ARTE- Pagina 83

Da New York a Torino, per la prima volta in Italia, la “Collezione Thomas Walther”

/

Dal  “MoMA” a “CAMERA”

“Capolavori della fotografia moderna 1900-1940”

Fino al 26 giugno

Tecnicamente sublime. Capace di fermare al millesimo di secondo l’attimo che non poteva essere che quello. Così perfetta da fare a gara con la stessa realtà.  Fors’anche di superarla. La foto che vedete pubblicata a inizio articolo s’intitola “Class”, la firma è di John Gutmann (1905 – 1998), fotografo e pittore americano di origine tedesca, appartenente alla corrente del cosiddetto “realismo americano” della “Scuola di Ashcan”, quella rappresentata in primis, per  intenderci, da Edward Hopper fra i massimi nomi anticipanti la Pop Art.

Ebbene lo scatto di Guttman inquadra la campionessa olimpica di tuffi Majorie Gestring cristallizzata in una posizione assolutamente perfetta, tanto da apparire surreale: la giovane è sospesa in aria, in un cielo terso libero d’ogni intrusione fra l’obiettivo fotografico e lei, allineata al millimetro con il trampolino. Siamo nel 1935, Marjorie ha solo 12 anni e l’anno successivo  avrebbe conquistato il podio olimpico a Berlino, diventando all’epoca la più giovane medaglia d’oro al mondo. A questa seguiranno tante altre foto dell’atleta, ma nessuna mai riuscirà a raggiungere i “superbi” livelli di quella scattata da Guttman. La foto è sicuramente fra quelle  meritanti una prolungata sosta e un’attenta riflessione nel gruppone delle 230, datate inizi – prima metà del XX secolo, capolavori assoluti della storia della fotografia internazionale appartenenti alla prestigiosa “Collezione Thomas Walther”, acquisite dal “MoMA–Museum of Modern Art” di New York e, fino al 26 giugno, ospitate (per la prima volta in Italia) presso gli spazi di “CAMERA-Centro Italiano per la Fotografia” di Torino. 121 i nomi degli artisti –molti leggendari – rappresentati nella mostra subalpina, alla sua terza ed ultima tappa europea , dopo aver soggiornato nei mesi scorsi al “Jeu de Pome” di Parigi e al “Masi” di Lugano. Mostra che ben rappresenta quel “fermento creativo che prende avvio in Europa subito dopo la Prima Guerra Mondiale – sottolineano gli organizzatori – per arrivare poi negli Stati Uniti, che accolgono in misura sempre maggiore gli intellettuali in fuga dall’Europa delle dittature, arrivando a diventare negli anni Quaranta il principale centro di produzione artistica mondiale”. Accanto ad immagini iconiche di fotografi americani come Alfred Stieglitz, Edward Steichen, Paul Strand, Walker Evans o Edward Weston e europei come Karl Blossfeldt, Brassaï, Henri Cartier-Bresson, André Kertész e August Sander, la Collezione valorizza il ruolo centrale delle donne nella prima fotografia moderna, con opere di Berenice Abbott, Marianne Breslauer, Claude Cahun, Lore Feininger, Florence Henri, Irene Hoffmann, Lotte Jocobi, Lee Miller, Tina Modotti, Germaine Krull, Lucia Moholy, Leni Riefenstahl e molte altre. Oltre ai capolavori della fotografia del Bauhaus (László Moholy-Nagy, Iwao Yamawaki), del costruttivismo (El Lissitzky, Aleksandr Rodčenko, Gustav Klutsis), del surrealismo (Man Ray, Maurice Tabard, Raoul Ubac) troviamo anche le sperimentazioni futuriste di Anton Giulio Bragaglia e le composizioni astratte di Luigi Veronesi, due fra gli italiani presenti in mostra insieme a Wanda Wulz e alla friulana Tina Modotti, cresciuta professionalmente in Messico accanto all’americano Edward Weston, suo  grande collega e compagno. L’articolato e ricco iter espositivo ci pone dinanzi ad una Collezione, quella di Thomas Walther (nato negli anni ’50 in Germania che, dal 1977 per vent’anni acquista fotografie, ovviamente tutte in biaco e nero, scattate fra le due guerre mondiali e acquistate dal “MoMA” nel 2001 e nel 2017), in cui si trovano immagini realizzate grazie alle nuove possibilità offerte dagli sviluppi tecnici della prima metà del Novecento, accanto ad una molteplicità di sperimentazioni linguistiche realizzate attraverso diverse tecniche: collages, doppie esposizioni, immagini cameraless e fotomontaggi che raccontano una nuova libertà di “intendere e usare la fotografia”.

Un vero e proprio tesoro acquisito in base ad una selezione del tutto personale; autori noti accanto a reporter assolutamente sconosciuti, tutti però accomunati “da un messaggio forte, convincente e capace di sposarsi bene con le altre opere”, come ricorda lo stesso Walther. Tutte  stampe originali, d’epoca. Nessuna maldestra ristampa. “Nel tempo mi sono convinto – ancora Walther – che il valore di una stampa ‘vintage’ superi l’importanza di una successiva perché ha una coerenza e una congruenza che la rende in un certo senso più convincente”. E la  mostra a “CAMERA” (che a pochi giorni dall’apertura ha già registrato oltre 3mila presenze) ne è chiara riprova.

Gianni Milani

“Capolavori della fotografia moderna 1900-1940”

“CAMERA-Centro Italiano per la Fotografia”, via delle Rosine 18, Torino; tel. 011/0881150 o www.camera.to

Fino al 26 giugno

Orari: lun. e merc. 11/19, giov. 11/21, ven. – dom. 11/19

Nelle foto:

–         John Gutmann: “Class”, stampa alla gelatina ai sali d’argento, 1935, “MoMA New York”

–         Foto allestimento, “CAMERA”, Andrea Guemani

Al Castello di Miradolo una mostra dedicata a Christo e Jeanne Claude

Un anno dopo la scomparsa di Christo Vladimirov Javacheff, il castello di Miradolo dedica alla coppia visionaria che ha rivoluzionato il modo di concepire l’opera d’arte e il suo processo di realizzazione, una mostra dal titolo “Christo e Jeanne Claude. Projects”, che aprirà il 15 ottobre prossimo per chiudersi il 16 aprile 2023, in cui sono esposti progetti, fotografie e video delle famose performance e installazioni, insieme a alcune delle opere che hanno influenzato la loro produzione artistica e il loro pensiero.

La mostra è curata da Francesco Poli, Paolo Repetto e Roberto Galimberti, presenta il coordinamento generale di Paola Eynard. Sono esposte sessanta opere, tra progetti e maquettes, tecniche miste su cartone applicato su legno di varie misure, accompagnate da un’ampia sezione fotografica che è stata progettata in collaborazione con la Fondazione Christo e Jeanne Claude di New York e proiezione di alcuni video documenti della loro realizzazione. Esempi ne sono “Imballaggio d’aria” di Documenta a Kassel (1968), una struttura gonfiabile in materiale plastico alta 85 metri, la Mastaba (1977-2018), opera monumentale sul Serpentine Lake di Hyde Park, formata da 7506 barili dipinti e impilati uno sull’altro, tali da formare un tronco di piramide galleggiante. È anche presente Valley Curtain, risalente al 1970/72, un telo di 380 metri he ha colorato di arancione la vallata di Rifle in Colorado, e “The floating Piers”, la ben nota passerella lunga 4,5 chilometri sul lago d’Iseo, risalente al 2016.
Ricordiamo Surrounded Island del 1980/83, che ha circondato le isole della baia di Biscayne a Miami, con una cintura di polipropilene fucsia, e “Over the river”, “The umbrellas”, The gates”, del 2004/5, che ha attraversato il Central Park di New York, Running Fence, del 1976, Pont Neuf ( 1985), l’imballaggio del più vecchio ponte di Parigi, oltre al celebre imballaggio del Reichstag di Berlino, con tessuto argentato.
A questo nucleo centrale si affiancano due ampie sezioni, una dedicata al Nouveau realisme, importante movimento parigino del decennio 1960/70, comprendente opere di Cesar, Klein, Spoerri, Rotella, Arman e Raysse, cui partecipa anche il giovane Christo realizzando i primi impacchettamenti.
La seconda sezione concentra l’attenzione sul vasto movimento internazionale della Land Art, corrente nata negli Stati Uniti, alla quale si sono affiancate, in ambito europeo e internazionale, anche molte esperienze d’arte che presentano come fulcro della loro riflessione e azione il rapporto dell’uomo con la natura e con il paesaggio. Significative e storiche sono le opere di Richard Long, Hamish Fulton, Olafur Eliasson, Giuseppe Penone, Germano Olivotto, le fotografie originali di Gianfranco Gorgoni dei “lavori manifesto” della land art di Walter De Maria, Robert Smithson, Dennis Oppenheim e James Turrell.
Ad accompagnare l’esposizione sarà anche una inedita installazione sonora, a cura del progetto “Avant derniere pensee”, che si svilupperà lungo il percorso espositivo. Nelle sale e nel parco, si svilupperà un progetto estremamente significativo dal titolo “Da un metro in giù”, un percorso didattico per i visitatori di tutte le età, allo scopo di imparare a osservare le opere d’arte e la realtà circostante.

Castello di Miradolo
Via Cordonata 2
San Secondo di Pinerolo
www.fondazionecosso.com

Sotto i portici di piazza San Carlo e di via Po, sedici  illustratori raccontano i valori  dell’Unione Europea

“Europa. L’illustrazione italiana racconta l’Europa dei popoli”

Fino al 30 giugno

Dalla “vetrina” fitta di elementi riconoscibilissimi e piemontesissimi apparentemente in contrasto fra loro ma raccolti in perfetta armonia con stile “manifesti anni ‘40” a firma dell’alessandrino Riccardo Guasco, alla Mole punto d’arrivo di una funivia che valica le montagne per congiungere la Città al mondo di Francesco Bongiorni; via via fino alla “costruzione collettiva” del pisano Matteo Berton che racconta di un’infinita varietà di personaggi indaffarati attorno a Palazzo Madama per portare il loro contributo alla crescita del luogo che meglio incarna la storia del continente europeo o alla lirica e sintetica illustrazione di Anna Parini che riflette su comunità come luogo di “sostegno comune” dove le differenze non siano motivo di paura ma piuttosto insegnamento a “guardare oltre”.

Sono questi solo quattro esempi scelti fra le sedici illustrazioni a firma di altrettanti grandi artisti italiani (nove uomini e sette donne) dedicate ai valori promossi dal Consiglio d’Europa e posizionate su stendardi bifacciali in due spazi aulici di Torino, i portici di piazza San Carlo e di via Po, in un percorso di valore storico e più ampiamente culturale facilmente comprensibile da ogni cittadino, di qualsiasi nazione. Il progetto espositivo, dal titolo “Europa. L’illustrazione italiana racconta l’Europa dei popoli” è stato promosso, in occasione del “Comitato Interministeriale per gli Affari Esteri” che si terrà a Torino giovedì 19 e venerdì 20 maggio (a chiusura del semestre della Presidenza Italiana del Consiglio d’Europa), dalla Città di TorinoRegione Piemonte e Palazzo Madama con la “Fondazione Torino Musei”. Le illustrazioni raccontano nel loro complesso i valori fondanti dell’Unione Europea e dei popoli europei, prendendo avvio da Palazzo Madama, edificio che, con i suoi duemila anni di storia, interpreta come pochi altri l’identità europea: nel 1861 fu infatti sede del primo Senato del Regno d’Italia e cent’anni più tardi ospitò la firma della “Carta Sociale Europea”. Sedici, si diceva, gli illustratori coinvolti.

Accanto ai quattro già citati: Camilla FalsiniElisa SeitzingerAndrea SerioFrancesco PoroliIrene RinaldiLucio SchiavonAle GiorginiEmiliano PonziBianca BagnarelliMarina MarcolinGianluca Folì e Giulia Conoscenti. La mostra, per il suo alto valore educativo e civico, diventerà in seguito un percorso didattico per gli istituti comprensivi di Torino e del Piemonte, oltre a essere organicamente strutturata in un progetto espositivo veicolato in ogni provincia e proposto agli istituti italiani di cultura all’estero. Da una mostra “di piazza” si passerà dunque ad una mostra “itinerante” che vedrà il coinvolgimento di diversi luoghi del territorio per raccontare i grandi valori dell’Europa attraverso l’arte. Conferenze, incontri a tema, laboratori e spettacoli teatrali saranno gli eventi collaterali di questa originale operazione, che per la prima volta vede un Museo Civico, luogo di identità europea, diventare committente di giovani illustratori italiani di fama internazionale – e in costante dialogo fra capacità creative e benvenuti supporti dal digitale – costruendo un dialogo tra la sua storia millenaria e il linguaggio grafico, perennemente vivo, dell’illustrazione.

La presentazione del progetto avverrà sabato 21 maggio alle ore 12 al “Salone Internazionale del Libro 2022” presso lo “Spazio Città di Torino” (padiglione 1, D 102). Interverranno Ale GiorginiElisa Seitzinger, Andrea Serio e Giovanni Carlo Federico Villa, direttore di Palazzo Madama.

Gianni Milani

–       Riccardo Guasco: “Piemonte”

–       Francesco Bongiorni: “Torino”

–       Matteo Berton: “Palazzo Madama”

–       Anna Parini: “Democrazia”

Le sperimentazioni di ieri e di oggi a Camera

Giovedì 9 giugno, alle 18.30, Camera attende i visitatori per un viaggio nelle sperimentazioni del linguaggio
fotografico tra passato e presente, in compagnia della curatrice e responsabile delle mostre, Monica Poggi
Dal fotogramma alla solarizzazione, dalle stampe in negativo alle doppie esposizioni, i fotografi, a inizio
Novecento, hanno iniziato a esplorare il mezzo fotografico, riscoprendo antiche tecniche e inventandone di
nuove. Si tratta di una grande rivoluzione che ha conquistato il mondo dell’immagine, portando alla
creazione di straordinarie fotografie, in mostra presso Camera fino al 26 giugno.
Passando per le sperimentazioni dinamiche e visionarie di Anton Giulio e Arturo Bragaglia, Herbert Bayer, El
Lissistzky, il viaggio approderà alla fine degli anni Ottanta e alle nuove sfide creative della rivoluzione
digitale.
Significativi saranno artisti quali Adam Fuss, Ellen Carey, Eileen Quinlan, Paola di Bello, Fabio Sandri e
Davide Tranchina che, senza interrogare la macchina fotografica, interrogano questo linguaggio spaziando
dalle suggestioni oniriche all’astrattismo geometrico, in un vortice che collega il passato al futuro della
fotografia.
Nel 1928 Herbert Bayer inizia a creare fotomontaggi spettacolari, incluso questo dal titolo “Humanly
Impossible”, in cui l’artista ritrae se stesso, mentre osserva il suo riflesso in uno specchio. Incredulo tiene in
mano una fetta di braccio staccatasi dal corpo.
Sebbene l’immagine sia giocosa e risultato di una commistione tra l’umorismo dadaista e gli stati onirici
surrealisti, l’orrore sul volto di Bayer richiama qualche cosa di più oscuro, i traumi fisici e psicologici della
prima guerra mondiale e la paura che un tale incubo possa ripetersi.

Animali di rara bellezza, la magica suggestione delle gru nelle sale del “MAO” 

“La stagione delle gru”

Fino a marzo 2023

Messaggera delle divinità. Metafora di longevità. Uccello dalla forte valenza simbolica, da sempre in Asia Orientale la gru – per la sua bellezza e per la suggestione delle movenze aggraziate – è genericamente considerata “emblema di buon augurio”. Per la sua capacità di compiere lunghe migrazioni, che fanno pensare all’illusione di un perpetuo ritorno dai luoghi più lontani, in Cina la gru è anche stata associata agli immortali “taoisti” (seguaci dell’antichissima filosofia di Lao Tzu, VI–V secolo a. C, volta al conseguimento dell’immortalità attraverso l’armonia di una vita in totale equilibrio con le leggi naturali e cosmiche), per i quali costituirebbero spesso, secondo l’iconografia tradizionale, il mezzo di trasporto prediletto.

Per comprenderne, dunque, a fondo la magia e l’influsso esercitato sulle culture delle più antiche popolazioni asiatiche, il “MAO-Museo d’Arte Orientale” di Torino, in occasione di una delle periodiche rotazioni eseguite a scopo conservativo, che interessano in questo caso la galleria giapponese, mette in visione per circa un anno, fino al mese di marzo del 2023, una raffinata coppia di paraventi “Gru (tsuru)” del XVII secolo, raffiguranti quindici gru di varie specie allocate in un ambiente palustre, avvolto in una calda nebbia dorata, all’interno di una sala quasi rischiarata dal prezioso sfondo in foglia d’oro dei paraventi, riportato al suo antico splendore grazie al restauro finanziato nel 2011 dall’“Associazione Amici della Fondazione Torino Musei”. Davvero pregevole la cifra stilistica del disegno (quei colli e quelle gambe lunghissime, il piumaggio grigio e la buffa coda arricciata verso il basso) e la pienezza di una cromia che accompagna “pose” le più differenziate ed eleganti in un’armonia d’insieme di grande piacevolezza e lirica suggestione.

Nella stessa sala, troviamo collocata un’altra coppia di paraventi “a sei ante” risalenti anch’essi al XVII secolo e raffiguranti una ricca composizione di “crisantemi in fiore”. Il soggetto è di origine cinese, richiama la stagione autunnale ed è simbolo della vita appartata del letterato lontano dagli incarichi ufficiali. In Giappone conobbe un grandissimo successo, tanto da essere adottato anche come stemma dalla famiglia imperiale: una “corolla di crisantemo dorata a 16 petali”, che evoca lo splendore del sole.

La rotazione conservativa prosegue poi al secondo piano della galleria giapponese con l’esposizione di otto “kakemono”, i delicati dipinti su rotolo verticale, e una selezione di “lacche”, tra cui emerge una scatola per la cerimonia del tè (“chabako”) con fondo rosso e fini tralci vegetali decorati con foglie e fiori in rilievo e in ceramiche di vari colori, metalli dorati e madreperla. Lo stile evocato è chiamato “Haritsu”, dal nome del poliedrico artista Ogawa Haritsu (1663-1747), apprezzato decoratore di lacche polimateriche, pittore nonché poeta di “haiku”, componimenti poetici composti da tre versi per complessive 17 “more” ( sillabe ), nati in Giappone nel XVII secolo e che ebbero grande sviluppo nel corso del periodo Edo (1630 – 1868).

g.m.

“La stagione delle gru”

MAO- Museo d’Arte Orientale, via San Domenico 11, Torino; tel. 011/4436932 o www.maotorino.it

Fino a marzo 2023

Orari: dal mart. alla dom. 10/18

 

Nelle foto:

–       “Gru (tsuru)”, paravento dipinto a sei ante; inchiostro, tempera e “gofun”, su foglia d’oro, supporto di carta; XVII sec.

–       Scuola di Sotatsu: “Cespugli di crisantemi”, paravento dipinto a sei ante; inchiostro, tempera e “gofun” su carta; inizio XVII sec.

–       “Chabako con rilievi vegetali”, scatola per cerimonia del tè; legno con laccatura rossastra superficiale, decorazione in oro e ceramica, madreperla, metalli e pigmenti; 1800 ca.

“Futures” moves to piazza Carlina Una stagione di giovane fotografia

 Organizza “CAMERA”, in collaborazione con “Maradeiboschi” e “VANNI” a Torino

Da giovedì 5 maggio al prossimo ottobre

L’iniziativa ha per obiettivo quello di rinnovare il rapporto con il territorio, contribuendo al contempo alla  promozione della giovane fotografia italiana. Dopo la fortunata collaborazione con cinque spazi d’arte indipendenti di Torino, attraverso il progetto “Futures moves to the city”, “CAMERA-Centro Italiano per la Fotografia” lancia ora il nuovo, più circostanziato, progetto “Futures” moves to piazza Carlina, curato da Giangavino Pazzola e dedicato all’opera dei talenti selezionati, nel 2020, dal Centro di via delle Rosine nell’ambito del programma europeo “Futures Photography”. Le mostre verranno ospitate, da maggio ad ottobre, negli showroom in piazza Carlina di “Maradeiboschi” (al civico 21) e “VANNI” (al civico 15A), per l’occasione partner e sostenitori del progetto di “CAMERA”.

La prima mostra in programma, “Three works”, porta la firma della giovane artista bellunese Marina Caneve, raffinata sperimentatrice della fotografia piacevolmente utilizzata all’interno di un processo di ricerca interdisciplinare. La rassegna aprirà giovedì 5 maggio, in simultanea da “Maradeiboschi” (lun. merc. 8/21,30; giov. ven. 8/23,30, sab. 9/23,30 e dom. 9/21,30) e da “VANNI” (dal mart. al ven. 10/19,30, sab. 10/13,30 – 15,30-19,30) e rimarrà visitabile sino a metà giugno. A partire da tre serie di lavori realizzati sino ad oggi dall’artista, “Are They Rocks or Clouds?” (2018 -2019), “Entre Chien et Loup” (2020) e “A fior di terra” (2021), il percorso espositivo sottolinea l’interesse della Caneve nella realizzazione di storie incentrate prevalentemente sul tema dell’ecologia e dell’ambiente. “Attraverso questo filtro, infatti, l’artista – si sottolinea – cerca di investigare fenomeni quali il rapporto che intratteniamo con le catastrofi ambientali, la costruzione della memoria dei luoghi e la coesistenza tra risorse naturali ed esseri umani”. Così, ad esempio, mediante fotografie di archivio, testi e immagini appositamente realizzate ex novo, in “Are They Rocks or Clouds?” si indaga la storia del dissesto idrogeologico nelle montagne dolomitiche per esplorare il rapporto tra uomo, architettura e paesaggio. Con“Entre Chien et Loup”, progetto commissionatole dal “Museo Nazionale della Montagna” di Torino, la Caneve si muove tra immagini rinvenute nell’archivio dello stesso Museo e nel paesaggio circostante, per costruire una rete di relazioni – reali e fittizie– atte a costruire un luogo immaginario. Con “A fior di terra”, invece, ha coinvolto la popolazione di Lusiana Conco, piccolo paese situato sull’Altipiano di Asiago, in una sorta di “auto etnografia” sul tema dell’estrazione e della lavorazione del marmo, tradizionale risorsa primaria per l’economia locale. “Con una messa in discussione della funzione documentaria della fotografia – viene ancora sottolineato – Caneve esplora diversi argomenti e costruisce conoscenza, con un interesse specifico per la vulnerabilità ambientale, sociale e culturale”.

Dopo Marina Caneve, nell’ambito dello stesso progetto, verranno ospitate, sempre negli stessi spazi e a cadenza regolare fino al prossimo ottobre, le mostre di Camilla Ferrari (Milano, 1992), Camillo Pasquarelli (Roma, 1988), Giovanna Petrocchi (Roma, 1988) e Marco Schiavone (Torino, 1990): esperienze espositive nell’ambito delle quali verranno sviluppati anche dei progetti speciali legati ai percorsi di innovazione e ai valori che ispirano l’attività delle due aziende torinesi.

g.m.

Per infoCAMERA-Centro Italiano per la Fotografia, via delle Rosine 18, Torino; tel. 011/0881150 o www.camera.to

Nelle foto:

–       Marina Caneve; “Are They Rocks or Clods?”

–       Marina Caneve; “Entre Chien et Loup”

–       Marina Caneva: “A fior di terra”

Al Festival delle Migrazioni un murales contro la violenza di genere

Al Festival delle Migrazioni, Sabato 4 Giugno ore 17.30 presso il Cecchi Point (Via Cecchi 17 – Torino) vi sarà l’inaugurazione del Murales Contro la Violenza di Genere realizzato dall’artista Alice Arduino. Un percorso di educazione e sensibilizzazione svolto insieme al collettivo femminista “Yepp è Fica” che ha portato dopo diverse riunioni e incontri di consapevolezza alla realizzazione di un’opera muraria sul tema del Consenso.
A seguire dibattito pubblico e performance teatrale Pièce Fica, a cura della compagnia triosegreto (con Nadia Cretier e Serena Miceli, per la regia di Matteo Allasia) e liberamente tratta dai Monologhi della vagina di Eve Ensler e Tutta casa letto e chiesa di Franca Rame).

Giovanni Taverna. Il pensiero che cerca la forma

Ottant’anni di scultura del grande Maestro monferrino in mostra al Castello di Monastero Bormida

Fino al 10 luglio

Monastero Bormida (Asti)

Ritorna in terra monferrina, Giovanni Taverna. A lui il Castello di Monastero Bormida (recentemente inserito dalla “Fondazione Asti Musei” nella rete museale astigiana) dedica fino al 10 luglio un’importante e corposa retrospettiva dal titolo “Il pensiero che cerca la forma”.Titolo assolutamente identificativo del modus operandi dello scultore alessandrino. Nato nel 1911 ad Alluvioni Cambiò (Alessandria) e scomparso a Torino nel 2008, il Taverna è ancora oggi presenza assai viva in quelle terre in cui l’arte figurativa è riuscita incredibilmente a germogliare nelle sue più alte manifestazioni attraverso le opere di artisti di casa di massimo livello che vanno, solo per citarne alcuni, da Pellizza (di cui fu allieva la madre del Taverna) a Morbelli, a Bistolfi via via fino ad Onetti, Carrà, Monteverde e alla grande Scuola di Tortona. Dal 2003 nel suo paese natìo è attiva un’importante “Gipsoteca”, a lui dedicata, che accoglie opere dell’artista realizzate in bronzo, terracotta, ceramica e gesso, insieme a  bozzetti di monumenti commemorativi, mentre in occasione del bicentenario di fondazione del Comune, Alluvioni già lo aveva ricordato con una notevole rassegna dal titolo “Giovanni Taverna scultore dell’equilibrio” e, nel centenario della sua nascita, lo aveva nuovamente commemorato con un’altra esposizione titolata “Momenti di un percorso”.

Ora la mostra al Castello di Monastero Bormida. L’aria che si respira è sempre aria di casa, in cui scivolano, in un percorso di altissimo livello artistico, ben ottant’anni di scultura. Lavori in cui è sempre il “pensiero” a cercare “la forma”. Studiata, abbozzata, plasmata secondo criteri che muovono sempre da una dimensione e da una visione ideale e spirituale della realtà. Forma mai scomposta,  dai volumi netti ed essenziali, attenta ai principi  scolastici della progettazione, del disegno, delle proporzioni e di quel rigore formale assolutamente lontano dai richiami (pur analizzati e interrogati) delle avanguardie cavalcate nel Novecento a larghe ondate. Curata dalla figlia, critica d’arte, Donatella Taverna e da Francesco De Caria, la mostra si basa su materiali provenienti dallo studio dell’artista e ripercorre per tappe la lunga vita di uno scultore che, dopo una fase propedeutica presso lo studio a Sale Alessandrino di Mina Pittore, allieva di Ettore Tito, si trasferì appena quattordicenne a Torino per apprendere l’arte scultorea, dapprima presso Stefano Borelli (1894-1962) e poi, per vari anni, come allievo e collaboratore di Leonardo Bistolfi – allora al culmine della fama e da un paio di anni Senatore del Regno per meriti culturali – nello studio di via Bonsignore, presso la Gran Madre.  Anni di strepitosa formazione culturale ed artistica. E di un promettente avvio di carriera. Interrotta nel ’33 dalla scomparsa di Bistolfi, seguita dai sette anni di guerra, prima con la Campagna d’Africa e poi con la seconda guerra mondiale. Rientrato a Torino, dirige per un breve periodo, la celebre fabbrica di ceramiche artistiche di Sandro Vacchetti “ESSEVI” per poi aprire un proprio studio, immergendosi appieno nell’attività di scultore.

Sulle orme di Bistolfi, si dedica anche lui all’esecuzione di opere commemorative importanti come i Monumenti ai Caduti” di Sale, “all’Alpino” di Leynì e “al Migrante”per la Città di Pittsbourgh. Molto nota è anche la sua attività di ritrattista in dimensioni pubbliche e monumentali, come nel caso del ritratto del ministro Soleri a Roma o di quello su un cippo commemorativo del poeta piemontese Pinin Pacot, nei giardini Cavour di Torino. In mostra a Monastero Bormida, una delicata “Meditazione” in gesso degli anni ’40, (figura femminile inginocchiata, le mani raccolte sulle gambe) e una meditativa “Donatella”, gesso del ’68, riflettono l’ascendenza (svincolata dai più aggressivi ed elaborati esempi bistolfiani) di certa lezione del Rinascimento quattro-cinquentesco. Così come il “Cristo che cammina sulle acque”, terracotta degli anni ’90. Ecco. La forma si piega al pensiero. La realtà lascia margini benedetti al sogno e alla poesia. E’ il pensiero, sempre, a reggere il gioco. Nel lavoro scultoreo, ma anche nella pittura di cui si ha chiara testimonianza negli oli e nei pastelli portati in mostra insieme ad alcune ceramiche ideate negli anni di lavoro alla “ESSEVI”, a fianco di una sezione dedicata ai maestri di gioventù Stefano Borelli, Mina Pittore e Leonardo Bistolfi. A corredare la rassegna anche materiale fotografico e documentale di grande interesse.

Gianni Milani

“Giovanni Taverna. Il pensiero che cerca la forma”

Castello di Monastero Bormida (Asti), piazza Castello 1; tel. 0144/88450 o www.monasterobormida.at.it

Fino al 10 luglio

Orari: sab. 15,30/18,30 – dom. 10,30/12,30 e 15,30/18,30

Nelle foto:

–       Giovanni Taverna

–       “Meditazione”, gesso, anni ‘40

–       “Cristo che cammina sulle acque”, terracotta, anni ‘90

–       “Donatella”, gesso, ‘68

INDIGENO Quando gli abitanti di un luogo trasformano il loro contesto

In partnership con Goodness AC, Cubo Teatro, Klug e Torino Youth Centre/OFF TOPIC

 

Ha inaugurato sabato 21 maggio INDIGENO, l’ambizioso progetto di attivazione di comunità e rigenerazione urbana – risultato primo beneficiario del bando ToNite, lanciato dal Comune di Torino e finanziato nell’ambito della quarta call del programma europeo UIA “Urban Innovative Actions”, volto a migliorare la vivibilità e sicurezza del Lungo Dora – che apre il suo viaggio con una mostra fotografica open air in Via Pallavicino, a firma di Arianna Arcara del collettivo CESURA, e a cura di CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia, e il percorso di arte muraria e interventi pittorici de Il Cerchio E Le Gocce.

INDIGENO vuole costruire una comunità partecipata e solidale attraverso un percorso di arte urbana, mirando alla comprensione e consapevolezza di tutte le diversità socio culturali che compongono il quartiere, il complesso di case popolare di Via Farini e il Campus Einaudi, e volto a innescare modi virtuosi di abitarlo e viverlo. L’arte, quindi, come strumento, per favorire la creazione di nuove relazioni, ma anche la valorizzazione e lo sviluppo di quartiere.

 

Un’ampia progettualità: dall’esposizione fotografica al percorso d’arte muraria, passando da incontri con gli e le abitanti del quartiere, ma anche da spettacoli teatrali partecipativi, laboratori artistici e attività sportive per bambin? e ragazz?, oltre a una biblioteca di quartiere e alla creazione di un documentario che raccoglie le storie di chi questo quartiere lo vive. Un lungo percorso di progettazione che mira a rivitalizzare l’identità del quartiere, che possa essere volano per la costruzione di uno spazio più vivibile e sicuro, dove l’attivazione di un percorso artistico rinnovi la fruizione di una parte di città.

 

Nasce in quest’ottica di rigenerazione il progetto di Arte Urbana a cura de Il Cerchio E Le Gocce e la direzione artistica di Riccardo Lanfranco, con interventi di pittura murale realizzati sulle pareti della residenza universitaria Olimpia, sui temi dell’inclusività, dell’uguaglianza e dell’equità sociale. La particolare dinamica di progettazione adottata per questo ciclo d’interventi di Arte Urbana è stata assolutamente peculiare ed innovativa: oltre ad una connessione cromatica a sviluppo circolare rispetto alla posizione dei muri, gli artisti e le artiste sono stati invitati a collaborare tra loro alla progettazione delle opere, intrecciando tematiche e stili, con lo scopo di produrre risultati che non fossero solamente la somma delle parti ma il frutto di un dialogo, in un’ottica di apertura e cooperazione.

Gli artisti coinvolti sono:

 

  • lAris e Giorgio Bartocci: due maestri del post-graffitismo e rappresentanti del primitivismo urbano in Italia. Hanno amalgamato le loro forme creando una composizione astratta dai forti cambi di velocità e dall’impatto travolgente; un lavoro eterogeneo dove perdersi dentro i dettagli.
  • lMach505 e Luca Zamoc: tra le varie allegorie che il leone ha simboleggiato nelle differenti culture, per gli antichi pagani rappresentava il senso della giustizia poiché attaccava solo se spinto dalla fame. In trasparenza al leone di Mach505 che si staglia in primo piano, si manifesta l’immagine di Zamoc con Sansone che squarcia a mani nude l’animale. I due artisti hanno lavorato per contrapposizione tematica, interpretando allegoricamente la giustizia e la prevaricazione di questa ad opera del presuntuoso essere umano.
  • lElisa Veronelli e Nice and the Fox: le artiste hanno interpretato l’università come luogo d’incontro, di condivisione e crescita. Attraverso un gioco di trasparenze, colori ed incastri, Elisa Veronelli ha rappresentato delle stanze che si mescolano tra loro, così come Nice and the Fox ha fatto con i volti. Non ci sono delle linee di confine nette tra le figure, ma si intersecano e confondono tra loro, consolidandosi e potenziandosi vicendevolmente.
  • lFabio Petani e Luogo Comune: l’intervento vuole ragionare sul tema dell’integrazione. Questa viene interpretata attraverso il concetto di ecosistema, ovvero dell’interazione tra piante e insetti. Il biosistema e? costituito da una comunità di organismi viventi che interagiscono tra loro, creando un complesso autosufficiente in equilibrio dinamico. Le piante hanno bisogno degli insetti, cosi? come gli insetti hanno bisogno delle piante per potersi nutrire, trovare riparo e riprodursi. Il ciclo vitale senza uno dei due elementi si spezzerebbe. Questa tematica viene sviscerata dagli artisti che hanno lavorato in sinergia creando una composizione dove le loro emotività interagiscono e si compensano.
  • lSara de Lucia: sviluppando i concetti di equità, inclusività e uguaglianza, l’artista ha ideato un’opera che verte sul principio dei vasi comunicanti.
    Infatti, secondo la legge di Stevino, il principio afferma che un liquido contenuto in due o piu contenitori comunicanti tra loro raggiunge lo stesso livello, indipendentemente dalla forma del contenitore, originando un’unica superficie equipotenziale. Partendo da una situazione di squilibrio si raggiunge sempre la parità. Verrà creata un’animazione in realtà aumentata, visibile tramite QR code, nella quale sarà possibile vedere vasi e fiori mutare in base al variare del livello dell’acqua.
  • lSupe: recenti studi hanno ulteriormente confermato che vivere in prossimità? di aree verdi migliora considerevolmente la qualità della salute e l’aspettativa di vita degli individui. Nell’opera di Supe è rappresentata una pianta di Monstera in versione metallica, per creare un anello di congiunzione tra un elemento naturale e l’artificiosità della citta?. Il tubo spezzato esprime il divario tra la vita urbana e la natura e di come solo pochi fortunati possono trarre beneficio dalle risorse che quest’ultima ha da offrirci.
  • lSheko: fedele al mondo del graffiti-writing da cui proviene, Sheko ha rappresentato una composizione di lettere, colori e forme strettamente riconducibili al proprio stile calligrafico e formale. Le lettere si mescolano tra loro facendo emergere le parole PARITY e ART. Un lavoro lineare per rappresentare uno dei passaggi culturali più profondi e complessi che sta affrontando la società contemporanea.

Il segno che racconta. Alberto Longoni in mostra a Ghiffa

Sabato 4 giugno, alle 17,30, si inaugura presso la sala esposizioni Panizza di Ghiffa, nel Verbano, la mostra di acqueforti di Alberto Longoni intitolata “Il segno che racconta”.

L’evento è organizzato dall’Officina di incisione e stampa Il Brunitoio, a cura di Ubaldo Rodari e con la presentazione di Mauro Chiodoni. La mostra sarà visitabile fino al 26 giugno, dal giovedì alla domenica,dalle 16 alle 19.
Alberto Longoni è stato un importante pittore, incisore, scultore,
illustratore. Un artista eclettico nel senso pieno del termine che, con
le sue opere, ha accompagnato ed interpretato l’evoluzione del costume
e  della società italiana, dal dopoguerra alla fine degli anni ottanta.
Durante la seconda guerra mondiale conobbe l’orrore del sistema
concentrazionario nazista. Arruolato in marina nel ’40 e inviato
sull’isola di Creta venne fatto prigioniero tre anni dopo dai tedeschi
che lo deportarono nel lager di Buchenwald, a poche miglia da Weimar.
Fulì che conobbe la donna che diventò sua moglie, la polacca Lidia
Josepyszyn con la quale tornò a Milano finita la guerra, nel 1945. Dal
suo rientro in patria, per alcuni anni lavorò di giorno in una impresa
edile, disegnando e dipingendo da autodidatta alla sera. A partire dal
1953 le sue qualità artistiche vennero apprezzate con il conseguimento
di riconoscimenti importanti come quello al concorso nazionale di
caricatura di Trieste e il primo premio per il Manifesto del Gran
Premio dell’autodromo di Monza.
Eseguì incisioni, graffiti, dipinti, illustrò
riviste italiane e straniere, copertine di dischi, realizzò multipli,
ceramiche, sculture e collaborò all’architettura di giardini. Illustrò
anche “Il gioco delle perle di vetro” di Hermann Hesse,una delle opere
che contribuirono ad attribuire all’autore di “Siddharta” il Nobel per
la letteratura. Se si considera la sua imponente produzione artistica,
che lo portò a collaborare con le più importanti case editrici e le
più prestigiose riviste italiane ed europee, oltre a scrivere e
illustrare straordinari libri per l’ infanzia, si comprende
l’importanza di Longoni nella storia dell’arte italiana della seconda metà del ‘900.
Negli anni ’60 realizzò cento disegni che illustrarono le novelle del
Decameron di Boccaccio e tutte le sovracoperte della collana Classici
della letteratura italiana contemporanea, editi da Mondadori. Alberto
Longoni, nato a Milano il 24 agosto del 1921 e vissuto sempre in quella
città, si trasferì nel 1986 in alta Val d’Ossola, zona che frequentava
già dagli anni sessanta. Elesse il suo buen retiro a Emo, una frazione
di Crodo, principale centro abitato della Valle Antigorio, circa
quindici chilometri a nord di Domodossola. Da sempre importante
località termale, il paese è famoso per le sue acque minerali e per il
“Crodino”, l’analcolico “biondo che fa impazzire il mondo”. A Emo di
Crodo scrisse e illustrò libri. Il suo ultimo lavoro è del 1991,
terminando la sua attività con l’allegra filastrocca Nasone gran
dormiglione, edita da Le Marasche. Lo stesso anno, il 7 dicembre, morì
all’eremo di Miazzina, sulle colline dell’entroterra del Verbano, a
causa di un’influenza maligna. Alcuni anni fa il Museo Monumento al
Deportato Politico e Razziale di Carpi (Mo) organizzò a Palazzo dei Pio
in piazza dei Martiri la mostra “Il mondo di Alberto Longoni”.
L’esposizione, curata dalla nipote dell’artista Michela Cerizza e da
Marzia Luppi era stata promossa dal comune modenese e dalla Fondazione
Fossoli che si pone come obiettivo principale la diffusione della
memoria storica dell’omonimo ex-campo di concentramento in terra
emiliana. La terribile, durissima esperienza dell’internamento a
Buchenwald ispirò Longoni per una delle sue opere principali, ospitata
nella prima sala del museo di Carpi. Un graffito grande come tutta la
parete, raffigurante centinaia di deportati magri, ridotti a pelle e
ossa, con gli occhi vuoti e privi di espressione, senza bocca.
In occasione dell’inaugurazione Michela Cerizza ricordò come suo nonno al
ritorno dal campo di concentramento pesasse 35 chili ma nonostante i
patimenti e le angherie subite non avesse “mai menzionato l’odio come
stato d’animo per spiegare l’orrore in cui era stato coinvolto. Lui
faceva emergere con le sue opere la vittoria dell’amore attraverso il
viaggio, il sogno, i paesaggi”. La scelta di ospitare la mostra di
Loongoni al Museo del Deportato assunse un significato del tutto
particolare ed evocativo. “La Sala dei nomi è una cattedrale laica”,
disse il sindaco di Carpi  Alberto Bellelli,  riferendosi alla celebre
stanza del Museo dove sono graffiti i nomi di oltre tredicimila
italiani morti nei campi di concentramento europei  “e riportare qui Longoni
significa un ritorno alle radici dello stesso museo”. Per queste
ragioni si ritenne necessario e doveroso il tributo a un artista “che
ha saputo rappresentare la sera del tempo ma anche lo spiraglio della
speranza”, come ricordò il presidente della Fondazione Fossoli, l’on.
Pierluigi Castagnetti. La tragica esperienza della deportazione e del
lavoro coatto in Germania fu raccontata dallo stesso Longoni dialogando
con Pinin Carpi, del quale illustrò le storie: “Arriva la guerra, mi
mandano nell’isola di Creta, nella marina da sbarco.
Conosco il disegno, divento il segretario del comandante. Nei momenti di pausa disegno per
il comandante galeoni veneziani del Settecento: imparo così il disegno
navale, le linee di galleggiamento. L’8 settembre siamo circondati dai
tedeschi. I mille marinai di Creta si rifiutano combattere e di
collaborare con i tedeschi; circondati e imprigionati ci portano in
Germania e ci obbligano a lavorare per loro. Uno-due anni di prigionia
sono duri, arrivo a pesare 35 chilogrammi. La storia qui è drammatica.
Berlino con i bombardamenti degli Americani, la fame, il freddo, la
sete, soprattutto la paura. Nel Mellenburg incontro Lidia che fa
l’interprete in una grande fattoria. Una mattina, dopo un turno di
notte che durava dalle 6 di sera alle 6 del giorno dopo, mi pesano: 36
chilogrammi! Mi mandano a Luckenwalde e lì trovo un medico che mi dice:
“Non hai niente, sei solo deperito. I contadini qui attorno cercano
lavoratori: se riesci a superare il primo mese di prova te la cavi;
puoi mangiare perché hanno le patate”. E così me la son cavata”. Parole
asciutte, scarne, venate da malinconia, prive di enfasi. Nel maggio di
due anni fa la Casa della Memoria di Milano ospitò un’altra mostra
dedicata all’artista: “Guerra Prigionia Libertà di Alberto Longoni”.
Un evento realizzato in collaborazione con l’Aned per evidenziare il
messaggio di questo artista che decise di testimoniare con le sue opere
le tragedie personali e collettive della storia: la guerra, la
deportazione, il lavoro coatto nei campi di concentramento nazifascisti.
Ma la capacità espressiva di questo artista si cimentò anche con il
più classico racconto della letteratura per l’infanzia, uno dei romanzi
di formazione senza tempo tant’è che due anni fa, al Forum di Omegna
sul lago d’Orta, vennero esposte per la prima volta le tavole originali
che Longoni dedicò a Pinocchio. L’artista milanese fu tra i più grandi
illustratori delle avventure del celebre burattino inventato da
Collodi.
Nel 2017 l’editrice Electa del gruppo Mondadori ha mandato nelle
librerie il volume “Le avventure di Pinocchio”, riedizione dell’opera
illustrata da Alberto Longoni e pubblicata da Vallardi nel 1963 in
un’edizione speciale fuori commercio, ora introvabile sul mercato. Un
classico intramontabile proposto in una preziosa edizione numerata a
tiratura limitata e numerata, in un formato adatto a valorizzare le
magnifiche tavole dell’artista. Alberto Longoni, come scrive la casa
editrice “ci ha lasciato una raffinata e al tempo stesso ironica e
pungente interpretazione grafica dei personaggi del noto racconto per
bambini”.
I suoi disegni al tratto, in bianco e nero, sono riprodotti
nel volume a piena e a doppia pagina. Il libro include un folder a quattro
ante con la splendida scena del pesce che inghiotte il burattino. Il
testo è integrale, nella versione della decima edizione, con la
prefazione di Dino Buzzati.
Marco Travaglini