Sino al 19 novembre, negli spazi della galleria “Malinpensa by La Telaccia”
C’è una colomba bianca tra le opere esposte sino a mercoledì 19 negli spazi della Galleria Malinpensa by La Telaccia di corso Inghilterra 51. Una colomba con rafforzate pennellate grigiastre (pennellate che vedono l’uso delle stesse mani), uno spruzzo di rosso che sono le zampe ma anche una ferita aperta ben visibile – il tutto, quasi una crocifissione -, l’occhio è umano a innalzare il tratto animalesco. È un’opera di Rosalba Mangione, anche designer d’oggetti d’arredo e ceramista (come dimostrano i colorati piatti in vetro fusione) di origini siciliane, inquietante nella propria rappresentazione essenziale, nel messaggio di morte, un grumo pittorico in negativo del mondo d’oggi e (ormai) della nostra quotidianità, il grido di dolore di un essere umile, un tema che la pittrice sta approfondendo per simbologie nell’ultimo periodo d’attività.

Questa, come altre opere presentate, sono stati d’animo, sincerità espresse, amare riflessioni, partecipazione e presa di coscienza agli sconvolgimento che l’uomo ha prodotto e continua a produrre. Sono messaggi, immersi altresì nel colore, a voler identificare la debolezza e la forza che vivono nel mondo, le disequità e i soprusi, le violenze, a voler esprimere il gran carico di sensibilità, di emozioni, di denuncia: colpisce “La linea sottile tra Bene e Male” (acrilico, 2022), un rosso e un blu che non avranno mai modo d’incontrarsi e di fondersi, due separazioni nette e invalicabili, manichee, colpisce la “Rabbia” (un acrilico del 2019) dove forse un sole, fisso in un cielo opaco, riesce a illuminare una natura e un mare che è ancora attraversato da onde alte e minacciose, colpisce “Divisione”, un misto di acrilico e stucco del 2022, dove prevalgono le tinte chiare, forse la ripresa aerea di un mare di sghembo e di una spiaggia che è deserto, dove la presenza umana non è concepita. Mentre l’uomo, la donna, potevano apparire in opere precedenti, oggi l’essere umano non è concepito, tutto diventa umanamente brullo, ogni forma di vita cancellata, la distruzione è dietro l’angolo della vita di ognuno. Anche i colori (se pur Monia Malinpensa, che ha curato la mostra “Raccontare e raccontarsi”, parla di “consistenza, che si diffonde nell’opera con una gestualità molto personale e con una vibrante atmosfera rarefatta”, di “notevole stesura”) si sono quasi del tutto affievoliti, rimangono dei bluastri, s’affaccia qualche rosso, ma le espressioni di un precedente mondo surrealista non trovano più spazio.
La natura ce la rende Ernesto Belvisi, e i colori quasi gettati violentemente sulla tela, un simbolo per il tutto, guardando ad esempio ai “gigli” trasfigurati in lucenti lamelle di fuoco vivo, frutto di una gestualità potente ed estremamente libera, di una massiccia manualità, nella piena variazione degli elementi cromatici, posti su di un compatto fondo blu o lasciati liberi di cercarsi un proprio spazio nell’appoggio di pennellate alle loro spalle che paiono impazzite, vere e proprie sferzate di frusta colorata, quasi portatrici di una accogliente sensualità. Il colore come desiderio di vita e di bellezza, di luminosità, di sentimenti urlati, come apporto irrinunciabile di contrasti e di varietà cromatiche che s’impongono con grande forza nel loro dinamismo. Da disegni a mano sviluppati in digitale con l’aiuto del computer (è troppo azzardato dire che ci troviamo già dalle parti dell’AI, a chi stende queste note ancora di difficoltosa comprensione?) si sviluppano le opere del giovane Dario Frascone, dove si riconoscono appieno una concreta personalità che spinge a una ricerca che sarà in futuro capace di percorrere parecchie strade, una ricerca di simboli, una parcellizzazione delle superfici e gli incastri di soggetti, laddove pur nella presenza innegabile di una forte geometria e di una vena modernista si fa largo, con l’uso di legni antichi (intelligente manifestazione di riuso), di vecchia provenienza familiare – porte, cassetti, pareti d’armadi, quindi l’uso di materiali diversissimi -, un riscoperto sentimento, una filiazione fatta di affetti autentici, di ricordi e di riscoperte, una poetica cui è necessario da parte di chi guarda prestare una puntuale attenzione.
“Legato a una figurazione di notevole elaborazione espressiva e a una fantasia costante, le composizioni tecniche dell’artista Mario D’Altilia regalano al fruitore molteplici sensazioni e riflessioni, che sono il risultato del suo fare arte”, sottolinea ancora Monia Malinpensa. Ci aggiriamo tra alcuni oli che sono corpi picassiani, tra donne “in poltrona” (2020) che, all’interno di più o meno elaborate scenografie (“anche per quanto riguarda il colore ho eseguito numerosi studi su carta e altre tipologie di supporto che mi hanno permesso di spaziare su tutte le tecniche pittoriche”, avvertiva l’artista in occasione di una precedente mostra), anch’esse intimamente simboliche, nelle loro uniformi blu e con acconciature simili a pennacchi vivono dentro a un mondo che colloca le proprie radici nella geometria e nelle formule matematiche, tra radici quadrate e numeri e linee, tra il trionfo dei cubi e dei parallelepipedi, una sorta adulta di Lego, tra moltiplicazioni e schemi e costruzioni che sono sculture e in qualche esempio guardano alla ”Grande Mela”, tra quello sguardo originalissimo che l’autore continua a definire “paesaggio tecnico”. Una fantasia a tavolino che non conosce limiti.
Elio Rabbione
Nelle immagini: Rosalba Mangione, “La colomba della pace”, acrilico su tela, cm 70 x 100, 2025; Ernesto Belvisi, “Giglio bianco”, acrilico su tela, cm 100 x 70, 2022; Dario Frascone, “No signal no party”, disegno a mano sviluppato in digitale, cm 50 x 50, 2023;Mario D’Altilia, “Paesaggio tecnico”, olio su tela, cm 70 x 50, 2020.

“Comunità plurale” che è obiettivo principe del Nikitin uomo ed artista. Arduo percorso, per la cui uscita “io artista – racconta Nikitin – come Penelope al telaio, lavoro segretamente disfacendo le trame di una tela ordita dal Titano più crudele”. Un processo che lo impegna nel campo multiforme di una tecnica ineccepibile, ma soprattutto sul piano dell’emotività e di antiche dolorose memorie difficili da mettere a parte; “un progetto artistico che si estrinseca – conclude Nikitin – anche come struttura teatrale traendo ispirazione dal ‘Teatro della crudeltà’ di Antonin Artaud: un teatro che colpisce il corpo dello spettatore, che lacera il linguaggio, che rompe il ritmo e nega il conforto. In questo senso, il mio ‘teatro della crudeltà’ è precursore di un’etica di resistenza al vuoto. Rifiuta la narrazione, la mimica, l’illusione. Non spiega, ma costringe a vivere”. Dipanando, senza sosta, quella terribile infinita matassa del “fuso di Kronos”.










Al “Forte di Bard”, Unterthiner racconta tutta la sua passione per quella straordinaria area situata a nord del Circolo Polare Artico (non un continente unico, ma ricco di enormi giacimenti di petrolio, gas naturale e minerali, dal nichel al rame a rare pietre preziose) e per la sua umanità non meno che per la sua fauna, colta (anche dopo ore di appostamenti) nelle diverse stagioni: dagli orsi polari alle renne alle sterne e ai fulmari (uccelli d’alto mare, particolarmente diffusi nell’Oceano Atlantico).
A completare la mostra diciotto ritratti in bianco e nero realizzati da Unterthiner tra i residenti della piccola comunità di Longyearbyen (Svalbard), accompagnati da testimonianze sulla percezione dei mutamenti climatici e un pannello in grande formato dedicato alle “climate stripes”. Lungo il percorso espositivo è disponibile anche un documentario realizzato da “Raitre” (della durata di 20’), che racconta il Progetto “Una famiglia nell’Artico”.

Quest’anno, “The Others Art Fair” si è presentata con un titolo che suona come un manifesto: “The future is here, right now!”. Un invito a non attendere il futuro ma a viverlo e riscriverlo, attraverso le proposte di gallerie emergenti e consolidate, spazi indipendenti, artist-run space e home gallery.