagini di ‘Borders’ sono state realizzate in zone periferiche, prevalentemente industriali e nascono da un’improvvisa folgorazione: ‘tra tutto quel vuoto, quel cemento e quel piattume… all’improvviso un bosco!’. Sembra quasi una favola a volerla raccontare così. […] La prima fase di ‘Borders’, intesa come momento percettibile, si gioca proprio nella scelta di non entrare, di rimanere ad osservare questa vegetazione”. Che diventa per il fotografo, e per noi che osserviamo il risultato del suo lavoro, una sorta di “spazio mentale”, in cui fantasticare in rimbalzi, assonanze e contrasti di percezioni, più o meno bizzarre e plausibili ma in grado di conferire un senso, pura emozione capace di sradicare tutta la perfezione di quel “verde” per creare pagine di assoluta libertà creativa. E interpretativa.

Una delle foto in esposizione stabilisce un legame particolare tra il progetto e il territorio Biellese, in quanto scattata all’interno dell’“Oasi Zegna”, parco naturale nelle Alpi Biellesi, istituito nel 1993, ma le cui radici risalgono agli anni Trenta, per opera dell’imprenditore Ermenegildo Zegna, fondatore dell’omonimo “Gruppo” e originario del territorio in cui sorge l’“Oasi”.

L’immagine rappresenta un cespuglio di ortensie, le cosiddette “rose del Giappone”.

Gianni Milani

Nelle foto:

–       Parte dell’allestimento

–       Cocis Ferrari

–       Cocis Ferrari: “Borders”, 6 terza serie

–       Cocis Ferrari: “Borders”, 39 terza serie

Matteotti cento anni dopo. Successo di pubblico alla presentazione del saggio di Quaglieni

Una grande manifestazione alla Fondazione “de Fonseca” ha aperto le iniziative per il centenario di Matteotti a Torino.

Sono promosse dal centro Pannunzio prima di tutti con la pubblicazione del saggio di Pier Franco Quaglieni su Giacomo Matteotti, edito da Pedrini, con testimonianze di Piero Gobetti e Mario Soldati e il discorso del 30 maggio 1924 alla Camera dei deputati che costò  la vita a Matteotti.

Il pubblico spontaneamente in piedi ha ascoltato l’Internazionale diretta da Arturo Toscanini.  Un momento magico destinato a restare nella memoria di un pubblico vasto e partecipe. Molto significativa la rappresentanza politica tra cui il capogruppo
di Fratelli d’Italia in Comune Giovanni Crosetto e il
Rappresentante della Regione Gian Piero Leo. La serata è stata intitolata alla memoria dello storico Emilio Papa che scrisse sui temi del socialismo democratico e su “Fascismo e cultura” e fu presidente del Comitato scientifico del Centro Pannunzio. Radio radicale ha registrato la presentazione che è disponibile in audio e in video su tutti i social.

 

Quaglieni e la vitalità del pensiero di Bobbio

Giovedì   14  marzo 2024 alle ore 16.30 presso la Sala  Conferenze dell’Archivio di Stato in Piazzetta Mollino 1  incontro a cura di Pro Cultura Femminile con  il  Prof. Pier Franco Quaglieni su   Norberto Bobbio la vitalità di una lezione a vent’anni dalla morte .  Un personaggio che ha segnato la storia della cultura e non solo  e il cui lascito intellettuale  continuerà ad essere fermento.

Elena Racca Bruno. Da Alice nel Paese delle Meraviglie ai Venerdì Letterari

 

Lunedì 11 marzo 2024 alle 18, nella Sala della Biblioteca del Circolo dei Lettori di Torino (via Bogino, 9), si terrà un incontro dedicato alla memoria di Elena Racca Bruno, attiva sostenitrice e membro del Comitato Scientifico della Fondazione Bottari Lattes.

Grande collezionista delle traduzioni di Alice in tutte le lingue del mondo, Elena Racca, di Alice condivideva la curiosità senza limiti, il coraggio, la capacità di vivere ogni incontro senza pregiudizio. Non è un caso che Irma Antonetto l’avesse scelta per succederle alla guida dei Venerdì Letterari. Chi meglio di lei poteva farsi carico di quella politica culturale innovativa che dal 1947, per decenni, aveva visto passare qui a Torino grandi intellettuali / artisti / scrittori internazionali (Evgeni Evtuschenko, Susan Sontag, Predrag Matvejević, Albert Camus…) che partecipavano con entusiasmo a questa iniziativa? Elena sapeva accogliere persone di fama mondiale con leggerezza e con una gioiosità mai spenta dalle traversie della vita.

In quest’incontro si vuole ricordare l’influsso che Elena ha saputo esercitare su molti protagonisti della vita culturale e artistica che, grazie alle sue iniziative e al suo charme, si incontravano e interagivano. La musica, la letteratura, la creatività nell’arte, nelle case, nei giardini, nelle relazioni umane… tante tessere di un’esistenza che noi qui vorremmo almeno sfiorare.

Interverranno Maddalena Bumma, Fabrizio Pennacchietti, Marina Verna, Pompeo Vagliani Presidente della Fondazione Tancredi di Barolo e voci amiche con testimonianze e ricordi.

Sarà presente Caterina Bottari Lattes, Presidente della Fondazione Bottari Lattes.

Il concorso fotografico Libertyamo a palazzo Madama

A Palazzo Madama si terrà dal 15 marzo al 15 aprile il concorso fotografico per la mostra “Liberty. Torino capitale”, dal titolo “Libertyamo”.

Palazzo madama propone un concorso fotografico per favorire la conoscenza del patrimonio architettonico liberty presente sul territorio della città di Torino. La fotografia sarà l’occhio con cui i partecipanti sapranno interpretare e comunicare costruzioni e dettagli distanti edifici liberty, case d’abitazione, ville, opifici, botteghe, impianti sportivi e chiese, costruiti tra il 1900 e il 1920 circa diffusi nelle otto Circoscrizioni.

“Ogni quartiere, ogni circoscrizione ogni quadrante di città a Torino ha un solo magnifico comune denominatore, l’architettura e il decoro di una stagione liberty che ha reso la nostra città un capolavoro e un caso quasi unico a livello mondiale – spiega il direttore di palazzo Madama Giovanni Carlo Federico Villa. Questo concorso desidera far raccontare questa straordinaria avventura dello sguardo di ogni cittadino, di ogni età, per riappropriarci tutti della bellezza che ci circonda tramite la sensibilità di chi ci è accanto nel viverla.

Tra i curatori della mostra Beatrice Coda, che ha ribadito come si tratti di un concorso per svelare attraverso l’occhio dei cittadini di Torino il liberty, un modello di civiltà urbana espressione della visione di una élite che ha agito all’unirono livello artistico, sociale, politico, costruendo bellezza tangibile.

Tre le fasce di età per partecipare, floreale dai 6 agli 11 anni, art Nouveau dai 12 ai19 anni e liberty dai 20 anni in su.

La fotografia digitale dovrà avere le seguenti caratteristiche formato rettangolare 3:2, estensione jpg/jpeg, dimensioni massime 5 mega.

Bisognerà dare un titolo alla fotografia e scrivere un breve testi di 500 battute.

Inviare il tutto all’indirizzo mail libertyamo@fondazionetorinomusei.it entro il 15 aprile.

 

Mara Martellotta