ARTE- Pagina 27

Al via la quinta edizione di The Phair, Photo Art Fair alle OGR

Ritorna alla sua quinta edizione l’evento annuale The Phair, Photo Art Fair da venerdì 3 a domenica 5 maggio prossimi.

Quest’anno l’evento avrà luogo per la prima volta alle OGR, un hub innovativo noto in tutta Europa per il suo impegno nella promozione della tecnologia, dell’imprenditoria, della scienza, dell’arte e della musica.

L’immagine rappresentativa di questa Phair è intitolata “Blue Vignette 4” ed è stata realizzata dall’artista sudafricano Robin Rhode. Si tratta di una fotografia monocromatica arricchita da interventi di pittura spray. The Phair si svilupperà presso la Sala Fucine, uno spazio emblematico adibito alla manutenzione ferroviaria.

La serata di venerdì 3 maggio sarà organizzata dal Club Silencio che animerà gli spazi di OGR dalle ore 18 all’1 tra musica elettronica e giochi a tema in una serata intitolata “Una notte alle OGR Torino/ The Phair-Photo Art Fair & Exposed Festival”.

Otto artiste del territorio proporranno il progetto “Orizzonti Urbani”, fortemente voluto per valorizzare la ricerca artistica portata a livello internazionale da artiste che lavorano a Torino.

Tra le figure che partecipano al progetto Maura Banfo, Roberta Bruno, Monica Carocci, Eva Frapaccini, Marzia Migliora, Marilena Noro, Elisabetta Sighicelli e Grazia Toderi. Si segnalano due collaborazioni di The Phair con la Stampa e con TAG, Torino Art Galleries. Quest’ultima collaborazione porta a lavorare in sinergia sul territorio per ospitare un folto numero di collezionisti e offrire visite guidate alle Gallerie associate di TAG che parteciperanno a The Phair, tenute da Elisabetta Chiono, presidente di Tag. Quest’anno nasce il Premio Spada Partners dall’iniziativa esclusiva, promossa dallo Studio Spada Partners in collaborazione con The Phair, volta a sostenere un artista, di qualunque nazionalità o età, attraverso l’acquisizione di un’opera che fornisca il ritratto più completo dei tempi in cui viviamo.

Inoltre per la prima volta la Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea della CRT farà un’acquisizione di un’opera esposta a The Phair. La Stampa organizzerà a The Phair quattro incontri dedicati alle innovazioni che la fotografia ha apportato in diversi ambiti della società dal campo giudiziario, all’architettura, dalla moda al costume e al turismo.

 

Mara Martellotta

Giorgio Stella. Scatti fotografici come … “geografie dell’anima”

Al “Collegio San Giuseppe” di Torino la prima retrospettiva dedicata al fotografo torinese mancato alcuni mesi fa

Fino a sabato 4 maggio

L’occhio del fotografo – come quello del pittore – si sa, è sempre un po’ “speciale”. Anche quando non ha fra le mani i “ferri del mestiere”. L’inquadratura, le luci, i particolari. Ogni cosa di un qualunque paesaggio, o di una scheggia di architettura urbana, gli appare secondo un suo particolare schema che, un giorno (chissà?) potrà cristallizzarsi come d’incanto in scatti unici e singolari. Se poi, a quell’occhio un po’ “speciale” s’aggiunge – in fase lavorativa – anche la capacità (non frequente) di fissare e trattenere le cose con la “lente dell’anima”, allora il “gesto” si fa “meraviglia” e poesia. Ed il “gioco” è fatto. “Gioco d’arte”. Arte vera. Arte pura. Quella capace di regalarti immagini che ti tengono lì, immobile, a fissare anche solo un particolare dell’intero soggetto e a portartelo dentro e addosso per sempre.  Sensazione estraniante e benefica! Mi è capitata qualche giorno fa all’inaugurazione della mostra – omaggio dedicata dal “Collegio San Giuseppe” di Torino al bravo davvero bravo fotografo torinese Giorgio Stella, mancato nel luglio scorso, lasciando un vuoto non da poco nel migliore panorama dell’arte torinese. E non solo.

Curata dalla pittrice Luisa Porporato, con la presentazione di Fratel Alfredo Centra (direttore dell’“Istituto” di via San Francesco da Paola), del critico Angelo Mistrangelo e di Alberto Novo (presidente dell’“Associazione Fotografica NAMIAS” di Parma), la rassegna, in programma fino a sabato 4 maggio, comprende una quarantina di scatti in bianco e nero dedicati ai suoi “Viaggi”, compiuti nei luoghi più misteriosi e affascinanti del Pianeta o anche solo sotto casa, fra le bellezze (mai del tutto conosciute) della sua Torino o, andando e volando oltre le mura e i confini della città, fra scorci tutti particolari di una “stelliana” Venezia o della grandiosa, a tratti “improbabile” New York City. Scatti dunque come … “geografie dell’anima”. Mi è piaciuto – e spero non aver toccato la suscettibilità di alcuno – titolare così la personale di Stella. In parete, paesaggi esotici. Che di più non si può. Indimenticabili.

Per l’esasperazione di una tecnica tanto attenta da perderci gli occhi e il controllo di quella resa “veristica” mai disgiunta dall’interpretazione dei “sensi” che affiora in ogni sua immagine. In quest’ottica, scorrono realtà che vanno dalle “lagune glaciali” e dagli “icberg blu” d’Islanda (“Terra del fuoco e del ghiaccio”, su cui nel 2005 Stella pubblica anche un libro edito da “Elena Morea”), fino al magico mistero che scorre lungo le acque dell’Irrawaddy in Myanmar o alla “complessa” sacralità dei templi di “Ta Prohm” o di “Angkor Wat”, capolavoro di tutta l’arte “Khmer” (una delle meraviglie del mondo) in Cambogia, per chiudersi ai più vicini “notturni torinesi” e alla grandiosità di una New York, colta “in momenti di silenzio – scrive bene Alfredo Centra – che accentuano la bellezza di angoli richiamanti pensieri di eternità nel contesto di imponenti architetture moderne”. Meraviglie! E pensare che fino al 2000 la fotografia è stata per Stella un semplice hobby. Importante ma solo hobby. Solo dal 2000/2003 l’arte fotografica diventa invece per lui “mestiere” a tempo pieno. Attratto inizialmente dalla stampa in bianco e nero e affezionato al negativo all’argento, dal 2005 – in cerca sempre più di una fotografia nitida, esatta e corretta – si dedica alla “stampa al Platino/Palladio” (tecnica considerata “il punto di arrivo qualitativo nella stampa fotografica in bianco e nero”), aderendo al “Gruppo Rodolfo Namias” con sede a Parma e che riunisce fotografi impegnati per l’appunto nel recupero delle più antiche tecniche di stampa.

“Non per un recupero nostalgico – scriveva Stella – di vecchie tecniche, ma per un nuovo utilizzo di uno strumento in più a disposizione del fotografo. Io vedo la stampa finale un po’ come l’esecuzione di un brano musicale dallo spartito, che contiene delle indicazioni per eseguire una musica … Però poi c’è sempre spazio per l’interpretazione degli esecutori, così per noi fotografi le ‘Antiche Tecniche’ sono uno strumento in più per suonare la nostra musica”. E che musica, ragazzi! Per ricordarla, insieme al suo grande esecutore, Luisa Porporato ha voluto annotare, in catalogo, alcuni versi di Sant’Agostino“Coloro che amiamo e che abbiamo perduto non sono più dov’erano, ma sono dovunque siamo noi”. A dimostrarlo i molti colleghi, amici, compagni di vita dell’artista presenti, nei giorni scorsi, al vernissage. E chissà? E’ bello crederci. Lì, forse, c’era anche Giorgio. Fra tutti noi e le sue magiche, poetiche … “geografie dell’anima”.

Gianni Milani

 

Giorgio Stella

“Collegio San Giuseppe”, via San Francesco da Paola 23, Torino; tel. 011/8123250 o www.collegiosangiuseppe.it

Fino al 4 maggio

Orari: dal lun. al ven. 11/12,30 e 16,30/18,30; sab. 11/12,30

Nelle foto: Giorgio Stella, “Islanda”, “Myanmar”, “Torino – La Mole”, New York

Gli smaglianti colori della montagna di Alberto Di Fabio

Al Museo della Montagna, sino al 20 ottobre

Attraverserà l’estate, e anche oltre (si chiuderà il 20 ottobre), la mostra “Orogenesi”, a cura di Andrea Lerda, ospitata al piano terra del Museo della Montagna – piazzale Monte dei Cappuccini, 7 – e dedicata alle opere di Alberto Di Fabio. La realizzazione della mostra è dovuta anche ai contributi del CAI e della Città di Torino, nonché al sostegno della Regione e della Camera di Commercio. In esposizione “Dipinti e disegni degli anni Novanta”, soggetti montani ritratti dall’artista nel corso di un decennio e risultato di una ricerca derivata dalle influenze del Dadaismo, del Surrealismo e della Metafisica. L’ampio campo di quella ricerca guarda al cosmo e al mondo della natura, indagando “reazioni chimiche, fusioni minerarie, atomi e il sistema neuronale in relazione con il mondo dell’astrofisica, evocando paesaggi primordiali in costante divenire”.

Di Fabio, classe 1966, vive e lavora tra Roma e New York, con indirizzo principale quello di approfondire il cosmo e lo sguardo verso la montagna, sempre più approfondito, portato verso forme astratte e organiche che caratterizzano i disegni, le tele e i walldrawing che l’artista realizza. Nel corso del tempo, Di Fabio ha acuito altresì il discorso cromatico, volgendo quelle asprezze che vengono a sorgere, quasi improvvisamente, inaspettate, dal terreno verso una tavolozza e un folgorante panorama di colori finale di grande armonia. Inaspettati e improvvisi, ci si trova dinanzi a blu accesi, a calanchi rossastri e a fragmentazioni rocciose di un verde gradevolissimo al nostro occhio, in una concezione che supera la Natura e s’appresta a reinquadrarla, dinanzi a “Montagne in arancio” (del 1997) mai rintracciate, agli “Incontri tra montagne” (del 1993) che somigliano allo scoppio di mondi di un epoca ormai troppo lontana.

Nell’occasione, il Museo della Montagna ha editato un volume con i contributi di autrici e autori che nel corso degli anni hanno interpretato significativamente questa fase artistica e lo stesso soggetto montano: Mario Codognato, Ester Coen, Cristiana Perrella e Luca Beatrice. Un mondo che non conosciamo, altezze che nelle loro forme pressoché geometriche nascondono ricordanze medievali, di antichi pittori. Ci pare che l’artista volga un occhio non soltanto al futuro, nella bellezza delle sue cromie, ma anche al passato, nella identificazione lineare di quelle forme.

Orari: dal martedì al venerdì dalle 10,30 alle 18; sabato e domenica, dalle 10 alle 18.

e.rb.

Tra le opere di Alberto Di Fabio in esposizione al Museo della Montagna: “”Montagne in arancio”, 1997, acrilico su carta intelata, 76 x 52 cm; “Montagne rosse”, 1994, acrilico su carta intelata, 129 x 93 cm.

A Torino la prima edizione del festival fotografico Exposed

28 mostre in programma, di cui una dedicata alle riprese aeree di 9 artisti

 

Da giovedì 2 maggio  al 2 giugno prossimo, a Torino debutta un nuovo festival dal titolo “Exposed Torino Photo Festival”, con il tema “New Landscapes. Nuovi paesaggi”. Si tratta di 28 mostre in 23 sedi per la direzione artistica di Menno Liaw e Salvatore Vitale, rispettivamente direttore e direttore artistico di “Futures 2”, la piattaforma che comprende 19 istituzioni legate alla fotografia. Tra queste si annovera una collettiva alle OGR dedicata alla fotografia dall’alto e alle sue visioni, dal titolo “A view from above”, curata da Domenico Quaranta, Salvatore Vitale e Samuele Piazza. Saranno nove gli artisti protagonisti di un focus che porrà alcune riflessioni sull’ambiente in cui viviamo e su come sia cambiato il nostro modo di guardare la realtà. Tutta la storia della fotografia, fin dalle sue origini, è accompagnata dalla visione dall’alto.

“Aviazione e fotografia aerea – spiega Domenico Quaranta, docente dell’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano – nascono nel corso dell’Ottocento e si sviluppano in parallelo. Basti pensare a Nadar, che a metà del XIX secolo, con la mongolfiera, cerca di riprendere Parigi dall’alto. È chiaro che il nostro rapporto con la realtà è ancora ancorato alla terra, ma ormai la visione dall’alto è stata incorporata dalle nostre esistenze, attraverso l’uso quotidiano di aerei e la visione satellitare è diventata parte della comunità con Google Maps e Google Earth, che condizionano il nostro modo di fruire lo spazio pubblico e la città. Lo stesso discorso si può fare per i droni, anche se questi non sono di uso così comune”.

Ad aprire la mostra “A view from above” è un maestro della fotografia italiana, Mario Giacomelli, che ha esplorato la visione dall’alto a partire dagli anni 60/70.

“Per questo – spiega Domenico Quaranta – ci sembrava un punto di partenza interessante. Giacomelli evidenzia un aspetto della fotografia aerea che si è perso negli ultimi anni, con la transizione allo sguardo satellitare o drone, che è uno sguardo disumanizzato. Le sue fotografie aeree sono molto umane, guardano la superficie della Terra come se fosse un corpo grinzoso. Nel suo linguaggio è presente un’estetica che troviamo su Google Earth; i campi geometrici, di cui si evidenziano le tracce lasciate dalle arature, sono diventate l’esperienza di tutti”.

L’artista olandese Mishka Henner realizza i suoi scatti attraverso Google Earth, e pone l’attenzione sul paesaggio americano e, nella serie in mostra a Torino, sugli impianti di estrazione dei deserti americani.

“Nel suo sguardo – afferma Quaranta – i suoi scatti assumono la forma di un microchip, un circuito geometrico artificiale ancorato alla Terra. Nelle opere di Giacomelli, da un lato è presente questa linea, dall’altro sono presenti visioni di persone colte sulla spiaggia che hanno suscitato un parallelismo con la serie di Thomas Van Houtryve che, nel 2011, ha realizzato queste immagini attraverso un drone autocostruito. Seguendo il reportage della guerra in Afghanistan, aveva intercettato la frase che dà il nome alla serie: Blue Sky Days”.

A completare il quadro della visione dall’alto, vi sono video e installazioni come quelle di Susan Schupply, che si concentra sui disastri ecologici e sullo sversamento del petrolio nel Golfo del Messico nel 2010. Laura Cinti utilizza i droni dell’intelligenza artificiale per cercare di individuare nella foresta del Congo una pianta femminile estinta, di cui pochi esemplari maschi sopravvivono nelle serre. Appositamente per Exposed, ha realizzato un lavoro l’artista americano Evan Roth, dedicato a Torino. Si intitola “Skyscapes (Turin)”, realizzato con fotografie del cielo di Torino, manipolate con un software personalizzato di proiezioni cartografiche che esplorano le distorsioni di scala nelle mappe.

“Bisogna essere consapevoli che parlare di visione dall’alto significa mettere insieme una serie di piani diversi, in quanto si tratta di uno strumento di controllo e di potere che, come tutti gli strumenti diventati accessibili a tutti, permette di intervenire sulla realtà in maniera diversa. La mostra vuole mandare un messaggio di approfittare della molteplicità di sguardi sulla realtà, che lo sviluppo delle tecnologie sta mettendo a disposizione.

 

Mara Martellotta

“Italo Cremona Tutto il resto è profonda notte”: in mostra alla GAM di Torino

Italo Cremona- tutto il resto è profonda notte in esposizione alla GAM di Torino– dal 24 aprile al 15 settembre 2024- ci accompagna nella scoperta dell’universo creativo dell’artista, pittore chiave del movimento surrealista del panorama artistico torinese.

Nata dalla collaborazione tra laGAM e il Mart di Rovereto, dove si trasferirà il prossimo autunno, è un percorso lungo e di forte impatto emotivo in grado di trasmettere allo spettatore incubi, apparizioni, immagini fantastiche ed espressione dello scenario immaginifico dell’artista.

Dieci percorsi espositivi disposti in ordine cronologico che spaziano dalle opere giovanili di metà anni venti fino alle ultime degli anni Settanta, in grado di mostrare le fredde capacità tecniche del Cremona (chiaramente espresse nelle dettagliate rappresentazioni delle pistole) ed ad affiancarle alle atmosfere del Realismo magicche rivelano il filone visionario dell’ artista autodefinitosi un’ surrealista indipendente“.

Per questo la sala dedicata alla “follia” diventa il vero fulcro dell’intero percorso espositivo. Sulle pareti, dal forte colore violaceo, ci sono più di vent’anni della pittura del Cremona che ne rilevano “il sogno, l’incubo, il macabro” ma anche la visione puramente intellettuale della realtà che circonda l’artista. Fortissimo è  il percorso dedicati ai nudi, da sempre motivo chiave e ricorrente nell’iconografia di Cremona. Il “nudo” si fonde con la rilettura del mito ma anche con il corpo delle lettere dell’alfabeto dando ad essere un nuovo senso e diversa vita.

L’ultima sala diventa celebrazione di una sintetica ma fortissima affermazione dell’artista che, chiarendo il perché della frontalità delle sue rappresentazioni, spiega come nei suoi quadri “ci sia sempre qualcosa che tappa. Un tappo che chiude“. Questa espressione viene celebrata nei quadri e fotografie presenti nella sala che diventano perfetta espressione del dualismo tra il “fuori” e il “dentro” dando forma al significato delle parole del Cremona.

La mostra, a cura di Giorgina Bertolino, Daniela Ferrari e Elena Volpato, è in grado di valorizzare gli aspetti più contemporanei dell’opera di Cremona e di far conoscere e riscoprire la figura di un intellettuale creativo e differente da tutti gli artisti della sua epoca.

Valeria Rombolà

Storie di matrimoni e ritratti d’immigrazione in Barriera

Flashback Habitat, a Torino

 

“Verrà presentata domani la mostra “Storie di matrimoni e ritratti d’immigrazione in Barriera di Milano a Torino” a Flashback Habitat, in corso Giovanni Lanza 75, che sarà visitabile dal primo maggio al 29 settembre prossimi.

“Storie di matrimoni”, come cita il titolo, è la rappresentazione di un preciso momento della vita famigliare narrato attraverso fotografie. La cura dei dettagli, a partire dagli abiti da cerimonia, rappresenta un’espressione di potente bellezza voluta dai fotografi con la loro sapienza di utilizzo della macchina fotografica, chiamati per conservare per sempre la memoria di quel momento, di un grande evento famigliare.

 

Mara Martellotta

La Sacra di San Michele: la chiesa più alta che c’è

Avete presente quando Po, morbido protagonista del film d’animazione “Kung fu Panda”, guarda in alto e dice: “Il mio antico nemico, le scale!” Ecco, questa è stata la mia reazione non appena giunta ai piedi della Sacra di San Michele.

 

E dire che un po’ ho barato, poiché non sono partita a piedi da Sant’Ambrogio, come si dovrebbe fare, ma sono salita con la macchina ancora un pochino, fino ad uno spiazzo a circa quaranta minuti di distanza. Non c’è che dire, più in alto non potevano costruirla: l’Abbazia è proprio arroccata sulla vetta del monte Pirchiriano, a ben novecentosessanta metri di altitudine.

Il complesso architettonico si trova all’imbocco della Val Susa, poco sopra la borgata San Pietro, il suo aspetto è maestoso e poetico, imponente e romantico. Apprezzo molto il fascino di questo luogo, soprattutto in alcune giornate autunnali, quando la nebbia avanza e la Sacra sembra sporgersi da tutto quel bianco fumoso, come fosse il soggetto di un quadro di Caspar David Friedrich.

L’atmosfera è senza dubbio coinvolgente,  non per niente il grande Umberto Eco, per il suo celebre romanzo “Il nome della rosa”, si era deliberatamente ispirato alla misteriosa bellezza di questo sito architettonico.
Ho scelto comunque un giorno di sole  settembrino per la mia passeggiata in salita.
Scesa dalla macchia ho imboccato il sentiero che serpeggia nel bosco e porta dritto in cima al monte: una leggera brezza mi ha addolcito la fatica, il verde delle foglie è ancora intenso e l’odore del legno dei tronchi ha sempre qualcosa di magico.

Il vero nome della Sacra è Abbazia di San Michele della Chiusa, essa si erge su un imponente basamento di ventisei metri, appartiene alla diocesi di Susa ed è la prima tappa italiana che si incontra lungo la via Franchigena.
Come ogni complesso architettonico che si rispetti, anche la Sacra ha i suoi misteri.
Leggenda vuole che l’ex arcivescovo, Giovanni Vincenzo (955-100), ritiratosi a vita da eremita proprio tra le nostre montagne, fosse stato incaricato  dall’arcangelo Michele  “in persona” di costruire il santuario. Non solo, ma degli angeli avrebbero poi provveduto a consacrare la cappella, che, infatti, la stessa notte della cerimonia, fu vista dagli abitanti come “avvolta da un grande fuoco”.

Secondo tale versione l’edificio risalirebbe al X-XI secolo, data probabile ma non certa, vi sono tuttavia molti documenti che trattano dell’edificazione della Sacra e che fanno risalire i lavori in quello stesso periodo.
Dove oggi sorge l’Abbazia c’era un tempo un castrum, utilizzato dai Longobardi come presidio militare; proprio tale popolazione iniziò a diffondere il culto micaelico, che si propagò ampiamente nell’Alto Medioevo, come dimostrano i numerosi edifici dedicati a San Michele che sorsero dopo l’anno Mille in Europa.
L’antico insediamento longobardo si trovava dunque alla base del progetto architettonico iniziato da Giovanni Vincenzo, il quale, con o senza l’aiuto dell’arcangelo, diede inizio all’edificazione di un’architettura maestosa e complessa: accanto al sacello più antico ne fece realizzare un secondo che oggi è l’ambiente centrale della cripta della Chiesa. Le nicchie e le colonnine richiamano motivi bizantini, all’epoca largamente diffusi a Ravenna.
Sul finire del X secolo, il conte Hugon di Montboissier, per riscattarsi dai suoi peccati, finanziò ulteriori lavori di ampliamento e fece aggiungere anche un piccolo cenobio per pochi monaci e qualche pellegrino.

In seguito fu l’abate Adverto di Lezat ad amministrare lo stabile. Egli chiamò l’architetto Guglielmo da Volpiano, a cui si deve il progetto della “chiesa nuova”, che sarebbe sorta sulle fondamenta della primitiva chiesetta.
A metà dell’XII secolo la Sacra venne affidata ai Benedettini, che costruirono l’edificio della foresteria, staccato dal monastero, per accogliere i numerosi pellegrini che, percorrendo la via Franchigena, passavano per il Moncenisio. Risale a quest’epoca la parte denominata “Nuovo monastero”, che comprendeva alcune celle, una biblioteca, delle cucine, un refettorio e diverse officine.
La lunga e articolata vicenda sembra concretizzarsi nel percorso impervio che il visitatore percorre, avanzando guardingo per la Sacra.

Io stessa ho passato la visita un po’ con la testa in su, incuriosita e ammaliata dagli archi rampanti e dalla grandiosità dell’insieme, e un po’ a guardarmi indietro, come fossi un Pollicino a corto di briciole.
La spettacolare chiesa odierna è dunque il formidabile risultato di più di un secolo di interventi.
Nella zona più antica, quella eretta sul castrum, priva di finestre e sormontata da volte a crociera, è evidente lo stile romanico di stampo normanno.

Influenze del linearismo della scuola scultorea di Tolosa emergono dal così detto scalone dei Morti, anticamente fiancheggiato da tombe e si evidenziano nella splendida porta dello Zodiaco. La porta ha destato più che mai la mia attenzione, e mi sono soffermata a guardarla nei minimi dettagli: le creature zodiacali risaltano pur consunte dalla pietra bianca, sembrano intrecciarsi le une alle altre, accatastate in una complessa composizione caratterizzata da un evidente  “horror vacui. Cerco l’Ariete, il mio segno zodiacale, l’animale si distingue per le possenti corna e il corpo muscoloso, ovviamente mi sembra che tale rilievo sia più bello degli altri. C’è un’altra motivazione per cui il portale mi colpisce, ed è il significato allegorico dello scorrere del tempo, tale significazione tramuta una semplice porta intarsiata in un poetico memento mori.

Risalgono al XII secolo gli interventi che riprendono lo stile del “romanico di transizione”. Tali lavorazioni sono riscontrabili dalla presenza di bifore, di pilastri cilindrici e polistili e dalle arcate con pilastri a fascio e archi acuti.
Nel XVI secolo la volta della navata centrale crollò e venne sostituita con una pesante volta a botte, che però esercitava una forza eccessiva sulle pareti laterali;  per ovviare alla pericolosità architettonica, nell’Ottocento si decise di intervenire sostituendo tale volta a botte con una triplice volta a crociera, ultimata nel 1937.
Vi sono poi elementi in stile “gotico francese” risalenti al XIII secolo.

Il visitatore, me compresa, si perde ad osservare i molteplici stili artistici che convivono armoniosamente. Molto suggestivi sono anche le terrazze, visitabili lungo il percorso: dall’ambiente poco illuminato tipico dei luoghi di culto, mi sono ritrovata ad osservare la vallata verdeggiante ai piedi delle montagne, illuminata dall’ancora caldo sole di settembre.
Eppure, distratta dalle minuzie interne alla Chiesa e dalla vista mozzafiato, stavo per non fare caso a quella che è una straordinaria peculiarità della costruzione: la facciata.
Essa si trova nel piano posto sotto il pavimento che costituisce la volta dello scalone dei Morti, è sotto l’altare maggiore ed è sovrastata dalle absidi con la loggia dei Viretti.
Potremmo dire che, se si pensa ad un’altra qualsiasi chiesa o abbazia, la facciata della Sacra è in posizione opposta rispetto a quella che la tradizione architettonica religiosa richiederebbe.


In tempi recenti, i lavori ancora non terminano. Tra il XIX e il XX secolo ci furono degli interventi voluti da Alfredo d’Andrade e durante gli anni Ottanta e Novanta si resero necessarie ulteriori modifiche.
Ciò che non cambia, nonostante il trascorrere dei secoli, è il fascino del luogo, reso ancora più prorompente dai misteri che accompagnano queste mura antiche. Si pensi alla vicenda della “Bell’Adda”. Adda era una giovane fanciulla che per sfuggire ai soldati nemici si buttò giù nel precipizio, gli angeli misericordiosi ebbero pietà di lei e la salvarono; Adda raccontò l’accaduto ai compaesani, i quali ovviamente non le credettero, così lei compì nuovamente l’insano gesto. Alcuni la definirebbero “hybris”, altri semplicemente “vanità”, resta il fatto che questa volta Adda non tornò a farsi vedere. Ma neppure il suo corpo venne mai più rinvenuto.

Non sappiamo cosa accadde ad Adda, ma sappiamo che ancora oggi numerosissimi visitatori si inerpicano per la collina per visitare la Sacra e tutti rimangono folgorati dalla bellezza di quel che vedono finita la faticosa salita.
Nel 2017, l’Abbazia è stata candidata a far parte del patrimonio dell’umanità dell’Unesco, nel quadro del sito seriale “Il paesaggio culturale degli insediamenti benedettini dell’Italia medievale”.
Sulla meraviglia del sito non si discute, ma possibile che in tutti questi secoli di interventi architettonici, nessuno abbia ancora pensato all’inserimento di un semplice ascensore?

Alessia Cagnotto

 

“Nomade con radici” Indimenticato musicista e cantautore, ma anche poeta e pittore

Il grande Augusto Daolio è sapientemente ricordato allo “Spazio Musa” di Torino

Dal 12 aprile al 12 maggio

Lui stesso amava definirsi: “Nomade con radici”. Ossimoro clamoroso. Ma a lui concesso, per l’onesta maestria con cui seppe cavalcare, nella sua breve vita, entrambe le situazioni.

Lui “vagabondo” per cuore ed istinto, sempre in “fuga – raccontava – alla ricerca di luoghi migliori …”, ma saldamente ancorato, un tutt’uno inestricabile con le radici di quella sua padana Novellara (o Nualera in dialetto reggiano) che gli diede i natali il 18 febbraio del 1947 e lo vide lasciare questo mondo – contro cui non di rado si era impegnato a lanciare canori strali nei suoi concerti – il 7 ottobre del 1992, all’età di soli 45 anni.

Voce unica ed inconfondibile. Rocciosa e delicata. Graffiante e poetica. Ad Augusto Daolio, leader carismatico e fondatore nel 1963, insieme a Beppe Carletti, de “I Nomadi” (inizialmente “I Monelli”), fra i Gruppi più longevi ed importanti della musica beat (ma anche pop e rock) italiana, il torinese “Spazio Musa” dedica da venerdì 12 aprile a domenica 12 maggio – a trentadue anni dalla sua prematura scomparsa – la mostra “Augusto Daolio: uno sguardo libero”, che già ebbe a riportare un grande successo a Reggio Emilia nel 2022 e che illustra, accanto alla storia del musicista, i “talenti multiformi” di un artista che fu anche pittore e scultore di grande interesse.  Artista “a tutto tondo”, simbolo canoro  delle proteste giovanili degli anni ’60 e ’70 (da “Come potete giudicar” a “Noi non ci saremo” alla gigantesca “Dio è morto” del ’67, scritte dall’amico e futuro cantante Francesco Guccini, fino al brano più rappresentativo del Gruppo, quell’“Io vagabondo” del ’72, ancora oggi manifesto esemplare di un’indomita ricerca di “libertà” e di quel  motto “sempre nomadi” che tuttora ispira Carletti e i suoi “nuovi” compagni), Augusto è ricordato e omaggiato nella rassegna allo “Spazio Musa” grazie ad una serie di materiali (molti dei quali assolutamente inediti), tra cui disegni, dipinti(una sessantina), schizzi, manoscritti (una quarantina con abbozzi di canzoni e poesie), taccuini di viaggio, fotografie, manifesti e video, la maggior parte messi a disposizione dagli archivi personali di Rosanna Fantuzzi, per 23 anni compagna di Daolio e presidente dell’Associazione “Augusto Per La Vita” da lei fondata per utilizzare al meglio le offerte devolute da amici e fan dopo la scomparsa dell’artista.

“Il diario è la mostra e la mostra è il diario”, sottolineano gli organizzatori. “Esattamente come egli stesso usava fare nel corso dei viaggi – trattenendo tutto il possibile sui suoi taccuini stracolmi di cartoline, foglietti, biglietti di musei, adesivi, scarabocchi, fotografie rubate alla quotidianità, pensieri riportati a biro su ogni genere di supporto – si è cercato di riassemblare materiali eterogenei all’interno di un allestimento che riprende la logica del diario, dove il valore delle singole opere non sta tanto nel loro peso specifico, ma piuttosto nel dialogo che creano tra loro”. “Nove grandi pagine aperte”, in cui vola alta, e oggi più che mai attuale, la voce (il suo ultimo concerto fu a Masone, alle porte di Genova, due mesi prima di morire) e la lezione di Augusto. Delle sue tante canzoni portatrici di messaggi pacifisti e di rifiuto d’ogni forma di guerra e sopruso o dei suoi molto dipinti e disegni dal tratto deciso e d’impronta surrealista che ritraggono “una natura metamorfica che si fonde con l’elemento umano”. Già la pittura! Pagina, forse meno conosciuta (rispetto a quella musicale) dell’artista Daolio. E ciò nonostante le varie personali susseguitesi alla prima allestita nella sua Novellara nel 1991, Augusto (allievo del maestro reggiano Vivaldo Poli, scomparso nel 1982) ancora in vita. La natura e, con essa, l’uomo sono le sue costanti fonti d’ispirazione, attori “spaesati” in “paesaggi spaesati”, dove larghi cuori battono forte per dar fiato a robusti tronchi o dove le radici della terra (della sua terra) si fanno sottile verticaleggiante e rada chioma a corpi dubbiosi e “alieni”, che paiono interrogarsi del loro essere lì, in mondi “altri” nuovi e sconosciuti. Immagini attraverso le quali Daolio indaga ciò che egli stesso chiamava “il piccolo grande mistero delle cose, degli oggetti e dei sentimenti”. Quel “mistero” e quel “cuore” che sempre sono stati “guida” al suo “fare arte”.

Nel canto: “Se canti solo con la voce – diceva – prima o poi dovrai tacere. Canta con il cuore, affinché tu non debba mai tacere”. Nella pittura: “Non disegno per riempire un vuoto, ma per vuotare un pieno che è dentro di me”. E che forte si palesava nella sua voce e, ancora oggi, nei suoi racconti per immagini. Irripetibile, unico e grande Augusto!

Gianni Milani

“Augusto Daolio. Uno sguardo libero”

Spazio Musa, viadella Consolata 11/E; tel.393/3377799 o www.spaziomusa.net

Fino al 12 maggio

Orari: mart. ven. 14,30/19,30; sab e dom. 16/19,30

Nelle foto: Immagine guida; Beppe e Augusto; Augusto e Rosanna; Dipinti “Senza titolo”, 1986

‘Shinhanga. La nuova onda delle stampe giapponesi’ a palazzo Barolo

 

 

Fino al 30 giugno prossimo Palazzo Barolo ospita la prima mostra in Italia sull’arte degli shinhanga, letteralmente “la nuova xilografia”.

L’esposizione si intitola “Shinhanga. La nuova onda delle stampe giapponesi”, curata da Paola Scrolavezza, esperta di cultura e letteratura giapponese e docente presso il Dipartimento di lingue, letterature e culture Moderne dell’università di Bologna,  con la consulenza artistica di Marco Fagioli, collezionista e storica autorità nell’arte giapponese.

Lo shinhanga è  un movimento nato ufficialmente nel 1916 grazie all’opera di artisti come Ito Shinsui e Kawase Hasui che si allontanarono gradualmente dai soggetti dell’ukiyoe, cominciando a raffigurare scorci caratteristici della provincia rurale o dei sobborghi cittadini, non ancora raggiunti dalla modernizzazione, come rovine, templi antichi, immagini campestri, scene notturne illuminate dalla luna piena e dalle luci dei lampioni. A queste vedute si aggiunsero i ritratti femminili,i bijinga, dedicati alle donne dei tempi moderni, ritratte nella loro quotidianità,  mentre si truccavano o si acconciavano i capelli.

Sono oltre ottanta le opere espositive provenienti da collezioni private e dalla Japanese Gallery Kensington di Londra,  accompagnate da kimono, fotografie storiche e oggetti d’arredo, con l’intento di mostrare come questo movimento shinhanga abbia saputo mantenere le tecniche tradizionali dell’incisione su legno, pur introducendo oltreoceano prospettive nuove.

Il percorso espositivo trova il proprio fulcro centrale nel terremoto del Kanto del primo settembre 1923, il peggiore della storia del Giappone. Seguito da violenti incendi che divamparono per ben due giorni, alimentati dai venti di un tifone, questo terremoto causò  oltre 100 mila morti e rase al suolo un’area molto vasta della capitale. Nasceva dalle ceneri una nuova Tokyo, proiettata sempre più verso il futuro. La produzione delle incisioni Shinhanga dopo questo funesto episodio si sarebbe intensificata. Agli scorci caratteristici si aggiunsero angoli metropolitani con strade deserte, case da cui filtrava un’illuminazione artificiale e densa. Le xilografie prodotte dopo il sisma esprimevano un senso di smarrimento e di solitudine dell’uomo di fronte alla fragilità dell’esistenza. Nei bijinga si affievolisce del tutto o quasi il legame con il mondo notturno tipico dell’ukiyoe. Le ragazze immortalate nelle opere sono donne comuni, che iniziano a muoversi anche fuori dalle mura domestiche, nelle vie e nei locali dei quartieri alla moda. Sono cameriere,  insegnanti, dattilografe e infermiere, giovani indipendenti, istruite e  emancipate pronte a cogliere le opportunità che il Giappone offre loro.

Lo shinhanga si afferma a partire dal secondo decennio del Novecento fino agli anni Quaranta. Si tratta del riflesso artistico di un periodo che per il Giappone contemporaneo era caratterizzato da un’atmosfera di estrema libertà e fermento culturale. Le città principali diventano lo sfondo di un’arte e di una cultura sempre più alla portata di tanti, aprendosi alla nuova borghesia  e al nuovo pubblico che dalla provincia approdava alla metropoli, attratto dalle nuove prospettive economiche e dallo stile di vita moderno e anticonformista.

Alcuni stampatori ed editori illuminati, quali Watanabe Shozaburo, diedero impulso allo sviluppo del movimento,  realizzando un’arte innovativa e autoctona, ma servendosi dell’hanmoto, ovvero l’atelier, dove l’artista si occupava dell’ideazione e del disegno, affidando all’incisore, al tipografo e all’editore le fasi successive della produzione e diffusione delle stampe.

“Shinhanga. La nuova onda delle stampe giapponesi” ricrea un’atmosfera densa di aspettativa e di nostalgia di inizio secolo, presentando al pubblico un’incredibile corrente artistica ancora sconosciuta in Italia e narrandola in maniera coinvolgente, dipingendo, attraverso di essa, uno spaccato intenso e vivido del Giappone tra le due guerre. Vi compaiono stampe dominate dai toni più cupi del blu, dove l’unica nota di luce è  la luna, marine bagnate dal sole al tramonto o dalle lanterne delle imbarcazioni, fino alle pagode che svettano sui ciliegi in piena fioritura. Ciò che emerge è un paesaggio ideale, emozionale e simbolico, uno sfondo sul quale spiccano le silhouettes femminili, icone malinconiche e inquiete della conquista della modernità.

 

Mara Martellotta

“Jacopo Benassi. Autoritratto criminale” le opere dell’eclettico, imprevedibile artista spezzino

 

In mostra alla “Wunderkammer” della “GAM” (per l’occasione, solo “Wunder”)

Fino al 1° settembre

All’ingresso del sotterraneo della “GAM”, in via Magenta a Torino, della consueta dicitura “Wunderkammer”, è rimasto solo “Wunder”, cancellato “Kammer”. “Meraviglia” e basta! E di “meraviglia” (“mirabilia” su cui spronare occhi e mente) ben s’avvertono, infatti e da subito, i sentori e gli intrighi mettendo piede nelle sale d’accesso alla mostra “Autoritratto criminale” di Jacopo Benassi, curata da Elena Volpato e visibile fino a domenica 1 settembre.

Mostra strana, questa dell’artista spezzino. “Strana” in tutti i sensi più positivi del termine: insolita, inconsueta, singolare, curiosa, speciale, bizzarra, stramba, balorda … e chi più ne ha più ne metta! Capace perfino di sbrecciare muri e far fuori quel “Kammer” (di cui sopra) per far entrare in mezzo alle sue opere il “gesso” – che non poteva non esserci con i legni che ne tengono insieme la struttura, ormai fragile e frantumata! – di Leonardo Bistolfi, realizzato nel 1910 dal grande scultore casalese, per il monumento all’amico medico-antropologo Cesare Lombroso. La fotografia, in prima battuta (un’autentica venerazione per Ando Gilardi, “il primo a occuparsi di fotografia segnaletica e criminale”), ma anche la pittura, la scultura – calchi in gesso, l’installazione e la performance, Benassi arriva ad esporre alla torinese “GAM” dopo l’acquisizione per le Collezioni del Museo, da parte della “Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT”, della sua opera “Panorama di La Spezia” (2022): un autoritratto – sostiene – che “autoritratto” (nel senso letterale del termine) proprio non é. Lui, né altre persone, vi compaiono. Vi compaiono, invece, foto di piante scattate nel buio della notte accanto ad alcuni angoli della città ligure “dipinti con vago sapore ottocentesco” e, a terra, una scaletta a due gradini con appoggiate – presenza non rara nelle opere di Benassi – due ciabatte (reminiscenze di vita) imbrattate. E tutto questo è lui. La realtà per l’artista è nascondimento, la “parte non visibile delle cose”, quella che “resta custodita – sottolinea la curatrice – tra una cornice e l’altra, tra un’immagine e l’altra, quello che si può solo immaginare o desiderare”. Dunque, un’installazione “paravento”, dietro cui compare “Serie di ritratti appesi” (2024), opera che esaspera il concetto di “cancellazione”, presentando, montati – avviluppati in forti e pesanti cinghie “simboli insieme di forza e di fragilità” – come fossero un “pesante sandwich di cornici di cui si vedono solo due retri”, ritratti fotografici di personaggi famosi (da Valentino a Nan Goldin da John Wayne a Biancaneve) e alcuni autoritratti fra cui l’immagine-guida della mostra, in cui Benassi pare sfidarci osservandoci quasi minaccioso dietro una lunga acconciatura femminile e un voluto travestimento dai contorni inquietanti.

 

“Un mascheramento veritiero e una mascherata verità”: si tratta in qualche modo, ancora Elena Volpato “di un autoritratto criminale, non solo perché potrebbe idealmente appartenere alla triste tradizione che voleva i travestiti, fino a pochi decenni fa, effettivamente schedati e fotografati, ma anche perché presenta i codici tipici dei ritratti segnaletici che Benassi mette in gioco in quella immagine e in molte altre, sin dai suoi inizi, grazie all’insegnamento di Sergio Fregoso e alla lettura di ‘Wanted!’ di Ando Gilardi, sillabario di estetica della fotografia giudiziaria”. E, su questa linea, fra gli stilemi di Gilardi e le memorie di Lombroso, un altro ritratto “spicca” (in obnubilante oscurità) in rassegna, quello del più grande criminale della storia, richiamato in scena, tentandone un’improbabile cancellazione sotto uno spesso strato di vetri, insufficiente “velo” ai mostruosi crimini che il ritratto di Hitler, anche quello scattato da Benassi al suo fantoccio al “Museo delle cere” di Londra, porta con sé.

“Nonostante siano le fattezze di una maschera– conclude Volpato – nonostante sia la rappresentazione di una rappresentazione, nonostante il numero ingente di vetri frapposti, la nota effige continua a emergere. E così si riavvia il ciclo vitale dell’immagine che continuamente sparisce per riapparire, tra rumore visivo e profondo silenzio, fra sovraesposizione e buio. In Benassi, tutto ciò che affiora affonda, e tutto ciò che affonda riaffiora”.

Gianni Milani

“Jacopo Benassi. Autoritratto criminale”

GAM-Galleria cIvica d’Arte Moderna e Contemoranea, via Magenta31, Torino; tel. 011/4429518 o www.gamtorino.it

Fino al 1° settembre

Orari: da mart. a dom. 10/18; chiuso il lunedì

 

Nelle foto:

–       “Bistolfi” e “Serie di ritratti appesi”, ph. Perottino

–       “Panorama di La Spezia”, ph. Perottino

–       “Autoritratto truccato da femmina”, 2007

–       Adolf Hitler”, ph. Perottino