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La Fondazione Giorgio Griffa presenta cinque dialoghi tra due artisti

Si tratta dello stesso Giorgio Griffa e Simon Starling, visitabili fino al 22 gennaio 2026

La Fondazione Giorgio Griffa presenta due artisti in confronto in una duplice mostra, Giorgio Griffa e Simon Starling, aperta fino al 22 gennaio 2026. Si tratta di cinque dialoghi tra due artisti. La nuova mostra della Fondazione Giorgio Griffa inaugura la stagione autunnale, a un anno dalla sua apertura, con un inedito confronto tra due artisti di generazione e contesto differenti e presenta “D1-D5”, duplice show di Giorgio Griffa (1936) e del britannico Simon Starling (1967).
Le D del titolo richiamano i cinque dialoghi che formano il percorso espositivo, nati in alcuni casi da progetti condivisi e collaborazioni dirette tra i due artisti, in altri da affinità formali, materiali e concettuali che aprono possibilità di confronto e suggeriscono inedite direzioni d’indagine. Il rapporto tra Griffa e Starling si sviluppa in mostra in un dialogo tra generazioni, contesti geografici e culturali, tra forme d’arte, percorsi di conoscenza, sintesi e narrazione. È stata la collaborazione  Griffa-Starling, nata nel 2017, a suggerire l’idea della mostra. Simon Starling rimase colpito da rari pannelli artigianali giapponesi realizzati per i maestri della lacca urushi, con i capelli delle pescatrici di perle “ama”, particolarmente compatti grazie alla lunga permanenza in mare e all’assenza di lavaggi con tensioattivi chimici. Spedì un pannello a Griffa perché lo utilizzasse e ne sono derivate tre grandi carte dipinte da Griffa, che Starling ha annotato con un testo su vetro stampato con una particolare stampante inkjet. Sono tre lavori a quattro mani: “Noise”(Annotated) e “Oblique 3”(Annotated), che vengono entrambi esposti in mostra presso la Fondazione Giorgio Griffa, e “Golden Ratio” (Annotated), che sarà visibile nella personale di Griffa che aprirà il 5 novembre presso la Casey Kaplan Gallery di New York.
La mostra si apre con i due lavori a quattro mani sopracitati: “Noise” (Annotated) e “Oblique 3” (Annotated), cui si affiancano nel primo dialogo (D1) “Head To Toe” (2017) di Simon Starling e “Disordine PO” (2025) di Giorgio Griffa. “Head To Toe” si presenta come un corpo composito di elementi interconnessi e realizzati in collaborazione con diversi artigiani, come falegnami, soffiatori di vetro, argentieri, fabbri e maestri della lacca urushi. Tra gli oggetti che danno forma all’opera spicca il pennello realizzato con i capelli della pescatrice “ama”, come quelli che Starling regalò a Griffa perché potesse utilizzarli per il progetto a quattro mani. La seconda è una tela di Griffa che appartiene al recente ciclo dedicato al disordine, in cui segni, colore e tessuto sono i protagonisti.

Il percorso prosegue (D2) con la tela “Bianco dopo Bianco”, dipinta nel 1981 dall’artista torinese in un momento di ricerca dell’essenzialità della pittura: segni elementari, un solo colore, il bianco, usato raramente da Griffa e quasi solo in quegli anni, sospinta di una particolare relazione con la luce del Sole nel verde della natura. In risposta a quest’opera, Starling ha proposto l’installazione “As He Buffs”, del 2019. Una figura umana a gambe incrociate suggerita da una semplice struttura metallica due sostiene una maschera, colta nell’atto di lucidare un piano laccato nero, in cui si specchia, mentre due lampadine in tungsteno la illuminano. Per la sua realizzazione, l’artista si è affidato a maestranze artigiane giapponesi, il maestro di urushi Masahiko Sakamoto, il maestro di maschere Nō Yasuo Miichi e a Daniil Kondratyev, a testimonianza dell’interesse di Starling per le possibilità di collaborazione e connessione con la natura nei processi produttivi.

Con il terzo dialogo (D3) i richiami tra i lavori si fanno più espliciti: una teca, alcuni oggetti che Griffa utilizza regolarmente in studio sono affiancati a copie del magazine “Frieze”, sulle cui pagine gli oggetti compaiono negli scatti realizzati da Starling con un banco ottico nell’atelier di Griffa. Come una “mise en abyme”, le quattro tele di Griffa: “Canone aureo 638”, “Canone aureo 772”, “Canone aureo 343” e “Canone aureo 638”, che compaiono sullo sfondo delle fotografie di Starling, sono esposte sulla parete opposta alla teca in Fondazione, nella stessa sequenza che avevano il giorno degli scatti in studio.

La ricerca di entrambi gli artisti, di forme primarie, prende corpo nel quarto dialogo (D4), tra “Segno orizzontale” di Griffa, polittico del 1970, composto da quattro tele di piccole dimensioni e “Hom-Made Castiglioni Lamp” (Valvole e Racing) insieme a “Home-Made Castiglioni Lamp” (Super Shield), due esemplari del 2020 di una rivisitazione evocativa di Starling dell’iconica lampada disegnata dai fratelli Castiglioni, che riporta un oggetto di design, prodotto in serie, al suo stato di prototipo, realizzato con latte d’olio a motore, canne da pesca e fari d’automobile.

Il percorso si conclude con il quinto dialogo (D5), che fa emergere il tema attuale dell’autodistruzione, cui può portare oggi il concetto di “dominazione”, dal cambio del clima alle guerre in corso, ma offre anche aperture sulla luce che può apportare l’arte nei momenti di oscurità. Quest’ultima luce trapela dalle lettere che riproducono il titolo originario di un progetto di Starling del 2006, su una grande tela del 2025 di Griffa, “Autoxylopyrocycloboros”. Questo lavoro, che appartiene al ciclo “Alter Ego” è esposto al pubblico per la prima volta e si configura come un omaggio all’opera dell’artista inglese. Accanto alla tela, uno scatto bruciato dello stesso Starling, che appartiene al suo progetto multiforme “Autoxylopyrocycloboros”, nato da una performance-viaggio a bordo di un battello a vapore che si autodistrugge perché alimentato dal legno dello stesso scafo. Un’azione diretta dello stesso Starling sul Loch Long, pittoresco e contraddittorio fiordo scozzese che è sede dei sottomarini nucleari Trident e di uno storico campo pacifista, che ha dato i natali al battello a vapore che affonda nelle stesse acque durante la performance.
Ispirato alla figura mitologica dell’Ouroboros, il serpente che si mangia la coda, il progetto di Starling fa riflettere sull’autodistruzione con un gioco di rimandi, paradossi e connessioni che vanno dalle culture di protesta locale agli armamenti, fino all’ironia tragicomica dei cartoni animati classici alla Tom & Jerry, alla passione per le tecnologie obsolete. Una versione con 38 fotocolor e proiettore di “Autoxylopyrocycloboros” è conservata nella collezione della GAM di Torino.

Mara Martellotta

Due gioielli di Kaoluco Mizuno alla Fondazione Accorsi Ometto

Il 23 ottobre 2025 la Fondazione Accorsi-Ometto ha celebrato un evento di grande rilevanza culturale con l’ingresso nella propria collezione di due preziosi gioielli realizzati dall’artista giapponese Kaoluco Mizuno, tra i nomi più interessanti e premiati del panorama contemporaneo nel campo del jewelry design.

Questi due preziosi camei sono ispirati al Kabuki giapponese e ai drammi di Kyōka IzumiYashagaike e Tenshu Monogatari. Le opere narrano leggende ricche di mistero, bellezza e spiritualità: nel primo, il patto tra un drago e uomini di cuore; nel secondo, l’incontro tra un giovane guerriero e lo spirito di una principessa.

L’ingresso di questi due gioielli nella collezione permanente del Museo rappresenta non solo un arricchimento della raccolta, ma anche un messaggio culturale: la possibilità di conoscere e di valorizzare la bellezza e le tradizioni artistiche del Giappone attraverso lo sguardo contemporaneo di un’artista capace di unire maestria tecnica e profondità narrativa.

La donazione è stata formalizzata giovedì 23 ottobre presso lo Studio Morone di Torino, alla presenza dell’artista e donatrice Kaoluco Mizuno, del donatore Kaoruko Nagatani, del Presidente della Fondazione Accorsi-Ometto, Costanzo Ferrero, del Direttore del Museo, Luca Mana, della storica dell’arte ed esperta di gioielli Paola Stroppiana, e del gallerista Ermanno Tedeschi che ha fatto da tramite per la donazione.

 

I gioielli saranno esposti all’interno di una delle vetrine lungo il percorso museale.

Al MAO di Torino l’artista Chiharu Shiota, “The Soul Trembles”

Il MAO, Museo di Arte Orientale di Torino, presenta la mostra dal titolo “Chiharu Shiota, The Soul Trembles”, a cura di Mami Kataoka, direttrice del Mori Art Museum di Tokyo, che ne ha concepito il progetto originale, e Davide Quadrio, direttore del MAO, con l’assistenza curatoriale di Anna Musini e Francesca  Filisetti. Sarà visitabile fino al 28 giugno 2026.
La grande esposizione monografica dedicata all’artista giapponese approda al MAO in anteprima nazionale e per la prima volta in assoluto  in un museo di arte asiatica, dopo essere stata ospitata in prestigiose istituzioni internazionali  tra cui il Grand Palais di Parigi, il Busan Museum of Art, il Long Museum West Bund di Shanghai, la Queensland Art Gallery di Brisbane e lo Shenzhen Art Museum.
Si tratta di un progetto ampio e articolato, di grande potenza espressiva, che ripercorre l’intera produzione dell’artista  attraverso disegni, fotografie, sculture  e alcune delle sue più celebri installazioni ambientali e monumentali. Spesso ispirate da esperienze personali, le opere di Chiharu Shiota esplorano l’intangibile, quali ricordi, emozioni, immagini e visioni oniriche, offrendo spazi di silenzio e contemplazione, e pongono interrogativi su concetti universali e esistenziali quali l’identità, la relazione con l’altro, la vita e la morte. Valicando i confini temporali e spaziali, i suoi lavori coinvolgono la parte più intima e vulnerabile dell’animo umano. Le sue installazioni più celebri sono composte da fili rossi e neri intrecciati, al fine di creare strutture imponenti, avvolgendo gli spazi in cui sono collocate, trasformandone i volumi e guidando lo spettatore in un’esperienza immersiva in cui la fascinazione si alterna all’inquietudine, il movimento alla stasi.
Il progetto espositivo è concepito come un’unica grande installazione che si espande negli spazi del MAO, dall’area delle mostre temporanee fino alle Gallerie delle collezioni permanenti, ponendosi in un dialogo diretto con le opere del Museo. L’esposizione prevede, oltre a disegni, sculture,  fotografie e installazioni, interventi site specific e nuove opere realizzate dall’artista appositamente per l’occasione.
Tra le opere in mostra alcune delle più iconiche installazioni di Shiota dal titolo “Where are we going?” del 2017, in cui il motivo della barca, ricorrente in diverse opere, evoca visioni di vita  e di futuri incerti; “ Uncertain Journey” del 2016 è costituita da scheletri di imbarcazioni disposti  in uno spazio avvolto da fili rosso vivo, a suggerire i molti incontri che potrebbero manifestarsi alla fine di ogni viaggio; “ In Silence” (2008), in cui un pianoforte bruciato e diverse sedute per un fantomatico pubblico, immerso in un reticolo di fili neri, raccontano il silenzio che segue alla distruzione. “Reflection of Space and Time” del 2018 utilizza un abito e la sua immagine specchiata per riflettere sulla presenza nell’assenza. “Inside-Outside” del  2009 è un’opera incentrata sul concetto di separazione  fra interno ed esterno, tra privato e pubblico, tra Est e Ovest. Infine la monumentale “Accumulation-Searching  for the destination”  del 2021, composta di centinaia di valigie oscillanti, simbolo di ricordo, spostamenti, migrazioni e archetipo del viaggio compiuto da ciascuno di noi.

“Con questo progetto il MAO prosegue nel suo processo di evoluzione, da museo di arte antica a luogo del contemporaneo,  di cura e di tempo lento – afferma il direttore del MAO Davide Quadrio – la mostra di Chiharu Shiota nasce al MAO come progetto site specific, capace di dialogare in modo naturale con le opere della collezione di arte asiatica, trasformando lo spazio del museo in qualcosa di vivo e in continua evoluzione. Attraverso installazioni monumentali e al tempo stesso intime, che parlano un linguaggio universale,  ‘The Soul Trembles’ esplora la fragilità umana, offrendo al visitatore la possibilità di intraprendere un viaggio interiore, liberatorio e condiviso.

Mara Martellotta

ART FOR CHANGE: Arte, impresa, PA per l’interesse generale

Il 17 novembre, a Biella, presso la Fondazione Pistoletto – Cittadellarte si terrà un evento di dialogo e confronto tra pubblica amministrazione, mondo economico e realtà artistiche e culturali.

Un’occasione per riflettere insieme sulle convergenze strategiche tra i diversi settori attorno al tema dell’interesse generale, dell’Art Bonus, del partenariato pubblico-privato, del welfare e dello sviluppo sostenibile.

L’appuntamento, ideato da Hangar Piemonte, agenzia pubblica per le trasformazioni culturali della Regione Piemonte, vedrà alle 17.45 gli interventi di Marina Chiarelli Assessore Cultura, Pari opportunità e Politiche giovanili Regione Piemonte; Michelangelo Pistoletto, artista, pittore e scultore; Alessandro Boggio Merlo, presidente della Sezione Turismo e Cultura dell’Unione Industriale Biellese; moderati da Cesare Biasini Selvaggi, curatore e manager culturale.

Per partecipare è necessario iscriversi tramite un Google Form entro il 10 novembre da questo link: https://forms.gle/G6D5yTjDgzDqb9nj8

Alla Galleria del Ponte, una importante mostra sino al 29 novembre

C’è una foto dell’autore di “Cristo si è fermato a Eboli” – ricordate? il romanzo tradotto in cinema, nel ’79 da Francesco Rosi, con un grande Volontè e una Irene Papas, dal volto scavato, arcaica nelle proprie superstizioni – nel bel catalogo a corredo della mostra “Carlo Levi. Il coraggio della pittura”, curata da Pino Mantovani, alla Galleria del Ponte di corso Moncalieri 3, sino al 29 novembre prossimo. È ritratto negli spazi della villa Strohl Fern di Roma, anni Settanta, lo scrittore e pittore è seduto ad un tavolo, posato sopra un piccolo cesto intrecciato a contenere frutti, lui le braccia incrociate e il sigaro tra le dita, un vistoso orologio al polso, alle spalle il ritratto della “Madre”, un olio datato 1930 che oggi vediamo in mostra: il viso è composto alla serenità, un leggero sorriso sulle labbra, uno sguardo di affettuosa partecipazione con lo spettatore. Mutato del tutto il ritratto dell’uomo, all’epoca poco più che cinquantenne, appagato, felice della sua nuova relazione con Linuccia Saba, unica figlia dell’autore di “Ernesto” e del “Canzoniere”, sereno e lontano da quel Sud – ma se lo sarebbe portato nel cuore per tutta la vita – in cui era arrivato (delatore Pitigrilli), ad Aliano per l’esattezza, che nel romanzo sarebbe divenuta Gagliano (“sono arrivato a Gagliano un pomeriggio d’agosto, portato in una piccola automobile sgangherata”), perché colpevole di sospetta attività antifascista. Era il marzo del 1934. In precedenza, dopo aver terminato gli studi secondari presso il liceo Alfieri, s’era iscritto alla facoltà di medicina (ma, laureato, non avrebbe mai esercitato), aveva frequentato lo zio Claudio Treves, figura di spicco del Partito Socialista Italiano, e Piero Gobetti, che per primo lo avrebbe indirizzato lungo quel sentiero quando gli affidò un articolo, il primo nelle colonne della “Rivoluzione liberale”, che aveva proprio come tema la questione meridionale.

Un’esperienza pittorica (e letteraria, indissolubili e necessarie l’una all’altra) che s’estende tra la metà degli anni Venti sino al secondo dopoguerra, un cammino – importante – che è toccato a Stefano e Stefania Testa ripercorrere, privatamente, “rendendosi conto” della scadenza del cinquantenario della morte dell’artista: mentre tutto nella sua città natale sembra scorrere in silenzio prima che l’anno termini. “Una galleria non è un museo. Le sue possibilità di scelta sono limitate, ma una galleria che ha lavorato seriamente negli anni ha avuto modo di trattare materiali di pregio, che potrà esporre quando serva dimostrare il valore di un impegno continuativo e coerente: attingendo al proprio magazzino, recuperando ciò che è transitato sulle sue pareti, meritando prestiti da rari collezionisti”, mugugna il curatore e gli assennati proprietari con lui.

Era nato a Torino all’inizio del secolo, Levi, nel 1902. Artisticamente, introdotto alla scuola di Felice Casorati, dopo un soggiorno parigino nel ’23 speso a conoscere i Fauves e Modigliani, “scopre” tre anni dopo il desiderio di immergersi nell’esperienza del ritratto, con oli su cartone o tavola, dando vita a quelli del fratello (colto nella lettura di un libro, ad esempio, un’intimità offerta con rara sicurezza), o del padre con il suo sigaro in bocca, il collettino bianco inamidato e le dita della destra infilate tra i bottoni del panciotto (“nell’economia dell’esperienza espressiva di Carlo Levi, ai linguaggi della figura, in particolare alla pittura, tocca di presentare il versante lirico e poetico dell’immagine”, citando ancora Mantovani), forse il più suggestivo, nella sua incompiutezza, nel suo abbozzo per tratti verdognoli, a decifrare le linee maggiori di un “Flautista”, in non meglio imprecisati anni ’20. Intanto, l’esperienza dei Sei di Torino, dietro le spinte di Lionello Venturi e di Edoardo Persico, sotto lo sguardo protettivo di Riccardo Gualino, anche lui inviso al regime, Levi il più politicizzato e alla ricerca di quella libertà che la retorica ufficiale e il conformismo e l’avanguardia del Futurismo non potevano dargli, la loro prima esposizione alla galleria Guglielmi di Torino nel gennaio del ’29. Poi gli anni Trenta, con quei paesaggi che guardano all’impressionismo (“Il monte dei Cappuccini”, 1929) o hanno appena costruito visioni più nitide (basterebbe la cattura delle luci e delle ombre del “Cortile interno con bambini”, 1927, assolato e gioioso) o quel successivo “Paesaggio con i due carrubi” del ’33 che più strizza l’occhio al mondo di Matisse.

La bellezza dei ritratti della madre, ancora all’inizio dei Trenta, che hanno oltrepassato la lezione casoratiana, scolpiti contro quei fondali grigiastri o definitivamente scuri, o la ricchezza dell’amato Renoir in un “Nudo di donna” o in quello “Sdraiato” che della donna analizza la povertà delle forme in un sconfortato realismo, esempio alto, con la “Donna” del ’49, di quella “urgenza di svelamento del ‘vero’” di cui ancora scrive Mantovani nella sua illuminante presentazione. Poi, siamo nel decennio successivo, i ritratti che colgono la cerchia familiare e degli amici e degli affetti (per tutti, quello che raccoglie il quartetto composto da “Paola Olivetti, Leoni, Carlo Emilio Gadda e sconosciuto”, realizzati in uno sguardo lineare quanto complice, le espressioni dell’attimo profondamente colte. Nei ricordi della sua Lucania, di quegli anni d’esilio, dei paesaggi e dei volti, l’opera di Levi si potrebbe dire che diventi ancor più coinvolgente, le concrete spatolate, i grumi di colore che diventano quasi una scultura, i frutti e gli alberi che prepotentemente occupano la tela. “Qui nascono”, del ’54, è il capolavoro che attende il visitatore a metà strada, un’immagine di miseria, “l’innesto rivoluzionario della poesia e della politica”, una “sacra rappresentazione” chiusa nella sua denuncia laica, un gruppo di donne e di uomini, un pugno di bambini che a tratti hanno l’odore della morte, gli occhi infossati, quasi scheletri assenti, alle loro spalle un paesaggio brullo che non offrirà mai nulla. Sono immagini di una realtà toccata con mano, il ricordo che l’uomo si porta appresso, sono i visi incontrati giorno dopo giorno per le strade del paese. Un mesto panorama, un’epicità dettata dal coraggio, un futuro che forse non esisterà mai o che vedrà un cammino ancora doloroso, laddove “gli intellettuali (sono) convocati a prendere atto finalmente di una incresciosa situazione, i contadini tra i quali la coscienza di una condizione insostenibile sembra faticosamente farsi strada.” La vita, forse a fatica, pare risorgere nel vivo dei colori e dei fiori che nascondono una coppia d’amanti, o nelle nature morte composte dei tanti prodotti o persino nelle nodosità di quegli alberi che riempiono da sempre una natura selvaggia.

Nelle immagini: Carlo Levi, “Qui nascono”, 1954, olio su tela, 97 x 146,5 cm; “Ritratto del padre col sigaro”, 1926, olio su cartone, 49,5 x 34,5 cm; “Flautista”, anni ’20, olio su tela, 92 x 70 cm.

Le Donne nell’arte alla galleria Malinpensa by La Telaccia

Informazione promozionale

Fino al 31 ottobre prossimo

È tutta al femminile la mostra che si inaugura martedì 21 ottobre presso la galleria Malinpensa by La Telaccia, curata dall’art director Monia Malinpensa. Le artiste presenti in mostra sono Federica Caprioglio, Licia Martini, Daniela Rosso Prin e Serenella Sossi. La mostra, che prevede un incontro con le artiste nella giornata d’inaugurazione, sarà visitabile fino al 31 ottobre prossimo.


Federica Caprioglio nasce a Torino nel 1973. Laureata in Scienze Naturali, tra il 1994 e il 2000 studia presso l’atelier di Valeria Tomasi, a Rivoli, disegno e pittura acrilica. Nel 2012 studia a Torino acquarello naturalistico, per sei anni, con l’illustratrice torinese Cristina Girard. Nel 2016 frequenta uno stage con Roberto Andreoli, e nel 2019 con Andrea Gammino. È protagonista di diverse esposizioni presso la galleria d’arte Malinpensa by La Telaccia e l’Expo Arte Internazionale di Innsbruck. Nel 2022 “Vite preziose” è una collettiva artistica naturalistica di cui è ideatrice insieme a Marco De Maria e Franco Correggia. Il progetto mette in luce la meraviglia della biodiversità boschiva, soffermandosi su quegli organismi che risultano brutti o pericolosi nell’immaginario dell’uomo contemporaneo. “Fuoco alle altre”, del 2017, è una mostra artistica sugli incendi boschivi, realizzata con Marco De Maria e con l’associazione naturalistica pinerolese e il civico museo didattico “Mario Strani” di Pinerolo.

Licia Martini, nata nel 1948 a Boves, in provincia di Cuneo, è un’insegnate laureata in filosofia che esercitava nelle scuole italiane del Cairo, è una figura poliedrica le cui vita e carriera sono state profondamente influenzate dall’Egitto. Dopo gli studi universitari si è  trasferita al Cairo, ha dedicato anni all’insegnamento. La sua attività si è estesa a molteplici iniziative culturali e sociali, sia italiane sia egiziane. La Martini è infatti membro attivo del Comitato Gestore dell’ospedale Umberto I della società di beneficenza del Cairo, oltre a essere organizzatrice di una corale egiziana e responsabile di due importanti biblioteche cairote. Vive tra l’Italia e l’Egitto, ha esposto in più di 40 collettive tra Il Cairo e Cuneo, e in personali ad Abu Dhabi. Ha esposto inoltre ad Alessandria d’Egitto e al Festival della Donna, ad Assuan. Le sue opere sono esposte all’Opera del Cairo, al Ministero dell’Ambiente Egiziano e all’Ospedale Italiano del Cairo. Alcuni suoi lavori sono esposti in varie biblioteche del progetto Mustakbal (Futuro). In Italia ha esposto ad Assisi, Mestre e Palermo, oltre che nella collezione permanente di Rittana (CN).

Daniela Rosso Prin, nata a Torino nel 1962, è una pittrice torinese cresciuta sotto la guida del maestro Dino Pasquero. Iniziato come un gioco, il percorso di questa artista è proseguito con un’incessante sperimentazione, fatta di osservazione, lavorazione e reinterpretazione degli interessi e dei momenti di vita vissuta, abbracciando la natura, la musica e il teatro. Il mondo di Daniela Rosso Prin emana freschezza e calore allo stesso tempo, e la capacità di utilizzo delle diverse tecniche pittoriche esalta la profondità dei colori usati per dar vita a soggetti mai banali o ripetitivi.
L’artista predilige la tecnica ad olio, aderendo alla pittura figurativa. Affronta indifferentemente la paesaggistica e la sfida del ritratto, riversando sulla tela le proprie intuizioni ispirative ed emozioni attraverso attente esposizioni tonali, plasmate con il pennello e, talvolta, con la spatola. Ama anche cimentarsi con le sfumature cromatiche tipiche dei gessetti. Vincitrice di diversi premi e riconoscimenti, tra cui il concorso AUPI di Milano, classificatasi al primo posto con l’opera “Omaggio a Paolo Fresu” al XLI Premio Firenze 2024, a Palazzo Vecchio – Centro culturale Firenze Europa “Mario Conti” con inserimento nella relativa mostra, le sue opere sono state esposte alla chiesa di Santa Croce di Ivrea, alla galleria d’arte San Michele di Guarene, al Mausoleo della Bela Rosin, alla Casa Olimpia di Sestriere, all’Accademia Europea delle Essenze di Savigliano, a Palazzo Chiabrera di Acqui Terme, alla Sala Civica di piazza Antenna in Soave, alla Fiera d’Arte Internazionale di Innsbruck, alla Biennale d’Arte Internazionale di Montecarlo e in diverse sale espositive, tra cui quella di Monia Malinpensa.

La pittrice e scultrice Serenella Sossi, originaria di Imperia, si è diplomata al liceo artistico di Genova, allieva dello scultore Lorenzo Garaventa. Vive da quasi trent’anni a Nizza, e a contatto con lo stimolante ambiente artistico francese ha affinato il suo personale stile attingendo da entrambe le culture. Le sue realizzazioni, riflesso di un personale percorso interiore filosofico e spirituale, sono caratterizzate da una ricerca di verticalità e dalla dualità tra astrazione e figurazione. Predomina nella sua pittura una raffinata ricerca di luci e colori.
Artista eclettica, si esprime sia in pittura sia in scultura con carattere e forte personalità. Nonostante la consolidata maturità artistica, non teme di cambiare e sperimentare con l’intento di esprimere la propria sensibilità e creare il contatto empatico e di comunicazione privilegiata con chi sappia entrare in sintonia con la sua arte e il suo messaggio. Dal 1995 si dedica esclusivamente all’attività artistica. Espone abitualmente in Italia, in Francia ed altre città europee. Ha partecipato a mostre e eventi artistici e a prestigiosi saloni d’arte contemporanea in tutta Europa. Da anni fa parte del Collettivo Artisti stArt di Nizza. Ha conseguito prestigiosi premi a importanti concorsi d’arte contemporanea e ha insegnato scultura e pittura al Centro Culturale St. Laurent du Var dal 2005 al 2025. È la realizzatrice della scultura in bronzo “Forma Sirena”, alta circa 2,50 metri, installata nel 2021 sul molo di Imperia Oneglia, commissionatale dalla Città di Imperia e finanziata dalla Fondazione Carige di Genova.

Galleria Malinpensa by La Telaccia, corso Inghilterra 51, Torino

Info: info@latelaccia.it – www.latelaccia.it

Mara Martellotta

Torino tra architettura e pittura. Filippo Juvarra

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Torino tra architettura e pittura

1 Guarino Guarini (1624-1683)
2 Filippo Juvarra (1678-1736)
3 Alessandro Antonelli (1798-1888)
4 Pietro Fenoglio (1865-1927)
5 Giacomo Balla (1871-1958)
6 Felice Casorati (1883-1963)
7 I Sei di Torino
8 Alighiero Boetti (1940-1994)
9 Giuseppe Penone (1947-)
10 Mario Merz (1925-2003)

1) Filippo Juvarra

Ribadisco il concetto che l’arte vada insegnata nel modo più concreto possibile, invitando i ragazzi a guardare le architetture dal vivo -nel limite del possibile ovviamente- e non solo sulle pagine dei libri o attraverso la LIM, convincendoli a toccare colori e materiali, e se anche se ci si sporca un po’ non è un problema. È così che mi piacerebbe poter spiegare alle mie classi il “Barocco”, portando i ragazzi a passeggiare per le vie del centro, fermandoci a commentare e a chiacchierare tra piazza Castello e Piazza Vittorio, desidererei poterli condurre alla Palazzina di Caccia di Stupinigi o alla Basilica di Superga, rendendo loro lo studio un’esperienza concreta e trasformando delle nozioni prettamente storico-artistiche in un autentico ricordo di vita.

Sono consapevole di quanto sia utopico il mio pensiero, non solo per la drammatica situazione pandemica che pone ovvi divieti e limitazioni alle nostre abitudini quotidiane, ma anche perché il tempo scolastico pare trascorrere a ritmi insostenibili, le lezioni si susseguono e le ore non sono mai abbastanza per stare al passo con i programmi ministeriali. Non mi dilungo poi su quanto sia diventato complicato a livello burocratico organizzare attività sia dentro che fuori le aule.
Facciamo un gioco, facciamo finta che quanto appena premesso non sia del tutto vero, e fingiamo di poter organizzare un tour della Torino barocca. Prima di tutto occorre mettere in evidenza la personalità che più di tutte ha contribuito alla trasformazione dell’aspetto del capoluogo piemontese, si tratta di Filippo Juvarra, nato a Messina in una famiglia di orafi e cesellatori, è stato scenografo, disegnatore e architetto, la sua formazione è stata decisamente “pratica”, volta a migliorare le qualità tecniche artigianali.
Filippo Juvarra, (1678-1736), arriva a Torino nei primi anni del Settecento. Quando l’architetto messinese mette piede nel territorio si trova circondato da cantieri, lavori di ammodernamento e di ristrutturazione urbanistica, tutti interventi volti a rendere la città esteticamente degna del ruolo di capitale che le era stato decretato da Emanuele Filiberto nel 1563. In questo senso era risultato essenziale il contributo di Guarino Guarini, al servizio dei Savoia a partire dalla seconda metà del Seicento; all’architetto si deve infatti l’edificazione di vari edifici, tra cui la chiesa di San Lorenzo e la realizzazione della Cappella della Sacra Sindone.

E’ tuttavia con Juvarra che la città acquista effettivamente un nuovo aspetto, degno delle idee innovative che investono il Settecento.
Nel 1714 Vittorio Amedeo II di Savoia chiama a suo servizio l’artchitetto siciliano e lo nomina “primo architetto del re”, grazie a questo titolo Juvarra ottiene immediata visibilità all’interno dell’ambiente artistico e la sua ben più che meritata fama viene riconosciuta in poco tempo anche in territori stranieri. Egli infatti intraprende molti viaggi durante la sua vita, lavorando in Austria, Portogallo, Londra, Parigi e Madrid, città in cui morì improvvisamente nel 1736.
La sua formazione avviene prevalentemente a Roma, dove frequenta lo studio di Carlo Fontana e ha l’occasione di studiare dal vivo le opere classiche, rinascimentali e barocche, soffermandosi soprattutto sugli esempi di Michelangelo, come attestano i numerosi schizzi sui quali era solito appuntare le sue osservazioni. A Roma Juvarra esordisce anche in qualità di scenografo, come attestano i fondali che egli realizza per il teatrino del cardinale Ottoboni, al cui circolo arcadico era strettamente legato. I fogli juvarriani del periodo romano evidenziano i suoi molteplici interessi: progetti per architetture e apparati effimeri, capricci scenografici e vedute equiparabili a quelle del Vanvitelli, con cui in effetti Juvarra era entrato in contatto.
Juvarra esercita la sua opera come architetto soprattutto in Piemonte, più precisamente a Torino e dintorni. Egli non solo progetta chiese e residenze reali ma si occupa anche di riorganizzare interi quartieri periferici; lavora sullo spazio urbano e si conforma ai dettami dell’urbanistica torinese, riuscendo tuttavia a creare nuovi punti focali, quali i “Quartieri Militari” nei pressi di porta Susa, la facciata principale di Palazzo Madama (che di conseguenza rinnova anche l’aspetto di Piazza Castello), le chiese di San Filippo Neri, Sant’Agnese del Carmine, e, soprattutto, la Basilica di Superga, che si erge sulla collina e determina un nuovo confine visivo della città. Decisamente degni di nota sono anche i suoi interventi extraurbani, come dimostrano i nuclei architettonici nei pressi di Venaria, Rivoli e Stupinigi.

Tutte le sue costruzioni si inseriscono nell’ambiente in modo armonioso e studiato, ogni cantiere viene soprinteso con rigorosissimo controllo dallo steso architetto messinese; per ogni progetto egli recupera sapientemente il proprio ricco bagaglio culturale, riuscendo di volta in volta a riplasmare e innovare i modelli di riferimento in senso moderno e suggestivo, secondo una razionalità e una sensibilità del tutto settecentesche.
Continuiamo il gioco e immaginiamo di poterci fisicamente spostare per il territorio alla ricerca delle realizzazioni architettoniche di Juvarra. Partiamo da Palazzo Madama: per la ristrutturazione di tale edificio Juvarra parte da modelli francesi, (fronte posteriore di Versailles), e romani, (palazzo Barberini), e arriva però a una soluzione originale: conferisce unità alla parete grazie all’utilizzo di un unico ordine corinzio sopra l’alto basamento a bugnato piatto e sottolinea la zona centrale dell’ingresso con colonne aggettanti e lesene plasticamente decorate. Il palazzo, classicheggiante nella netta spartizione degli elementi, risulta settecentesco nelle ampie finestre attraverso le quali una ricca luce illumina adeguatamente i vani interni. Nella realizzazione dello scalone d’onore, opera unica nel suo genere, Juvarra fa invece affidamento alla sua esperienza teatrale: lo spazio che la gradinata marmorea occupa è uno spazio scenografico. La struttura si presenta di grande impatto visivo ma al contempo è calibrata e misurata, le decorazioni, segnate da delicati stucchi a forma di conchiglie e ghirlande floreali, aderiscono alla scalinata e si amalgamano all’architettura, rendendo più incisivo l’effetto della luce che trapassa le vetrate.

Immaginiamo ora di prendere un pullman e di allontanarci dei rumori della città. La nostra direzione è la verdeggiante collina torinese, dove ci aspetta uno dei simboli della città subalpina. La Basilica di Superga, edificata tra il 1717 e il 1731, svolge una duplice funzione, essa è sia mausoleo della famiglia Savoia, sia edificio celebrativo dedicato alla vittoria ottenuta contro l’esercito francese nel 1706. L’edificio svetta su un’altura, la posizione è tipica dei santuari tardobarocchi, soprattutto di area tedesca. L’impianto centralizzato con pronao ricorda il Pantheon, la cupola inquadrata da campanili borrominiani, invece, si ispira a Michelangelo. Nonostante i modelli di riferimento, sono del tutto assenti quelle tensioni tipiche del Buonarroti o dell’arte barocca: il nucleo centrale ottagonale si dilata nello spazio definito dal perimetro circolare del cilindro esterno, perno di tutto l’edificio; da qui si protendono con uguale lunghezza il pronao arioso e le due ali simmetriche su cui si innestano i campanili. Quest’ultima parte è in realtà la facciata del monastero addossato alla chiesa che su uno dei lati corti fa corpo con essa. L’edificio si estende nello spazio e asseconda l’andamento della collina, e diventa un nuovo e interessante punto di osservazione per chi si trova a guardare verso le alture torinesi.
Impossibile non ricordare la tragedia di Superga, avvenuta il 4 maggio 1949, alle ore 17.03, quando l’aereo su cui viaggiava il Grande Torino si schiantò contro il muraglione del terrapieno posteriore della Basilica, provocando trentuno vittime. Certi luoghi assorbono tristezza e per quanto siano architettonicamente belli, rimangono velati di malinconia e accoramento. Sempre rimanendo sul nostro iniziale filone dell’ipotetico tour scolastico, immagino che mi sarei allontanata dalla Basilica riferendo ai miei allievi una certa superstizione: meglio non visitare la chiesa in compagnia della propria metà, pare infatti che porti sfortuna alla coppietta innamorata.
Saliamo sul nostro pullman e dirigiamoci ora verso un’altra meta.

Nella Palazzina di Caccia di Stupinigi (1729-1733), troviamo un oscillamento tra la tradizione francese e la pianta italiana a forma di stella. Qui ritorna il motivo della rotonda, ma da essa fuoriescono quattro bracci a formare una croce di sant’Andrea, schema su cui Juvarra medita fin dagli anni giovanili. Il nucleo centrale e centralizzato costituisce il punto focale di un disegno vasto e articolato: esso è preceduto da una corte d’onore dal perimetro mistilineo, che si innesta nell’ambiente naturale e per gradi conduce fino al palazzetto vero e proprio; lungo il perimetro della corte d’accesso si dispongono le costruzioni dedicate ai servizi. L’impianto del grande salone richiama precedenti illustri, ma il tutto è trasfigurato in senso rococò, grazie ai ricchi stucchi, alle elaborate pitture, agli arredi e al particolare cadere della luce sui dettagli preziosi delle decorazioni artistiche e artigianali. La muratura esterna è scandita da una successione di lesene piatte nettamente profilate. Tutta la struttura della Palazzina risulta raffinata e in studiato rapporto dialettico con la natura che la circonda; le numerose finestre che si trovano su tutto il perimetro contribuiscono a dare un senso di generale leggerezza, controbilanciando l’impatto visivo dato dalle dimensioni imponenti dell’edificio.
Siamo alla fine del nostro gioco immaginato e ci manca ancora una meta per terminare la lezione sul Barocco.

Le chiese juvarriane presentano soluzioni architettoniche originali, soprattutto la chiesa del Carmine (1732-1735), dove le alte gallerie aperte sopra le cappelle si rifanno ad uno stile nordico e medievale. In queso edificio (che si trova in via del Carmine angolo via Bligny) l’impianto tradizionale a navata unica con cappelle lungo i lati è rinnovato dalla riduzione del muro delimitante la navata a una ossatura essenziale di alti pilastri di ribattutta e dalla sapiente modulazione della luce che, piovendo dall’alto fra i pilastri, si diffonde nella navata e nelle cappelle. Lo storico dell’arte Cesare Brandi così descrive l’elaborata chiesa del Carmine: “L’invenzione appare così una felice contaminazione coll’architettura del teatro e aggiunge un segreto senso di festa e di leggerezza all’ardita struttura della chiesa che solo nella volta, appunto a somiglianza di un teatro, ha una superficie unita, e quasi un velario teso sugli arredi delle grandi pilastrate.”
Ecco, il tour fantastico è terminato, e così anche l’articolo che concretamente sto scrivendo: come nelle favole realtà e immaginazione si mescolano, si sovrappongono e si uniscono, in una sorta di “kuklos” che alla fine fa quadrare tutto.
D’altronde sognare è gratis. Per ora.

Alessia Cagnotto

Arte, valore e diritto: quando la collezione incontra il diritto

In un momento in cui il mercato dell’arte vive una trasformazione profonda, dove le transazioni sempre più complesse richiedono competenze che vanno ben oltre la semplice conoscenza del diritto civile, Torino si appresta a ospitare un dialogo che promette di gettare luce su uno dei settori più affascinanti e meno conosciuti della pratica legale contemporanea. Mercoledì 29 ottobre, alle 15.30, Sant’Agostino Casa d’Aste, in corso Alessandro Tassoni 56, a Torino, ospiterà la XII edizione di Art&Law Conversation, un appuntamento che riunisce attori chiave del panorama artistico, legale e finanziario nazionale.

L’evento, organizzato con il coordinamento dello Studio Legale Tributario Morabito, con forte vocazione in diritto dell’arte e pianificazione patrimoniale, rappresenta uno spazio di riflessione raro nel panorama italiano e un’occasione in cui artisti, collezionisti, professionisti del diritto e esperti di mercato si incontrano per discutere su questioni che definiscono il presente e il futuro del patrimonio culturale. Il titolo di questa edizione, “Arte, Diritto e Valore: nuove regole e nuove ricchezze”, cattura perfettamente il senso di una transizione in corso, dove le tradizionali categorie giuridiche incontrano le sfide poste da un mercato in costante  evoluzione.

Tra i relatori figurano nomi di spicco della comunità legale italiana specializzata nel settore. Francesco Fabris e Mattia Pivato porteranno la loro prospettiva su temi dove la competenza tecnica si intreccia necessariamente con questioni di sensibilità culturale e patrimoniale. Paolo Turati, direttore del Lab. Finanza Decentralizzata e docente di Saa Torino, affronterà la crescente finanziarizzazione degli investimenti in opere d’arte, un fenomeno che ha trasformato il collezionismo in uno strumento sofisticato di gestione del patrimonio.

L’evento è arrivato alla dodicesima edizione soprattutto grazie alla presenza di Simone Morabito, avvocato e presidente della Commissione di diritto dell’Arte dell’associazione scientifica BusinessJus e cofondatore di ArtLawyers, Morabito, figura ormai consolidata nel panorama nazionale del diritto dell’arte, che interverrà sul tema della successione e trasmissione del patrimonio artistico, argomento che tocca il cuore della questione: come il collezionista deve porsi di fronte a questioni che riguardano beni il cui valore non è solo economico, ma anche e soprattutto culturale e storico.

I professionisti (avvocati, commercialisti e specialisti del mercato dell’arte) insieme al pubblico, “converseranno” sul necessario approccio consapevole che il settore dell’arte richiede sempre di più. Non si tratta semplicemente di applicare norme giuridiche a operazioni commerciali: si tratta di comprendere le implicazioni che ogni transazione, ogni consulenza, ogni consiglio legale e fiscale comporta per il patrimonio culturale stesso. In una città come Torino, che ha profonde radici nella storia dell’arte e dell’antiquariato, questa sensibilità rappresenta un elemento distintivo.

L’agenda dell’evento spazia su tematiche di straordinaria attualità. Dalla questione dell’autenticità e della certificazione delle opere, con la necessaria rigorosità scientifica, alla conservazione e valorizzazione delle collezioni, passando per i profili tributari della successione del patrimonio artistico illustrati dalla dottoressa Marta Tosi. Ogni intervento contribuisce a costruire un quadro articolato e complesso di quello che significa, oggi, possedere, trasmettere, proteggere e valorizzare beni d’arte.

Particolarmente rilevante appare il contributo di Montani Tesei, che affronterà le nuove forme di partenariato pubblico-privato per il futuro della cultura, indicando una strada possibile per la contemporanea gestione del patrimonio artistico in un’epoca di risorse pubbliche ridotte. La presenza di Vanessa Carioggia, moderatrice dei lavori, garantirà una prospettiva attenta ai profili trasversali che collegano i diversi aspetti affrontati durante l’incontro.

Quello che distingue Art&Law Conversation dai convegni tradizionali è proprio questo: non si limita a illustrare lo stato dell’arte della normativa, ma tenta di comprendere come il diritto, il fisco e la pratica legale possano stare al passo con un mercato e una società che cambiano più velocemente di quanto i codici riescano a prevedere. È un esercizio di prospettiva, di visione, di responsabilità condivisa verso la preservazione e la valorizzazione del patrimonio culturale.

Per chi opera nel settore artistico, sia da collezionista sia da professionista, per chi gestisce patrimoni e si interroga su come preservarli e trasmetterli, per chi semplicemente desideri comprendere meglio i meccanismi legali e finanziari che sottendono il mercato dell’arte contemporanea, questo appuntamento rappresenta un’occasione che difficilmente si ripete con questa qualità di contributi e con questa concentrazione di expertise.

La registrazione all’evento è aperta a chi desidera approfondire questi temi in compagnia di esperti riconosciuti a livello nazionale. Gli interessati possono contattare gli organizzatori all’indirizzo eventi@studiomorabito.eu  o info@santagostinoaste.it . L’accreditamento avviene attraverso la piattaforma Riconosco per gli avvocati. I dottori commercialisti possono registrarsi in loco. L’iniziativa gode del supporto del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Torino che sarà presente con l’avvocato Stefano Tizzani e del Consiglio dell’Ordine dei Commercialisti: entrambi condividono l’impegno verso l’eccellenza nella comprensione e nella gestione del patrimonio artistico incarnato nella XII Art&Law Conversation.

Una nota finale merita di essere segnalata: in una fase in cui sempre più spesso il collezionismo privato si interseca con questioni pubbliche di preservazione culturale, il ruolo dell’avvocato specializzato in diritto dell’arte acquista una dimensione nuova. Non è più semplicemente un consulente legale, ma un professionista che deve possedere una comprensione profonda dei valori in gioco, della complessità delle operazioni, della responsabilità che accompagna ogni decisione. La comunità torinese ha la fortuna di poter contare su professionisti di questa levatura che dedicano la loro pratica a questi temi.

Art&Law Conversation rappresenta così non solo un momento di aggiornamento professionale, ma un’occasione per riflettere collettivamente su come vogliamo che il diritto accompagni la cultura nel nostro Paese.

Mara Martellotta

Quella straziante foto di Yohanna

All’ “Accademia delle Belle Arti” di Torino, incontro con Cinzia Canneri, unica fotografa italiana fra i vincitori dell’ “World Press Photo”

Venerdì 24 ottobre, ore 18

Addis Abeba – Etiopia, 31 ottobre 2017. Un povero “interno”. Su uno stropicciato telo di stoffa, riposa, con la madre accanto che affettuosamente la tiene – accarezza per un braccio, Yohanna, giovane eritrea di soli 22 anni, colpita dalla polizia  al confine di Shambuko (in Eritrea), e risvegliatasi in un ospedale in Etiopia, dove ha scoperto che le era stato asportato un rene. In suo possesso, nessuna cartella clinica o documento scritto che giustifichi l’intervento chirurgico e l’asportazione dell’organo. Sull’addome, il segno di una lunga cicatrice. Forse meno dolorosa di quelle crude e disumane che Yohanna si porta e si porterà dentro per sempre negli anfratti più intimi della memoria e dell’anima. Lo scatto fa parte del progetto “Women’s bodies as battlefields” che definisce, in qualche modo, la stessa carriera artistica della fotografa, toscana di Follonica, Cinzia Canneri, autrice dello scatto ed unica italiana tra i vincitori di quest’anno dell’“World Press Photo”, il concorso di fotogiornalismo e fotografia documentaria (con sede ad Amsterdam) più prestigioso al mondo. Laureata in Psicologia e fra i fotoreporter più brillanti della nuova generazione, Cinzia è da sempre, e in ogni modo, impegnata nel “sociale”. Il suo progetto è stato premiato tra quelli “a lungo termine”: Canneri ha infatti seguito, macchina a tracolla, le vite di alcune donne in fuga dal regime repressivo in Eritrea e dal recente conflitto in Etiopia, la cosiddetta “Guerra del Tigré”, ufficialmente terminato nel 2022 ma con tensioni che continuano a causa di irrisolte dispute territoriali. Narrazioni, le sue, fissate nel tempo e specchio “impietoso” di atrocità che raccontano di corpi femminili vergognosamente e spietatamente ridotti a “campi di battaglia”.

A parlarne, venerdì 24 ottobre (alle 18), sarà la stessa Cinzia Canneri a Torino, in un incontro, moderato dalla giornalista Chiara Priante, in programma nel “Salone d’Onore” dell’“Accademia Albertina delle Belle Arti” (che, fino a lunedì 8 dicembre, espone ben 144 immagini di 42 fotografi selezionati nell’ambito dell’“World Press Photo Exhibition”), in via Accademia Albertina 6, con ingresso gratuito. Insieme a lei, ci sarà anche Meseret Hadush, etnomusicologa nata e cresciuta in Etiopia, “Ceo” e fondatrice di “HIWYET TIGRAY Charity Association”, attivista contro la violenza di genere e operatrice umanitaria. Vincitrice del “Bremen Solidarity Award 2025”, Hadush è stata proprio il riferimento di Canneri nel Tigray (la più settentrionale delle dieci regioni dell’Etiopia) e le ha permesso di svolgere il suo lavoro sul posto. L’incontro, organizzato all’“Accademia Albertina delle Belle Arti” di Torino, sarà dunque l’occasione per parlare di queste esperienze di vita e di lotta (in cui si trovano solidamente accomunate la Canneri e Hadush), ma anche di “fotografia”, di “libertà di stampa” e del “ruolo dei fotoreporter” in scenari meno narrati dai quotidiani.

Nel 2017,  Cinzia Canneri ha iniziato a documentare le esperienze delle donne eritree in fuga dal loro Paese e in cerca di rifugio in Etiopia, per sfuggire a un regime repressivo che ha implementato di fatto una coscrizione obbligatoria a tempo indeterminato. Molte di loro, fermate alle frontiere sono state assalite, violentate o colpite all’addome dalla polizia nazionale per impedire loro di avere figli. Mentre la guerra tra le forze governative etiopi contro il “Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè – TPLF” si diffondeva nella regione del Tigrè, l’attenzione di Canneri si è ampliata includendo anche le donne “tigrine”, che si stavano ora unendo alle donne eritree nella fuga dall’Etiopia verso i campi profughi ad Addis Abeba o in Sudan. Entrambi i gruppi sono stati bersaglio di violenza sessuale sistematica – stupri, sparatorie, torture – che, a causa dello stigma sociale, delle strutture sanitarie limitate e del limitato accesso di giornalisti nel Paese, rimane insufficientemente riportata dai media e compresa dal mondo in generale.

Nel gennaio 2024, Canneri ha peraltro co-fondato “Cross Looks”, un collettivo di donne italiane, eritree, tigrine e sudanesi che sta costruendo “una narrativa intersezionale sui temi di genere, classe, razza e altre forme di disuguaglianza sociale”.

Impegno “sociale” a tutto campo. Che non solo ha portato la Canneri a lavorare a lungo, sui temi succitati, nel Corno d’Africa, ma anche, fra l’altro, sulla coraggiosa documentazione di questioni sociali legate ad esempio allo “sfruttamento dei lavoratori”. Basti pensare, in proposito, che nel 2016 un suo Progetto, “Like Two Wings” sulle vittime dell’amianto ha ricevuto un “Premio di eccellenza” al “POYi Science and Natural History Picture Story” (presso la “Missouri School of Journalism”) e il primo premio all’“Umbria Fest” in Italia. Scatti, i suoi, che hanno trovato “casa” sulle pagine delle più prestigiose riviste internazionali, dal “New York Times”, al “Days Japan”, fino all’“Obs”, al norvegese “Aftenposten”, al “The Washington Post”, all’“Internazionale” e all’“Espresso”.

Gianni Milani

Nelle foto: Cinzia Canneri da “Women’s bodies as battlefields”; Cinzia Canneri

“Intracore”, ideata da Ghëddo, presenta diciotto artisti italiani emergenti

Aprirà il 23 ottobre prossimo, dalle 18 alle 22, presso la Cripta di San Michele, in piazza Cavour 12, a Torino, la mostra “Intracore”, promossa e curata dall’Associazione Ghëddo

Nella Cripta di San Michele, di piazza Cavour 12, a Torino, si inaugura giovedì 23 ottobre, alle ore 18, la mostra “Intracore”, ideata da Ghëddo, che presenta le opere di diciotto artisti italiani emergenti. La mostra è la prima tappa del programma annuale ideato da Ghëddo, che ogni anno porta artisti da tutta Italia a Torino con mostre negli spazi indipendenti, quali gallerie, musei e fondazioni della città.
La quarta edizione del programma TOBE è sostenuto da Fondazione Compagnia di Sanpaolo e Fondazione Venesio, patrocinato dalla Città di Torino e dall’Accademia Albertina. La mostra unisce i lavori di Anouk Chambaz, Francesco Bendini, Benedetta Ferrari, Giulia Gaffo, Alessandra La Marca, Luce Lee, Sara Lepore, Giacomo Mallardo, Ginevra Mazzoni, Matteo Melotto, Filippo Minoglio, Eleonora Maria Navone, Giulia Querin, Nicola Ranzato, Snem Snem, Miho Tanaka, Pietro Vedovato e Federico Zeltman.

Intracore nasce dall’unione tra “intra”(nel mezzo) e “core” (cuore). Al centro di questa edizione vi è il processo creativo inteso come nucleo complesso e ambivalente, dove convivono slancio e stallo, fiducia e dubbio, vulnerabilità e resistenza. Si tratta di un’indagine sul cuore vivo dell’arte emergente italiana che non teme l’inquietudine, ma l’assume come forma salvifica; l’ansia, l’angoscia e la rabbia, considerati sentimenti marginali e privi di slancio, vengono proposte come energie trasformative, capaci di aprire varchi verso nuove visioni e significati divergenti. Le opere site specific concepite per questa occasione dialogano con l’architettura, la storia e le simbologie della Cripta di San Michele Arcangelo a Torino, lo spazio circolare ipogeo situato nel cuore della città. La Cripta, ubicata nei sotterranei della chiesa, è stata costruita verso la fine del Settecento come edificio cattolico, oggi sede di culto bizantino. Questo luogo custodisce al proprio interno una stratificazione di storie e simbologie: la sua natura sotterranea e la forma circolare ne fanno una soglia ambivalente tra discesa e ascesa, tra dimensione sacra e terrena, tra linearità dell’esistenza e le temporalità circolari.

La mostra è frutto di una attività di ricognizione e mappatura delle pratiche artistiche emergenti avvenuta nei mesi di giugno e luglio 2025, e inaugura la quarta edizione del programma TOBE. Si tratta di un percorso promosso e curato da Ghëddo, volto a stimolare l’incontro e lo scambio tra artisti emergenti e professionisti del settore, che prevede diverse occasioni di confronto, review e studio visit realizzati insieme all’artista. I risultati di questo processo confluiranno in una serie di mostre tra gennaio e giugno 2026, ideate in dialogo con I partner del progetto. Il focus tematico delle edizioni di quest’anno è dedicato all’intreccio tra estrattivismo, razializzazione, sfruttamento umano e naturale che colpiscono l’equilibrio ecologico e sociale nel suo insieme. Questo tema è un invito a riconoscere i confini non come barriere, ma come membrane permeabili, zone dove coesistere è un atto politico e poetico.

Mara Martellotta