ARTE- Pagina 73

Bardonecchia, doppia inaugurazione: “Scena 1312 Arte”

Al Palazzo delle Feste ed alla Base Logistico Addestrativa

 

Alla Base Logistico Addestrativa di viale Bramafam, che per questa Stagione estiva, ha offerto all’Amministrazione Comunale la possibilità di utilizzare alcuni suoi spazi, per ospitare eventi culturali, alle 15.30, si inaugurera’ la mostra personale di Guido Adaglio “Vederti nuda è ricordare la terra”. Tele e sculture in legno per declinare la vita, la natura, sentimenti ed aspirazioni dell’uomo.

“Per me fare arte – spiega l’artista – significa raccontare. Come quando prima di conoscere l’alfabeto guardiamo le figure, ecco, cosi è la mia pittura: semplice, da osservare anche senza saper leggere. Parla di sogni fatti e di amori traditi, di gioie vere e dolori cupi, di cose successe e cose che potrebbero succedere.

Per raccontare queste emozioni- aggiunge- uso i corpi come pagine di un diario da condividere”.

Esposte anche alcune sculture in legno.

“Uso il legno, tronchi già secchi in pianta, per creare i miei Alberi nella serie Amo la natura, a modo mio: un appello ad amare la natura per quello che è, e non come fa più comodo a noi”.

 

Sempre domani, alle 17.30, al Palazzo delle Feste, si aprirà la mostra fotografica “Presenze “, che raccoglie alcuni particolari scatti realizzati da Massimo Del Monaco, all’interno del Forte e del paese di Exilles. ” In questa mostra fotografica- spiega Del Monaco – la visione delle immagini vuole essere personale e non ci sono titoli o didascalie a giustificare ogni scatto ma un invito ad immergersi in esse vivendo i momenti a livello personale”. Ed ancora “i fantasmi del passato si aggirano ancora tra le mura del forte, sono nei sotterranei, nei meandri nascosti, sulle ripide scalinate, sulla terra calpestata, sulle pietre lise.

“Opera Viva”… se il Manifesto è capovolto, la colpa è di Luigi o forse no!

In piazza Bottesini, Barriera di Milano, la “Natura Morta” dei gemelli Gianluca e Massimiliano De Serio per “Opera Viva. Il Manifesto”

Lunedì 17 luglio, ore 18,30

La location è sempre quella: lo spazio pubblico di metri 6×3 di piazza Bottesini, in Barriera di Milano. Alla sua nona edizione (con più di cinquanta artisti italiani e stranieri coinvolti nel tempo) “Opera Viva. Il Manifesto”, progetto artistico ideato nel 2015 da Alessandro Bulgini e oggi promosso dall’“Associazione Flashback”, da quest’anno ha cambiato titolo diventando “Opera Viva, Luigi l’addetto alle affissioni”, presentandosi, con eccentrica bizzarria, concentrato sul concetto di “ribaltamento”: in gioco, nessuna figura curatoriale, solo gli artisti di volta in volta ospitati e lui … Luigi, l’addetto alle affissioni, che (un po’ stravagante qual è) appenderà tutte le immagini capovolte. Se volete, dunque, prendervela con qualcuno, sapete a chi rivolgervi. Del resto, però, nessuna lamentela è finora pervenuta da parte degli stessi artisti. Complici anche loro? Certo che sì. E dunque una motivazione, tecnicamente e artisticamente accettabile, ci sarà. Niente rimbrotti, quindi, al povero Luigi l’addetto alle affissioni, che, evidentemente, fa solo ciò che gli è stato detto di fare. Andiamo perciò alla ricerca delle motivazioni.

E allora, ben attenti! Trovatevi lunedì 17 luglio, alle ore 18,30, al solito posto in piazza Bottesini, in Barriera di Milano. Lì si terrà il secondo appuntamento di questa nuova edizione di “Opera Viva”. Luigi probabilmente non ci sarà. Ma non cercatelo, perché troverete già ben affissa l’opera “Natura morta” dei fratelli-gemelli Gianluca e Massimiliano De Serio, torinesi, classe ’78. Ovviamente, anch’essa affissa ben bene in alto e al contrario. Come volevasi dimostrare. La foto è quella di una cinciallegra imbalsamata, con il suo cartello di inventario e il suo piccolo trespolo, proveniente dal deposito della collezione del “Museo Don Bosco” di “Storia Naturale” di Torino. Escluse sbadataggini o stravaganze da parte del solito Luigi l’addetto alle affissioni,  “l’opera – spiegano i responsabili – riflette sui concetti di arte e natura, e sulla loro relazione”. E continuano: “Siamo di fronte alla morte o alla vita eterna? Museificazione della vita o sua duplicazione? Fotografia? Scultura? Scienza? Trofeo? Merce? In un’epoca di catastrofico cambiamento climatico e di urbanizzazioni selvagge, affiorano tentativi di resistenza ecologica nel cemento, di arte non istituzionale che si ramifica nei quartieri. La piccola cincia ci obbliga a un punto di vista nuovo. Per farlo si fa gigante e pop, esce dal suo nido – o dal suo deposito – e ci osserva, ma, anche questa volta, a testa in giù”. Insomma, il motivo (fatevene una ragione!) sta nella voglia – attraverso il capovolgimento delle immagini-  di imprimere al gesto artistico, anche nel momento espositivo, un cambio di direzione, una performativa “mutazione”. Siamo di fronte a un’ azione provocatoria. E la storia dell’arte contemporanea non manca certo di “azioni provocatorie”. Giustamente i responsabili di “Opera Viva” ricordano il gesto di Marcel Duchamp (fra i più iconici artisti del secolo scorso, animatore del dadaismo e del surrealismo, nonché del ready-made e dell’assemblaggio) che nel 1917, rovesciando un “orinatoio” lo trasformò nell’opera “Fontana”, firmata con lo pseudonimo “R. Mutt”, mai esposta al pubblico, andata perduta nell’originale, ma di cui esistono ancor oggi, in giro per il mondo, numerose repliche. Azione provocatoria. Per l’appunto. Per l’artista di origini francesi, che certo non mancava di fantasia e di surreale visionarietà, significava la necessità di un cambiamento nei modi di fare arte. E “anche oggi, in Piazza Bottesini si attua – concludono i responsabili – quel gesto di avanguardia, in un mondo nuovo in cui si cerca di esplorare ogni linguaggio, nell’obiettivo ostinato di far congiungere l’arte con la vita”. Tant’é. Osservare con attenzione per credere. E lasciate in pace il povero Luigi l’addetto alle affissioni. Che non ne può niente.

Tutti residenti ed operanti a Torino gli artisti selezionati per “Opera Viva” edizione 2023, dopo Sergio Cascavilla (ospitato il mese scorso) e Gianluca e Massimiliano De Serio, i prossimi appuntamenti saranno con Luigi GariglioTuri RapisardaPierluigi Pusole ed Alessandro Bulgini.

Gianluca e Massimiliano De Serio lavorano insieme come registi e artisti dal ’99. Hanno esordito nel lungometraggio per il cinema con “Sette opere di misericordia” (2011), presentato nel concorso internazionale del “Festival di Locarno”. “I ricordi del fiume” (2015), ha avuto l’anteprima al “Festival di Venezia”, così come l’ultimo lungometraggio di finzione, “Spaccapietre” (2020), unico italiano in concorso alle “Giornate degli Autori”. Protagonisti dei loro lavori, sia nel cinema che nelle installazioni, sono identità sradicate, o identità collettive e interstiziali, in un percorso ibrido tra messa in scena, memoria e performance.

Per info“Flashback Habitat”, tel. 393/6455301 o www.flashback.to.it

Gianni Milani

Nelle foto:

–       Gianluca e Massimiliano De Serio: “Opera Viva”

–       Gianluca e Massimiliano De Serio: “Natura morta”

“La cura” di Battiato diventa un album illustrato

A firma di Sonia Maria Luce Possentini, verrà presentato nel suggestivo Giardino di “Casa Lajolo” a Piossasco

Domenica 16 luglio, ore 18

Piossasco (Torino)

Suggestioni mistiche e filosofiche (“Percorreremo assieme le vie che portano all’essenza”). Suggestioni esotiche (“Vagavo per i campi del Tennessee/ come vi ero arrivato chissà”). Suggestioni oniriche (“Più veloci di aquile i miei sogni/ attraversano il mare”). C’è, in compendio, tutto il modo di fare e concepire musica e testi narrativi, come strumenti terreni in grado di far volare su sù sogni poesia memoria ed emozioni, in quello che può indubbiamente considerarsi il capolavoro musicale di Franco (al secolo FrancescoBattiato, nato a Ionia (oggi Riposto) nel 1945 e scomparso due anni fa sempre nel catanese, a Milo. Parliamo de “La cura”, una delle canzoni più note e amate del grande cantautore (ma anche scrittore, regista, pittore e politico) siciliano. Brano dal significato fra i più controversi della sua discografia, pubblicato nel 1996 all’interno dell’album “L’imboscata” e scritto insieme al filosofo Manlio Sgalambro, la canzone è oggi diventata un album illustrato “dai toni sognanti, intimi e delicati”, grazie ai disegni della reggiana di Canossa, Sonia Maria Luce Possentini, fra i nomi più apprezzati del panorama illustrativo contemporaneo, una cattedra di “Illustrazione” alla “Scuola Internazionale di Comics” di Reggio Emilia e all’“Università degli Studi” di Padova, nonché prestigiosi premi vinti in carriera.

L’opera della Possentini, invariato il titolo “La cura” edita da “Einaudi Ragazzi”, verrà presentata domenica 16 luglioalle 18 (ingresso gratuito), nel giardino “a stanze” della settecentesca “Casa Lajolo” a Piossasco, per la rassegna “Bellezza tra le righe”, inserita nel cartellone di “Luci sui Festival”, attività promossa dal “Salone Internazionale del Libro” per supportare la diffusione e la conoscenza delle realtà legate al mondo della lettura e dei libri. E proprio intorno al concetto di “cura” ruota il cartellone di quest’anno di “Bellezza tra le righe”, dal titolo “Maneggiare con cura. Incontri e letture per mettersi in salvo”. Domande: “Sappiamo curare? Sappiamo curarci? Sappiamo prenderci cura? In che modo?” Dunque, non poteva mancare questo volume illustrato, raffinato, delicato, pensato in realtà per tutti, grandi e piccoli, per scoprire o riscoprire la dedizione e il supporto incondizionati per la persona amata: poesia, colore e passione si uniscono e ne emerge il concetto profondo dell’amore come ‘cura’, verso se stessi, gli altri, la propria anima”.

Pittrice e illustratrice, Sonia Maria Luce Possentini, laureata in “Storia dell’arte” al “Dams” di Bologna, ha ricevuto molteplici riconoscimenti in Italia e all’estero, tra cui il “Premio Andersen 2017” come miglior illustratrice, il “Premio Pippi” e il “Silver Award” all’“Illustration Competition West 49” di Los Angeles.

Ha preso parte a numerose mostre, pubblicato albi illustrati e manifesti. Ha firmato copertine per numerose Case editrici italiane ed estere ed insegna “Illustrazione” alla “Scuola Internazionale di Comics” di Reggio Emilia e all’“Università degli Studi” di Padova. Per “Edizioni Curci” ha illustrato il libro “Fate e fantasmi all’Opera” di Cristina Bersanelli e Gabriele Clima. Non si può non menzionare, nel suo ricco curriculum, il libro scritto con Mario Boccia, lo struggente “La fioraia di Sarajevo”, edito nel 2021 da “Orecchio Acerbo”.

  1. m.

Nelle foto:

–       Una tavola de “La cura”

–       Cover “La cura – Battiato Possentini”, Einaudi Ragazzi

–       Sonia Maria Luce Possentini

“Giuseppe Gabellone. Km 2,6”… di scotch

Ritorna alla “GAM” di Torino, l’artista – scultore e fotografo – brindisino, con un video giovanile, sintesi perfetta dell’intera sua sperimentazione artistica

Fino al 1° ottobre

A 27 anni dalla sua mostra personale (“Campo 6”) ospitata alla “GAM” di Torino, in collaborazione con l’allora neonata “Fondazione Re Rebaudengo”, Giuseppe Gabellone, artista brindisino (oggi residente a Parigi) ritorna, fino al 1° ottobre, negli spazi della “Videoteca” del Museo di via Magenta, presentando il video “Km 2,6”, acquisito dalla “Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT”, assicurando così alla Collezione della “VideotecaGAM” un’opera cardine della stagione artistica degli anni Novanta. Erede fra i più rappresentativi dell’“Arte Povera” e della “scultura post-minimalista” (fra gli studenti –  allievi all’“Accademia” di Bologna e a Brera di Alberto Garutti – che diedero vita a Milano al cosiddetto “Gruppo di via Fiuggi”), Gabellone (classe ’73) ha sempre rincorso sperimentazioni artistiche volte ad indagare la relazione fra “bidimensionalità” e “tridimensionalità”, coniugando in un tutt’uno linguaggi scultorei e fotografici, alla ricerca persistente, come ebbe a scrivere Francesco Bonomi in occasione di una sua personale del 2002 al “Museum of Contemporary Art” di Chicago, di idee che in sé contenessero i concetti di “presenza e assenza”. In quest’ottica si colloca anche “Km 2,6”, il video presentato alla “GAM” e realizzato, in una forma che sta fra l’idea di scultura e la dimensione filmica, nel ’93. Dice bene Elena Volpato, curatrice della mostra: “Il video è una di quelle rare opere che arrivano precocissime nel percorso di un artista eppure sembrano già contenere tutto intero il nucleo del suo pensiero. L’intelligenza che anima quel video si è andata infatti sviluppando con assoluta coerenza, in questi trent’anni, nella varietà dei frutti che va producendo”. Unità di misura lineare, quei “Km 2,6” diventano “misura di durata”.  La lunghezza indicata è quella del nastro adesivo che Gabellone, nel video, va dipanando tutt’attorno ai mobili e agli esterni della sua casa di famiglia in Puglia, fino a inglobare in un’unica “ragnatela scultorea” anche alcuni alberi del giardino. Allo svolgersi dello scotch risponde lo scorrere del nastro magnetico che registra l’opera, traducendo lo spazio in tempo e il tempo in spazio. “Ogni singolo frame del video è in realtà una scultura – ancora la Volpato – e lo è doppiamente per via del monitor, un vecchio ‘hantarex’ il cui utilizzo si andava rarefacendo proprio in quell’inizio degli anni Novanta, ma che per i primi decenni della storia del video d’artista aveva prestato al linguaggio elettronico un volume, da solido minimalista, che sarebbe poi andato perduto nella consuetudine delle proiezioni e degli schermi piatti”.

A completare la rassegna, una serie di 8 fotografie“Untitled”, datate 2009: fotografie di fotografie, immagini di sculture, di paesaggi che contengono sculture e anche cifre pittoriche “nel cromatismo che vira la stampa originale”. Sculture, quelle di Gabellone, “laboriosamente artigianali”, che spesso l’artista distrugge, ad additare l’effimero del reale, non prima di averle debitamente fotografate e quindi esistenti solo in quanto immagini fotografiche. Immagini fisse, drappi in cui si racconta di bambini che ridono all’aria aperta o di “volumi ancorati nello spazio, che al contempo si gonfiano sotto l’azione del vento che le modella come fossero bandiere”. Fra grezze manipolature di materiali di scarto dal legno all’acciaio all’alluminio all’argilla, in una sorta di “trasparenti scatole cinesi – conclude Elena Volpato – che contengono, una dentro l’altra, tutte le discipline artistiche attraversate dal pensiero dell’artista con il piacere di dissolverle una nell’altra, fino a liberare l’immagine come pura forza mentale”.

Gianni Milani

“Giuseppe Gabellone. Km 2,6”

“GAM – Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea”, via Magenta 31; tel. 011/4429518 o www.gamtorino.it

Fino al 1° ottobre

Orari: da mart. a dom. 10/18. Chiuso lunedì

Nelle foto:

–       Giuseppe Gabellone: “Km 2,6”, video, colore, sonoro, 30’, 1993, “Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT”

–       Giuseppe Gabellone: “Untitled”, stampe digitali, 2009, courtesy l’artista e “ZERO…”, Milano

Visita al Castello di Rivoli con Carolyn Christov-Bakargiev

Agnolo Gaddi
Angelo annunciante, Redentore, Vergine annunciata, 1387-1388
tempera e oro su tavola, 100 x 38,5 cm, 98 x 38,3 cm, 100,3 x 38,4 cm
Collezione Fondazione Francesco Federico Cerruti per l’Arte
deposito a lungo termine Castello di Rivoli, Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino
L’Esperienza dell’Arte

Carolyn Christov-Bakargiev, Essere riservati. L’immortalità attraverso l’immortalità della propria collezione. Dalla precisione alla perfezione

giovedì 13 luglio 2023, ore 18.00* – 19.30
Villa Cerruti, Sala delle Orchidee

Il 13 luglio 2023, dalle 18.00 alle 19.30, Carolyn Christov-Bakargiev, Direttore del Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea e della Fondazione Cerruti, guiderà il pubblico in una visita speciale alla scoperta dei segreti di Francesco Federico Cerruti e della sua raccolta d’arte e oggetti preziosi. Il rapporto privilegiato del collezionista con il libro e la legatura sarà affrontato esaminando un’importante opera della collezione: le cuspidi raffiguranti l’Angelo annunciante, il Redentore e la Vergine annunciata, 1387-1388, del pittore fiorentino Agnolo Gaddi.

* Il biglietto va ritirato entro le ore 17.45 presso la Biglietteria del Castello di Rivoli
La conferenza, per un numero massimo di 16 persone, si tiene nella Sala delle Orchidee di Villa Cerruti e comprende una visita speciale alla Villa.
È necessaria la prenotazione alla pagina https://www.castellodirivoli.org/tickets/#
Il costo del biglietto intero è di € 26,50; biglietto ridotto € 19,50 (giornalisti, gruppi da 3 o più persone, Abbonamento Musei Piemonte Valle d’Aosta); € 10,00 per studenti universitari fino a 26 anni e istituzioni equiparate.
Il biglietto è comprensivo dell’ingresso al Castello di Rivoli che potrà essere visitato nella stessa giornata, prima dell’incontro. Il Museo chiude alle ore 17.30, ma è possibile recarsi in Biglietteria nella Manica Lunga fino alle ore 17.45.
La navetta di collegamento alla Collezione Cerruti parte alle ore 17.55 dal piazzale antistante al Castello di Rivoli.
Per il ritiro del biglietto è necessario recarsi alla Biglietteria del Castello di Rivoli almeno 15 minuti prima della partenza della navetta.

Carolyn Christov-Bakargiev

Scrittore, storico dell’arte e curatore. Attualmente è Direttore del Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea e della Fondazione Francesco Federico Cerruti per l’Arte, Rivoli-Torino. Nel 2019 ha ricevuto l’Audrey Irmas Award for Curatorial Excellence. È stata Edith Kreeger Wolf Distinguished Visiting Professor in Art Theory and Practice alla Northwestern University, Chicago (2013-2019). È stata Direttore Artistico della Biennale di Sydney nel 2008, di dOCUMENTA (13) a Kassel, Banff, Alessandria-Cairo e Bamiyan-Kabul nel 2012 e della Biennale di Istanbul nel 2015. Fra le sue maggiori pubblicazioni: Arte Povera (Londra 1999).

Hector ‘Mono’ Carrasco, arte e militanza dal Cile al Monferrato

Hector ‘Mono’ Carrasco è un talento artistico di caratura internazionale grafico, muralista, scrittore – che ha scelto come propria residenza la frazione Cantavenna di Gabiano Monferrato in Valcerrina. Ma ha anche un passato di militanza politica che lo ha costretto nel lontano 1974 a fuggire dal natio Cile dopo il colpo di stato dei militari di Augusto Pinochet che scalzò Salvador Allende, il medico/presidente che era stato eletto in una regolare consultazione sostenuto da Unidad Popular. Carrasco, sempre molto attivo sul piano artistico, intellettuale e sociale, ha raccolto le sue esperienze in un libro, ‘Cile Italia, sola andata – Storia di un profugo cileno’ edito per i tipi di FuoriAsse’. Domenica, alle ore 18.30, l’autore lo presenterà nella rassegna ‘Aperitivo d’autore’ al circolo Il Cortiletto di Villadeati, dialogando con la presidente Nicoletta Piazzo. L’evento segue la ‘prima’ al Circolo dei Lettori di Torino davanti a un pubblico numeroso (“quando sono entrato nella sala e ho visto così tanta gente ho avuto un momento di emozione anche se sono abituato a non esternare i miei sentimenti, retaggio del periodo di clandestinità prima di uscire dal Cile, perché se trovavi per strada un compagno o una compagna dovevi fare finta di niente, avresti potuto mettere a repentaglio la sua o la tua vita” dice Carrasco), poi ad Alessandria al circolo Luigi Longo. Il libro, come spiega ‘Mono’ era già pronto da oltre un anno ma ha preferito l’uscita nel 2023 perché ricorrendo i 50 anni del Golpe con l’assalto alla Moneda, il palazzo presidenziale e l’inizio della dittatura militare, avrebbe potuto essere presentato in diverse manifestazioni di memoria dell’evento. Il testo è introdotto da un prologo di rilievo, quello del presidente del Cile, Gabriel Boric Font. “Non lo conosco di persone, l’avevo mandato alla presidenza se fosse stato interessante, mi è stato risposto di mandarlo anche se ancora in bozza e non importava se il testo fosse in italiano. Poi è arrivato il contributo del presidente che l’ha certamente letto, come ho potuto capire dai particolari che ha ripreso” dice Carrasco. E di Boric Font, capo dello Stato e 38 anni, ricorda un gesto altamente emblematico: “Il giorno del suo insediamento, prima di andare alla Moneda, rompendo il protocollo, si è diretto verso la statua di Allende e gli ha reso omaggio, momento toccante e significativo”.

Il libro, però, non è incentrato interamente su Allende e sull’esperienza ma è, da un lato uno spaccato sulla società cilena dell’epoca, sulle innovazioni introdotte da Allende e da Unidad Popular, sulla vita di ‘Mono’ in Italia e sulle sue esperienze artistiche ed umane e gli incontri maturati nei cinquanta anni da quel tragico giorno. Così si va dall’ingresso nella Gioventù Comunista, alla storia della Brigada Ramona Parra, a Victor Jara che fu barbaramente trucidato nei giorni del Golpe, alla figura dell’artista italo-cileno di fama mondiale Roberto Sebastian Matta che stupì tutti volendo unirsi ai muralisti della Brigada Parra, ai murales fatti ed apprezzati in tutta Italia (ed anche in Monferrato, naturalmente), e nel Cile sua Patria di origine, ma non solo. La presentazione letteraria è in parallelo alla mostra di ‘Mono’ Carrasco, inaugurata la scorsa settimana nella chiesa di San Remiglio, sempre a Villadeati, che rimane aperta sabato e domenica 15 e 16 luglio, dalle 17 alle 22.

Massimo Iaretti

Nella mente di Bessoni: La Mole delle Meraviglie


Un consiglio su una delle mostre più bizzarre da vedere a Torino

Sotto questo cielo azzurro terso, la Mole si staglia netta, come disegnata. Guardarla da sottinsù, intanto che percorro via Montebello, è sempre una sensazione che mi piace: tutti i dettagli architettonici, la peculiare curvatura della cupola e quella punta che pare allungarsi a seconda del punto di osservazione sono particolari che costantemente mi affascinano .
Eppure oggi -per me- l’edificio ha un valore aggiunto, perché si è fatto scrigno di un evento che reputo davvero importante, e proprio non potevo non parteciparvi.
Dal 10 maggio fino all’ 11 settembre 2023, il simbolo dello skyline torinese si trasforma in una gigantesca “Wunderkammer”, un’insospettabile “camera delle meraviglie” nel centro della città, ricolma di “puppets” realizzati per la tecnica dello “stop-motion”, scheletri, animali tassidermizzati, conchiglie e preparati zoologici provenienti dalle collezioni naturalistiche del Liceo Classico e Linguistico “V. Gioberti” di Torino, nonché busti frenologici francesi, compassi antropometrici, modelli didattici sull’anatomia, antiche fotografie identificative di criminali delle collezioni Nautilus e un’elaborazione grafica dei disegni originali di uomini tatuati conservati presso l’Archivio del Museo di Antropologia criminale “Cesare Lombroso”.
Il subconscio di Stefano Bessoni si è raccolto, ha preso vita e ha conquistato la Mole Antonelliana.
Mi distolgono per un attimo dai miei pensieri le voci circostanti, la calura estiva non ferma nè i Torinesi, nè tantomeno i turisti, dall’andarsene in giro per le strade accaldate, oltrepasso qualche gruppo di stranieri fino all’ingresso del Museo del Cinema, stranamente senza trovarvi coda. Chiedo informazioni, una ragazza gentilmente mi indica il percorso e dopo aver seguito le sue indicazioni mi ritrovo immersa nella preziosa esposizione titolata “La Mole delle Meraviglie”, curata da Stefano Bessoni e Domenico De Gaetano.
Voi, cari lettori, non lo sapete, ma il Signor Bessoni, genio creativo e talentuoso, animatore, regista e illustratore, è per me un irremovibile punto di riferimento, uno di quegli artisti “preferiti” la cui ricerca artistica ha segnato nel profondo la mia personale curiosità e mi ha portato ad approfondire specifiche tematiche, come i film sperimentali, la tecnica dello “stop-motion” o ciò che viene definito in ambito artistico-letterario “grottesco”.
Di questo ravvisabile autore ho da sempre apprezzato in principal modo il suo sguardo sul mondo, a metà tra il fantasioso e lo scientifico, tra l’orrorifico e il fiabesco, tra il gioco e la malinconia.
È proprio in questa difficilmente identificabile dimensione che le sue creature prendono vita, sia che si tratti di illustrazioni che di “puppets”, le sue figure sono complesse e ambigue, hanno l’aura di giocattoli abbandonati, sembrano automi sottoposti a sortilegi, sono tutti personaggi sotterranei che per sbaglio hanno perso la bussola.
Mi prendo tutto il tempo necessario e mi perdo tra i disegni a matita, gli acquerelli e i modelli in plastilina imprigionati nelle teche.
È la prima grande mostra che viene dedicata a Stefano Bessoni, sono esposte oltre 150 opere, quasi tutte provenienti dall’archivio privato dello stesso autore e dalla collezione del Museo Nazionale del Cinema; i lavori, opportunamente presentati, raccontano gli ambiti in cui si muove la ricerca espressiva dell’artista e ne delucidano il taglio creativo.
L’autore, classe 1965, crede nel cinema come forma espressiva e nella politica d’autore, ha ottenuto numerosi premi in festival nazionali e internazionali, le storie che racconta le illustra e le racchiude in preziosi libri illustrati, realizza altresì dei lungometraggi come “Frammenti di scienze inesatte”, “Imago Mortis” e “Krokodyle”. Lui stesso ci indica chi sono i suoi punti di riferimento: Peter Greenaway e Jan Švankmajer.
Ad oggi coordina il corso di illustrazione e animazione allo IED di Roma, a Torino invece, presso la Scuola Holden, tiene un corso di alta specializzazione di “puppet making” e animazione “stop-motion”. Ultimamente si dedica all’allevamento di coleotteri giganti tropicali.
Ora che abbiamo inquadrato il personaggio, lasciate, cari lettori, che vi spieghi più nel dettaglio che cos’è visibile in questa preziosa e bislacca mostra.
Tutto parte dal concetto di “Wunderkammer”, termine tedesco traducibile con “camera delle meraviglie”. Si tratta di raccolte private, costituite da oggetti e reperti naturali, presenti nelle corti cinquecentesche o nelle chiese. Degli antichi musei “in nuce”, queste collezioni si basano sull’interesse del collezionare e del raccogliere, interesse che talvolta rasenta l’ossessione. All’interno di questi “gabinetti delle curiosità” si trovavano principalmente stranezze e manufatti strabilianti, affiancati da oggetti naturali. Le wunderkammer si esauriscono con l’avvento dell’Illuminismo e il trionfo della razionalità, eppure sopravvivono tutt’oggi in ambito artistico, come dimostrano le opere di Joseph Cornell, André Breton o Kurt Schwitters. E come dimostra anche l’opera di Bessoni di cui ci stiamo occupando.
Il percorso espositivo si dirama a partire da cinque figure: Antonelli, Prolo, Darwin, Lombroso e Greenaway. Tali personaggi, vissuti in epoche, diverse si trovano qui uniti dal “fil rouge” della medesima vocazione, quella di raccogliere e catalogare oggetti e idee, come lo stesso Bessoni peraltro. L’autore rilegge e reinterpreta attraverso il suo sguardo sia i medesimi personaggi sia le loro opere, nascono così burattini sproporzionati e sagome sbilenche, alcune realizzate a matita, altre invece in plastilina e stoffa.
E così Antonelli si tramuta in un vecchietto scheletrico, arrampicato come King-Kong proprio alla “sua” Mole, Lombroso pare un pingue pupazzo di gommapiuma, morbido e polveroso, nascosto tra crani spaccati e modellini anatomici, mentre la Prolo è raffigurata come una delicata anima malinconica, allungata ed elegante, intellettualmente mimetizzata tra gli oggetti di una scrivania.
Ma la mente di Bessoni non si limita a rileggere i fatti reali, lo dimostrano i numerosi personaggi letterari appesi alle pareti: tra cui spiccano i protagonisti del Mago di Oz, Alice nel Paese delle Meraviglie, Pinocchio, Spoon, i personaggi de “ I Canti della Forca” e tanti altri. Ovviamente non dovete immaginarvi le solite raffigurazioni, piuttosto, in questo mondo all’incontrario, il burattino bugiardo è un automa scheletrico, mentre la Fata Turchina è una ragazzina pallida e mortifera, il cui aspetto lugubre è segnato dai crespi capelli azzurri che arrivano fino alla fine della pagina illustrata; stesso filtro vittoriano per i personaggi di Alice, ora decisamente meno disneyani e più burtoniani, definiti da sguardi conturbanti, frecce che insanguinano le carte di cuori e il Bianconiglio ridotto ad un Arlecchino animalesco di cui rimane solo lo scheletro.
Questo è il magico mondo di Bessoni, una interminabile fiaba macabra che tuttavia ci parla del diverso, ci avvicina a ciò che non capiamo, con l’inganno ci incuriosisce verso tematiche che non avremmo mai approfondito.
Da sempre ho stimato l’opera di questo autore, perché egli racconta l’inclusione, spiega come abbattere i pregiudizi, insegna l’accettazione, e lo fa con una magia delicata, creando personaggi malconci e trasandati, pur tuttavia saggi e profondi, personaggi a cui non ti puoi non affezionare.
Ecco, questa è la mia piccola mostra preferita dell’anno, vi consiglio vivamente di farci un giro e farvi prendere in ostaggio dalle teche luminose, vi auguro di perdervi in quella fantasia sotterranea e di riuscire ad accettare tali mirabolanti rielaborazioni.
Pensateci: c’è l’aria condizionata e l’esposizione è gratuita.

ALESSIA CAGNOTTO

 

Sicily in Decay, le fotografie di Carlo Arancio

Intervista di Laura Goria

Avventurarsi in palazzi abbandonati e scrostati dall’incuria, contrastare l’inesorabile incombere del tempo fermando in immagini quello che sopravvive, raccontare emozioni e fascino.

E’ quello che fa Carlo Arancio, giovane prodigio siciliano, nato a Catania il 20 marzo 1992, studi di architettura, fotografo di sensibilità e talento, esploratore dell’anima di edifici lasciati a se stessi.

Immortala tracce di fasti e vite passate, entra con passo felpato nei mille misteri appannati dall’abbandono.

Ed è talmente bravo che ha vinto gli ND Awards 2020, contest internazionale, come migliore fotografo non professionista nella sezione architettura d’interni.

Se visitate la sua pagina social Sicily_ in_ Decay… scoprirete la bellezza, la magia e il significato più profondo delle magnifiche foto che scatta in ville, chiese e palazzi fatiscenti.

Il passo successivo è scorrere il volume della sua prima mostra personale a Catania “Sicily in Decay. Serie Biscari e serie Scammacca”.

Libro pregiato che raccoglie gli scatti dell’allestimento aperto al pubblico dal dicembre 2020 ad aprile 2021 in due location poco distanti una dall’altra. A Palazzo Biscari nella parte adibita a co-working e nel piano nobile di Palazzo Scammacca, luogo restaurato dopo anni di decadenza ed ora aperto al pubblico come spazio espositivo.

Il libro è acquistabile sul suo sito e…istruzioni per l’uso… va consultato ripetutamente, con calma, scoprendo ogni volta qualche dettaglio in più. Perché, come ci ha raccontato, il suo non è semplicemente addentrarsi in luoghi massacrati dall’incuria.

 

Definirla urbex, dalla fusione di urban ed exploration, è corretto?

Il termine va preso con le molle perché è un calderone enorme che include più attività. C’è chi come me fa ricerca seria, con professionalità e rispetto dei luoghi.

Ma urbex sono anche gli youtuber e alcuni di loro riprendono con i video, senza alcun rispetto. Inseguono la visibilità, scambiano indirizzi come fossero figurine dei calciatori e non considerano che rivelare l’ubicazione di quei luoghi così fragili apre la strada a tutti, con conseguenze devastanti.

Urbex è pure chi fa graffiti nelle fabbriche, chi si arrampica ovunque per il brivido dell’altezza, chi va a caccia di fantasmi con attrezzature da ghostbusters.

Tutte attività dalle quali prendo le distanze.

Perché proprio gli edifici abbandonati?

Intorno ai 15-16 anni mi intrufolavo in una villa, per me rimasta la più bella e insuperabile. Amavo passeggiare nelle sale, guardare le pitture virtuosissime, colorate e decadenti. Mi piaceva stare lì da solo, percepirne l’atmosfera, pensare al senso del tempo e alla bellezza dell’edificio. Crescendo poi la passione per l’architettura e la storia della mia isola hanno determinato la scelta dell’università.

L’idea di fotografarli quando è nata? E perché non dipingerli o scriverne?

Parecchi anni dopo ho rivisitato quella villa in seguito a un terremoto: oltre la metà delle sale era crollata. Rimasi malissimo anche perché alcune non le ricordavo bene. Da quel momento ho iniziato a fotografarle, dapprima col telefonino, come appunto visivo; a volte facevo anche dei disegni, piccoli rilievi dimensionali dell’edificio, annotavo curiosità.

La fotografia cristallizza un attimo, un luogo, ed è un modo giusto di rappresentare il tutto. Preferisco le inquadrature grandangolari per racchiudere in un’immagine sola l’identità di un ambiente. La foto è più veritiera del disegno; più discreta di un video dove si può lasciare trapelare troppo. Voglio che i luoghi che racconto restino anonimi più possibile. Io ho intenti buoni; altre persone invece li cercano per depredarli o vandalizzarli.

Il suo incontro con la macchina fotografica?

Studiavo in Francia e fotografavo ancora con il telefono; c’era l’idea di acquistarne una e mi servivano soprattutto delle lenti grandangolari da usare per l’architettura. Le trovai a prezzo vantaggioso su una bancarella a Barcellona dove ero per uno scambio culturale tra università, le comprai senza neanche avere una Reflex. La settimana dopo lavorai con una fotografa francese che alla fine mi regalò una delle sue 3 macchine, vecchia di una quindicina di anni, ma con l’attacco per la lente che avevo. E’ da allora che non mi sono più separato da una macchina fotografica.

Ricorda la sua prima emozione? Da allora sono sempre le stesse, oppure è diverso?

La prima fu di grande stupore: a bocca aperta, col naso all’insù, guardando le volte dipinte. Emozioni che ho provato altre volte e in altri luoghi: perdere un po’ il senso del tempo, passare tantissime ore in quei luoghi e quasi non accorgersene.

Ogni luogo ha il suo carattere, la sua intimità, non c’è una risposta generica. Alcuni mi hanno emozionato anche se privi di interesse fotografico; altri bellissimi, mi hanno toccato poco.

Lei vanta collaborazioni prestigiose con fotografi famosi, ce le racconta?

La più importante è stata con Thomas Jorion, fotografo francese che scatta con un banco ottico e fa quello che faccio io ma in maniera molto più complessa. Dopo un servizio sul mio lavoro nel Tg nazionale, mi ha cercato in facoltà e chiesto di collaborare con lui. Di solito non si regala il proprio lavoro di ricerca; ma in questo caso ho riconosciuto la sua grande professionalità e bravura. E’ stato uno scambio quasi equo perché grazie alla sua notorietà abbiamo ottenuto autorizzazioni per accedere a luoghi che mi erano stati negati.

Cosa ha imparato da lui?

Insieme siamo entrati in più di una quindicina di edifici ed è stato molto formativo osservarlo fotografare; ha un’attrezzatura complicatissima, ma che permette la miglior resa possibile. Scatta con un banco ottico, una fotografia di altri tempi, utilizzando delle lastre su cui poi resta impressa l’immagine. L’ho studiato sperando di apprendere e ho imparato un bel po’ di cose.

C’è un criterio in base al quale sceglie le sue destinazioni oggi?

Occorre un notevole studio sul territorio. Cerco luoghi che abbiano un pregio artistico, una bellezza fragile di cui custodire memoria. Non sempre è facile giudicare dalla copertina. Per esempio in Sicilia la pittura non era solo nelle case dei nobili, ma anche in quelle borghesi e addirittura in qualche masseria che sembra non avere alcun valore, ma in realtà può nascondere un dipinto importante all’interno. Difficile sapere prima di un sopralluogo quello che si troverà.

Le è capitato di entrare in immobili che poi ha deciso di non fotografare?

Tantissime volte: i primi tempi fotografavo molti palmenti, vasche e botti usate per il vino che erano specchio della cultura locale. Poi ho smesso perché erano troppi. Se invece ci sono pitture pregiate condannate dallo scorrere del tempo mi premuro di fotografarle prima possibile.

Il suo principale campo di azione è la Sicilia, quanto è forte il legame con la sua terra?

Molto profondo, anche se dolce-amaro, e credo che la chiamata sia legata alla mia isola. Ho fotografato altri luoghi nel resto di Italia, in Francia, Belgio e Spagna, ma raramente pubblico quelle immagini perché lì è una tipologia di ricerca fotografica già sviluppata da circa 30 anni. Spesso sai prima cosa trovi ed è più una visita quasi turistica. Invece quando racconto luoghi scoperti ex novo da me dal punto di vista fotografico è molto più emozionante.

Mi appassiona di più una masseria vuota con 4 stucchi e 2 pitture che raccontano l’identità della mia terra. Amo i materiali come la pietra, lavica o arenaria, il legno; parlano il linguaggio della mia anima, anche se meno pregiati di boiserie e ferro battuto di uno Château francese abbandonato.

In Sicilia quanto è forte la sensibilità per queste meraviglie?

Argomento delicato, difficile generalizzare. Il patrimonio Siciliano è immenso, per fotografarlo tutto non basterà una vita. In alcune provincie la sensibilità è maggiore e nascono associazioni per tutelare i luoghi, in altre sono totalmente abbandonati. Determinante è il contesto in cui si trovano. Una masseria decorata e con una bella storia, ma spersa nel nulla, priva di impianti di urbanizzazione primaria e difficilmente raggiungibile in macchina, aveva senso nella sua epoca storica, oggi non più. Molti di questi edifici erano costruiti a scopo di rappresentanza sul territorio del potere della famiglia, che vi abitava stagionalmente. Oggi i costi per mantenerli sono proibitivi.

Quanti immobili abbandonati ha visitato e fotografato? In quanti conta di avventurarsi ancora?

Non sono neanche a un terzo dell’opera, molti più di 500. Spesso sono inaccessibili e per le autorizzazioni occorrono anni. C’è un palazzo bellissimo che sognavo di fotografare senza mai averne ottenuto l’autorizzazione. Ora è crollato e sono riuscito ad entrare da una breccia nel muro, ma non resta assolutamente nulla. Non arrivare in tempo mi fa stare male, però ho dovuto accettare che anche questi luoghi abbiano un triste destino. Mi arrabbio di più quando sono in centri dove potrebbero rinascere.

Predilige alcune case? E su quali dettagli tende a soffermarsi di più?

Non ho una propensione particolare per alcuni edifici rispetto ad altri, però preferisco certi elementi architettonici e ho quasi un feticismo per le alcove. Poi per le stanze di rappresentanza, saloni e sale da pranzo. C’era l’usanza di disegnare piccole vedute, di fantasia oppure reali e legate ai viaggi fatti dalla famiglia. In una villa i proprietari avevano avuto rapporti commerciali con Roma e sopravvivono vedute della città eterna, ed è riconoscibile Castel Sant’Angelo.

I mobili in Sicilia sono più difficili da trovare, spesso sono stati saccheggiati molto prima del mio arrivo; a meno che gli edifici non siano in luoghi difficilmente raggiungibili e sia impossibile un trasloco illecito.

Quando entra, per esempio in una villa nobiliare, immagina il passato e l’anima di quel luogo? Le vite che quelle mura potrebbero raccontare: nascite, liti, amori, tradimenti, morti….?

Certo e quando è possibile faccio anche ricerche, informandomi se c’è una letteratura al riguardo, parlando con la gente del luogo, sulla storia della nascita e della vita di quell’edificio, considerando che spesso la parte finale sono io a raccontarla attraverso le immagini. Tutto quello che c’è prima è un lavoro di ricerca e anche di sensazioni.

Cosa le suggerisce il senso di precarietà di grandi fortune poi crollate come i palazzi?

A volte mi sento piccolo come una formichina di passaggio, perché i tempi dell’uomo sono minuscoli riferiti a quelli dell’architettura che svela anche le storie dei vari gattopardi.

Famiglie nobiliari siciliane che per generazioni hanno gestito potere e patrimoni immensi, poi si sono frammentate.

Recentemente ho fotografato un edificio legato alla famiglia di Giovanni Verga. Nella piazza del paese questo palazzo blasonato è superato in altezza da quello degli imprenditori che si sono arricchiti commerciando i beni che la famiglia nobile produceva. Il confronto tra le due proprietà, con la seconda che sottolinea la sua superiorità, racconta perfettamente le svolte della storia, della società e le alterne fortune. Osservando l’architettura si può scoprire la storia del luogo.

Oggi le saghe familiari incantano, ha mai pensato di raccontare il passato di quello che fotografa anche con le parole?

Si e ci sto lavorando. Attraverso i lasciti architettonici dei patrimoni ho fatto una cernita di edifici che si prestano a raccontare la storia di famiglie che hanno fatto la storia dell’isola. C’è anche la prima dimora dei Florio di cui nel catalogo mostro un’alcova. Sto seguendo il cantiere di restauro dell’edificio, fatto rispettandone la natura e senza badare a spese, lasciandone intatte l’identità e la storia. Dietro le pitture ho potuto scoprire che c’è molto altro da raccontare, ma non anticipo di più.

Il suo lavoro può essere letto anche come una sorta di denuncia contro l’abbandono; è capitato che abbia sortito effetti positivi e richiamato maggiore attenzione?

Argomento delicato. Fotografo sempre in modo anonimo, proprio per tutelare i luoghi che scopro. Ma può anche accadere come durante la mostra a Catania dove si è presentato il proprietario di un immobile che avevo ritratto. Era stato vandalizzato con graffiti in acrilico che impediscono il recupero dell’originaria pittura a tempera, e lui voleva utilizzare le mie foto per un restauro coerente. E’ stata una della mie soddisfazioni più grandi.

Quando entra in questi edifici, oltre a curiosità e rispetto, vive altri stati d’animo?

Anche la paura è un elemento presente; da non sottovalutare ma sfruttare per essere più possibile discreti e prendere le opportune precauzioni. Come valutare lo stato dei solai per il rischio di crolli. Alcuni luoghi poi sono terreno fertile per dinamiche poco legali, dove è bene non trovarsi: il classico posto sbagliato al momento sbagliato. Bisogna fare sempre molta attenzione.

Non credo ai fantasmi, ma penso che le case abbiano una sorta di anima, tracce invisibili di chi ci ha vissuto…lei che ne pensa?

Più che altro una sorta di energia. Ci sono luoghi in cui ho avvertito quasi un invito a fotografarli, non dico mi stessero aspettando, però si prestavano. Altri, invece, tra difficoltà di luce o semplicemente per sensazioni, ho scelto di non raccontarli. Da un lato mi piace pensare che fossero proprio loro a non voler essere fotografati. Per esempio, ho esplorato un edificio dal vissuto molto pesante: un orfanotrofio dove c’è una cappella nella quale, stranamente, e non sono l’unico a cui è capitato, è quasi impossibile fare foto decenti. Ecco un luogo respingente che secondo me non vuole essere raccontato e lo dice a gran voce.

 

L’ iter corretto da seguire per accedere agli edifici, anche in quelli che non hanno più proprietari?

Un’attività fotografica del genere è sul filo del limes tra legale e illegale; è anche vero che se si è rispettosi e si mostra la migliore delle intenzioni è difficile avere problemi. Se possibile è meglio avere un’autorizzazione; perché anche quando il bene è totalmente abbandonato da decenni, sulla carta esiste sempre una proprietà. Nel mio lavoro poi esistono attenuanti, come la mancanza di recinzioni o cartelli di proprietà privata. Dal punto di vista legale se mai dovesse cadermi una tegola in testa, teoricamente la colpa è anche del proprietario che non ha messo in sicurezza il bene. Bisogna essere accorti perché si sta entrando in una proprietà che non è di tutti.

Dovesse raccontarsi …chi è Carlo Arancio?

Una persona curiosa alla quale piace andare al di là delle superfici. Amo i segni del tempo, li ricerco, e non solo perché per me l’architettura è un’arte che si nutre di tutte le altre. Raccontare questi luoghi è anche rappresentare il meglio del lato umano dal punto della produzione artistica.

Quando non esplora e fotografa cosa ama fare: i suoi interessi, hobby?

In realtà la mia attività mi totalizza, un po’ una missione di vita. Il cibo della mia anima.

Le difficoltà maggiori incontrate nel suo cammino professionale?

Ho faticato nel proporre le mie esposizioni proprio in Sicilia dove c’è un certo disinteresse e non mi si prendeva sul serio. Ora ho notato che chi acquista una mia fotografia ha una certa sensibilità ma, a parte le dovute eccezioni, generalmente non è siciliano, o è un architetto.

Lei è giovanissimo, tra 30 anni dove e come si immagina?

Sognando vorrei comprare un giorno una villa di quelle che fotografo, trasformarla in residenza e luogo per eventi culturali. A chiamarmi è soprattutto la fotografia di architettura: quella dell’abbandono mi tocca più nel profondo dell’anima, però mi piace anche quando è viva e ben tenuta. Ho un archivio di palazzi bellissimi, non lasciati a se stessi, ed è un onore poterli raccontare

Mi piacerebbe anche vivere all’estero, magari in Francia paese che amo. Con le mie foto vorrei sempre essere un po’ ambasciatore della cultura siciliana, portarla oltreconfine.

Cose per cui vale la pena fare il suo lavoro?

Gli incontri: quando c’è passione e serietà il mio lavoro avvicina persone di sensibilità simile, crea legami e amicizie bellissime con persone affini. Poi è senza prezzo vedere chi si emoziona davanti a una mia foto. Il ritorno più bello è quello umano.

L’edificio che desidera visitare più di ogni altro e non necessariamente in Sicilia?

Soprattutto due per i quali è impossibile ottenere le autorizzazioni. Uno è siciliano, chiuso e guardianato, con all’interno tesori meravigliosi. L’altro è in Toscana, il castello di Sammezzano, credo unico al mondo. E’ l’opera di un nobile che ha speso tutta la vita per costruire questa reggia infinita, in stile moresco, con sale decorate in modo incredibile. Un luogo che mi fa sognare. Va spesso all’asta ma, per l’enorme impegno economico che richiederebbe, sono sempre deserte.

Cosa non ho chiesto ma le preme dire?

In Sicilia l’attività di esplorazione dei luoghi abbandonati non è ancora massificata come in Francia e Belgio, culle di questa pratica. Ma è bene non lasciarsi prendere dalla febbre dell’esplorazione; ci sono limiti da non superare mai, come sfondare una porta chiusa. Una volta che si sottraggono questi luoghi all’oblio, li si espone a rischi, a dinamiche errate e rovinose.

Al momento a cosa sta lavorando?

A San Vito Lo Capo sto esponendo in uno spazio un po’ atipico: una casa di pescatori, mantenuta decadente, trasformata in enoteca, arredata con gli oggetti dei pescatori che erano al suo interno.

 

Per scoprire il lavoro di Carlo Arancio e il libro potete consultare il sito

www.sicilyindecay.com

 

Per le foto al Winners Awards 2020 il link del Contest:

https://ndawards.net/winners-gallery/nd-awards-2020/non-professional/interior/812/gold-award/

Al Mao thefutureisNOW? #4

performance di Silvia Calderoni + Ilenia Caleo

dall’azione Zen for Head di Nam June Paik (1962)

venerdì 7 luglio 2023 ore 19

@ Terrazza del museo

MAO Museo d’Arte Orientale, Torino

Il MAO è lieto di ospitare venerdì 7 luglio alle ore 19 la performance thefutureisNOW? #4, di Silvia Calderoni e Ilenia Caleo.

ThefutureisNOW? prende avvio dall’azione Zen for Head di Nam June Paik (1962), durante la quale l’artista immerse i capelli in un secchio di inchiostro di china e procedette a tracciare una linea, spostandosi carponi sul pavimento, lasciando poi l’opera aperta a chiunque volesse riprodurla.

Calderoni e Caleo partono da qui, dal gesto corporeo e dalla sostanza liquida, per tradurre la performance di Paik in indicazioni precise che prevedono un lavoro sulla materia, sulla traccia (e sulle tracce), sul corpo nella sua presenza e nella sua dinamica fisica, e infine sulla durata, intesa come temporalità concreta che si esaurisce e si consuma.

Il reenactment dell’azione performativa di Nam June Paik diventa cerimonia rituale, un gesto interpretato dalle due artiste in forma di scrittura vivente, fatta di liquidi vivi, di bioluminescenza, di corpi-batteri, di bioscritture, di tracce che talvolta, come accade con le sostanze inquinanti, tossiche e corrosive, sono destinate a permanere e a lasciare segni visibili.

La performance che Silvia Calderoni e Ilenia Caleo proporranno al MAO rilegge le precedenti versioni dell’azione presentate fra gli altri a Pirelli Hangar Bicocca, Milano, e a Gaswork, Londra, ed è un’anticipazione di quanto le artiste porteranno a Shanghai in occasione della tappa cinese del progetto Flu水o (Fluxo).

Ingresso 5€. I biglietti sono disponibili presso la biglietteria del museo e su Ticketone (con prevendita +1€).

BIO

Calderoni-Caleo si incontrano nel 2012 al Teatro Valle Occupato in Animale politico project di Motus e iniziano un progetto comune tra residenze artistiche, atelier di ricerca e performance. Dal 2018 sono docenti allo IUAV di Venezia. Nel 2019, danno vita a KISS, spettacolo con 23 performer. Per la Queering Platform di Hong Kong curano il progetto nomade SO IT IS. Nel 2022 realizzano l’installazione Pick Pocket Paradise per il Castello di Rivoli – Museo di arte contemporanea (Torino). Sono advisor al Padiglione Italia – Biennale Architettura 2023.

Silvia Calderoni è attrice, performer e autrice. Si forma artisticamente con il Teatro della Valdoca e dal 2006 fa parte della compagnia Motus. Al cinema è protagonista di La leggenda di Kaspar Hauser (2012) di Davide Manuli e Moonbird2 (2022) di Rä Di Martino. Dal 2023 è consulente artistica di Sherocco Festival (Ostuni).

Ilenia Caleo è performer, attivista e ricercatrice. Filosofa di formazione, si occupa di corporeità, epistemologie femministe e forme del lavoro culturale. Lavora come dramaturg, ha pubblicato: Performance, materia, affetti. Una cartografia femminista (2021); In fiamme. La performance nello spazio delle lotte 1967/1979 (2021). Attivista nei movimenti dei commons e queer-femministi, è cresciuta politicamente e artisticamente nella scena dei centri sociali.

Art Nouveau Week  tra Torino e Biella

Giunta alla quinta edizione e quest’anno presente a Torino con un ricco e vario programma di
appuntamenti, Art Nouveau Week 2023 si prepara ad accogliere centinaia di partecipanti iscritti alle
dieci iniziative previste nel capoluogo subalpino e ai due inconsueti itinerari guidati in programma a
Biella, che per la prima volta partecipa alla manifestazione internazionale ideata e curata dal
presidente di Italia Liberty, Andrea Speziali, e organizzata dal suo staff dall’8 al 14 luglio di ogni
anno.

L’edizione torinese si avvale del Patrocinio della Città di Torino e della collaborazione con il
Conservatorio Statale di Musica “G. Verdi”, il Centro Culturale “M. Pannunzio”, la Fondazione “T.
di Barolo” – MUSLI e Daniela Piazza Editore. Mentre quella biellese si avvale del Patrocinio della
Città di Biella e della collaborazione con l’Archivio di Stato di Biella, la Fondazione Cassa di
Risparmio di Biella e il DocBi – Centro Studi Biellesi.

Da tempo sono esauriti i posti per la conferenza-concerto inaugurale di pianoforte e arpa su note Art
Nouveau che si terrà l’8 luglio presso il Conservatorio Statale “G. Verdi” di Torino, dove gli
intervenuti avranno anche il privilegio di visitare la straordinaria Galleria degli Strumenti, prezioso
documento della vita musicale della Città e della storia del Conservatorio. La collezione conta 156
esemplari firmati da grandi nomi della liuteria piemontese e celebri costruttori di strumenti a fiato
subalpini e, tra i suoi molti gioielli, vanta lo Stradivari Mond del 1709 appartenuto alla celeberrima
violinista torinese Teresina Tua, educatasi al Conservatorio di Parigi, vincitrice a quattordici anni del
Grand Prix bandito nella capitale francese, elogiata da Verdi, Liszt e Wagner, insegnante presso
l’Accademia di Santa Cecilia di Roma, acclamata nei maggiori templi della musica europei e
newyorchesi e deceduta a novant’anni come suor Maria del Gesù.


Complice l’anima proteiforme e marcatamente interdisciplinare dell’affascinante corrente di gusto
che in Italia chiamiamo Liberty, le edizioni subalpina e biellese dell’imminente settimana dell’Art
Nouveau concentreranno infatti la loro attenzione su tutte le arti con digressioni, in gran parte inedite,
fra coinvolgenti storie di persone – committenti, progettisti, artisti, maestri artigiani o semplici fruitori
– restituite attraverso puntuali ricerche documentali, così da tracciare un connotante e parallelo fil
rouge che caratterizza tutte le iniziative.

Le storie di persone e famiglie sono tema imprescindibile quando si tratta della città silente nel
Cimitero Monumentale di Torino, divenuta nell’arco di pochi decenni vero e proprio spazio
espositivo di opere d’arte e, via via, autentico e vasto museo a cielo aperto, visitato durante le
ricorrenze autunnali come occasione per scoprire la più recente produzione scultorea. Quale stile
specifico e caratteristico della borghesia tardo-ottocentesca e veicolo figurativo privilegiato delle sue
fortune e della sua affermazione come classe dominante, il Liberty ha infatti trovato applicazione
elettiva nei luoghi e nei monumenti che appunto rappresentavano o intendevano simboleggiare ruolo
e destini di questa stessa borghesia, con un’accentuazione dei suoi tratti espressivi nei grandi cimiteri
urbani. Tale fenomeno toccò nel profondo anche Biella e soprattutto Oropa e Rosazza, questi due
ultimi suggestivi cimiteri-giardino, che saranno meta di futuri itinerari volti all’ulteriore scoperta del
Liberty nel capoluogo e nelle valli biellesi.

Circostanza non trascurabile, sia a Torino che nel biellese, protagonista delle svolte stilistico-culturali,
rispettivamente in direzione simbolista d’intonazione spiritualista e floreale in sintonia con la teoria
delle correspondances, è stato Leonardo Bistolfi, casalese di nascita, formatosi tra Brera e l’Albertina,
che esordì nella scultura cimiteriale subalpina con un intenso Angelo della morte a tutto tondo, in
primo piano, che personifica la riflessione sul mistero dell’estremo commiato dall’esistenza terrena,
e sullo sfondo una culla vuota, quasi a “stiacciato”, pressoché impercettibile incipit della dolorosa
narrazione.

Poco dopo, negli anni Novanta, Bistolfi convalidò una produzione che reca una particolare
componente pittorico-floreale destinata, con la complicità della grafica di analogo ductus, a passare
dalla scultura alla decorazione plastica, a fresco e nel parato per interni. Il già notissimo scultore e
pittore casalese era anche valente violinista e amava trascorrere lunghi periodi di vacanza a
Camburzano, nella villa del famoso soprano Cesira Ferrani, Mimì nella prima della Bohème al Regio
di Torino sotto la bacchetta di Arturo Toscanini, anch’egli assiduo frequentatore del vivace cenacolo
culturale che, allo scadere del secolo, era nato nella bella dimora camburzanese, animato da Lidia,
sorella di Cesira e apprezzata pianista, e dallo zio Luigi Ferraria, compositore e avvocato. Negli stessi
anni sono state numerose le opere plasmate dall’artista casalese per i suoi amici biellesi; non deve
perciò sorprendere la profusione fitomorfica posatasi su decine di costruzioni nel capoluogo e nelle
sue valli, giungendo a connotare soprattutto Casa Ripa a Biella, autentico catalogo di essenze
bistolfiane, distribuite con raffinata eleganza in abile coerenza con la valorizzazione funzionale e
simbolica delle diverse parti dell’edificio, commissionato nel 1906 dall’avv. Paolo Ripa, funzionario
presso la Regia Conciliatura biellese e anche scrittore satirico sul noto settimanale milanese «Il
Guerin Meschino».

È questa un’altra storia che merita di essere raccontata, come quella che, a torto, si presume ormai
scontata della Prima Esposizione internazionale di arte decorativa moderna, allestita nel 1902 a
Torino, che vide il trionfo dell’Art Nouveau. In realtà l’architettura torinese e di alcune vicine località
di villeggiatura aveva già intrapreso la via dell’Arte Nuova al di fuori di questa grande kermesse. Lo
dimostrano, tra gli altri, Riccio e Velati Bellini con Casa Florio in via Bertola, Benazzo con Casa
Tasca in via Beuamont, Dolza con la scuola oggi Istituto Avogadro in corso San Maurizio, Rigotti
con la perduta Palazzina Lavini-Toesca in via Tiepolo, Gribodo con Villa Antonietta a Cozze e lo
prova soprattutto Pietro Fenoglio che aveva espresso la sua originale e altissima interpretazione
dell’Arte Nuova sin dal 1900 nell’ormai snaturata palazzina della Società Finanziaria Industriale
Torinese di via Beaumont. Dopo aver declinato l’incarico nel comitato artistico espositivo,
accampando motivi di salute, Fenoglio giunse a una revisione strutturale dell’architettura nella
palazzina-studio per sé e i fratelli in via Principi d’Acaja, 11. Il maggior vessillifero del Liberty
torinese e i suoi familiari con molta probabilità non abitarono mai in questa casa, subito divenuta
manifesto e pubblicità implicita dell’avanzata progettualità fenogliana e già alienata nel 1904 a
Giorgio Lafleur, come avremo modo di sottolineare quando ne varcheremo la pregevole bussola
d’ingresso durante Art Nouveau Week.

A margine della strada reale di Francia Fenoglio ha così soggettivato con singolare coerenza istanze
di matrice franco-belga, mostrandosi in linea con il più profondo naturalismo Art Nouveau, di cui è
emblematica generazione il serramento ad ali di farfalla, caro ai maestri di Nancy, forse da leggersi
come risposta ai “tedeschizzanti” padiglioni espositivi che Raimondo D’Aronco stava erigendo in
quello stesso 1902 al Valentino. Tra i progettisti e gli intellettuali torinesi era infatti risaputa l’aspra
polemica generata dalla vittoria dell’architetto friulano nel concorso per la regia distributiva e
stilistica degli edifici per l’esposizione, se pure la stampa ufficiale si fosse affrettata a spiegare tale
scelta come opzione di tendenza e decisione di campo tra le due scuole ritenute più originali: «la
belga, illustrata dai nomi del defunto Hankar e del vivente Horta, e l’austriaca, che, sbocciata sotto
l’insegnamento di un illustre architetto, il quale dall’accademismo più puro passò grado grado alla
modernità più libera, fu detta Wagner Schule… A quest’ultima scuola si può riannodare il
D’Aronco», formatosi a Graz e all’Accademia di Venezia e allora impegnato presso la corte di
Costantinopoli, dove si era trasferito nel 1891 come architetto del governo ottomano e personale del
sultano Abdül Hamit II, svolgendo la parte più importante della sua attività progettuale in un paese
crocevia di molteplici esperienze. Non potendo pertanto seguire in modo continuativo i lavori
dell’esposizione torinese, gli furono affiancati il giovane arch. Annibale Rigotti, torinese e autore del
progetto secondo classificato, l’ing. Enrico Bonelli, anch’egli torinese e docente di Meccanica
Industriale al Regio Museo del capoluogo subalpino e il prof. Giovanni Vacchetta, cuneese di nascita
e Professore di Ornato Superiore al Museo Industriale di Torino, tentando in questo modo di supplire
all’assenza di D’Aronco e di contenere le critiche limitando il rischio di eccessiva “tedeschizzazione”
dei padiglioni espositivi. Di fatto, gli edifici effimeri daronchiani erano principalmente ispirati alla
Wagnerschule e all’opera di Olbrich nella colonia da lui fondata a Darmstadt, verso le quali
l’architetto friulano nutriva un’affinità mutuata dall’interesse per l’architettura bizantina e ottomana,
maturata attraverso la conoscenza diretta durante la lunga permanenza a Costantinopoli. Memorie di
Santa Sofia si coniugavano in perfetta armonia con tali istanze, soprattutto nella Rotonda d’onore e
un po’ ovunque nei numerosi padiglioni, dove la sontuosità, la luce, le bucature, le mosse decorazioni
lineari e la cura del dettaglio prezioso emergevano in variazioni raffinatissime.

Chiusa l’esposizione con un buon successo di visitatori, limitati plausi e pesanti strascichi polemici,
proseguì verso D’Aronco l’ostilità di alcune altisonanti voci torinesi, riaffiorata con veemenza quando
nel 1907, rientrato da Costantinopoli, pensò di stabilirsi con la famiglia nel capoluogo subalpino. Sin
dal 1902, egli aveva infatti avviato le trattative per l’acquisto di un terreno di fronte alla Fontana dei
Mesi, sul quale costruire la sua “casetta” che divenne presto una confortevole e funzionale abitazione
con due alloggi e piccolo fabbricato per il custode, edificati “per corrispondenza” come la città
effimera in riva al Po. Mentre proseguiva il suo momento magico di fertilità creativa, Palazzina
Javelli, dal cognome della moglie cuneese Rita, sorgeva semplice e raffinata, connotata da un partito
decorativo che si conclude in pure linee geometriche, da bucature diversificate nel taglio e nella
tipologia a seconda delle diverse destinazioni d’uso e da un linguaggio dei volumi variato in relazione
alle attività al loro interno. In questa palazzina D’Aronco ha quasi mai abitato e oggi, varcandone
l’ingresso, sorprendono l’avanzata modernità del pensiero compositivo, l’elevato pregio di materiali
e manufatti, la cura dei dettagli e l’integrità generale, nonostante la turnazione di proprietari e i
cambiamenti di destinazione d’uso. Al confronto di tanta qualità costruttiva, ancora più stupisce
leggere nelle lettere a Bonelli e a Rigotti, preposti a seguire i lavori di costruzione, la forte e assillante
preoccupazione economica di D’Aronco, che sosteneva di aver sempre fatto «il signore coi soldi
contati», quasi presagendo una morte tra ristrettezze, sofferenza e solitudine.

Ancora altre storie meriterebbero di essere raccontate, fra le quali l’amore non corrisposto di Ernest
Hemingway per Bianca Maria Bellia, incontrata durante una vacanza a Stresa. Era il settembre 1918
e lo scrittore americano giunse presto a Torino per chiedere la mano dell’avvenente diciassettenne,
ma il padre Pier Vincenzo, noto costruttore di molte case Liberty torinesi, oppose un fermo veto,
ispirando così il personaggio del conte Greffi in Addio alle armi.

Programmi: www.italialiberty.it. Iscrizioni e informazioni sul sito di Italia Liberty, allo +39 320 044
5798, o inviando una mail a torino@italialiberty.it oppure a info@italialiberty.it.

Maria Grazia Imarisio

Nelle immagini:
Particolare decorativo di Palazzina Javelli, progettata da Raimondo D’Aronco nel 1903, in via Petrarca 44 a Torino
Particolare del coronamento di Palazzo Ripa, eretto nel 1906 a Biella, in viale Matteotti 14