ARTE- Pagina 7

La Fondazione Garuzzo porta a XI’AN Nino Migliori

 

 

Fondazione Garuzzo, ente culturale senza fini di lucro con sede a Torino nata nel 2005 da un’idea di Rosalba e Giorgio Garuzzo, porta per la prima volta in Cina l’arte del grande fotografo bolognese Nino Migliori, 99 anni di cui 77 passati dietro la macchina fotografica.

Nino Migliori è uno dei capisaldi della fotografia italiana, nonché uno degli esponenti più autorevoli della scena internazionale. Per celebrare il lavoro dell’artista che ha contribuito a scrivere con la luce un pezzo della storia del nostro Paese ed è entrato a far parte dell’immaginario collettivo attraverso alcuni scatti iconici ed esemplari, Fondazione Garuzzo ha ideato la mostra dal titolo “Nino Migliori: una storia della fotografia italiana” curata da Alessandro Carrer e Clemente Micciché. L’esposizione aprirà il 7 marzo prossimo fino al 20 aprile all’Art Museum di Xi’an, uno dei più grandi spazi destinati a ospitare arte internazionale e contemporanea in Cina, che accoglie quasi un milione di visitatori ogni anno, e farà parte della rassegna Internazionale che celebra i quindici anni della nascita del Museo.

Il progetto rappresenta la prima grande retrospettiva del fotografo bolognese in Cina ed è stata resa possibile grazie ai rapporti tra la Fondazione Garruzzo che, dal 2005, si occupa di valorizzare l’arte contemporanea italiana nel mondo, e la Fondazione Nino Migliori , impegnata nella tutela del profilo e dell’identità artistica del fotografo. È anche stata resa possibile grazie ai decennali rapporti della Fondazione Garruzzo, il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione internazionale, l’Ambasciata d’Italia in Cina, l’Istituto Italiano di Cultura di Pechino e le istituzioni cinesi.

A Xi’an, una delle metropoli più celebri e visitate del Paese grazie alle molteplici architetture storiche e al millenario esercito in terracotta, la mostra su Nino Migliori presenta 194 opere che abbracciano grande parte della carriera dell’artista, dagli esordi ai giorni nostri, dalle serie realiste passando per le sperimentazioni e le ricerche connesse all’informale europeo, fino agli esiti più recenti.

Il fotografo bolognese, alchimista dell’immagine con una profonda e radicata fede nell’etica antica della fotografia, ha contribuito con la sua opera a spingere sempre più a fondo le possibilità espressive del linguaggio fotografico, mostrandone tutte le sfaccettature attraverso una ricerca prolifica quanto stupefacente. I suoi lavori sono da sempre il frutto di una costante e continua riflessione sulla fotografia, tanto dal punto di vista tecnico quanto teorico, con risultati innovativi e sperimentali che hanno cambiato nel corso del tempo l’idea e le potenzialità stesse del mezzo fotografico. Anche le immagini cosiddette “sperimentali” sono frutto di una serie di tecniche spesso ideate dallo stesso Migliori con risultati incredibili, in cui il gesto dell’autore e la materia sono predominanti rispetto all’immagine.

In settantasette anni di carriera Nino Migliori ha perpetuamente sconfinato tra fotografia e arte, scrivendo con le sue opere un vero e proprio poema sull’umanità, e firmando quello che senza dubbio può essere considerato uno dei percorsi più dinamici e interessanti dell’intera cultura fotografica occidentale.

X’ian Art Museum- X’ian

Dal 7 marzo al 20 aprile 2025

 

Mara Martellotta

… Se un lampo di luce (di nuova vita) squarcia il buio della città!

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Grande affluenza di pubblico e un notevole riscontro di giudizi positivi per la mostra “Fari nella Città” da poco conclusasi presso la sede dell’ “ACI” torinese

Settantotto (dicasi settantotto!). Un grande sforzo e un encomiabile impegno per gli organizzatori, che hanno saputo mettere insieme un così nutrito drappello di artisti per dare spazio a immagini, a idee, sogni e speranze legate a un nuovo (da ricercare) modo di vivere e di intendere la “città” – la nostra, insieme a tante altre – come spazio non di singola “pertinenza” ma luogo in cui intrecciare, in modo saldo e convinto, culture, passioni, affetti e tradizioni che siano base necessaria ad un vivere più umano e aperto, a visioni future meno bieche e meno povere di speranze. Su questo non facile tema si sono cimentati gli intrepidi 78 (di cui sopra), operanti nell’ambito della pittura, della fotografia, della scultura e pur anche della poesia, partecipanti all’esposizione “Fari nella città. Riflessi di vita ” conclusasi, nei giorni scorsi presso i prestigiosi Saloni della nuova sede di “CASA ACI”, in piazzale “San Gabriele di Gorizia” a Torino. Ormai giunta alla sua quinta edizione, la mostra è stata organizzata con passione ed encomiabile competenza da Anna Sciarrillo, da quarant’anni “delegata ACI” e lei stessa affermata pittrice, in collaborazione con il subalpino “Circolo degli Artisti”.

E’ lei stessa ad affermare, a conclusione della “Mostra”, anche quest’anno concepita come Mostra – Premio Arti Visive”“I Saloni della nuova ‘CASA ACI’ hanno rappresentato , ancora una volta, il palcoscenico di un sogno, dove ogni artista ha interpretato in pittura, scultura, poesia e fotografia il suo personale sentire e ha donato un pezzettino della sua anima”“Le opere – prosegue la Sciarrillo – meritevoli tutte di attenzione, sia per la qualità del lavoro sia per il soggetto rappresentato, hanno riscontrato un alto gradimento da parte dei visitatori, della Direzione dell’ ‘ACI’ e dei critici che, insieme al voto del pubblico, hanno premiato le opere più gradite”.

Giuria di critici e pubblico, insieme. Scelta non facile per la premiazione di lavori che, nel complesso e nella loro originalità (pur se spesso occhieggianti a “grandi” prove del “passato” o del “contemporaneo” più o meno attuale) hanno comunque dimostrato d’aver inteso a fondo l’invito e la proposta concettuale dell’evento, che riassumo con mie (spero centrate) parole: Guardati intorno, osserva con gli occhi dell’anima la tua città, quel groviglio di case, monumenti, antichi palazzi, la gente che ti sfiora e cerca il tuo sguardo, un tuo cenno, quel passaggio lento o veloce di un’auto, dei suoi fari che stropicciano il buio… e poi fermati, osservati, dentro e fuori, cerca di capire chi sei, chi vuoi essere, chi mai vorresti essere. Accendi i fari!  Come ci ricordano i versi di Marisa Bordiga, autrice di “Fari nella città”, fra le poesie portate in mostra: “E domani forse/ci vorranno fari …/fari in tutte le città/ O sopra le città/ A rischiarare nebbie/ di uomini accecati/dalla grigia polvere/ di un frettoloso andare …”.

Fermiamoci allora ad osservare, nel contrastante blu, scuro e luminoso, di una notte, che s’apre (quasi fosse la prima volta) alle sagome scultoree di una “nuova” monumentale Torino, rappresentata da Pippo Leocata – in un continuo frenetico girovagare fra temi di arcaica classicità e segni gestuali di rapida incisiva grafia – attraverso legni di recupero e acrilici, agli splendori della Cupola del Duomo o della sommità della Mole così come a quei virtuosi Dioscuri, (opera di Abbondio Sangiorgio), posti, in segno di buon auspicio, all’entrata della centrale Piazzetta Reale. La notte, sembra ricordarci l’artista siciliano (torinesissimo d’adozione e allievo dell’indimenticato Mollino), è fatta anche per perderci nel gioco suggestivo delle emozioni.

“Di notte un ateo crede quasi in un Dio” diceva, tre secoli or sono, il poeta e prelato britannico Edward Young. E, a pensarlo, è anche Leocata. E, di sicuro, anche noi. Fra le più “votate”, la sua opera, “Omaggio a Torino”, del 2019. Così come “La voce della città”, pittura su vetro, della stessa Sciarrillo, di tutt’altra atmosfera, racconto di Cupole, Chiese, Santuari, antiche e nuove architetture urbane, tutte unite in un unico gioco dialettico, gestuale e cromatico, che è voce luminosa ed illuminante di benedetta “inclusività”, di culture diverse che si riconoscono e si danno la mano nel vociare festante di luci che sono speranza, serenità e amore. Sul podio anche la sfocata, notturna e informale “visione” di Giancarlo Galizio, dove quanto resta di un’ormai sfaldata “sfera di fuoco” incrocia gli impercettibili fanali (che poco possono) di un’auto che timidamente varca il muro della notte, per addentrarsi a fatica in un mondo di cui ben poco riuscirà a far parte viva. Di tutt’altra tempra la foto di Mirco Saletti. Nitida! Qui la città, la città ambientalista scende in piazza. E’ protesta. Anche questa è città. Filtrata attraverso i segni della più spicciola cronaca. Ricca di voci. Di gesti. Di attese in un domani … che sia altro! Ma … che sia!

Gianni Milani

Nelle foto: “Fari nella città”, immagine-guida e opere di Anna Sciarrillo, Pippo Leocata, Giancarlo Galizio e Mirco Saletti

Al Mastio della Cittadella  la mostra dedicata a Paul Gauguin 

 

“Gauguin – il diario di Noa Noa e altre avventure”  visitabile fino al 29 giugno prossimo.

“Il percorso di questa mostra intende raccontare l’avventura umana e artistica di Paul Gauguin – ha dichiarato il curatore Vincenzo Sanfo – uno dei grandi protagonisti dell’arte moderna, un artista che ha cambiato il volto dell’arte ispirando pittori come Munch, Matilde, Picasso e gli espressionisti tedeschi da Nolde a Heckel”.

L’esposizione, che è ospitata al Mastio della Cittadella – Museo storico nazionale di artiglieria di Torino, è prodotta da Navigare srl, con il patrocinio della Regione Piemonte e della Città di Torino. La rassegna prende le mosse da un libro scritto da Gauguin durante il suo primo soggiorno nella Polinesia francese, “Il diario di Noa Noa”(1893-1894) arricchito da splendide xilografie stampate dal suo amico Daniel de Monfreid, realizzate con l’antica tecnica dell’incisione su legno. La mostra si compone di oltre 160 opere, tutte provenienti da collezioni private italiane, francesi e belghe, e da alcune collezioni museali francesi e italiane. Presenta oltre cento tra xilografie, disegni e litografie realizzate da Gauguin, insieme a due opere a lui attribuite: l’olio su tela “Femme de Tahiti”, del 1891, e l’acquerello “Paysage Tahitien”.

All’antica Polinesia, guardata con curiosità e sospetto dai contemporanei francesi per la sua cultura primitiva, ma luogo di elezione per l’irrequieto outsider Gauguin, che vi si trasferì negli ultimi 10 anni della sua vita, nell’ultimo decennio dell’Ottocento, fanno riferimento anche le 16 litografie a colori della serie “Ancien culte Mahorie” del 1892, due sculture del 1893, di cui una in bronzo e l’altra in terracotta, e la pregiata maschera di donna tahitiana “Tehura”, in bronzo patinato, proveniente dal Musée Despiau-Wlérick in Francia, oltre al carnet di 38 disegni con bozzetti raffiguranti studi su ritratti, dettagli del colpo umano e del mondo animale. Importanti anche le stampe litografiche, in fax simile, contenute nell’ultimo libro scritto da Gauguin, dal titolo “Avant et après”, terminato due mesi prima di morire, nel 1903, e pubblicato postumo. Si tratta di una sorta di manifesto-diario con appunti e considerazioni sull’arte, sui rapporti di amicizia e su altri argomenti cari all’artista. Se la cultura e il quotidiano vissuti a Tahiti ebbero su di lui una grande influenza, non meno importanti furono i suoi rapporti con il mondo occidentale, con la Francia, con i suoi colleghi e amici artisti.

La mostra ospita anche 45 opere, disegni, incisioni e dipinti realizzati da 13 nomi illustri dell’arte francese dell’Ottocento, tra cui un’opera dell’amico-nemico Vincent Van Gogh, del quale sono presenti 12 litografie a colori, a Jean-François Millet, con la splendida acqueforte “L’Angelus”, fino ad Adolphe Beaufrère, presente con 4 acquaforti, e Louis Anquetin. Non potevano mancare artisti del gruppo Nabis di Pont – Aven, in Bretagna, altro luogo determinante per la vita di Gauguin. Del gruppo Nabis si ricordano Maurice Denis, autore in questa mostra di litografie a tema religioso, Émile Bernard, qui con una serie di 6 litografie acquerellate “Bretonnières”, in esposizione insieme a un suo olio su cartone, e Paul Sérusier, autore di un olio su tela “L’adieu a Gauguin”, in prestito dal museo francese di Quimper. È inoltre presente uno schizzo realizzato da Gauguin ad Arles, in cui ritrae Van Gogh nell’atto di dipingere i girasoli. Da segnalare anche il disegno “Studio di braccia, mani e piedi”, opera che si salvò miracolosamente da un incendio che distrusse la casa di Gauguin dopo la sua morte, sull’isola della Polinesia dove viveva.

La mostra aprirà al pubblico dall’1 marzo al 29 giugno 2025

Orari: martedì-venerdì 9.30-18.30 / sabato, domenica e festivi 9.30-19.30 / lunedì chiuso

Biglietteria in sede e su Ticketone

Mara Martellotta

Il paesaggio ottocentesco, dall’età romantica al simbolismo

A Novara, negli spazi del castello visconteo, sino al 6 aprile

Due figure femminili, di differenti età, introducono dalla mura del castello visconteo di Novara alla mostra “Realtà Impressione Simbolo. Paesaggi. Da Migliara a Pellizza da Volpedo”, visitabile sino al 6 aprile prossimo (www.metsarte.it): la pastorella, ovvero la bambinaia dei figli del pittore, che, posta da Segantini nella distesa dei prati e tra le nevi del Cantone dei Grigioni, si mette al riparo del sole facendosi ombra con il cappello di paglia a larga falda e con il palmo della mano (“Mezzogiorno sulla Alpi”, 1891), e la vecchia, nello sguardo di Carlo Fornara, in un incessante susseguirsi di piccoli e ravvicinati tratti di colore, lineari e in spirale, curva sotto il peso del fascio di legna che avanza sotto le sferzate del freddo vento del nord in un sapiente alternarsi di azzurri e di rosati, “L’aquilone” del 1902. Un sipario d’introduzione ma rintracciabili nell’ultima delle nove sezioni in cui è suddivisa la mostra, là dove il divisionismo oltre ai succitati abbraccia alcune opere di Morbelli – il paese sull’alto della collina con i pochi personaggi, “Nebbia domenicale” del 1880, riproposto sotto diversa atmosfera trentacinque anni dopo – e di Pellizza da Volpedo, di cui si rivede quel capolavoro di vita e di arte che è “Sul fienile” (1902), un favolistico tratteggio in terra monferrina che confina per molti versi con il pointillisme parigino, intimo e struggente, una scena d’agonia e di sacramenti tra religiosità e povertà posta nell’ombra e messa a confronto con la luce netta che piove su una calda giornata d’estate. Un divisionismo, ancora con Segantini, capace di sfociare in una nuova sperimentazione linguistica e in una incursione in netto clima simbolista, nell’”Amore alla fonte della vita”, del 1896, proveniente dalla Galleria d’Arte Moderna di Milano, commissionata dal principe russo Jussopoff di San Pietroburgo, “l’amore giocondo e spensierato della femmina, e l’amore pensoso del maschio, allacciati insieme dall’impulso naturale della giovinezza e della primavera” ebbe a scrivere l’artista in una lettera a Domenico Tumiati, fratello dell’attore Gualtiero, mentre “un mistico angiolo sospettoso stende la grande ala sulla misteriosa fonte della vita, l’acqua scaturisce dalla viva roccia, entrambi simboli dell’eternità”.

Uno sguardo per “Paesaggi” che s’incrocia su Piemonte e Lombardia soprattutto, unendo altresì la Liguria (i nomi e la zona di Carcare) e le valli svizzere, con le ricche testimonianze – in un percorso coordinato per isole da Elisabetta Chiodini – provenienti dalle Gam di Torino Milano e Genova e Ricci Oddi di Piacenza, dal museo Segantini di St. Moritz e quello del Paesaggio di Verbania, dalla Galleria Giannoni di Novara. Un percorso che ha inizio dall’età romantica del paesaggio, a partire da quella serie di vedute lombarde che nel 1807 Eugenio di Beauharnais, vicerè d’Italia, commissiona a Marco Gozzi “con l’intento di documentare le località più pittoresche e le opere di ingegneria d’importanza strategica nello sviluppo del territorio”. Faranno seguito i panorami della Franciacorta ad opera di Luigi Basiletti, ville e poderi e personaggi ripresi con netto realismo sino all’arrivo a Milano di Massimo d’Azeglio che s’afferma sulla scena artistica con la formula del “paesaggio istoriato” (“La morte del conte Josselin di Montmorency”, 1825), ove prevale l’aspetto storico immerso in ampie vedute studiate dal vero, e alla “sensibilità moderna” di Giuseppe Canella (del ’38 è la sua “Veduta della laguna di Venezia”, barche e pescatori rischiarati da un vasto tratto d’orizzonte illuminato dalle ultime luci della sera), colpito dall’esempio dei maestri fiamminghi incontrati nelle sale del Louvre all’epoca del suo viaggio parigino. La necessità di andare oltralpe, di superare i confini per saggiare apporti diversi che possono giungere tra gli artisti del nord Italia: si sviluppa l’area mitteleuropea, con i suoi personaggi immersi in un’atmosfera romanticonaturalista, con l’influenza tra gli altri di Alexandre Calame, ginevrino, e Julius Lange, tedesco, che spingeranno i loro colleghi a studiare la natura dal vero, e con gli incontri – da parte di Fontanesi, ad esempio, nelle sale dell’Esposizione Universale parigina del 1855 – con la scuola di Barbizon, con Corot e Daubigny e Rousseau, autore quest’ultimo del bellissimo “Ancien moulin de Saint-Ouen” datato intorno al 1832.

Sarà, verso gli anni Sessanta, la città di Ginevra il punto d’incontro dei tanti artisti, con la scuola di Calame, con gli incontri e le amicizie e i sodalizi artistici che nascono tra il torinese Avondo e il portoghese de Andrade, tra il genovese Rayper ed Ernesto Bertea, pinerolese, consolidati tra i tavolini del caffè du Bourg: una spinta a immergersi al centro della natura, a coltivare l’en plein air, a sviluppare le successive esperienze d’ambito realista, pronte a trovare sede a Rivara, nel canavese, in casa di Carlo Ogliani cognato di Carlo Pittara, e a Carcare, nel savonese, dove prenderà forma la “Scuola dei Grigi”. La natura soprattutto, certo, come è per Fontanesi (“Aprile. Sulle rive del lago del Bourget”, 1864), ma anche l’occasione per guardare – all’interno di un paesaggio livido e spoglio – alla vita sociale, per cui “Buoi al carro” di Pittara può essere anche letto come “Le imposte anticipate” (1865), o al progresso che avanza, unica quella “Via ferrata” di Tammar Luxoro, di origini genovesi, con il treno e il suo sbuffo che attraversano la campagna, e siamo già al 1870. Ad ingigantire il confronto tra il pittore e ciò che lo circonda, saranno Fisanotti e Riccardi, professori di paesaggio a Brera, a portare tra i Sessanta e i Settanta i loro allievi a dipingere nelle campagne dei dintorni di Milano, “spronandoli a confrontarsi con il vero e a cercare di restituire sulla tela le luci, i colori, le ombre” che esistono in natura: quindi non più il paesaggio concepito come una veduta scenografica dove dettano ordini rigide norme compositive e di prospettive, un unicum di accordi di luci e di colori dovranno avere il sopravvento, alla ricerca di una esatta “impressione”. La figura di maggior spicco Filippo Carcano, in sala tutta l’ampiezza (101 x 200 cm) della sua ”Isola dei Pescatori”- il pittore è quarantenne – gioiello del lago Maggiore, datato 1880, in collezione privata, la sponda e le case e il campanile quasi miniaturizzati in tanta precisione, lasciando al paesaggio tutt’intorno la libertà di una tranquilla dispersione.

Con Carcano compaiono i nomi di Delleani (“Giochi di bimbi”, 1885), di Francesco Filippini e il suo ampio sguardo, quasi a perdita d’occhio e dove è meraviglioso perdersi, sull’andata al “Vespro” (1891), di Eugenio Gignous ancora a guardare, sei anni dopo, alle luci dell’”Isola dei Pescatori”, di Achille Befani Formis che “Sulla Strona” guarda alla fatica e ai canti delle lavandaie. Il paesaggio si trasporta altresì nel cuore della città, nel rappresentazione della veduta urbana, coglie le attività quotidiane, le voci e i volti, le differenti età di chi la abita, le contrastanti classi sociali, fotografa ricchezza e nobiltà, la povertà che serpeggia ovunque. Il “naturalismo lombardo” s’impossessa non più dei motivi agresti e montani finora imperanti, ma delle vie e delle strette strade che brulicano di gente mattiniera, degli angoli nascosti e poco frequentati, magari banali, delle trasformazioni che abbelliscono e ingigantiscono l’intera città. È una scommessa a rendere in ambienti del tutto nuovo, ben altro da quanto frequentato in precedenza, i giochi di luci, l’intrecciarsi di riflessi, il sovrapporsi di fresche e felici suggestioni, maestri nel dividersi tra ambienti ora colpiti dalla luce piena del sole come offuscati da giornate nebbiose e rabbuiate. Grandi segnali arrivano dalla “Nevicata” di Segantini e dagli angoli notturni o ancora coperti di neve di Mosè Bianchi, vero cantore della sua Milano, le luci che rischiarano e mettono in mostra gli abiti delle signore forse alla ricerca di una carrozza (“Milano di notte”, 1886) o quella “Prima neve” (1890), dove si va di fretta, dove s’aprono passaggi sgombri, dove poveri calessi tentano d’avanzare a fatica.

Al termine del percorso – preciso, suggestivo, accattivante nei soggetti e nello svolgimento, nell’intreccio di luci e colori, nella sequenza dei tanti nomi – attendono ancora i dipinti di Leonardo Bazzaro, un angolo intimo di vita e di piacevolezze familiari, realizzati tra il 1900 e il 1905, ambientati in quell’oasi felice che per il pittore fu la residenza all’Alpino, un villino fatto costruire sulla strada che conduce da Gignese al Mottarone: felicità di soggiorni estivi soprattutto, tra amici, la cura dei fiori (“I miei fiori” venne presentato alla mostra della Promotrice torinese nel 1900, e riapparve solo qualche anno fa, dopo oltre un secolo) e le chiacchiere al tavolino con le amiche o i giochi con le piccole nipoti da parte della moglie del pittore. E un breve focus intorno alla figura di Pellizza, lo studio del paesaggismo inglese da Turner a Constable, le riflessioni su Fontanesi, uno sguardo più attento a quanto ci circonda devenuto uno dei temi prediletti dell’ultima stagione pittorica, la tecnica che il pittore stesso definisce impressionistica, il perfetto risultato che sono “La Clementina” e “Valletta a Volpedo”: una nuova visione, il paesaggio osservato dal vero che diviene “un luogo mentale”, una rilettura, “un’immagine universale della natura e del potere rigenerativo della luce”.

Elio Rabbione

Nelle immagini: Giovanni Segantini, “Mezzogiorno sulle Alpi”, 1891, olio su tela, St. Moritz, Segantini Museum, proprietà della Fondazione Otto Fischbacher – Giovanni Segantini; Carlo Fornara, “L’Aquilone”, 1902, olio su tela, coll privata; Giuseppe Pellizza da Volpedo, “Sul fienile”, 1893-94, olio su tela, coll privata; Antonio Fontanesi, “Aprile. Sulle rive del lago del Bourget, in Savoia”, 1864, olio su tela, coll privata; Mosè Bianchi, “La prima neve”, 1890, olio su tela, coll privata.

Ferdinando Scianna racconta Henri Cartier-Bresson

I Giovedì in CAMERA

 

Il maestro dei maestri

27 febbraio 2025, ore 18.30

CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia

 Via delle Rosine 18, Torino

 

Martine Franck, Henri Cartier-Bresson e Ferdinando Scianna, Bagheria, Italia, 1986 © Martine Franck, Magnum Photos

Il 27 febbraio 2025, alle ore 18.30, CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia inaugura il ciclo di incontri I Giovedì in CAMERA dedicati alla nuova mostra Henri Cartier-Bresson e l’Italia, ospitando Ferdinando Scianna, primo fotografo italiano membro della leggendaria agenzia Magnum Photos.

A partire dalle immagini esposte in mostra, Scianna ripercorrerà la lunga carriera di Henri Cartier-Bresson, guidando il pubblico alla scoperta dell’occhio del secolo che ha cambiato per sempre il modo di vedere il mondo attraverso un obiettivo.

 

Per Scianna, Cartier-Bresson non è stato solo un punto di riferimento ma un vero e proprio mentore, “il maestro dei miei maestri”, ed in effetti il fotografo francese ha ispirato generazioni di artisti e fotoreporter, attraverso scatti che hanno fatto la storia della fotografia per la straordinaria gestione dello spazio dell’immagine, il rapporto tra realtà e invenzione e la capacità di cogliere l’istante: tematiche, del resto, definite proprio in Italia, nelle fotografie realizzate durante il primo viaggio nel Paese, nel 1932. È a Parigi, tuttavia, che Scianna incontra il maestro, con il quale instaura non solo una lunga collaborazione professionale – sarà proprio Cartier-Bresson a introdurlo tra i grandi talenti di Magnum Photos – ma anche un legame di profonda ammirazione e amicizia, che li accompagnerà fino alla scomparsa del fotografo francese, avvenuta nel 2004.

 

Durante l’incontro, in compagnia di Walter Guadagnini, direttore artistico di CAMERA e co-curatore della mostra, Scianna coinvolgerà il pubblico in una conversazione che, tra immagini e aneddoti personali, approfondirà la figura e l’impatto di un protagonista assoluto della storia della fotografia. Un’opportunità unica per immergersi nell’arte e nella vita di Henri Cartier-Bresson, attraverso la voce di un altro grande fotografo che lo ha conosciuto da vicino.

 

L’incontro ha un costo di 3 euro. Per partecipare è consigliato prenotare sul sito di CAMERA

Da Picasso a Warhol, la ceramica dei grandi maestri

“Forma e colore – da Picasso a Warhol”, la ceramica dei grandi maestri è protagonista alla galleria Sottana dell’oratorio San Filippo Neri di una interessante mostra aperta fino al 2 giugno prossimo

La galleria Sottana dell’oratorio San Filippo Neri ospita da sabato 15 febbraio la mostra intitolata “Forma e colore. Da Picasso a Warhol”, la ceramica dei grandi maestri.

“Un importante storico dell’arte del Novecento – cita Giovanni Iovane – Henri Focillon, in un suo saggio ‘Vita delle forme’ nel 1936 così scriveva ‘ ogni materia porta racchiusa in sé  la propria vocazione formale’. La vocazione formale della ceramica  e dei suoi derivati come la terracotta, vanta una sua storia plurisecolare , ma è con le avanguardie storiche del Novecento che riscopre una apertura  verso quei materiali di uso quotidiano,  verso quegli oggetti come i piatti, ma anche i giornali, il  cartone e la plastica che ci circondano e reclamano, oltre all’uso e alla funzione, una propria vocazione formale. Le cose che ci circondano, nella vita quotidiana, non sono solo elementi aggiuntivi o sostitutivi dei materiali canonici della storia dell’arte, ma hanno titolo e diritto a reclamare una propria autonomia formale come il marmo o la pittura a olio o acrilico.

La ceramica un tempo era una forma di arte minore o un  riempitivo economico come in Renoir. “Dopo Picasso – spiega Vincenzo Sanfo, curatore della mostra insieme a Giovanni Iovane – quello che prima era considerato soltanto un passatempo per gli artisti  diventa a tutti gli effetti una pratica artistica a tutto tondo e in cui tutti gli artisti tenteranno di cimentarsi a volte con risultati sorprendenti. Nel Novecento si aprirà quindi una gara fra gli artisti di tutto il mondo che, sull’onda di Picasso, vorranno cimentarsi anch’essi con questa tecnica e con le sue diverse sfaccettature. Ne nasce, in parallelo, un collezionismo attento e paro a quello dei dipinti, dei disegni, della scultura e che consente  di allargare il piacere della collezione anche a fasce di pubblico economicamente meno privilegiate.

La ceramica, per la sua duttilità, la sua luminosità, la ricchezza della sua cromia e, non da ultimo, per la facilità della sua collocazione, troverà grandi spazi nel mondo artistico internazionale dando a questa pratica la possibilità di divenire estremamente popolare e diffusa”.

“È stato Picasso – prosegue Vincenzo Sanfo –  a sdoganare la ceramica e a introdurla nel mondo dell’arte, segnando un nuovo percorso che, dopo di lui, vedrà altri grandi maestri dedicarsi a nuove modalità espressive, deviando dai loro consuetudinari ambiti, come la pittura e la scultura. In questa mostra ne sono presenti circa un centinaio, provenienti da ogni parte del mondo, dalla Spagna alla Cina, passando per il Messico, per una esposizione unica nel suo genere”.

“La ceramica, per la sua duttilità, luminosità, ricchezza di cromia e, non ultimo, per la facilità di collocazione, troverà grandi spazi nel mondo artistico e internazionale – precisa Vincenzo Sanfo – dando a questa pratica la possibilità di diventare estremamente diffusa. Non si contano i piatti decorati, i vasi, gli oggetti da collezione, le piccole o grandi sculture che, presenti ovunque, addobbano e danno forza anche dal lato meramente decorativo, a collezioni importanti e diffuse in tutto il mondo”.

Fino al 2 giugno prossimo, la galleria Sottana, attigua alla chiesa più grande di Torino, San Filippo Neri, accoglie circa 100 opere in ceramica provenienti da collezioni private firmate da grandi artisti del Novecento e contemporanei, originari di gran parte del mondo, che hanno praticato l’arte della ceramica senza essere ceramisti puri, bensì, per lo più scultori e pittori. Per quanto riguarda la Cina, sono in mostra opere di Ai Weiwei e Zhang Hongmei, due tra i più grandi maestri del panorama artistico cinese, in cui vi è una visione del tutto antitetica che trova nelle opere di artisti come Pan Lusheng, Liu Ruo Wang e Xu De Qi, i loro compagni di strada, una lucidità di percorso tra poesia e contestazione.

Un mondo in parte ancora sconosciuto è quello della creatività latino americana che spazia dall’arte optional di Julio Le Parc al surrealismo contemporaneo di Vik Muniz, fino alle presenze sofferte di Javier Marin. Sono tutti artisti che ci portano a scoprire una creatività in divenire, raccontandoci con la ceramica l’inquietudine e le speranze di un continente complicato e complesso.

Il mondo dell’arte italiana frequenta da sempre la ceramica, dai derivati della terracotta alla porcellana, sino ai gessi e ai cementi. In mostra si possono ammirare le ceramiche di Marco Nereo Rotelli, una vetrina dedicata a Ezio Gribaudo, una a Marco Lodola, ceramiche di Enzo Rovella e Franco Garelli, che dimostrano come questo rapporto tra la terra e il fuoco sia presente nel nostro DNA. La ceramica è anche stata capace di abbracciare l’arte concettuale, e lo dimostrano le presenze in mostra delle opere di Sol LeWitt, Rudolf Stingel, Alighiero Boetti, che ci riportano a un concetto rigoroso e mentale dell’opera d’arte.

Molto significativa è la sezione e dedicata a Picasso. L’arrivo a Vallauris di Picasso, e il suo improvviso innamoramento per la ceramica, complici anche i begli occhi di Jacqueline Roque, che diverrà da lì in avanti la sua compagna di vita, costituisce una sorta di spartiacque tra una concezione utilitaristica o decorativa della ceramica e un suo approdo nel mondo dell’arte moderna che guarderà al fare ceramica in modo nuovo e con crescente interesse.

La creatività femminile trova, in questa sezione, tutta la sua ricchezza: la ceramica è anche donna e lo dimostra la creazione di Marina Abramovic per Illy Cafè, i lavori di Louise Bourgeois, di Jenny Holzer e Yoko Ono, che raccontano con le loro opere come la creatività femminile sappia essere protagonista anche nel mondo della ceramica.

Oratorio San Filippo Neri – galleria Sottana – via Maria Vittoria 5, Torino

Martedì-domenica dalle 10 alle 19 / lunedì chiuso / Pasqua chiuso / aperture straordinarie 21/04 e 02/06

Mara Martellotta

Berthe Morisot Pittrice impressionista: superati 77mila visitatori, ultimi giorni per visitare la mostra

GAM – Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino Fino a domenica 9 marzo 2025

 

Giovedì 6 marzo:

dalle ore 18:00 momenti musicali gratuiti in mostra a cura del Conservatorio Statale

di Musica Giuseppe Verdi di Torino e apertura fino alle ore 21:00

Finissage domenica 9 marzo:

mostra aperta fino alle ore 21:00

La biglietteria chiude alle ore 20:00

www.gamtorino.it

Installation view ‘Berthe Morisot. Pittrice impressionista’, GAM Torino. Ph. Perottino

Superati i 77.000 visitatori per la mostra “Berthe Morisot. Pittrice impressionista” che prosegue con successo alla GAM – Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino fino a domenica 9 marzo.

In occasione degli ultimi giorni di apertura, giovedì 6 marzo e domenica 9 marzo la mostra resterà aperta fino alle ore 21:00 (chiusura biglietteria ore 20:00) per consentire al pubblico di scoprire la storia e i capolavori di Berthe Morisot, unica donna tra i fondatori del movimento impressionista.

Inoltre, per offrire un’esperienza di visita ancora più coinvolgente, giovedì 6 marzo sono previsti tre momenti musicali gratuiti in mostra – alle ore 18:00, 19:00 e 20:00 – a cura del Conservatorio Statale di Musica Giuseppe Verdi di Torino (Classe di Arpa della Prof.ssa Patrizia Radici e di Musica da camera della Prof.ssa Francesca Gosio. Michele Ruggieri, Silvia Cavallotto, violini; Irene Dosio, viola; Chiara Boido, violoncello; Elisa Giordano, flauto; Dorian Zolfaroli, clarinetto; Francesco Cassone, Emanuele Raviol e Leonardo Zaccarelli, arpe; Gabriele Manfredi, chitarra; Musica di Cesar Franck, Alexandre Tanzman, Maurice Ravel).

Berthe Morisot, Pastorella sdraiata , 1891, olio su tela.

Parigi, musée Marmottan Monet, legs Annie Rouart, 1993. lnv. 6021

L’esposizione è organizzata e promossa da Fondazione Torino Musei, GAM Torino e 24 ORE Cultura – Gruppo 24 ORE, a cura di Maria Teresa Benedetti e Giulia Perin, con il sostegno eccezionale del Musée Marmottan Monet di Parigi, istituzione che vanta la più grande raccolta di opere di Berthe Morisot da cui provengono importanti dipinti, e realizzata grazie allo sponsor BPER Banca.

La mostra illustra il legame di Morisot con la poetica del movimento e fa emergere il suo personalissimo timbro nel cogliere la labilità dell’attimo, a simbolo della fragilità dell’esistenza, capace di rappresentare con grazia gli elementi della natura e della realtà.

L’allestimento dell’esposizione accoglie anche un display, realizzato da Stefano Arienti, artista italiano tra i più riconosciuti, che si inserisce all’interno di un progetto concepito da Chiara Bertola, Direttrice della GAM – Galleria Civica di Arte Moderna e Contemporanea, intitolato l’Intruso. In dialogo con le opere di Morisot, il contributo di Arienti si sviluppa lungo tutto il percorso espositivo, utilizzando una varietà di elementi per immaginare un contesto e un’ambientazione inedita delle opere dell’artista che arricchisce l’esperienza dei visitatori.

Con Audace Resa, le ceramiche dei Cantieri Montelupo

A Torino presso Flashback Habitat

La mostra con Audace Resa: dai Cantieri Montelupo, si è inaugurata, presso gli spazi di Flashback Habitat Ecosistema per la culture contemporanee, in corso Giovanni Lanza 75, e rimarrà aperta fino al 18 maggio prossimo. L’esposizione racconta l’evoluzione del progetto di residenza d’artista a Montelupo Fiorentino, attraverso una selezione di opere che documentano il lavoro nelle botteghe e la ricerca sviluppata nel confronto con i ceramisti.

Si tratta di un percorso in continua trasformazione che riflette il dialogo tra arte e artigianato attraverso un processo dinamico e aperto. La rassegna rappresenta il momento conclusivo di un progetto nato alcuni anni fa di un percorso di residenza d’artista realizzato dalla Fondazione del Museo di Montelupo Fiorentino, con il sostegno del bando Toscanaincontemporanea. Il principio alla base dei Cantieri Montelupo è chiaro: gli artisti invitati non hanno esperienza pregressa con la ceramica, né devono partire con un progetto predefinito. La creazione nasce dal dialogo tra arte e artigianato, attraverso un confronto diretto con chi lavora la materia ogni giorno. Nel corso degli anni il progetto ha generato un intreccio di relazioni tra laboratori, botteghe e persone, arricchendosi di workshop e momenti condivisi. La mostra restituisce questa rete di scambi e sperimentazioni, e offre uno sguardo privilegiato su un’esperienza artistica in continua evoluzione. Il progetto è stato curato da Christian Caliandro, che ha messo in correlazione  gli artisti e i designer ospiti con gli artigiani del territorio, per lo sviluppo di opere, collezioni e manifatture. Il risultato è ora visibile nel complesso diretto da Alessandro Bulgini, ed è rappresentato da quelle ceramiche frutto dell’interazione tra alto artigianato e arte contemporanea.

Si può ammirare una serie intitolata Ruud Ralith. Si tratta di lastre, scodelle, brocche, mattone refrattario che sembrano manufatti nuovi e antichi. Sono il frutto del lavoro della fotografa Maria Palmieri insieme a Patrizio Bartoloni, cimentandosi un un’innovazione della fotoceramica e creando un lavoro sperimentale sulle superfici. Duecento piattini decorati con la figura dell’uccellino, motivo più ricorrente della pittura su ceramica di Montelupo, sono opera del più giovane degli artisti invitati: Giovanni Ceruti, affiancato nel suo lavoro da Stefano Bartoloni. Sono anche presenti oggi a metà strada tra moda, design e artigianato come i completi intimi tra ceramica e tessuto di Manuela Barilozzi Caruso, realizzati con le ceramiche Gilio, Ivana Antonini, Veronica Fabozzo, in collaborazione con la sartoria di Angela Corsani.  La storia del museo di Montelupo risale al primo dopoguerra, ma la tradizione della ceramica affonda le sue radici in epoca dantesca. Il museo è collocato in un edificio degli anni Trenta, una ex scuola elementare, con 1500 mq espositivi e 5 mila pezzi storici frutto di scavi e ricerche lunghe trent’anni.

Mara Martellotta

Il cuore del Liberty nel cuore di Torino: Casa Fenoglio

Oltre Torino: storie miti e leggende del Torinese dimenticato

È luomo a costruire il tempo e il tempo quando si specchia, si riflette nellarte. 

Lespressione artistica si fa portavoce estetica del sentire e degli ideali dei differenti periodi storici, aiutandoci a comprendere le motivazioni, le cause e gli effetti di determinati accadimenti e, soprattutto, di specifiche reazioni o comportamenti. Già agli albori del tempo luomo si mise a creare dei graffiti nelle grotte non solo per indicare come si andava a caccia o si partecipava ad un rituale magico, ma perché  sentì forte la necessità di esprimersi e di comunicare.

Così in età moderna – se mi è consentito questo salto temporale – anche i grandi artisti rinascimentali si apprestarono a realizzare le loro indimenticabili opere, spinti da quella fiamma interiore che si eternò sulla tela o sul marmo.  Non furono da meno gli  autoridelle Avanguardie del Novecento  che, con i propri lavori disperati, diedero forma visibile al dissidio interiore che li animava nel periodo tanto travagliato del cosiddetto Secolo Breve.

Negli anni che precedettero il primo conflitto mondiale nacque un movimento seducente ingenuo e ottimista, che sognava di ricreare la natura traendo da essa motivi di ispirazione per modellare il ferro e i metalli, nella piena convinzione di dar vita a fiori in vetro e lapislazzuli che non sarebbero mai appassiti: gli elementi decorativi, i ghirigori del Liberty, si diramarono in tutta Europa proprio come fa ledera nei boschi. Le linee rotonde e i dettagli giocosi ed elaborati incarnarono quella leggerezza che caratterizzò i primissimi anni del Novecento, e ad oggi sono ancora visibili anche nella nostra Torino, a testimonianza di unarte raffinatissima, che ha reso la città sabauda capitale del Liberty, e a prova che larte e gli ideali sopravvivono a qualsiasi avversità e al tempo impietoso. (ac)

Torino Liberty

1.  Il Liberty: la linea che invase l’Europa
2.  Torino, capitale italiana del Liberty
3.  Il cuore del Liberty nel cuore di Torino: Casa Fenoglio
4.  Liberty misterioso: Villa Scott
5.  Inseguendo il Liberty: consigli “di viaggio” per torinesi amanti del Liberty e curiosi turisti
6.  Inseguendo il Liberty: altri consigli per chi va a spasso per la città
7.  Storia di un cocktail: il Vermouth, dal bicchiere alla pubblicità
8.  La Venaria Reale ospita il Liberty:  Mucha  e  Grasset
9.  La linea che veglia su chi è stato:  Il Liberty al Cimitero Monumentale
10.  Quando il Liberty va in vacanza: Villa  Grock

Articolo 3. Il cuore del Liberty nel cuore di Torino: Casa Fenoglio

Con lEsposizione Internazionale di Arte Decorativa Moderna del 1902, Torino assume il ruolo di  polo di riferimento per il Liberty italiano. LEsposizione del 1902 è un evento di grandissimo successo, e numerosi sono gli architetti che offrono il proprio contributo, ma il protagonista indiscusso di questa stagione èPietro Fenoglio, il geniale ingegnere-architetto torinese, che abitònella palazzina di Corso Galileo Ferraris, 55.

Allinizio del Novecento, Torino vede in particolare il quartiere di Cit Turin al centro della propria trasformazione. A partire da Piazza Statuto si dirama il grande Corso Francia che, con le sue vie limitrofe, costituisce in questa zona un quartiere ricco di architetture in stile Art Nouveau unico nel suo genere. Un tratto urbanistico in cui sono presenti numerose testimonianze dellopera di Fenoglio, riconoscibile dai caratteristici colori pastello, dalle decorazioni che alternano soggetti floreali a elementi geometrici e dallaudace utilizzo del vetro e del ferro. 

Personalità artistica di estremo rilievo, Pietro Fenoglio contribuisce in modo particolare a rimodellare Torino secondo il gusto Liberty. Nato a Torino nel 1865, larchitetto-ingegnere orienta il suo campo dinteresse nelledilizia residenziale e nellarchitettura industriale. Nato da una famiglia di costruttori edili, frequenta la Regia Scuola di Applicazione per ingegneri di Torino; subito dopo la laurea, conseguita nel 1889, inizia unintensa attività lavorativa, raggiungendo ottimi risultati in ambito architettonico. Partecipa, nel 1902, allOrganizzazione internazionale di Arte Decorativa Moderna di Torino e in questoccasione approfondisce la conoscenza dello stile liberty, riuscendo poi a concretizzare quanto appreso nei numerosi interventi edilizi di carattere residenziale, ancora oggi visibili nel territorio cittadino. La sua attività di progettista si estende anche al campo dellarchitettura industriale, come testimoniano la Conceria Fiorio (1900 – Via Durandi, 11) o la Manifattura Gilardini (1904 – Lungo Dora Firenze, 19). Nel 1912, Pietro entra a far parte del Consiglio di Amministrazione della Banca Commerciale Italiana ed è tra i promotori della SocietàIdroelettrica Piemonte. Colto da morte improvvisa, Pietro Fenoglio muore il 22 agosto 1927, a soli 62 anni, nella grande casa di famiglia a Corio Canavese.

Tra tutte le sue realizzazioni spicca lopera più bella e più nota per la ricchezza degli ornati: Casa Fenoglio-La Fleur (1902), considerata unanimemente il più significativo esempio di stile Liberty in Italia. Progettata in ogni più piccolo particolare da Pietro Fenoglio per la sua famiglia, la palazzina di Corso Francia, angolo Via Principi dAcaja, trae ispirazione certamente dallArt Nouveau belga e francese, ma lobiettivo dellIngegnere è di dar vita al modello Liberty. La costruzione si articola su due corpi di fabbrica disposti ad elle, raccordati, nella parte angolare, da una straordinaria torre – bovindo più alta di un piano, in corrispondenza del soggiorno. Manifesto estetico di Fenoglio, ledificio – tre piani fuori terra, più il piano mansardato –  riflette lestro creativo dellarchitetto, che riesce a coniugare la rassicurante imponenza della parte muraria e le sue articolazioni funzionali, con la plasticità tipicamente Art Nouveau, che ne permea lesito complessivo. Meravigliosa, e di fortissimo impatto scenico, è la torre angolare, che vede convergere verso di sé le due ali della costruzione e su cui spicca il bovindo con i grandi vetri colorati che si aprono a sinuosi e animosi intrecci in ferro battuto. Unedicola di coronamento sovrasta lelegante terrazzino che sporge sopra le spettacolari vetrate.  Sulle facciate, infissi dalle linee tondeggianti, intrecci di alghe: un ricchissimo apparato ornamentale, che risponde a pieno allautentico Liberty. Gli stilemi fitomorfi trovano completa realizzazione, in particolare negli elementi del rosone superiore e nel modulo angolare. Altrettanto affascinanti per la loro eleganza sono landrone e il corpo scala a pianta esagonale. Si rimane davvero estasiati di fronte a quelle scale così belle, eleganti, raffinate, uniche. Straordinarie anche le porte in legno di noce, le vetrate, i mancorrenti, e le maniglie dottone che ripropongono lintreccio di germogli di fiori. 

La palazzina non è mai stata abitata dalla famiglia Fenoglio, e fu venduta, due anni dopo lultimazione, a Giorgio La Fleur, imprenditore del settore automobilistico, il quale volle aggiungere il proprio nome allimmobile, come testimonia una targa apposta nel settore angolare della struttura. Limprenditore vi abitò fino alla morte. Dopo un lungo periodo di decadenza,  la palazzina venne frazionata e ceduta a privati che negli anni Novanta si sono occupati del suo restauro conservativo.

Alessia Cagnotto

Il racconto del fumetto, la narrazione della mente

Due di quadri” alla Galleria Febo&Dafne, sino al 1° marzo

Doppia personale negli ambienti della galleria Febo&Dafne, via Vanchiglia 16, al centro del “cortile delle arti” che da un po’ di tempo agisce con proposte e appuntamenti nel cuore del borgo accanto al fiume, idea vincente della pittrice Adelma Mapelli e dei tanti collaboratori. “Due di quadri”, a cura di Carina Leal, visitabile sino al 1° marzo prossimo, porta le firme di Gloria Fava e di Marco D’Aponte, un doppio sguardo sull’arte del fumetto e della pittura fatta di suggestioni e personali impressioni.

Marco D’Aponte, che oggi vive tra Torino e Sestri Levanti dove è animatore di parecchie iniziative culturali, è pittore, illustratore, sceneggiatore e autore di fumetti, vanta un ricco curriculum da quel 1971 in uscita dal corso di pittura all’Accademia Albertina, alla scuola di Piero Martina: poi un lavoro continuo, a fissare sulla carta, nei riquadri che suddividono le pagine delle tante storie inventate come le vicende di personaggi legati alla storia e alla letteratura, dando ai visi e alle menti sentimenti e ansie, progetti ed emozioni, caratteri e concretezza. Dal 2000, lo ha interessato il “Popolo rosso”, dedicato agli indiani d’America, negli anni 2007/’09 ha espresso in più mostre, tra Mantova e Brescia e Torino, il suo affetto per Tazio Nuvolari, mentre quattro anni dopo espone in memoria dello stesso campione una serie di dipinti e le tavole della biografia a fumetti “Nuvolari vince sempre” (Mantova, Museo Nuvolari) per ritornarvi (2018) con “Nuvolari Tazio pilota” (Daniela Piazza editore), volume di cui è anche autore dei testi. E ancora sono storie comiche (“Le avventure di sir Philby Smith”) e collaborazioni con il settimanale “Tiramolla”, all’inizio del millennio la generosa accoppiata con Guido Ceronetti per dar vita a quattro storie nelle pagine della Stampa – “L’ultima giornata di Marilyn Monroe”, una per tutte -, le illustrazioni e le sceneggiature catturate da due romanzi della scomparsa giallista torinese Gianna Baltaro, “Pensione Tersicore” e “Una certa sera d’inverno”, protagonista il commissario Martini tra omicidi da risolvere e vigne nelle Langhe, per le edizioni Angolo Manzoni e ora riproposte da Golem Edizioni, l’interesse che va alla “Luna e i falò” di Pavese, come al “Principio di Archimede” dal romanzo di Dario Lanzardo e “Sostiene Pereira” di un grande Antonio Tabucchi: non senza dimenticare la passione e il cuore per una squadra che lo portano all’enorme successo de “Il Grande Torino a fumetti”.

Recentissimi, dal 2022 a oggi, sono il “Codex Rubens” sceneggiatura di Michel Hoellard e Nathalie Neau, “Il magnifico 7”, la sceneggiatura e i disegni per “Uova fatali” di Bulgakov e quelli tratti da Bruno Morchio per “Maccaia”. Mentre le leggi del fumetto gli impongono nitidezza e chiarezza di racconto (con l’intento raggiunto d’avvicinare e coinvolgere quanti raramente possono avvicinarsi a una espressione che ha comunque in sé i contorni dell’arte), magari preferendo l’artista intrecciare tempi antichi e attualizzati (Rubens seduto a rimirare nel proprio studio giovani personaggi femminili di oggi), ricchi di ricercati quanto ben visualizzati particolari, o intrecci comici tra le maschere di un carnevale veneziano, i suoi acrilici su tela – “Atlantico”, ad esempio – mostrano il vorace nervosismo di una pittura affacciata pienamente sulle odierne composizioni, diremmo prepotenti in quel lottare continuo di acqua e di cielo, in pieno movimento, in un avvincente mescolarsi di colori, ragguardevoli esempi di compiuto dinamismo.

Accanto a lui, Gloria Fava, mantovana di nascita, laureata in architettura, dedita al design e alla grafica editoriale, quarant’anni di mostre di successo, tra Torino e Milano, Melbourne e Napoli, Atene e Lisbona. Nella ricercatezza pittorica dei suoi oli, lavora sugli ampi spazi della memoria, sulla “narrazione di luoghi psicologici”, viaggiando tra emozioni e ricordi, desideri per lungo tempo forse sopiti pronti a tornare in superficie, percorsi che s’intrecciano e si sovrappongono in un incessante fluttuare. Non soltanto immagini della memoria poste sulla tela, ma anche differenti supporti che sono carta legno pigmenti su cui poi intervenire digitalmente. Punto di partenza una vecchia fotografia, ma altresì l’agire di una successiva forma e di un riscoperto significato. Occhi che ti guardano immersi in visi bellissimi, nuvole nerastre che attraversano la mente, montagne ad occupare parte di quei visi senza lasciar trasparire nevi immacolate; come bambole e vecchi giocattoli che abitano tramonti vivi e rossastri, immagini infantili?, riscoperte di un vecchio baule in una vasta soffitta che trascinano passati e suggestioni?, dove qualcosa d’inquietante (una antica garguglia di pietra) prova dolorosamente a inserirsi. E la mente dello spettatore si mette ad ammirare e a decifrare, a porre interrogativi, a cercare letture, a guardare alla perfetta riuscita dei tanti messaggi che stanno “sottopelle”.

Elio Rabbione

Nelle immagini, Marco D’Aponte, “Rubens al castello di Steen”, acrilico su tela; Marco D’Aponte, “Atlantico”, acrilico su tela; Gloria Fava, “Quanto dura la memoria – Le cose”, olio su tela; Gloria Fava, “Quanto dura la memoria – Il viaggio”, olio su tela.