Era veramente una gran signora, Milly. Doveva esser stata , in gioventù, una donna dal fascino irresistibile. Il portamento austero, la postura studiata nei minimi particolari, i lineamenti fini, il trucco mai eccessivo, le conferivano un non so ché di regale nonostante le forme giunoniche. Del resto, che volete: portare a spasso centoventi chili con eleganza e nonchalance non è da tutti. Milly, comunque, ci riusciva benissimo. La voce da soprano tradiva la sua arte che, in altri tempi, le aveva consentito di calcare le scene dei più importanti teatri d’opera, raccogliendo applausi e apprezzamenti anche dai pubblici dal palato più fine. “Artisti dell’ugola si nasce” diceva con una punta di civetteria, aggiungendo ironica, parafrasando il principe De Curtis, in arte Totò, “ e io, modestamente, lo nacqui”. Del resto, a giudicare dai commenti dei frequentatori del circolo culturale “Giuseppe Verdi”, tutti incalliti melomani, molto esigenti e poco inclini a fare sconti quando si trattava di valutare il bel canto, non l’erano mai mancati gli apprezzamenti. Poi l’ingiuria del tempo aveva intaccato le sue corde vocali, impedendole di proseguire la carriera che, con dignità e compostezza, terminò pur con qualche rimpianto quand’era ancora nel fiore degli anni.
Così, rispondendo ai solleciti di vecchi amici come l’onorevole Mariano Marabotti o il cavalier Ortensio Della Spiga, piccolo industriale del ramo tessile , si esibiva in serate benefiche dove l’obiettivo era raccoglier fondi a favore degli enti morali promotori. Il 18 ottobre, un venerdì sera, l’occasione si presentò con la serata a sostegno della ristrutturazione dell’asilo “Sbernazzoni”. Il parroco, don Primo Zirlocchi, detto “Trippa”, aveva messo a disposizione il piccolo teatrino parrocchiale che poteva contare su di una ottantina di posti a sedere, sulle panche di legno, e di altri venti o trenta in piedi.
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L’idea era venuta a Guglielmo Prunelli,grande amico del prelato con il quale condivideva la passione del mangiar bene e del bere ancor meglio. Partecipando ad una gita a Verona, aveva assisto all’opera lirica per eccellenza:l’ Aida di Verdi. Non all’Arena, ma in un piccolo teatro. E non con grandi interpreti in scena quanto, piuttosto, una piccola compagnia. Ma sì sa: l’arte è arte. E Prunelli rimase incantato, applaudendo più volte, rumorosamente, nonostante gli sguardi critici e sdegnati degli altri spettatori, sibilando dei fischi per poi sbottare in un liberatorio..”Vacca boia, che bravi. Quest’opera è una bomba. Adesso ho capito perché l’hanno messo sulle mille lire, il Giuseppe Verdi”. Così, l’idea di portare l’opera nel piccolo paese, a poco a poco conquistò l’intera comunità, dalle Dame di San Vincenzo al Circolo dei Combattenti e Reduci, dall’Oratorio alla Pro Loco. La realizzazione delle scenografie, in cartapesta e ritagli di lavorazione del legno, fu affidata a Primo Plini detto Giuseppe, falegname devotissimo alla Vergine Maria che, in quattro e quattr’otto costruì un fondale in grado di far viaggiare l’immaginario dello spettatore attraverso l’Egitto dei Faraoni. L’opera in se, con la nota “Marcia Trionfale”, aveva una complessità musicale e una profondità nella partitura che la ponevano sul gradino più alto delle opere verdiane e difficilmente i componenti della banda comunale sarebbero stati all’altezza di una buona interpretazione. Così, dalla vicina Lombardia, vennero scritturati una mezza dozzina di musicisti dell’Orchestra Spettacolo “Le melodie vagabonde”, che all’epoca andava per la maggiore nelle balere della bassa padana. La vera sorpresa della serata, però, doveva assicurarla la principale protagonista che si sarebbe esibita sul palco parrocchiale: la soprano Milly Devoti, nel ruolo di Aida. Gli organizzatori erano certi che la sua voce potente, ma allo stesso tempo avvolgente e calda, avrebbe affascinato il pubblico, in particolare durante l’interpretazione dell’aria “O patria mia“. Milly, quando s’esibiva, come ogni grande artista che si rispetti, portava con sé, agitandolo, il suo amuleto: un prezioso e ricamato fazzoletto di pizzo bianco, donatogli all’inizio della sua carriera dal grande tenore Mario Del Monaco.
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Quella sera, per indicazione della cantante lirica, condivisa con entusiasmo dal Prunelli, la sua esibizione doveva toccare l’apice con l’entrata in scena, accanto a lei, dei lupetti del locale gruppo Scout, vestiti da piccoli egiziani, con le tuniche bianche e dorate.I ragazzini, disposti a cerchio, dovevano sorreggere i lembi dell’ampio vestito della cantante lirica. Le prove erano andate bene. I musicisti, nonostante qualche stecca, erano in fondo passabili. Le scenografie, quasi miracolose, strapparono al parroco un incauto “Oh, che bel lavoro…San Giuseppe”, che emozionò il falegname fino alle lacrime. Lo spettacolo, ridotto nella durata a poco più di un’ora ( secondo Prunelli “le cose belle devono essere brevi per non rischiare di rompere le scatole”) proseguì liscio e senza intoppi fino all’entrata dei lupetti che, come stabilito, cinsero in cerchio la cantante. Mentre Milly si esibiva in un acuto, agitando il prezioso quadrato di pizzo, questo le sfuggì dalla mano, cadendo a terra. Pierino, figlio della sorella del Prunelli, Desolina, e quindi nipote dell’organizzatore, lo raccolse al volo e sotto lo sguardo esterrefatto della cantante lo utilizzò per soffiarsi rumorosamente il naso. Non una ma due, tre volte. Poi, con un sorriso smagliante, lo protese verso la signora Milly che, a quel punto si sentì mancare, privata del proprio amuleto che era stato così volgarmente violato. La cantante lanciò un urlo potente che gran parte del pubblico interpretò come l’acuto finale dell’opera, alzandosi in piedi ed applaudendo a scena aperta. Solo in due – don “Trippa” e il cavaliere Della Spiga – rimasero dubbiosi su quanto avevano udito: quelle parole urlate erano parse ad entrambi un sonoro “che schifo!” e, pur essendo il primo un appassionato d’Opera e il secondo un fervente melomane, non ricordavano dove trovasse posto,nel libretto dell’Aida, quell’affermazione che, dall’ugola della signora Milly, era uscita con tanta forza da trasformarsi in un terribile singulto.
Marco Travaglini