Prima edizione dedicata alla narrativa in lingua araba tradotta in italiano
18 luglio 2020.Maria Avino è la vincitrice della prima edizione del Premio biennale Mario Lattes per la Traduzione, per la sua traduzione di Morire è un mestiere difficile (Bompiani, 2019) del siriano Khaled Khalifa. Il Premio è promosso dalla Fondazione Bottari Lattes in collaborazione con l’Associazione Arti Contemporanee Castello di Perno.
La giuria specialistica premia all’unanimità Maria Avino in una rosa di cinque finaliste in gara per la prima edizione del Premio, dedicata alla narrativa in lingua araba tradotta in italiano. Le altre quattro finaliste erano: Samuela Pagani, traduttrice di Corriere di notte della libanese Hoda Barakat (La nave di Teseo, 2019); Nadia Rocchetti, traduttrice di Viaggio contro il tempo della libanese Emily Nasrallah (Jouvence, 2018); Monica Ruocco, traduttrice di Il suonatore di nuvole dell’iracheno Ali Bader (Argo, 2017); Barbara Teresi, traduttrice di Una piccola morte del saudita Mohamed Hasan Alwan (E/o, 2019).
«La decisione – spiegano Isabella Camera d’Afflitto, Manuela E.B. Giolfo, Claudia Maria Tresso della Giuria specialistica – ha tenuto conto del contributo che non solo con questo lavoro, ma anche con quelli realizzati in oltre vent’anni di attività, la traduttrice ha recato alla diffusione della letteratura araba contemporanea in Italia: un contributo che si avvale ora di un’opera, come questa di Khaled Khalifa, di indubbio interesse nella situazione attuale di un mar Mediterraneo attraversato da profughi e migranti. La complessa situazione della Siria in cui il romanzo si colloca, e a cui gran parte del pubblico italiano è poco avvezzo, non ha impedito alla traduttrice di realizzare una versione stilisticamente matura – non solo scorrevole, ma anche elegante, non solo fruibile, ma anche avvolgente – del testo di partenza. Pur mantenendo una fedele aderenza all’originale, ella ha saputo rispettarne il registro senza appesantirlo con apparati critici e inserendo con moderazione le parole in lingua originale.»
La cerimonia di premiazione si è svolta sabato 18 luglio 2020 nel giardino del Castello di Perno (Cn) nel cuore delle Langhe, Patrimonio Mondiale dell’Umanità Unesco. In questa occasione l’orientalista Fabrizio Pennacchietti ha tenuto la lectio magistralis L’arabo letterario moderno può dirsi una lingua “europea”?. L’appuntamento è stato condotto dalla giornalista e saggista Paola Caridi, studiosa di Medio Oriente e Nord Africa, e ha visto la partecipazione dei giurati del Premio: Anna Battaglia, Melita Cataldi, Mario Marchetti, Antonietta Pastore, lo stesso Fabrizio Pennacchietti, (membri della Giuria stabile che ha scelto la rosa elle cinque traduttrici finaliste) e Isabella Camera d’Afflitto, Manuela E.B. Giolfo e Claudia Maria Tresso (membri della Giuria specialistica, che ha decretato la vincitrice).
Con il Premio Mario Lattes per la Traduzione la Fondazione Bottari Lattes pone l’attenzione sul fondamentale ruolo dei traduttori nella diffusione della letteratura e sull’impareggiabile contributo della traduzione nell’avvicinare popoli e culture differenti, abbattendo muri ideologici, creando ponti culturali e favorendo il dialogo. Con questa iniziativa la Fondazione intende promuovere la conoscenza di culture e autori meno noti al pubblico italiano e incoraggiare la traduzione in italiano delle loro opere letterarie più significative per qualità letteraria e profondità di contenuti, riflessioni, testimonianza. Il tutto nella piena consapevolezza che la traduzione non si risolve in una semplice trasposizione di parole da una lingua all’altra e nello spostamento di un segno linguistico da un codice all’altro, ma è una disciplina che sa trasferire pensieri e concezioni tra culture diverse, con le quali il traduttore instaura un profondo legame.
Il Premio biennale Mario Lattes per la Traduzione è dedicato alla figura di un editore, pittore e scrittore che seppe confrontarsi con intellettuali di fama internazionale. È realizzato dalla Fondazione Bottari Lattes in collaborazione con l’Associazione Arti Contemporanee Castello di Perno e il Comune di Monforte d’Alba, con il contributo di Fondazione CRC e Banca d’Alba, con il patrocinio di Mibact, Regione Piemonte, Unione di Comuni “Colline Di Langa e Del Barolo” e S. Lattes & C. Editori.
www.fondazionebottarilattes.it
Photo Murialdo
Nel week-end che precede il 20 luglio, a vent’anni esatti da quella data che coincide con l’apertura del Museo Nazionale del Cinema alla Mole Antonelliana – altra fondamentale operazione culturale e istituzionale che lanciò la città come un punto di riferimento nazionale e internazionale per l’audiovisivo – Torino accoglie una serie di iniziative che ruotano intorno al cinema. Protagoniste – insieme ad attività speciali all’interno della Mole – saranno proprio le arene cinematografiche che hanno inaugurato a inizio luglio 2020 con grandissimo successo.
Il luogo riflette la magica, intatta suggestione delle dolci e generose colline di Langa. Di origine medievale e trasformato fra Sette e Ottocento in dimora residenziale – passata nel ‘95 dall’editore Giulio Einaudi, che ne fece la sede gemella dello “Struzzo” di via Biancamano a Torino, alla famiglia svizzera Menziger e dal 2012 acquisito da Gregorio Gitti, docente universitario politico e noto avvocato bresciano, per farne centro di vinificazione ad altissimo livello ma soprattutto prestigiosa “Casa della Cultura” – sarà il Castello di Perno, nel cuore delle Langhe, Patrimonio Mondiale dell’Umanità Unesco, ad ospitare sabato prossimo, alle ore 18, la cerimonia di premiazione della prima edizione del “Premio Biennale Mario Lattes per la Traduzione”.
Torino e i suoi musei
La prima volta che mi hanno portato al Museo Egizio ho pianto. Più avanti vi dirò perché. Quando frequentavo i primi anni delle elementari, come la maggior parte dei bambini, avevo una stereotipata curiosità nei confronti di quel popolo antico e strano, all’epoca per me nient’altro che un “purpurrì” di piramidi e bislacchi esseri zoomorfi. Naturalmente poi, nel corso del tempo, tante altre furono le visite all’Egizio che ho fatto con sempre maggior consapevolezza e desiderio di conoscenza. Il Museo è situato in Via Accademia delle Scienze 6, dove sorge il “Collegio dei Nobili”, edificio realizzato su progetto di Michelangelo Garove a partire dal 1679 e, in seguito, modificato e ampliato, nella seconda metà dell’Ottocento, grazie agli interventi di Giuseppe Maria Talucci e Alessandro Mazzucchetti. Si tratta del più antico Museo dedicato alla civiltà dell’antico Egitto, tappa obbligata per turisti e torinesi.
Ma torniamo a noi, la gita scolastica si concluse con un lieto fine, ero riuscita a vedere i miei “mostrini” ed ero quindi soddisfatta di aver lenito la mia curiosità bambinesca. Come mai questa passione per le bizzarre creature che dovrebbero intimorire? La risposta ha a che fare con l’incipit del discorso. Avevo circa tre anni quando mio padre mi portò per la primissima volta al Museo Egizio e proprio in quell’occasione accade “il fattaccio”. La memoria si confonde con i racconti posteriori, ma leggenda vuole che i fatti siano andati così: in mezzo ad una sala ricolma di teche, c’ero io, piccola e maneggevole, in braccio a mio padre, lui guardava gli oggetti alle pareti e io in direzione opposta, con il capo reclino sulla sua spalla. E lì, in mezzo a quel vetroso labirinto a metà tra Lewis Carroll e il giardino dell’Overlook Hotel, pronunciò una frase che in famiglia è ormai un “cult”: “Che belli questi papiri”. Sì, perché non si era accorto che proprio alle sue spalle, e quindi nella direzione del mio sguardo, c’erano dei corpi accartocciati e rattrappiti, in cui le unghie e i capelli avevano continuato a crescere come in un sortilegio di cui nessuno mi aveva mai parlato. Probabilmente mi sentii osservata da quelle orbite vuote sgraziatamente sbendate e ebbi come l’impressione che tutti quei mostri inscatolati stessero ridacchiando della mia paura. Non c’era altro da fare che scoppiare in un pianto disperato. E così finì la mia prima visita al Museo Egizio di Torino.
Vi segnalo gli “ostraka”, (schegge di calcare illustrate con scene inusuali, libere dai canoni tradizionali) e le statuette delle divinità protettrici della famiglia (come Renenutet, Bess o Tuaret), scoperte nel villaggio di Deir El-Medina; nello stesso sito archeologico è stato ritrovato un papiro amministrativo di Amennakht (vissuto durante il regno di Ramesse III), in cui sono riportate le notizie riguardanti il primo sciopero della storia: gli operai del villaggio protestarono perché non ricevettero le dovute razioni alimentari, pagamento per il loro lavoro. Triste ed interessante testimonianza dell’eternità dell’ingiustizia che aleggia in questo mondo.
In effetti l’elenco dei reperti che hanno ri-catturato la mia attenzione rischia di diventare eccessivamente lungo e tedioso ed è quindi bene che mi fermi e lasci scoprire a voi le altre meraviglie che non ho citato. Prima di concludere trovo obbligatorio spendere due parole su quello che è “il fiore all’occhiello” del Museo: la Galleria dei Re. L’enorme sala espositiva si trova alla fine del percorso, immensa e fiocamente illuminata, dove le imponenti statue emergono dalla penombra e ipnotizzano con la loro mistica bellezza i visitatori. Tra queste spicca l’effige di Ramesse II, uno dei faraoni più noti di tutta la storia dell’antico Egitto. Raffigurato seduto sul trono, è rappresentato con gli elementi canonici del potere, il volto sorridente e i lobi delle orecchie forati – dettaglio ripreso dall’arte Amarniana- ai lati delle sue gambe sono rappresentati la moglie e il figlio, in scala ridotta, a simboleggiare la continuità dinastica.

