CULTURA- Pagina 32

Coltivare fiori di parole. I trent’anni di Interlinea

 

L’ultimo numero di Microprovincia, il 56° della fortunata rivista di cultura e poesia diretta da Franco Esposito, è interamente dedicato ai trent’anni della casa editrice novarese Interlinea con il suggestivo titolo “Coltivare fiori di parole”. Proponendo una ricca e interessante raccolta di testimonianze su tre decenni di attività editoriale di Interlinea, coinvolgendo gli autori e coloro che l’hanno fatta vivere dietro alle quinte con il lavoro redazionale, la cura dei testi e la promozione di collane che si sono affermate tra i lettori (da “Nativitas” e “Lyra” a “Le rane”) la rivista che si è sempre battuta contro i conformismi della cultura ufficiale rende omaggio ad una impresa culturale di assoluta grandezza fondata da Roberto Cicala e Mario Robiglio. Giuliano Vigini, nella presentazione della rivista subito dopo l’appassionato editoriale di Esposito, ricorda che “alle origini di una casa editrice c’è innanzitutto una speciale passione per quello che gli autori, le collane, i singoli libri che si vorrebbero privilegiare come emblema e portabandiera dell’attività che si sta per avviare possono lasciare come idea di un modo di fare letteratura e insieme di interpretare, dal vivo di tante espressioni e testimonianze diverse, le realtà del mondo e le esperienze di vita degli scrittori”. Ovviamente, non bastando la bontà e l’entusiasmo delle idee, ci sono volute “anche le risorse personali o la capacità di procurarsele, la condivisione ideale e pratica di chi è coinvolto in un determinato progetto” come è stato tra Cicala e Robiglio, lavorando con la perseveranza di chi non si accontenta di ciò che di volta in volta si è raggiunto “perché, essendo il traguardo sempre più in là, bisogna continuare a cercare, a scoprire, a lasciare segni nuovi”. Ed è così che nasce e prende corpo quella che oggi può essere definita, a buon titolo, una grande voce della cultura italiana contemporanea. L’originale storia della casa editrice che ha sede in via Mattei a Novara viene narrata in 250 pagine con molti interventi tra i quali si segnalano, pur senza far torto a nessuno degli altri, Pino Boero, Eugenio Borgna, Carlo Carena, Barbara Caristia, Graziella Cerutti, Gian Luca Favetto, Gian Carlo Ferretti, Walter Fochesato, Anna Lavatelli, Dacia Maraini, Gianni Mussini, Alessandra Alva Perez, Roberto Piumini, Giovanni Tesio, Sebastiano Vassalli e Giuliano Vigini. La stessa scelta del nome della casa editrice è originale e racconta molto: l’interlinea è lo spazio bianco tra due righe scritte o stampate, apparentemente inutile ma in verità necessario alla lettura. Infatti le parole si confonderebbero sulla pagina senza questa distanza, il cui bianco fa risaltare il nero del testo illuminando così il significato di un romanzo, di uno studio, di una poesia. Dall’inizio degli anni Novanta ad oggi  sono stati riscoperti autori italiani dell’800 e ‘900, anche con inediti (da Rebora a Montale, fino a Soldati e Vassalli), aprendo la prima collana letteraria italiana legata al Natale e intitolata Nativitas con Dickens, Consolo, Rigoni Stern, Testori, Wojtyla, offrendo uno spazio importante alla critica letteraria, alla poesia, ai libri per bambini e ragazzi con la collana Le Rane. Scorrendo l’impressionante cronologia delle collane e dei libri pubblicati non si fatica a comprendere il valore del viaggio intrapreso trent’anni fa da quel “piccolo vascello di carta” che salpò da Novara e che, in tutti stesi anni, non ha chiesto altro “se non di avere lettori che sappiano leggere la verità di quelle parole vecchie e nuove nell’interlinea dell’editoria e della cultura italiana”.

Marco Travaglini

Turismo da record a Torino e in Piemonte E’ trainato dalle presenze estere

Il turismo nella regione del Piemonte ha raggiunto un nuovo record nel 2023, con oltre 6 milioni di arrivi e 16 milioni di presenze registrate, segnando un aumento significativo rispetto all’anno precedente. L’incremento è stato trainato principalmente dal turismo estero, che ha mostrato una crescita del 15% rispetto al 2022, contribuendo in modo significativo all’espansione complessiva del settore turistico regionale.

 

Secondo i dati elaborati dall’Osservatorio Turistico della Regione Piemonte – Visit Piemonte, Il territorio dell’ATL di Turismo Torino e Provincia, con i suoi oltre 2 milioni e 700 mila arrivi e più di 7 milioni di presenze, si pone come una delle gemme della regione. La città di Torino, con la sua storia millenaria e la sua vibrante cultura contemporanea, continua ad attirare visitatori da tutto il mondo. L’aumento del 9,6% negli arrivi e del 7,2% nelle presenze rispetto al 2022 sottolinea il costante fascino della città e dei suoi dintorni.

 

Con l’avvicinarsi della primavera del 2024, si delineano prospettive importanti per il turismo che proprio con Torino seguito dalle Langhe Monferrato Roero guida la lista delle mete più ambite.

 

«Il Piemonte si conferma una regione pilota dell’accoglienza – hanno osservato il Presidente della Regione, Alberto Cirio e l’assessore al Turismo, Vittoria Poggioeravamo partiti nel 2019 dal 7,4% del Pil regionale del turismo e siamo arrivati al 9,5 di adesso con una proiezione sul 2024 che ci farà raggiungere la quota del 10%. Si tratta di un grande risultato raggiunto non solo per la qualità della comunicazione, ma anche per il progressivo innalzamento degli standard di qualità delle strutture ricettive che in questi cinque anni hanno potuto contare sul sostegno della Regione che ha erogato quasi 20 milioni di euro. Il successo è anche merito del sostegno continuo sui territori da parte delle nostre ATL e delle Proloco che sono i migliori avamposti della promozione per il turismo nazionale e internazionale. Il turismo rimane un faro di speranza e un catalizzatore per la crescita economica e culturale del nostro Piemonte».

 

«Il 2023 ha fatto registrare la miglior performance in termini di presenze turistiche in Piemonte negli ultimi 10 anni, superando la soglia dei 16 milioni di pernottamenti. E, sempre per la prima volta, nel 2023 i pernottamenti di turisti provenienti dall’estero hanno superato quelli italiani con il 52% del totale – sottolinea Beppe CarlevarisPresidente del Cda di Visit Piemonte -. Non solo risultati quantitativi ma, e soprattutto, di qualità: infatti la forte spinta verso l’internazionalizzazione dei turisti in Piemonte ha portato i volumi di spesa complessivi attivati in loco in crescita di oltre il 20% rispetto all’anno precedente. Il livello di soddisfazione è salito all’86,4/100, decisamente superiore alla media nazionale di 85,4/100. Questi grandi risultati certificano ulteriormente che il nostro “sistema turismo” è sempre più attrattivo e consapevole. Dobbiamo quindi guardare al futuro con ottimismo, migliorandoci costantemente, programmando e fissando obiettivi, anche con l’utilizzo delle nuove tecnologie a disposizione, che vadano sia nella direzione della sostenibilità ambientale ma anche a quella economica delle nostre imprese turistiche».

 

Quando il re e Cavour inaugurarono il Conte Verde

Situato al centro di piazza Palazzo di Città, davanti al Comune, il monumento rappresenta Amedeo VI di Savoia

Situato al centro di piazza Palazzo di Città, dove risiede il Palazzo Civico sede dell’amministrazione locale, il monumento rappresenta Amedeo VI di Savoia detto il Conte Verde, durante la guerra contro i Turchi, mentre trionfante ha la meglio su due nemici riversi al suolo. La riproduzione dei costumi mostra grande attenzione ai particolari secondo i canoni “troubadour” e neogotico, stili in voga nell`Ottocento, ispirati al medioevo e al mondo cortese-cavalleresco.

 

Figlio di Aimone, detto il Pacifico e di Iolanda di Monferrato, Amedeo VI nacque a Chambery il 4 gennaio del 1334. Giovane, scaltro ed intraprendente, Amedeo VI in gioventù partecipò a numerosi tornei, nei quali era solito sfoggiare armi e vessilli di colore verde, tanto che venne appunto soprannominato Il Conte Verde: anche quando salì al trono, continuò a vestirsi con quel colore. Il monumento a lui dedicato non venne però realizzato subito dopo la sua morte ma bensì nel 1842, quando il Consiglio Comunale, in occasione delle nozze del principe ereditario Vittorio Emanuele II con Maria Adelaide arciduchessa d`Austria, decise di erigere il monumento al “Conte Verde”. Il modello in gesso della statua, ideata da Giuseppe Boglioni, rimase nel cortile del Palazzo di Città finché re Carlo Alberto decise di donare la statua alla città. La realizzazione del monumento, che doveva sostituire la statua del Bogliani, venne però commissionata all’artista Pelagio Palagi. I lavori iniziarono nel 1844 e terminarono nel 1847, ma la statua rimase nei locali della Fonderia Fratelli Colla fino all’inaugurazione del 1853. Il gruppo statuario rappresenta Amedeo VI di Savoia in un episodio durante la guerra contro i Turchi alla quale partecipò come alleato dell’imperatore bizantino Giovanni V Paleologo. Ma qui subentra una piccola diatriba scatenata dall’ “Almanacco Nazionale” che vedrebbe come protagonista del monumento non Amedeo VI ma bensì suo figlio Amedeo VII detto invece il “Conte Rosso”, durante l’assedio alla città di Bourbourg nella guerra contro gli Inglesi. Il 7 maggio 1853 re Vittorio Emanuele II inaugurò il monumento dedicato al “Conte Verde” alla presenza di Camillo Benso Conte di Cavour. All’inizio la statua venne circondata da una staccionata probabilmente in legno, sostituita poi da catene poggianti su pilastrini in pietra e quindi da una cancellata.Nel 1900 il Comune decise di rimuovere la cancellata “formando un piccolo scalino in fregio al marciapiede”; una nuova cancellata, realizzata su disegno del Settore Arredo e Immagine Urbana, venne collocata intorno al monumento in seguito ai lavori di restauro effettuati nel 1993. Per dare anche qualche informazione di stampo urbanistico, va ricordato che la piazza in cui si erge fiero il monumento del “Conte Verde” ha subito negli anni numerose trasformazioni.Piazza Palazzo di Città è sita nel cuore di Torino, in corrispondenza della parte centrale dell’antica città romana. L’area urbana su cui sorge l’attuale piazza aveva infatti, già in epoca romana, una certa importanza in quanto si ritiene che la sua pianta rettangolare coincida con le dimensioni del forum dell’antica Julia Augusta Taurinorum, comprendendo anche la vicina piazza Corpus DominiPrima della sistemazione avvenuta tra il 1756 e il 1758 ad opera di Benedetto Alfieri, la piazza aveva un’ampiezza dimezzata rispetto all’attuale. All’inizio del XVII secolo, Carlo Emanuele I, avviò una politica urbanistica volta a nobilitare il volto della città che essendo divenuta capitale dello Stato Sabaudo doveva svolgere nuove funzioni amministrative e militari; piazza Palazzo di Città con annesso il “suo” Palazzo di Città (noto anche come Palazzo Civico), ne sono un esempio lampante. Nel 1995, sotto il controllo della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte, sono stati avviati i lavori di riqualificazione della piazza; la totale pedonalizzazione, la rimozione dei binari tranviari che collegavano Via Milano a piazza Castello e la realizzazione di una nuova pavimentazione, hanno restituito ai cittadini una nuova piazza molto più elegante e raffinata. Da ricordare come piccola curiosità, il fatto che per tutti i torinesi piazza Palazzo di Città sia conosciuta con il nome di “Piazza delle Erbe”, probabilmente a causa di un importante mercato di ortaggi che, nell’antichità, aveva sede proprio in questa piazza. 

(Foto: il Torinese)

Simona Pili Stella

Per il monumento ai Cavalieri il Canonica lavorò gratis

Alla scoperta dei monumenti di Torino / Il monumento venne inaugurato, alla presenza di Re Vittorio Emanuele III, il 21 maggio del 1923, con una carosello storico, parate dei militari e delle associazioni. Nel 1937, per fare spazio all’opera dedicata ad Emanuele Filiberto Duca d’Aosta, la statua venne spostata sul lato destro di Palazzo Madama, dove è situata ancora oggi

 

Ed eccoci nuovamente giunti al nostro consueto appuntamento con Torino e le sue meravigliose opere. Cari amici lettori e lettrici, oggi andremo alla scoperta di uno dei monumenti presenti in una delle piazze più “frequentate” della città: sto parlando di Piazza Castello e del monumento ai Cavalieri d’Italia. (Essepiesse)

 

 

La statua è collocata in Piazza Castello sul lato destro di Palazzo Madama, rivolta verso via Lagrange. Il monumento rappresenta un soldato a cavallo su un piedistallo di granito,che poggia su un basamento a gradoni. Il cavaliere dall’aria vigile, scruta l’orizzonte volgendo lo sguardo alla sua destra mentre con il fucile in spalla, con una mano tiene le redini e con l’altra uno stendardo; la posa del destriero e del suo cavaliere è rilassata, lontana dalle immagini stereotipate di nobili cavalieri che caricano al galoppo. Di contorno al basamento vi sono una serie di alto rilievi con fregi militari.

 

Con il termine Cavalleria si è soliti indicare le unità militari montate a cavallo. Essa ebbe origini molto antiche, venne infatti da sempre impiegata per l’esplorazione dei territori, per azioni in battaglia dove venisse richiesta molta mobilità e velocità nell’attacco e fu anche strategicamente determinante in alcune battaglie. In seguito cominciò ad evidenziare i suoi limiti con il perfezionamento delle armi da fuoco e l’avvento dei treni e degli autoveicoli.

Riformata all’interno dell’Esercito Sardo sin dal 1850, la Cavalleria venne impiegata con l’esercito francese prima in Crimea ed in seguito contro gli Austriaci, ai confini della Lombardia all’inizio della II Guerra di Indipendenza. L’ Arma si conquistò così la fiducia e la stima degli alleati francesi. I Reggimenti combatterono, guadagnando numerose medaglie al Valor Militare, sia a Montebello che successivamente a Palestro e Borgo Vercelli; le battaglie più famose di questa guerra, quella di Solferino e di San Martino (alle porte del Veneto), si combattono con i francesi impegnati a Solferino e i sardo-piemontesi a S. Martino. Dopo il 1861, il Regio Esercito Sardo divenne Esercito Italiano e negli anni seguenti, tutto l’esercito venne riformato e uniformato. La Cavalleria, a partire dagli anni ’70, venne impiegata in Africa, dove furono formati Reggimenti di Cavalleria indigena, ed anche nella guerra italo-turca del 1911-1912.

In seguito il primo conflitto mondiale impose alla Cavalleria l’abbandono del cavallo in modo da adeguarsi alla guerra di posizione, in trincea, dove reticolati e mitragliatrici rendevano impossibile l’uso dell’animale. Verso la fine del conflitto però, la Cavalleria venne nuovamente rimessa in sella: nel 1917 fu impiegata a protezione delle forze che ripiegavano sul Piave, dopo la sconfitta di Caporetto. Verso la fine della Prima guerra mondiale, la II Brigata di Cavalleria coprì la ritirata della II e della III Armata, comandata dal generale Emanuele Filiberto Duca d’Aosta, ed il 16 giugno 1918 fermò il nemico sul Piave. Questa data fu così importante per gli esiti del conflitto mondiale, che ancora oggi viene celebrata come festa della Cavalleria.

Per ricordare e onorare il valore dell’Arma, nel 1922 a Roma si istituì il Comitato generale per le onoranze ai Cavalieri d’Italia con l’intento di elevare un monumento equestre. Pochi giorni dopo il comitato, presieduto dal Re e dal senatore Filippo Colonna, propose alla Città di Torino di collocare l’opera in piazza Castello, dove era già ricordato il soldato dell’Esercito Sardo; questa proposta venne accolta con orgoglio ed onore dalla Giunta e dal Consiglio Comunale. La realizzazione del monumento venne affidata a Pietro Canonica che si offrì di lavorare gratuitamente, mentre il bronzo (materiale utilizzato per la costruzione dell’opera) fu offerto dal Ministero della Guerra.

Il monumento venne inaugurato, alla presenza di Re Vittorio Emanuele III, il 21 maggio del 1923, con una carosello storico, parate dei militari e delle associazioni. Nel 1937, per fare spazio all’opera dedicata ad Emanuele Filiberto Duca d’Aosta, la statua venne spostata sul lato destro di Palazzo Madama, dove è situata ancora oggi. Nel 2008 il monumento ai Cavalieri d’Italia è stato restaurato ed il lavoro di pulitura del bronzo ha riportato finalmente alla luce l’originaria colorazione tendente al verde, una patina data come finitura dallo stesso scultore Canonica.

 

Simona Pili Stella

Antisemitismo ieri e oggi. Conferenza di Quaglieni al “Pannunzio”

MERCOLEDÌ 20 MARZO ALLE ORE 17.30, al Centro Pannunzio, via Maria Vittoria 35h, Pier Franco QUAGLIENI parlerà sul tema “ANTISEMITISMO STORICO DI IERI E ANTISEMITISMO DI OGGI.

Lo storico vuole prendere in esame come l’aggressione anti israeliana di Hamas e le relative reazioni abbiano fatto riparlare di un antisemitismo palestinese, e più in generale arabo, che ha accompagnato la nascita di Israele. Per la prima volta la parola Genocidio che riguardava la Shoah di sei milioni di ebrei, è stata usata per ciò che riguarda lo Stato di Israele. Una versione paradossale che indica le tensioni e l’odio di un Medio Oriente sempre più possibile focolaio di una guerra di vaste dimensioni.
“Interveniamo numerosi per reagire alla cappa di conformismo che offende il libero Pensiero”, esorta il Pannunzio.

Il cav. Carlo Antonio Napione (Torino, 1756 – Rio de Janeiro, 1814) presupposti e pretesti per una postilla

La Storia ha il delicato compito di far conoscere la verità di quelli che non ci sono più. Talora allo storico è permesso di formulare delle ipotesi, che altri potranno, nel tempo, verificare e anche smontare, ma tutti dovremo sempre rispettare scrupolosamente la verità …

Carlo Antonio Napione a Rio abitava non lontano da dove, prima di rientrare a Torino nel 1985, ho vissuto i miei ultimi anni in Brasile. Ai suoi tempi si parlava di “Morro do Castello” (cioè Collina del Castello) mentre, negli anni Ottanta, là non rimaneva più traccia di una zona alta e il nome designava appena una regione al Centro della città, vicina all’Aeroporto Santos Dumont. Quella zona era nata nel 1922 a seguito dello spianamento della collina omonima, ma, con lo spostamento di terra e altri materiali di sgombero, si alterò irreversibilmente la morfologia del territorio, non solo eliminando ogni traccia dell’altura, ma addirittura ricolmando alcune insenature della costa. Per documentare visivamente l’ambiente, ricorro qui a un delicato acquarello del 1809, mentre più avanti darò testimonianza dei funerali di Napione al convento di Sant’Antonio a Rio con l’immagine dello stesso luogo con un corteo funebre (la litografia è tratta dal libro «Voyage pittoresque et historique au Brésil» che il parigino Jean Baptiste Debret pubblicò a Parigi da Firmin Didot et frères tra 1834 e 1839, dopo aver vissuto a Rio per quindici anni, a partire dal 1816).

Nell’ambito del Castello, Napione era proprio di casa, e tra noi, torinesi, sebbene distanti nel tempo, si venne a creare una buona sintonia intanto che, per conoscerlo, indagavo su di lui e lo studiavo. – Ai miei tempi, quando si facevano questi studi dal Sud America, si partiva un po’ svantaggiati, perché, non essendoci ancora internet, i contatti si svolgevano esclusivamente per posta, e questo costringeva a lunghi periodi di attesa tra la richiesta e l’arrivo delle informazioni (che spesso non arrivavano neppure) …

Personalmente, non mi lamento affatto di aver utilizzato ancora i mezzi di comunicazione più tradizionali. Infatti, così facendo, ho meglio apprezzato in un lettera di Napione per il fratello, quando scriveva di doversi affrettare per chiudere la pagina poiché la candela stava consumandosi ma, col moccolo ancora acceso, avrebbe ancora dovuto sciogliere la ceralacca per sigillarla, prima di consegnarla al postiglione che era pronto a partire… perché sono quelle delle considerazioni di grande vivacità. Su quei fogli però, le annotazioni di chi aveva ricevuto le lettere, non sono meno significative perché ci permettono di dire come non fosse poi così lento il servizio postale internazionale tra Sette e Ottocento! Soprattutto, tornando alle considerazioni sulle nostre corrispondenze però, dirò che quelle lettere mi hanno permesso di stabilire buoni contatti con studiosi di tutto il mondo (dei quali conservo gli autografi), in particolare voglio ricordare che, dall’Italia, Luigi Bulferetti mi rispose subito (chiamandomi “collega”, titolo che, subito, mi premurai di rettificare) e poi mantenne con me un’amicizia che sarebbe durata fino alla sua morte (per questo mi domando perché mai, a richiesta di un innominato e innominabile referee, io dovrei raccontare di un mio alunnato presso di lui, se mai ci fu?). Nella Rio de Janeiro, di quei miei anni, incontrai anche il generale di divisione Francisco de Paula e Azevedo Pondé, storico militare di fama mondiale (il cui nome Luciano Tamburini pretendeva che io rettificassi per adeguarlo alla forma errata riportata da un repertorio statunitense)! Ma, lasciamo da parte quelle assurde pretese, posso ricordare che, in entrambi i Paesi, i due studiosi furono i primi che, negli anni Sessanta, si occuparono di Napione. (Io, che sono intervenuto collegando le indagini e gli studi fatti in Europa con quelli brasiliani, sono stato il primo a fare questa sintesi, rimediando alla dicotomia che è nelle biografie di tanti i personaggi le cui vite si sono svolte su continenti diversi.

Ho dedicato una ventina d’anni ai miei approfondimenti, e li ho conclusi pubblicando gli esiti dei miei studi in due corposi volumi (le cui copertine riprendo qui sopra), (che, prima che fossero stampati, un’operatrice culturale, che a Torino ha voce in capitolo, con tutta la delicatezza dell’elefante nel negozio di porcellane, definì un “mastodonte”). Ora per allora le ribatto che per un personaggio come Napione, la cui vita fu ricca di attività e di viaggi, non bastava un profilo minimo ma, poiché su di lui si era detto poco o nulla, era necessario ricostruirne la storia e, siccome i documenti che lo riguardano erano tantissimi e per lo più inediti, bisognava raccoglierli, studiarli, renderli pubblici un po’ come si fa nelle cause di canonizzazione dei santi.

Non si trattava neppure di un lavoro semplice perché si doveva ricollegare il periodo piemontese (e europeo) della sua vita a quello portoghese (e brasiliano), quindi, una volta raccolti i documenti in giro per il mondo, era necessario trascriverli (ed erano tanti) e poiché, tra quelli, molti erano in Portoghese, Svedese e Tedesco, bisognava tradurli, mentre si poteva credere che, trascritti, bastasse solo pubblicare quelli in Italiano e Francese (però, se si pensa al riferimento a Lagrangia nelle carte di Papacino D’Antoni che vi ho già segnalato, si può pensare che serva a poco pubblicare i documenti dopo averli recuperati, e questo anche se li abbiamo anche trascritti e annotati)!

Napione fu un artigliere, un chimico, un mineralogista e un metallurgo notevole, e in vita aveva avuto onori (come le nomine a Cavaliere dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, di Torre e Espada, Grande de Portugal) e riconoscenze [quali la chiamata alle: Reale Accademia delle Scienze di Torino, Societät Der Bergbaukunde (Società Montanistica di Germania), Kungl. Vetenskapsakademie (Accademia delle Scienze di Stoccolma), Jenaische Mineralogische Societät (Società Mineralogica di Jena), Academia Real de Sciencias e Sociedade Real, Maritima, Militar, e Geografica di Lisbona], nel tempo aveva poi anche assunto (come specificherò più avanti) diversi incarichi di responsabilità, ma la sua vita, un po’ come quella della più parte di noi, non fu mai distinta per degli atti eroici, ché, come, da giovane, ebbe a scrivere al fratello, nello scendere e salire per le miniere dell’Alta Europa, si trovava soddisfatto anche se era stanco come un mulo e sporco come un maiale!

Mi domando allora a chi giovi sapere che nella biografia sintetica, che di lui pubblicò il Dizionario Biografico degli Italiani, citando i miei studi, qua e là, quasi di proposito, abbia disseminato notizie fake che non si potranno mai confermare. Io lo segnalo domandandomi che senso ha per la Storia dire che un simile racconto è ispirato ai miei studi? Infatti quelle affermazioni mi denigrano, accusandomi indirettamente di falsità, e screditano il mio onesto e scrupolosissimo lavoro … – allora ribatto, ricordando che i pezzenti “più fortunati” vivono nella Capitale, perché sanno che, se allungano la mano sulle cose degli altri, ci sarà sempre un’indulgenza plenaria che concederà loro l’assoluzione piena della colpa e, senza che sia loro richiesto di restituire il mal tolto e senza che debbano nemmeno scusarsi, non saranno mai tenuti a pentirsi di nulla? – Ben altra cosa sono il senso di dignità e l’orgoglio per un “bel lavoro” fatto che i nostri vecchi, geograficamente più vicini a Cornelis Jansen e a Jehan Cauvin (vulgo: Giansenio e Calvino), ci hanno trasmesso col ricordo della loro sana e serissima operosità!

Ma torniamo alla fine del nostro Napione che, per essere avvenuta nella “cidade maravilhosa”, fu davvero tutta tinta di colori foschi, non già da quelli vivaci di un carnevale carioca (dove con l’aggettivo intendo, come si deve, la città di Rio e non “tutto ciò che è brasiliano”, come erroneamente riferiscono tanti comunicatori disinformati). Su di essa domina il grigio con cui terminano tanti sogni e si sviluppano, per l’intera durata, gli incubi … per questo ora ritornerò meglio sull’ultimo periodo della sua vita, perché devo definire alcuni aspetti che avevo lasciato appena accennati. Nella fattispecie, nel capitolo 16° del mio Napione, accenno a una Donna Gertrude Maria Pereira Caldas, la quale, dopo aver assunto, per il nostro, un ruolo di governante, nel testamento, fu da designata sua erede universale. Dopo la pubblicazione del mio saggio, sono ritornato su quel personaggio femminile… in nessuno degli Almanacchi storici (quello di Lisbona per il 1807, ripubblicato integralmente nella «Revista do Instituto Histórico e Geográfico Brasileiro» Apêndice ao vol. 290 – 1971, e quello di Rio per il 1811, ripubblicato integralmente nel vol. 282 – 1969 della stessa rivista) non c’è traccia di lei… Questo potrebbe significare che fosse ancora troppo giovane, poiché i nostri documenti sono tutti di un intorno di tempo prossimo al 1814! Però tanto giovane io predo che non lo fosse, all’assumere la gestione e la custodia dell’abitazione del nostro cinquantaseienne.

Il Torinese abitava nel così detto “Calabouço” (nome che significa letteralmente “dungeon” e indica una “prigione”, una “segreta” o un “sotterraneo”, ma che, analogamente all’italiano “dongione”, può anche essere usato per la torre interna di un castello) su quei locali io già scrissi che erano accolti in una struttura, decentrata rispetto al vero e proprio castello, nei quali aveva funzionato una prigione e che erano stati scelti perché, in essi, Napione avrebbe installato anche il suo laboratorio chimico. Non dimentichiamo che si occupava di esplosivi (motivo per cui il laboratorio doveva presentare caratteristiche particolari e, nel caso, i muri rinforzati di una prigione potevano andare bene anche per quest’altro uso) e, poi, che, tra gli elementi che, normalmente, maneggiava, c’erano l’arsenico e il mercurio, solo per ricordarne due tra i più velenosi (ma di questo, se mai se ne occuperà chi vorrà approfondire il suo decesso) … Certamente poi, quella casa era frequentata dai militari subalterni suoi collaboratori. Ora, se ricordiamo che egli era Direttore della Fabbrica della Polvere e del Real Orto Botanico della Laguna Rodrigo de Freitas, Is­pettore Generale di Artiglieria, Consigliere di Guerra del Consiglio Supremo Militare, Is­pettore della Real Giunta degli Arsenali, Fabbriche e Fonderie, e che per quegli incarichi lui, che era straniero era apprezzato a corte e pagato bene, si può immaginare che questo causasse qualche gelosia, se non anche invidia tra alcuni esponenti dell’ambiente militare portoghese; e poiché si sa che, alla corte portoghese di Rio, erano abbastanza comuni i complotti e le congiure… così … dobbiamo ipotizzare che succedesse proprio contro di lui che, da qualche anno, essendo venuto meno il Conte di Linhares, aveva perso il protettore ufficiale, che non solo era ministro della guerra, ma un suo personale amico da lunga data, profondamente legato all’ambiente torinese dove aveva vissuto parecchi anni e aveva sposato un’Asinari di San Marzano!

Ma torniamo al Brasile! Casualmente, nella História Geral do Brasil di Francisco Adolfo de Varnhagen (vol. 3, t. V), ho ritrovato per ben due volte il nome di un portoghese, proprietario in Olinda, provincia di Pernambuco: Manuel José Pereira Caldas. La prima volta il 6 marzo, e l’altra, durante il governo repubblicano provvisorio di quelle terre, il 18 maggio 1817. Il nome, alla data del 9 maggio 1817, è accompagnato dall’epiteto di Robespierre della rivoluzione di Pernambuco e, nello stesso anno, un’efemeride ne chiarisce bene il perché, infatti riferisce che: «Il governo repubblicano di Pernambuco manda a fucilare un uomo impiegato al servizio del mare, per mantenere comunicazioni con il blocco del porto. Per questo e altri eccessi di potere contro gli europei, Manuel José Pereira Caldas meritò il soprannome di Robespierre». (Ephemerides nacionaes colligidas pelo Dr. J. A. Teixeira de Mello e publicadas na Gazeta de Noticias – tomo 1° – Rio de Janeiro, 1881, p. 295). Altri scritti più recenti poi, come la tesi di dottorato di Breno Gontijo Andrade (A Guerra das Palavras: cultura oral e escrita na Revolução de 1817, discussa a Belo Horizonte nel 2012), permettono di connotare meglio il personaggio. Così sappiamo che era portoghese di nascita, “doutor” (dottore, laureato in diritto), che iniziò la sua carriera in Brasile, nell’allora provincia della Paraiba, dove fu “ouvidor” (cioè: difensore civico), e che si dedicava anche all’amministrazione di uno zuccherificio di sua proprietà. In ultimo si ricorderà che, all’inizio del 1817, passava già i sessant’anni di età, quindi, citando lo storico Oliveira Lima, sapremo, ed è ciò che più importa, che era “dedicadíssimo à República e foi sanguinario nos seus ditos e pareceres, o que se confirma na documentação” e che, per quei suoi “pregi”, fu incaricato di scrivere la costituzione repubblicana di Pernambuco.

Uniti dallo stesso cognome (il quale è comune nella città portoghese di Braga), non sappiamo se e in che grado fosse parente della Gertrude, governante del generale, ma ci sono buoni presupposti per pensarlo e, quindi, per immaginarli coinvolti in un complotto ordito contro Carlo Antonio Napione, per questo ipotizzo che la morte del Cavaliere avvenisse per un omicidio deciso da un complotto ordito da un gruppo di rivoluzionari (vicini a quei repubblicani di Pernambuco che si sarebbero messi in luce per i fatti successivi) infatti, alla corte di Rio, essi contavano sull’appoggio di chi, appartenendo alla loro stessa organizzazione segreta, li avrebbe coperti e protetti… L’ipotesi non è così stravagante: nell’America Latina del tempo dominata dall’emblematica e sanguinaria figura di Simón Bolívar. Per questi motivi crediamo che la nostra non sia un’ipotesi del terzo tipo…

Carlo Alfonso Maria Burdet

(Dedico queste pagine alla memoria di Andrée MansuyDiniz Silva, Luigi Bulferetti e Raimondo Luraghi, storici di fama mondiale che, nel corso degli anni, seppero esprimermi la loro amicizia insieme alla stima per i miei studi).

Il Museo Egizio festeggia il suo bicentenario a Lisbona con Christian Greco

Il 14 marzo un pubblico vario e qualificato è confluito a Lisbona in occasione della conferenza “Il Museo Egizio e le sfide del futuro: Ricerca, inclusione e transizione digitale“, tenuta dal suo direttore Christian Greco. L’evento, organizzato dall’Istituto Italiano di Cultura di Lisbona, si è distinto come contributo significativo alla celebrazione del bicentenario della fondazione del museo, consentendo di tracciare nuovi orizzonti per il museo del futuro e di anticipare gli ambiziosi progetti di questa centrale istituzione torinese, all’insegna dell’apertura, dell’inclusione e del coraggio.

Presso la splendida cornice dell’auditorium del Museo della Farmacia di Lisbona tra il numeroso pubblico presente sono intervenute diverse personalità del mondo accademico locale. Oltre al direttore del Museo della Farmacia e presidente dell’Associação Portuguesa de Museologia, João Neto, erano presenti in sala António Carvalho, Direttore del Museu Nacional de Arqueologia (MNA) e gli archeologi intervenuti nel convegno “The Khedives’ Gift”, parimenti organizzato dall’Istituto: Alessia Amenta, curatrice del Reparto Antichità Egizie e del Vicino Oriente dei Musei Vaticani, Paola Buscaglia, restauratrice e coordinatrice del Laboratorio di Scultura Lignea della Fondazione Centro Conservazione e Restauro “La Venaria Reale”, Patricia Rigault-Deon del Museo del Louvre, Anne Haslund del Museo nazionale danese, Daniel Soliman del Museo nazionale delle antichità di Leida, Jaume Vilaró Fabregat e Agnese Iob.

L’incontro, moderato dal direttore dell’Istituto Stefano Scaramuzzino, è stato incentrato sul rinnovamento permanente del concetto di museo, aperto verso la città e il mondo e incardinato sull’asse della ricerca, visitabile secondo paradigmi mutevoli. Un luogo in cui la collaborazione e la scoperta accademica, con l’ausilio delle nuove tecnologie, diviene base per la partecipazione delle comunità.

Come riferito dallo stesso Greco l’anno del bicentenario sarà attraversato da profonde trasformazioni sia dal punto di vista architettonico, sia con riallestimenti innestati sugli ultimi risultati della ricerca internazionale. Il museo si rinnova in un’ottica di apertura metaforica e fisica verso la città, attraverso la rifunzionalizzazione dei suoi spazi. Il pubblico ha così potuto sia assistere ad esempi di integrazione delle nuove tecnologie all’interno degli spazi attuali, sia interrogarsi sulle tematiche che il mondo museale deve affrontare per guidare il dibattito delle società e restare al passo con i nuovi valori emergenti: rimozione degli ostacoli materiali e normativi all’accesso al sapere, dialogo con le sensibilità delle culture dei luoghi di rinvenimento delle opere, trattamento dei resti umani.

Particolare emozione hanno suscitato l’annuncio del film documentario “Uomini e Dei – Le Meraviglie del Museo Egizio” (2023) e l’illustrazione delle coraggiose riformulazioni dell’iconica galleria e del cortile del palazzo barocco dell’Accademia delle Scienze, sede del Museo, che diverrà uno spazio coperto, accessibile liberamente e profondamente connesso con l’interno del Museo.

La presentazione del volume “Alla Ricerca di Tutankhamon“, pubblicato nel 2023 in occasione del centenario della storica scoperta di Howard Carter e ristampato nel 2024 in seconda edizione, è stata fortemente intrecciata alle tematiche presentate, consentendo di aprire un dibattito con il pubblico sugli interrogativi che l’archeologo e i musei si pongono nel rapporto col passato, e sulla consapevolezza della centralità del metodo e delle forme espositive, tanto negli allestimenti quanto nelle pubblicazioni. Nella sessione di autografi che ha seguito la conferenza il volume ha registrato il tutto esaurito.

“Borders”. Boschi e ancora boschi nelle fotografie di Cocis Ferrari

L’inquietante suggestione dell’“ignoto” nelle labirintiche immagini boschive del fotografo genovese, in mostra alla “BI-Box” di Biella

Fino al 13 aprile

Biella

Istruzioni per l’uso! Osservate bene la foto di apertura dell’articolo. Seduto a terra, le gambe incrociate e le mani posizionate a comodamente reggere il peso del busto, potete vedere un visitatore (o lo stesso artista) osservare i “muri di vegetazione” fermati da attenti minuziosi scatti fotografici, capaci di raccontare – nell’intricato gioco di rami, fiori o piante erbacee d’ogni genere e forma – le più accese e intriganti fantasie. Roba da perdercisi dentro. Ora, non dico di seguire alla lettera la comoda posizione del visitatore di cui sopra. Ma certo, davanti agli scatti, alle misteriose architetture boschive portate in mostra alla “BI-Box Art Space” di Biella, fino a sabato 13 aprile, dal giovane fotografo genovese (oggi residente a Torino) Cocis Ferrari, l’atteggiamento giusto – dallo stesso artista consigliato – è quello di porsi in uno stato di intima riflessione. Come esigono, del resto, le immagini d’impronta allegorica, pur nell’esatta definizione dei contorni e delle forme, cristallizzate in modo tecnicamente superlativo dall’obiettivo dell’artista. E allora, al limitare del bosco che ti trovi davanti, tu, spettatrice o spettatore, prova a chiederti, al pari di Cocis (forse nome-tributo a Cochise, fra i più celebri condottieri Apache dell’Ottocento?) che faccio, entro o non entro? Dubbio amletico. O ancora, se ne fossi appena uscito, ma come ho fatto a venirne fuori … e quali sensazioni mi sono portato dentro e addosso? Questa tensione emotiva vuole essere il nodo di fondo di “Borders”, titolo evocativo (“frontiere” o “confini” al limitare di corpose strutture naturalistiche) del progetto fotografico esposto alla biellese “BI-Box” da Cocis Ferrari, vincitore assoluto, fra l’altro, del “Premio Nocivelli 2023”, creato nel 2009 dalla moglie di Luigi Nocivelli, grande imprenditore bresciano ed appassionato cultore di arte contemporanea.

A cura di Irene Finiguerra, l’esposizione propone una selezione di dieci fotografie scattate a muri di vegetazione, “uno spazio fitto – sottolinea la curatrice – pieno di alberi, foglie, ombre, che lascia intuire una vita nascosta di piccoli animali, di suoni di rami spezzati e insieme la speranza che nella natura possa celarsi il fantastico. Natura che diventa così un pretesto per creare fotografie e al tempo stesso offrire a chi guarda pezzi di luoghi portandolo lì, sul quel limite, su quella soglia del bosco”. Parole cui ben s’agganciano le riflessioni dello stesso Ferrari: “Le prime immagini di ‘Borders’ sono state realizzate in zone periferiche, prevalentemente industriali e nascono da un’improvvisa folgorazione: ‘tra tutto quel vuoto, quel cemento e quel piattume… all’improvviso un bosco!’. Sembra quasi una favola a volerla raccontare così. […] La prima fase di ‘Borders’, intesa come momento percettibile, si gioca proprio nella scelta di non entrare, di rimanere ad osservare questa vegetazione”. Che diventa per il fotografo, e per noi che osserviamo il risultato del suo lavoro, una sorta di “spazio mentale”, in cui fantasticare in rimbalzi, assonanze e contrasti di percezioni, più o meno bizzarre e plausibili ma in grado di conferire un senso, pura emozione capace di sradicare tutta la perfezione di quel “verde” per creare pagine di assoluta libertà creativa. E interpretativa.

Una delle foto in esposizione stabilisce un legame particolare tra il progetto e il territorio Biellese, in quanto scattata all’interno dell’“Oasi Zegna”, parco naturale nelle Alpi Biellesi, istituito nel 1993, ma le cui radici risalgono agli anni Trenta, per opera dell’imprenditore Ermenegildo Zegna, fondatore dell’omonimo “Gruppo” e originario del territorio in cui sorge l’“Oasi”.

L’immagine rappresenta un cespuglio di ortensie, le cosiddette “rose del Giappone”.

Gianni Milani

Nelle foto:

–       Parte dell’allestimento

–       Cocis Ferrari

–       Cocis Ferrari: “Borders”, 6 terza serie

–       Cocis Ferrari: “Borders”, 39 terza serie

Matteotti cento anni dopo. Successo di pubblico alla presentazione del saggio di Quaglieni

Una grande manifestazione alla Fondazione “de Fonseca” ha aperto le iniziative per il centenario di Matteotti a Torino.

Sono promosse dal centro Pannunzio prima di tutti con la pubblicazione del saggio di Pier Franco Quaglieni su Giacomo Matteotti, edito da Pedrini, con testimonianze di Piero Gobetti e Mario Soldati e il discorso del 30 maggio 1924 alla Camera dei deputati che costò  la vita a Matteotti.

Il pubblico spontaneamente in piedi ha ascoltato l’Internazionale diretta da Arturo Toscanini.  Un momento magico destinato a restare nella memoria di un pubblico vasto e partecipe. Molto significativa la rappresentanza politica tra cui il capogruppo
di Fratelli d’Italia in Comune Giovanni Crosetto e il
Rappresentante della Regione Gian Piero Leo. La serata è stata intitolata alla memoria dello storico Emilio Papa che scrisse sui temi del socialismo democratico e su “Fascismo e cultura” e fu presidente del Comitato scientifico del Centro Pannunzio. Radio radicale ha registrato la presentazione che è disponibile in audio e in video su tutti i social.

 

Quaglieni e la vitalità del pensiero di Bobbio

Giovedì   14  marzo 2024 alle ore 16.30 presso la Sala  Conferenze dell’Archivio di Stato in Piazzetta Mollino 1  incontro a cura di Pro Cultura Femminile con  il  Prof. Pier Franco Quaglieni su   Norberto Bobbio la vitalità di una lezione a vent’anni dalla morte .  Un personaggio che ha segnato la storia della cultura e non solo  e il cui lascito intellettuale  continuerà ad essere fermento.