ARTE- Pagina 2

Le arcaiche “creature” di pietra di Savin

Oggi fra i più apprezzati e noti artisti – artigiani della Vallée

“Stele. Donato Savin” al valdostano “Forte di Bard” 

Fino al 31 dicembre

Rocce allungate verso il cielo o verso cime più alte. “Stele” come divinità protettrici o guerrieri posti in difesa di mura e ardui luoghi fortificati o ancora (perché no?) presenze aliene, sicuramente pacifiche, radicate in costoni di pietra diventati ormai protettivo rifugio terreno. Da alcuni giorni, e fino a mercoledì 31 dicembre, chi è salito o salirà lungo l’ultima parte della strada interna che porta alla sommità del “complesso fortificato” di Bard, troverà lungo il cammino, a fargli buona e piacevole compagnia, le opere di Donato Savin (classe ’59), valdostano doc di Cogne, residente e operante in frazione Epinel. La mostra, curata da Aldo Audisio in collaborazione con l’“Associazione Forte di Bard”, presenta dopo una serie di importanti esposizioni in Italia e all’estero,  una selezione di 30 opere del progetto “Stele” avviato dall’artista alcuni anni fa: si tratta di rocce posizionate su essenziali basi di ferro che ben si integrano con la maestosità delle grandi murature e creano un’inedita esposizione “en plein air”.

Gli inizi artistici di Savin risalgono piuttosto indietro negli anni, allorchè un bel giorno, visitando la celebre “Fiera di Sant’Orso” ad Aosta, scopre l’artigianato tradizionale, ricco di espressioni artistiche. Per Donato è un’autentica folgorazione. Alla vista di quelle opere che spesso é troppo riduttivo chiamare “artigianali”, gli si apre un nuovo entusiasmante mondo. Lì, sceglie un suo nuovo percorso di lavoro e di vita, avvicinandosi alla pietra che inizia a scolpire instancabilmente. Tanto che, nel 1987, partecipa lui stesso alla “Fiera” e vince uno dei più prestigiosi premi. È l’inizio della sua carriera, che lo vede scegliere definitivamente a materia del suo “produrre” le rocce delle sue montagne, tastandole, scolpendole, modificandone con avveduta oculatezza le forme, soffermandosi sui verdi acidi dei licheni mescolati alle venature del marmo o alla lieve porosità della pietra.

“L’idea della ‘Stele’ – racconta Savin – mi venne ad Aosta al ‘Museo Archeologico’. Vidi in quelle forme di rocce allungate ‘Dèi di Pietra’ e iniziai a cercare pezzi di scisti di quel tipo, cosparsi di licheni. Le mie opere restano aperte ad ogni interpretazione. Io ci vedo degli Dèi, specialmente femminili, che salgono verso l’alto; quando non ci sarò più, saranno i testimoni del mio passaggio nella vita terrena”. Un mondo di pietra, immobile, grandioso, fermato nel tempo a raccontare l’amore di Savin per la sua terra. Opere di pietra solide, dure, inamovibili ma palpitanti nel battere di un loro “cuore” che è il “cuore” dell’artista, che le rende ”uniche” ed “irripetibili”. Proprio come sono i frutti di un infinito amore.

“Toccare la roccia, sentirla con le mani e poi modificarla – sottolinea ancora Savin – è un modo per estraniarsi dal mondo. Liberarsi e sognare, far rivivere tante cose che ho appreso da bambino osservando i montanari. Un mondo di cui sono parte che, con le mie opere, cerco di perpetrare nel futuro, rinnovandolo”. Una sorta di “universo parallelo”, eppure così tenacemente radicato ad un paesaggio che ne è grembo materno, da cui prende vita e forma nella sua essenziale verticalità e in quel suo voluto, suggestivo gridare, di voce alta, al cielo.

Spiega la presidente del “Forte di Bard”, Ornella Badery“Siamo lieti di presentare ai tanti visitatori che ogni giorno percorrono il camminamento interno del ‘Forte’ questo iconico progetto firmato da Donato Savin, maestro dell’artigianato contemporaneo che interpreta e rivisita le rocce delle sue montagne in modo essenziale. Le rocce di Savin creano un potente dialogo con le pietre del ‘Forte’ e si fondono con armonia nel paesaggio circostante creando un itinerario artistico ricco di suggestione”.

Arte, spiritualità e natura. I tre elementi che fanno da ideale collante alle “rocciose” opere dell’artista cogninese (o cougnèn, in patois valdostano), che sarà altresì presente, da lunedì 28 luglio e per tutta l’estate, a Cogne nella mostra diffusa “Donato Savin. La vita attorno a me”, organizzata da “Fondation Grand Paradis” nell’ambito del 28° “GPFF – Gran Paradiso Film Festival”.

Gianni Milani

“Stele. Donato Savin”

Forte di Bard, via Vittorio Emanuele II, Bard (Aosta); tel. 0125/833811 o www.fortedibard.it

Fino al 31 dicembre

Orari: dal mart. al ven. 10/18; sab. dom. e festivi 10/19

Nelle foto: Donato Savin: “Stele”

“Ritratti…”. 90 e tutti “da incorniciare”

In mostra al “Museo Nazionale del Risorgimento Italiano”, un secolo di grande Fotografia internazionale in arrivo dalla “Collezione Bachelot”

Fino al 5 ottobre

Correva l’anno 1960. Una bellissima, poco più che ventenne e dal sorriso irresistibile Romy Schneider (icona cinematografica della “Principessa Sissi”), accanto a un cinquantenne, un po’ distratto, Luchino Visconti, ammicca divertita al “paparazzo” che la “punta”, benevolmente “minacciandolo” di diventare lei la fotografa e lui, a breve tiro, il bersaglio del suo scatto. Il “povero” malcapitato fotografo è il celebre americano Sanford H. Roth (grande amico e fotografo quasi “personale” di James Dean che considerava Roth e la moglie come una sorta di “genitori adottivi”) e la foto è una delle circa 90, originali, esposte, fino a domenica 5 ottobre, negli spazi del “Corridoio della Camera Italiana” – Museo Nazionale del Risorgimento” di piazza Carlo Alberto (Palazzo Carignano) a Torino. Tutte in arrivo  da Parigi, dalla “Collezione Florence e Damien Bachelot”, fra le più importanti raccolte fotografiche private a livello europeo, rappresentano una suggestiva, protratta nel tempo, “città di ritratti” – secondo la calzante definizione assegnata alla mostra dalla curatrice Tiziana Bonomo (“ArtPhotò”) cui si deve anche, quale immagine guida, la scelta di “Lanesville”, 1958, di Saul Leiter – promossa dall’Associazione Culturale “Imago Mundi” di Torino e titolata, in linea con i soggetti esposti, “Ritratti. Collezione Florence e Damien Bachelot”.

 Una “città di ritratti”, per l’appunto: antologia di volti e figure che sono narrazioni di vite, le più varie e intense, immagini glamour e di umane miserie, di infinite gioie e struggenti dolori, di amori e odi senza fine, uno “sguardo rivolto – ancora Bonomo – alla nostra umanità fatta di miti, di emozioni e di concrete attuali realtà sociali”. Articolato, infatti, in quattro emblematiche sezioni – “Attualità”“Miti”“Società” ed “Emozioni” – l’iter espositivo ci porta dallo scatto iconico (che fece il giro del mondo) del neozelandese Brian Blake, immortalante Pablo Picasso mentre assiste a una corrida con la moglie Jacqueline Roque e Jean Cocteau alla potente capacità documentaria di Lewis Hine, che nella prima metà del Novecento fece dell’arte fotografica uno prezioso strumento di denuncia sociale, ritraendo i volti dei bambini migranti italiani negli States per raccontare la brutalità del lavoro minorile, fino ad arrivare ai toccanti ritratti dei soldati ritratti dal fotoreporter francese  Gilles Caron in Israele, durante la “Guerra dei sei giorni” (giugno, 1967) e in Irlanda del Nord, in occasione  del “The Troubles”, il conflitto fra comunità cattolica e i protestanti dell’Ulster, che durò circa trent’anni. Ma anche scatti meno “impegnativi” come quelli di un’inedita Nan Goldin, fotografa e attivista statunitense, oggi 71enne, con due immagini dedicate a una seducente (classe ’62) Jennifer Jason Leigh, attrice considerata, secondo la Rivista “Harper’s”, una delle dieci donne più belle d’America.

E’ davvero una lunga, suggestiva galoppata attraverso il Novecento della Fotografia fino alla contemporaneità, quella cui ci invita (e l’invito, in ogni istante, è sempre particolarmente ben accetto) dalla rassegna, “attraverso – si specifica in nota – un genere, quello del ritratto, che ben prima dell’era del ‘selfie’ e dei “social”, ha seguito un proprio percorso, riflettendo i mutamenti di costumi, identità e visioni del mondo”. Così, accanto a ritratti di “quotidiana umanità”, regalatici da grandi maestri come Dorothea LangeSaul LeiterWilliam KleinElliot Erwitt e la panamense Sandra Eleta (oggi, a 82 anni, la fotografa forse più famosa a livello internazionale) presente in mostra con “Siembra” (1976) eccezionale “reportage” sulla vita quotidiana degli abitanti e delle “campesinas” di Portobelo, troviamo anche un raro “lightbox” contenente immagini di Brigitte Bardot, firmato dal romano Elio Sorci, fotografo “maximus” della “Dolce Vita” e “cacciatore” super agguerrito delle più note celebrità del “jet set” americano.

Nota interessante: la mostra in naturale armonia con il “Museo”, propone anche in un video un saggio del patrimonio dei 17mila documenti fotografici custoditi. Tra i protagonisti del Risorgimento spiccano i ritratti della Contessa di Castiglione, pioniera nell’Ottocento nell’utilizzo della fotografia come strumento per costruire e diffondere la propria immagine e il proprio fascino. Sottolinea, in proposito, Luisa Papotti, presidente del “Museo”: “La fotografia, inizialmente percepita come surrogato del ritratto pittorico, diventa rapidamente linguaggio autonomo e strumento di propaganda e costruzione dell’identità nazionale. I ritratti di sovrani, patrioti, combattenti non solo eternano i volti del Risorgimento, ma diffondono l’ideale unitario. Esporre questi materiali accanto ai ritratti contemporanei della ‘Collezione Bachelot’ significa restituire continuità al racconto dell’identità attraverso l’immagine”.

Gianni Milani

“Ritratti. Collezione Florence e Damien Bachelot”

Museo Nazionale del Risorgimento Italiano, piazza Carlo Alberto 8, Torino; tel. 011/5621147 o www.museorisorgimento.it

Fino al 5 ottobre –  Orari: mart./dom. 10/18

Nelle foto: Roth H. Sanford “Romy & Luchino Visconti”, ca. 1960; Brian Brake “Picasso’s Bullfight, Valauris, 1955; Gilles Caron “Israel …” 1967; Sandra Eleta “Siembra”, 1976  

Camera celebra i 10 anni con una mostra a Lee Miller e alle sue opere degli anni 1930- 1955

L’autunno di Camera- Centro Italiano per la Fotografia di Torino vedrà protagonista una figura straordinaria della cultura mondiale del Novecento, la fotografa americana Lee Miller e inaugurerà la sua nuova stagione a partire dal primo ottobre.

La  nuova esposizione,  curata dal direttore artistico di Camera Walter Guadagnini, presenterà dal primo ottobre 2025 al primo febbraio 2026 oltre 160 immagini tutte provenienti dagli archivi della Lee Miller Archives. Molte di queste sono inedite, per una chiave di lettura sia pubblica sia intima del suo lavoro e della sua straordinaria personalità.  L’esposizione darà il via ai festeggiamenti per i dieci anni del centro, che proporrà un programma ampio e articolato dedicato al mondo della fotografia nelle sue infinite sfaccettature.
Il percorso della mostra si concentra sull’attività tra gli anni Trenta e Cinquanta del Novecento della straordinaria artista americana, ponte ideale tra la sua terra natale, gli Stati Uniti, e l’Europa, dove si trasferisce ancora giovane e dove decide di stabilirsi dapprima a Parigi, poi in Inghilterra, e in  Africa, terra in cui trascorrerà alcuni anni della sua intensa vita.
Lee Miller si sposta a Parigi alla fine degli anni Venti con la determinazione di diventare una fotografa  e riesce a convincere Man Ray ad accoglierla come assistente del suo studio.
È  da questo momento che inizia la sua vera e propria carriera  e continua una vita fatta di incontri e scelte eccezionali, oltre che dell’avvicinamento al movimento surrealista. Diventa amica e Musa ispiratrice di Pablo Picasso, Max Ernst, Paul Eluard, stringe rapporti con artiste del calibro di Eileen Agar, Dorotea  Tanning e Leonora Carrington. Realizza alcune delle immagini più significative della storia della fotografia surrealista, contribuendo anche alla scoperta della solarizzazione, una tecnica che lei e Man Ray sfrutteranno al meglio.

Intorno alla metà degli anni Trenta si sposa e si trasferisce per qualche anno in Egitto, dove realizza pagine dal sapore enigmatico, per poi tornare in Europa alla vigilia del conflitto mondiale. Collaboratrice di Vogue, realizza per la rivista di moda non soltanto i classici servizi dedicati al mondo della haute couture, ma anche, in coincidenza dell’esplosione della seconda guerra mondiale, immagini che uniscono stile e vita quotidiana nella Londra ferita dai bombardamenti tedeschi. Al termine della guerra Lee Miller realizza i suoi servizi più  celebri, quali le tragiche immagini dei campi di concentramento e quelle del disfacimento della Germania nazista, con gli ufficiali suicidi, le fiamme che divorano la dimora estiva di Hitler e le città  distrutte. Una serie di fotografie pubblicate su Vogue e che segnano in maniera indelebile la vita di Lee Miller, che dal dopoguerra si ritirerà insieme al nuovo marito Roland Penrose nella campagna del Sussex, creando un cenacolo di amici artisti e mettendo da parte il suo impegno  fotografico fino ad abbandonarlo. In queste immagini emerge il genio sovversivo e ironico di una delle più grandi fotografe del XX secolo.

Camera Centro Italiano per la Fotografia

Via delle Rosine 18, Torino

www.camera.to

Orari di ingresso lunedì, martedì,  mercoledì,  venerdì, sabato e domenica ore 11-19, giovedì ore 11-21

Mara Martellotta

Quando il re e Cavour inaugurarono il Conte Verde

Situato al centro di piazza Palazzo di Città, davanti al Comune, il monumento rappresenta Amedeo VI di Savoia

Situato al centro di piazza Palazzo di Città, dove risiede il Palazzo Civico sede dell’amministrazione locale, il monumento rappresenta Amedeo VI di Savoia detto il Conte Verde, durante la guerra contro i Turchi, mentre trionfante ha la meglio su due nemici riversi al suolo. La riproduzione dei costumi mostra grande attenzione ai particolari secondo i canoni “troubadour” e neogotico, stili in voga nell`Ottocento, ispirati al medioevo e al mondo cortese-cavalleresco.

 

Figlio di Aimone, detto il Pacifico e di Iolanda di Monferrato, Amedeo VI nacque a Chambery il 4 gennaio del 1334. Giovane, scaltro ed intraprendente, Amedeo VI in gioventù partecipò a numerosi tornei, nei quali era solito sfoggiare armi e vessilli di colore verde, tanto che venne appunto soprannominato Il Conte Verde: anche quando salì al trono, continuò a vestirsi con quel colore. Il monumento a lui dedicato non venne però realizzato subito dopo la sua morte ma bensì nel 1842, quando il Consiglio Comunale, in occasione delle nozze del principe ereditario Vittorio Emanuele II con Maria Adelaide arciduchessa d`Austria, decise di erigere il monumento al “Conte Verde”. Il modello in gesso della statua, ideata da Giuseppe Boglioni, rimase nel cortile del Palazzo di Città finché re Carlo Alberto decise di donare la statua alla città. La realizzazione del monumento, che doveva sostituire la statua del Bogliani, venne però commissionata all’artista Pelagio Palagi. I lavori iniziarono nel 1844 e terminarono nel 1847, ma la statua rimase nei locali della Fonderia Fratelli Colla fino all’inaugurazione del 1853. Il gruppo statuario rappresenta Amedeo VI di Savoia in un episodio durante la guerra contro i Turchi alla quale partecipò come alleato dell’imperatore bizantino Giovanni V Paleologo. Ma qui subentra una piccola diatriba scatenata dall’ “Almanacco Nazionale” che vedrebbe come protagonista del monumento non Amedeo VI ma bensì suo figlio Amedeo VII detto invece il “Conte Rosso”, durante l’assedio alla città di Bourbourg nella guerra contro gli Inglesi. Il 7 maggio 1853 re Vittorio Emanuele II inaugurò il monumento dedicato al “Conte Verde” alla presenza di Camillo Benso Conte di Cavour. All’inizio la statua venne circondata da una staccionata probabilmente in legno, sostituita poi da catene poggianti su pilastrini in pietra e quindi da una cancellata.Nel 1900 il Comune decise di rimuovere la cancellata “formando un piccolo scalino in fregio al marciapiede”; una nuova cancellata, realizzata su disegno del Settore Arredo e Immagine Urbana, venne collocata intorno al monumento in seguito ai lavori di restauro effettuati nel 1993. Per dare anche qualche informazione di stampo urbanistico, va ricordato che la piazza in cui si erge fiero il monumento del “Conte Verde” ha subito negli anni numerose trasformazioni.Piazza Palazzo di Città è sita nel cuore di Torino, in corrispondenza della parte centrale dell’antica città romana. L’area urbana su cui sorge l’attuale piazza aveva infatti, già in epoca romana, una certa importanza in quanto si ritiene che la sua pianta rettangolare coincida con le dimensioni del forum dell’antica Julia Augusta Taurinorum, comprendendo anche la vicina piazza Corpus DominiPrima della sistemazione avvenuta tra il 1756 e il 1758 ad opera di Benedetto Alfieri, la piazza aveva un’ampiezza dimezzata rispetto all’attuale. All’inizio del XVII secolo, Carlo Emanuele I, avviò una politica urbanistica volta a nobilitare il volto della città che essendo divenuta capitale dello Stato Sabaudo doveva svolgere nuove funzioni amministrative e militari; piazza Palazzo di Città con annesso il “suo” Palazzo di Città (noto anche come Palazzo Civico), ne sono un esempio lampante. Nel 1995, sotto il controllo della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte, sono stati avviati i lavori di riqualificazione della piazza; la totale pedonalizzazione, la rimozione dei binari tranviari che collegavano Via Milano a piazza Castello e la realizzazione di una nuova pavimentazione, hanno restituito ai cittadini una nuova piazza molto più elegante e raffinata. Da ricordare come piccola curiosità, il fatto che per tutti i torinesi piazza Palazzo di Città sia conosciuta con il nome di “Piazza delle Erbe”, probabilmente a causa di un importante mercato di ortaggi che, nell’antichità, aveva sede proprio in questa piazza. 

(Foto: il Torinese)

Simona Pili Stella

Le mitiche origini di Augusta Taurinorum

Torino, bellezza, magia e mistero   Torino città magica per definizione, malinconica e misteriosa, cosa nasconde dietro le fitte nebbie che si alzano dal fiume? Spiriti e fantasmi si aggirano per le vie, complici della notte e del plenilunio, malvagi satanassi si occultano sotto terra, là dove il rumore degli scarichi fognari può celare i fracassi degli inferi. Cara Torino, città di millimetrici equilibri, se si presta attenzione, si può udire il doppio battito dei tuoi due cuori.

Articolo 1: Torino geograficamente magica
Articolo 2: Le mitiche origini di Augusta Taurinorum
Articolo 3: I segreti della Gran Madre
Articolo 4: La meridiana che non segna l’ora
Articolo 5: Alla ricerca delle Grotte Alchemiche
Articolo 6: Dove si trova ël Barabiciu?
Articolo 7: Chi vi sarebbe piaciuto incontrare a Torino?
Articolo 8: Gli enigmi di Gustavo Roll
Articolo 9: Osservati da più dimensioni: spiriti e guardiani di soglia
Articolo 10: Torino dei miracoli

Articolo 2: Le mitiche origini di Augusta Taurinorum

Nelle alte valli delle Alpi era usanza liberare una mucca prima di fondare una borgata; l’animale andava al pascolo tutto il giorno per poi trovare il punto in cui distendersi a terra e riposarsi. Quello sarebbe stato il luogo in cui i montanari avrebbero iniziato ad edificare il borgo: «la mucca può “sentire” cose che all’uomo sfuggono, se il posto è sicuro o meno e se di lì si irradiano energie benefiche o maligne».

Anche la fondazione di Torino potrebbe rientrare in una di tali credenze. Ma a questa versione, tutto sommato verosimile e riconducibile a qualche usanza rurale, fanno da controparte altre ipotesi, decisamente più complesse e letteralmente “divine”, poiché hanno come protagonisti proprio degli dei, Fetonte ed Eridano.  Avviciniamoci allora a queste due figure. Secondo il mito greco, Fetonte, figlio del Sole, era stato allevato dalla madre Climene senza sapere chi fosse suo padre. Quando, divenuto adolescente, ella gli rivelò di chi era figlio, il giovane volle una prova della sua nascita. Chiese al padre di lasciargli guidare il suo carro e, dopo molte esitazioni, il Sole acconsentì. Fetonte partì e incominciò a seguire la rotta tracciata sulla volta celeste. Ma ben presto fu spaventato dall’altezza alla quale si trovava. La vista degli animali raffiguranti i segni dello zodiaco gli fece paura e per la sua inesperienza abbandonò la rotta. I cavalli si imbizzarrirono e corsero all’impazzata: prima salirono troppo in alto, bruciando un tratto del cielo che divenne la Via Lattea, quindi scesero troppo vicino alla terra, devastando la Libia che si trasformò in deserto. Gli uomini chiesero aiuto a Zeus che intervenne e, adirato, scagliò un fulmine contro Fetonte, che cadde nelle acque del fiume Eridano, identificato con il Po. Le sorelle di Fetonte,, le Eliadi, piansero afflitte e vennero trasformate dagli dei in pioppi biancheggianti. Le loro lacrime divennero ambra. Ma precisamente, dove cadde Fetonte? In Corso Massimo d’Azeglio, proprio al Parco del Valentino dove ora sorge la Fontana dei Dodici Mesi.  In un altro mito, Eridano, fratello di Osiride, divinità egizia, era un valente principe e semidio. Costretto a fuggire dall’Egitto, percorse un lungo viaggio costeggiando la Grecia e dirigendosi verso l’Italia. Dopo aver attraversato il mar Tirreno sbarcò sulle coste e conquistò l’attuale regione della Liguria, che egli chiamò così in onore del figlio Ligurio. Attraversò poi l’Appennino e si imbatté in una pianura attraversata da un fiume che gli fece tornare alla mente il Nilo. Qui fondò una città, che dedicò al dio Api, venerato sotto forma di Toro.


Un giorno Eridano partecipò ad una corsa di quadrighe, purtroppo però, quando già si trovava vicino alla meta, il principe perse il controllo dei cavalli che, fuori da ogni dominio, si avviarono verso il fiume, ed egli vi cadde, annegando.  In sua memoria il fiume venne chiamato come il principe, “Eridano”, che è, come abbiamo detto, anche l’antico nome del fiume Po, in greco Ἠριδανός (“Eridanos”), e in latino “Eridanus”.  Questa vicenda ci riporta alla nostra Torino, simboleggiata dall’immagine del Toro, come testimoniano, semplicemente, e giocosamente, i numerosissimi toret disseminati per la città. Storicamente il simbolo è riconducibile alla presenza sul territorio della tribù dei Taurini, che probabilmente avevano il loro insediamento o nella Valle di Susa, o nei pressi della confluenza tra il Po e la Dora. L’etimologia del loro nome è incerta anche se in aramaico taur assume il valore di “monte”, quindi “abitanti dei monti”. I Taurini si scontrarono prima con Annibale e poi con i Romani, infine il popolo scomparve dalle cronache storiche ma il loro nome sopravvisse, assumendo un’altra sfumatura di significato, risalente a “taurus”, che in latino significa “toro”. È indubbio che anche oggi l’animale sia caro ai Torinesi, sia a coloro che per gioco o per scaramanzia schiacciano con il tallone il bovino dorato che si trova sotto i portici di piazza San Carlo, sia a quelli vestiti color granata che incessantemente lo seguono in TV. C’è ancora un’altra spiegazione del perché Torino sorga proprio in questo preciso luogo geografico, si tratta della teoria delle “Linee Sincroniche”, sviluppata da Oberto Airaudi, che fonda, nel 1975, a Torino, il Centro Horus, il nucleo da cui poi si sviluppa la comunità Damanhur. Le Linee Sincroniche sono un sistema di comunicazione che collega tutti i corpi celesti più importanti. Sulla Terra vi sono diciotto Linee principali, connesse fra loro attraverso Linee minori; le diciotto Linee principali si riuniscono ai poli geografici in un’unica Linea, che si proietta verso l’universo. Attraverso le Linee Sincroniche viaggia tutto ciò che non ha un corpo fisico: pensieri, energie, emozioni, persino le anime. Il Sistema Sincronico si potrebbe definire, in un certo senso, il sistema nervoso dell’universo e di ogni singolo pianeta. Inoltre, grazie alle Linee Sincroniche è possibile veicolare pensieri e idee ovunque nel mondo. Esse possono essere utilizzate come riferimenti per erigere templi e chiese, come dimostra il nodo centrale in Valchiusella, detto “nodo splendente”, dove sorge, appunto, la sede principale della comunità Damanhur. Secondo gli studi di tale teoria Torino nasce sull’incrocio della Linea Sincronica verticale A (Piemonte-Baltico) e la Linea Sincronica orizzontale B (Caucaso).Vi sono poi gli storici, con una loro versione decisamente meno macchinosa, che riferiscono di insediamenti romani istituiti da Giulio Cesare, intorno al 58 a.C., su resti di villaggi preesistenti, forse proprio dei Taurini. Il presidio militare lì costituitosi prese il nome prima di “Iulia Taurinorum”, poi, nel 28 a.C, divenuto un vero e proprio “castrum”, venne chiamato, dal “princeps” romano Augusto, “Julia Augusta Taurinorum”. Il resto, come si suol dire, è storia.
Queste le spiegazioni, scegliete voi quella che più vi aggrada.

Alessia Cagnotto

Pippo Leocata. “Parole Parole. Prove di speranza”

Sono una trentina, fra dipinti disegni e sculture, le opere  esposte nella suggestiva cornice del Cinquecentesco Castello di Santa Margherita Ligure

Fino al 15 agosto

Santa Margherita Ligure (Genova)

Da Torino alla Liguria. Riviera di Levante, Golfo del Tigullio. E ancora una volta, uno storico Castello. L’anno scorso fu l’antico “Castello sul mare” di Rapallo; quest’anno è invece il “Cinquecentesco Castello” di Santa Margherita Ligure, opera, costruita a difesa delle frequenti incursioni dei pirati saraceni, dal Maestro comicino Antonio de Càrabo ad ospitare, nel “Salone piano-terra” e nell’inquietante cavernoso “Seminterrato”, fino a venerdì 15 agosto, la personale di Pippo Leocata, pittore scultore, allievo in gioventù, al Politecnico di Torino, del grande Carlo Mollino e che per i Castelli (quali location espositive) pare decisamente avere un “debole” se si pensa anche a un’altra importante mostra da lui tenuta anni fa nelle sale del “Castello Normanno” di Adrano (l’antica “Adranon”), sua terra natia alle falde dell’Etna, fatto erigere nell’anno Mille dal Conte Ruggero I di Sicilia. E, del resto, quale miglior luogo di un “Castello” per mettere in mostra opere che da sempre vivono gli afflati, le atmosfere, le voci di un’antichità totalmente riflessa, ancor oggi, nelle opere dell’artista siculo-torinese, in immagini spesso visionarie fatte di attese, di sogni, di aspettative che hanno dentro l’intima essenza di un quotidiano faticosamente giocato fra presente e futuro?

Promossa dal “Lions Club Santa Margherita Ligure – Portofino” e dal “Comune di Santa Margherita Ligure”, l’attuale mostra nella cinquecentesca Fortezza Sanmargheritese ha un titolo decisamente curioso, se si pensa che in sé quel titolo, fatto di cinque ben calcolate parole, ne racchiude altri due riferiti ad opere che sono al centro del percorso scenico e concettuale della stessa rassegna. “Parole Parole. Prove di Speranza”. Partiamo proprio da quel “Prove di speranza”. Tre parole folgoranti pensate a dar voce (al centro del grande Salone a piano terra), nella loro simbolica asserzione ad un’installazione “performativa” – riferita al “Giubileo della Speranza” di Papa Francesco – che non credo di sbagliare nell’indicare come vero fulcro centrale della rassegna. In legno di pallet, catramina e olio (estremamente attuale nel riferimento all’atroce crudeltà dei tempi di guerra che oggi paralizzano il mondo) l’opera ci offre la tragica visione di due poderose, sbrecciate “Porte Sante” che, al loro aprirsi, non possono che restituirci sgomento, cumuli di macerie, frammenti di antichi simboli di fede, bianchi sudari di morte e oceani di lacrime di donne, uomini, bambini (quanti bambini!) per i quali la vita è stata solo, o quasi, guerra.

 

E, per molti, subito morte. A lato, un grande olio urla la parola “PACE”. Anche in lingua araba. E potrebbe farlo usando decine di altri idiomi, propri degli oltre cinquanta Paesi oggi coinvolti in conflitti internazionali, spesso ignoti. O ignorati. E, dunque, quanto Leocata può offrirci, al di là del suo agire artistico, sono solo, per l’appunto, “Prove di Speranza” prima ancora di “prove di pace”. Quella “speranza” e quella “pace”, mai come oggi parole sconosciute ai “Grandi (piccoli, piccoli) padroni del Pianeta”, carne senza cuore, bruciati dall’arsura di un potere che non conosce limiti e ormai sordo ad ogni minimo sussulto d’umanità. Capaci solo, per l’appunto, di “Parole.Parole”. Ed ecco l’altro titolo. E l’altra opera di Leocata (olio e acrilico su tela del 2014 – ma oggi ancora così attuale e utilizzato, fra l’altro, come cover di un libro di “Pedagogia”, pubblicato nel 2021 in Italia e in Germania) in cui “griglie” letterarie “alla Boetti” fanno corpo a strutture urbane sovrastate dal rosso di un cielo infuocato dove anche il cerchio solare pare soccombere al fuoco del “nulla”. Di “parole”, solo “parole”, “parole dette e non dette”, parole – fumo che lasciano a terra le macerie e gli ingombri delle “Porte Sante”. A raccoglierle e a farne nuove più solide strutture sarà forse quel milione di Giovani, i “Papa Boys”, cui l’attuale Santo Padre venuto dalle Americhe ha di recente affidato il sacrosanto universale “mandato di pace”. Le nuove generazioni. E che bella, in proposito, la “futuristica” poetica “Offerta di pace” (il fanciullo generoso e il truce guerriero), olio e acrilici su legno del 2019! Insieme a quella “chicca” assoluta delle bianche “argille” (Anni ’90) esposte nel cavernoso “Seminterrato” del Castello, “omaggio” prezioso alla secolare storia della “Fortezza”. Roccia su roccia.

Impalpabile riflesso luminoso sull’antico immaginifico universo del nostro Pippo, sulle sue “rocche”, i suoi “guerrieri”, su quella sua “Muntagna”, indimenticata madre e matrigna. Immagini di una vita intera. Un personalissimo, inconfondibile “antico” riproposto “nelle sue varie interpretazioni – ci ricorda lo stesso artista – e coinvolgimenti personali”.

Gianni Milani

“Parole.Parole. Prove di speranza”

Castello Cinquecentesco, Salita al Castello 1, Santa Margherita Ligure 1 (Genova); tel.0185/293135

Fino al 15 agosto

Orari: feriali 18/22; sab. e dom. 10/12 e 18/20

Nelle foto: “Porta Santa A/B”, legni di pallet, catramina, acrilici e olio, 2025; “Parole parole”, olio e acrilici su tela, 2014: “Offerta di pace”, olio acrilici su legno, 2019); Seminterrato, “Opere in argilla, legno e acrilici”, anni ‘90

Il cuore del Liberty nel cuore di Torino: Casa Fenoglio

Oltre Torino: storie miti e leggende del Torinese dimenticato

È luomo a costruire il tempo e il tempo quando si specchia, si riflette nellarte. 

Lespressione artistica si fa portavoce estetica del sentire e degli ideali dei differenti periodi storici, aiutandoci a comprendere le motivazioni, le cause e gli effetti di determinati accadimenti e, soprattutto, di specifiche reazioni o comportamenti. Già agli albori del tempo luomo si mise a creare dei graffiti nelle grotte non solo per indicare come si andava a caccia o si partecipava ad un rituale magico, ma perché  sentì forte la necessità di esprimersi e di comunicare.

Così in età moderna – se mi è consentito questo salto temporale – anche i grandi artisti rinascimentali si apprestarono a realizzare le loro indimenticabili opere, spinti da quella fiamma interiore che si eternò sulla tela o sul marmo.  Non furono da meno gli  autoridelle Avanguardie del Novecento  che, con i propri lavori disperati, diedero forma visibile al dissidio interiore che li animava nel periodo tanto travagliato del cosiddetto Secolo Breve.

Negli anni che precedettero il primo conflitto mondiale nacque un movimento seducente ingenuo e ottimista, che sognava di ricreare la natura traendo da essa motivi di ispirazione per modellare il ferro e i metalli, nella piena convinzione di dar vita a fiori in vetro e lapislazzuli che non sarebbero mai appassiti: gli elementi decorativi, i ghirigori del Liberty, si diramarono in tutta Europa proprio come fa ledera nei boschi. Le linee rotonde e i dettagli giocosi ed elaborati incarnarono quella leggerezza che caratterizzò i primissimi anni del Novecento, e ad oggi sono ancora visibili anche nella nostra Torino, a testimonianza di unarte raffinatissima, che ha reso la città sabauda capitale del Liberty, e a prova che larte e gli ideali sopravvivono a qualsiasi avversità e al tempo impietoso. (ac)

Torino Liberty

1.  Il Liberty: la linea che invase l’Europa
2.  Torino, capitale italiana del Liberty
3.  Il cuore del Liberty nel cuore di Torino: Casa Fenoglio
4.  Liberty misterioso: Villa Scott
5.  Inseguendo il Liberty: consigli “di viaggio” per torinesi amanti del Liberty e curiosi turisti
6.  Inseguendo il Liberty: altri consigli per chi va a spasso per la città
7.  Storia di un cocktail: il Vermouth, dal bicchiere alla pubblicità
8.  La Venaria Reale ospita il Liberty:  Mucha  e  Grasset
9.  La linea che veglia su chi è stato:  Il Liberty al Cimitero Monumentale
10.  Quando il Liberty va in vacanza: Villa  Grock

Articolo 3. Il cuore del Liberty nel cuore di Torino: Casa Fenoglio

Con lEsposizione Internazionale di Arte Decorativa Moderna del 1902, Torino assume il ruolo di  polo di riferimento per il Liberty italiano. LEsposizione del 1902 è un evento di grandissimo successo, e numerosi sono gli architetti che offrono il proprio contributo, ma il protagonista indiscusso di questa stagione èPietro Fenoglio, il geniale ingegnere-architetto torinese, che abitònella palazzina di Corso Galileo Ferraris, 55.

Allinizio del Novecento, Torino vede in particolare il quartiere di Cit Turin al centro della propria trasformazione. A partire da Piazza Statuto si dirama il grande Corso Francia che, con le sue vie limitrofe, costituisce in questa zona un quartiere ricco di architetture in stile Art Nouveau unico nel suo genere. Un tratto urbanistico in cui sono presenti numerose testimonianze dellopera di Fenoglio, riconoscibile dai caratteristici colori pastello, dalle decorazioni che alternano soggetti floreali a elementi geometrici e dallaudace utilizzo del vetro e del ferro. 

Personalità artistica di estremo rilievo, Pietro Fenoglio contribuisce in modo particolare a rimodellare Torino secondo il gusto Liberty. Nato a Torino nel 1865, larchitetto-ingegnere orienta il suo campo dinteresse nelledilizia residenziale e nellarchitettura industriale. Nato da una famiglia di costruttori edili, frequenta la Regia Scuola di Applicazione per ingegneri di Torino; subito dopo la laurea, conseguita nel 1889, inizia unintensa attività lavorativa, raggiungendo ottimi risultati in ambito architettonico. Partecipa, nel 1902, allOrganizzazione internazionale di Arte Decorativa Moderna di Torino e in questoccasione approfondisce la conoscenza dello stile liberty, riuscendo poi a concretizzare quanto appreso nei numerosi interventi edilizi di carattere residenziale, ancora oggi visibili nel territorio cittadino. La sua attività di progettista si estende anche al campo dellarchitettura industriale, come testimoniano la Conceria Fiorio (1900 – Via Durandi, 11) o la Manifattura Gilardini (1904 – Lungo Dora Firenze, 19). Nel 1912, Pietro entra a far parte del Consiglio di Amministrazione della Banca Commerciale Italiana ed è tra i promotori della SocietàIdroelettrica Piemonte. Colto da morte improvvisa, Pietro Fenoglio muore il 22 agosto 1927, a soli 62 anni, nella grande casa di famiglia a Corio Canavese.

Tra tutte le sue realizzazioni spicca lopera più bella e più nota per la ricchezza degli ornati: Casa Fenoglio-La Fleur (1902), considerata unanimemente il più significativo esempio di stile Liberty in Italia. Progettata in ogni più piccolo particolare da Pietro Fenoglio per la sua famiglia, la palazzina di Corso Francia, angolo Via Principi dAcaja, trae ispirazione certamente dallArt Nouveau belga e francese, ma lobiettivo dellIngegnere è di dar vita al modello Liberty. La costruzione si articola su due corpi di fabbrica disposti ad elle, raccordati, nella parte angolare, da una straordinaria torre – bovindo più alta di un piano, in corrispondenza del soggiorno. Manifesto estetico di Fenoglio, ledificio – tre piani fuori terra, più il piano mansardato –  riflette lestro creativo dellarchitetto, che riesce a coniugare la rassicurante imponenza della parte muraria e le sue articolazioni funzionali, con la plasticità tipicamente Art Nouveau, che ne permea lesito complessivo. Meravigliosa, e di fortissimo impatto scenico, è la torre angolare, che vede convergere verso di sé le due ali della costruzione e su cui spicca il bovindo con i grandi vetri colorati che si aprono a sinuosi e animosi intrecci in ferro battuto. Unedicola di coronamento sovrasta lelegante terrazzino che sporge sopra le spettacolari vetrate.  Sulle facciate, infissi dalle linee tondeggianti, intrecci di alghe: un ricchissimo apparato ornamentale, che risponde a pieno allautentico Liberty. Gli stilemi fitomorfi trovano completa realizzazione, in particolare negli elementi del rosone superiore e nel modulo angolare. Altrettanto affascinanti per la loro eleganza sono landrone e il corpo scala a pianta esagonale. Si rimane davvero estasiati di fronte a quelle scale così belle, eleganti, raffinate, uniche. Straordinarie anche le porte in legno di noce, le vetrate, i mancorrenti, e le maniglie dottone che ripropongono lintreccio di germogli di fiori. 

La palazzina non è mai stata abitata dalla famiglia Fenoglio, e fu venduta, due anni dopo lultimazione, a Giorgio La Fleur, imprenditore del settore automobilistico, il quale volle aggiungere il proprio nome allimmobile, come testimonia una targa apposta nel settore angolare della struttura. Limprenditore vi abitò fino alla morte. Dopo un lungo periodo di decadenza,  la palazzina venne frazionata e ceduta a privati che negli anni Novanta si sono occupati del suo restauro conservativo.

Alessia Cagnotto

A Vercelli in autunno si celebrerà l’Espressionismo italiano

Opere provenienti dalla collezione Iannaccone nella chiesa di San Marco, presso lo spazio Arca

Una novità artistica contraddistinguerà il settembre vercellese e i mesi a seguire. Dall’11 settembre 2025 all’11 gennaio 2026 a Vercelli, nella chiesa di San Marco, Spazio Arca, verrà  allestita la mostra dal titolo “Guttuso, De Pisis, Fontana.. . L’espressionismo italiano”. Si tratta dell’inaugurazione di un progetto espositivo quinquennale nato dalla collaborazione tra Arca Arte Vercelli e Fondazione Giuseppe Iannaccone.
Saranno esposte in mostra 34 opere realizzate tra il 1920 e il 1945, appartenenti al nucleo storico  della Collezione Giuseppe Iannaccone, che verranno inserite in un unico percorso espositivo.
Tra gli artisti in mostra figurano Renato Guttuso, Renato Birolli, Lucio Fontana, Fausto Pirandello,  Aligi Sassu, Alberto Ziveri ed Emilio Vedova, che si sono distinti per aver mantenuto un’autonomia espressiva.
La mostra sarà  l’occasione unica per ammirare capolavori di rara intensità  e valore storico artistico, alcuni dei quali mai esposti al pubblico.

L’evento, fortemente voluto dal sindaco di Vercelli Roberto Scheda, celebra il periodo di grande attualità  nella storia dell’arte italiana del Novecento. L’esposizione è  curata da Daniele Fenaroli, direttore generale della Fondazione Giuseppe Iannacone, in partnership con Arthemisia, sponsor la Fondazione Cassa di Risparmio di Vercelli, la Provincia e ASM.

“Attraverso colori vibranti e forme irregolari, queste opere raccontano un’Italia fragile, disallineata, attraversata da tensioni e solitudini, animata da una potente esigenza di verità e autenticità  – spiega Fenaroli – Lontano dalle estetiche celebrative e dalla propaganda ufficiale,  l’Espressionismo italiano si impone come una contronarrazione umana e profonda, capace di restituire all’individuo la dignità,  l’angoscia e il suo smarrimento. È  proprio in questa dimensione che la pittura espressionista italiana diventa “scavo emotivo e empatia, capaci di superare l’apparenza, per penetrare nel cuore dell’esperienza umana. In un contesto storico in cui l’arte era spesso utilizzata come strumento di  controllo e di omologazione, questi artisti furono in grado di dar voce al dissenso, all’ambiguità,  alla fragilità, consegnando un’eredità visiva di rara potenza.
L’allestimento è progettato per dialogare armonicamente con lo spazio di Arca e accompagnerà il visitatore in un percorso immersivo in cui luce, spazio e silenzio valorizzano la forza espressiva delle opere.

Tra i lavori esposti spiccano alcune opere emblematiche  dell’Espressionismo italiano come “Nudo in piedi” di Lucio Fontana del 1939, “Composizione  ( Siesta Rustica) di Fausto Pirandello (1924-1926), il Caffeuccio veneziano di  Emilio Vedova del ’42, lo Schermidore di Angelo del Bon del 1934 e Ritratto di Antonino Santangelo di Renato Guttuso del 1942.

Il progetto di collaborazione intende creare un dialogo multidisciplinare, proprio a partire dall’intreccio delle opere della Collezione di Giuseppe Iannaccone con quelle di un giovane artista emergente e con lo spazio dell’ex Chiesa di San Marco degli Eremiti.
In questa prima edizione la grande arte italiana del primo Novecento sarà affiancata da tre opere del giovane artista Norberto Spina, di Milano (1995), tra cui un prestito della Royal Academy di Londra e lavori site specific inediti, concepiti per l’occasione.
L’artista mostra un approccio ispirato a una rilettura della storia, suggerendo al tempo stesso una continuità nel modo in cui l’arte possa offrire una visione personale della realtà.
Spina, come gli artisti degli anni Trenta hanno rifiutato l’estetica celebrativa del potere, anche lui si muove ai margini della memoria collettiva, reinterpretando atmosfere, gesti e volti e riportandole alla luce senza indugiare nella nostalgia, ma attraverso un atto consapevole. Spina invita lo spettatore a non rimanere passivo osservatore di fronte agli intensi volti di Benito Albino Dassler, il figlio non riconosciuto di Mussolini, e a quello di Edda Ciano.
L’artista indaga le modalità con cui l’immagine del potere si riflette nel nostro sguardo contemporaneo. Il suo è un invito a leggere la storia non come un archivio chiuso, ma un organismo vivo e complesso, attraversato da tensioni sempre attuali.
Vi sono opere di Norberto Spina che instaurano un dialogo con il passato, tra queste “La battaglia dei tre cavalieri” di Aligi Sassu del 1941, accostata a ‘Presente’ di Norberto Spina del 2024, che rielabora un dettaglio del Sacrario di Redipuglia, fatto edificare da Mussolini nel 1938. Sassu, all’indomani della prigionia, in pieno conflitto mondiale, si affida ad una pittura epica per denunciare una guerra assurda; Spina, con un linguaggio minimale, isola una parola  nella pietra per confrontarla con il nostro tempo. Da un lato i corpi dei cavalieri esprimono nettamente la perdita dell’individuo, l’annientarsi dello spirito umano, dall’altro il potere espresso attraverso una monumentalità muta continua a interrogare il visitatore.

La  mostra dal titolo “Guttuso, De Pisis, Fontana, l’Espressionismo italiano” è ospitata nello spazio Arca di Vercelli, in piazza San Marco 1 dall’11 settembre 2025 all’11 gennaio 2026.

Tel 0161649605

Mara Martellotta

Le Grottesche, i mascheroni satirici che guardano Torino

Dalle forme plastiche suggestive, narrano di una città inquieta e fantastica.

i muri della città parlano” diceva il barone de La Brède e di Montesquieu che giunse a Torino nel 1728. Effettivamente è così, ma oltre a raccontare una parte della storia della città queste sculture in pietra, che rivestono perlopiù gli edifici storici di Torino, osservano cose e persone con sguardi talvolta caustici ed altri minacciosi. Queste opere d’arte che si fanno notare per la loro plasticità, i loro particolari e la ricchezza che conferiscono ai palazzi che li ospitano, sono le Grottesche, anche conosciute come Mascheroni. Possono essere entità fantastiche o mostruose, mitologiche, animali, facce deformi o altre sagome e rimandano al quello straordinario periodo artistico che è stato Barocco europeo, ma anche a epoche seguenti come il Liberty. Nella nostra città sono molte e conturbanti e non furono scolpite unicamente come ricco ornamento, ma anche come veicolo potente di un linguaggio simbolico e satirico, un mezzo per raccontare ciò che non si poteva dire apertamente: l’instabilità del potere, la vanità della ricchezza, le paure del mondo e i desideri inconfessabili, il tutto scolpito su una base monocolore in pietra e di stucchi o simili a quelle di epoca romana, caratterizzate da una pittura multi-cromata, trovate nei resti sotterranei della Domus di Nerone (le “grotte” appunto)

A Torino le Grottesche non sono urlate come nella Capitale o a Firenze, sono più nascoste, meno protagoniste e per un occhio che le cerca e guarda con attenzione e curiosità, ma nonostante questa loro personalità sobria, in linea con il carattere culturale territoriale, riescono a farsi notare, risultano eloquenti ed affascinanti.

Qualche esempio più noto? A Palazzo Chiablese, affacciato su piazza San Giovanni, ospita uno dei cicli più importanti di grottesche della città, con affreschi che ornano volte e stanze laterali. Qui si incontrano tritoni, chimere, teste giganti con occhi vuoti, tra decori vegetali e medaglioni enigmatici. Palazzo Carignano, tra le meraviglie barocche del Guarini, conserva motivi grotteschi sia all’interno sia all’esterno, tra mascheroni scolpiti nei timpani delle finestre. I volti deformati sembrano rimproverare severamente chi guarda, belli ma inflessibili.

Passeggiando, inoltre, per via della Rocca, via Giolitti, via Bogino, via San Francesco da Paola, ma anche per le strade di Cit Turin, come corso Francia dove si trova il Palazzo delle Vittoria, si possono osservare mascheroni sui portoni in legno o sulle chiavi di volta degli archi. Spesso sono volti demoniaci, nasi adunchi, oppure caricature dalla forma animale posizionati come elementi apotropaici, protettivi, per allontanare il male.

Anche in alcune chiese della città si possono trovare elementi grotteschi di interesse artistico, come nei dettagli in stucco della Chiesa della Misericordia o nelle cappelle laterali di San Lorenzo, si tratta di putti deformi o di volti che sembrano fondersi con il fogliame.

Le Grottesche sono, dunque, una forma d’arte in conflitto con qualsiasi canone, non mirano alla perfezione o alla armonia, ma all’inquietudine.
Guardarle e ammirarle significa comprendere che l’arte, nei secoli si è occupata anche di incubi, di paure e sogni deformati. Torino, con la sua personalità solenne e lineare, nasconde, ma neanche tanto, un’anima caustica e magicamente teatrale, un lato sarcastico in contrasto con la geometria a e il rigore sabaudo, i mascheroni sono un esempio di questo carattere anticonformista che fa di questa città un luogo eccezionale e complesso.

Maria La Barbera

Al castello di Rivoli l’ampia retrospettiva dedicata a Enrico David: “Domani torno”

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Il castello di Rivoli Museo di Arte Contemporanea presenta a partire dal 30 ottobre 2025 l’ampia retrospettiva dedicata a Enrico David, artista nativo di Ancona nel 1966, dal titolo “Domani torno”.

La mostra, curata da Marianna Vecellio, offre una panoramica articolata sulla ricerca dell’artista  che include pittura, opere tessili, disegno, scultura e installazioni ambientali, esplorando la dimensione interiore dell’uomo contemporaneo.
Il percorso espositivo è stato progettato appositamente per la Manica Lunga e alterna figurazione e astrazione, e si concentra sul corpo come metafora della trasformazione.
In un allestimento che richiama la scenografia teatrale e i display del design, la mostra ripercorre le tappe della produzione di David, includendo nuove opere realizzate per l’occasione. “Domani torno” rappresenta un racconto personale e al tempo stesso artistico, dalle origini ad Ancona al trasferimento a Londra nel 1986, l’esposizione segue la nascita di una pratica fondata sulla ricerca di uno spazio linguistico in cui esistere.

Attraverso media differenti, David affronta la figura umana quale luogo di metamorfosi e riflessione. Il disegno assume un ruolo centrale come linguaggio capace di tenere uniti a sé gli altri, poiché, afferma l’artista “lo spazio del sogno e lo spazio del disegno sono infiniti”. Molte opere nascono dall’esigenza di elaborare esperienze traumatiche, come la perdita improvvisa del padre.
“La creatività è per me un’opportunità di cambiare le circostanze del dolore – afferma David – una redenzione, una destinazione altra rispetto allo star male. L’arte è ciò che rende la vita più  vivibile. A partire dalla fine degli anni Novanta, le installazioni di David diventano veri e propri mondi interdisciplinari, palcoscenici visionari che intrecciano cronaca, memoria, cultura popolare e retorica teatrale. Ne sono un esempio opere quali “Madreperlage” del 2003, Absuction Cardigan del 2009 e Ultra Paste del 2007, in cui l’artista porta in scena dispositivi scenografici carichi di tensione emotiva e simbolica.
Nel corso del tempo la pratica artistica si è  evoluta verso una crescente sintesi formale, culminando in una produzione scultorea che approfondisce il tema del volto come luogo di relazione e conoscenza. A partire dalla mostra del 2014 intitolata “Life Sentences” David ha indagato il volto con una resa materica e iper espressiva, modellandolo in cera per evocare emozioni e intensità.

Tra le sue opere in mostra “Tranches to Reason” del 2021, due forme sospese che fondono geologia e tecnologia; “Tutto il resto spegnere”, presentata al Padiglione di Venezia  nel 2019, e studi dell’artista sulla scultura, in opere come “Sign for lost Mountaineers Hair Grooming Station” del 2004, “Pebble Lady” del 2014 e “Racket II” del 2017.
Numerosi sono i disegni, una selezione di nuove produzioni tra arazzi, grandi pitture, ricami su tela e la serie dei teatrini, realizzati dal 2005 ad oggi, che completano l’esposizione.
“In un tempo dominato dall’intelligenza artificiale e dalla smaterializzazione digitale, l’opera di Enrico David costituisce una dichiarazione di resistenza alla decodificazione e un inno al corpo fisico, all’esperienza sensibile e alla forza dell’immaginazione – afferma la curatrice della mostra Marianna Vecellio.

L’esposizione propone una riflessione sull’identità contemporanea,  in particolare sul rapporto tra corpo, genere e percezione di sé. “Nel mio lavoro il genere ha una sorta di inconscia irrilevanza – afferma l’artista – le identità si sfiorano, si scambiano, si rimettono in discussione”.
“Domani torno” rappresenta così un invito a riappropriarsi del proprio immaginario, un’esplorazione visiva e concettuale sull’essere umano in continua evoluzione e trasformazione.

La mostra sarà accompagnata da un catalogo bilingue inglese-italiano pubblicato per i tipi di Walther König. L’esposizione sarà  anche l’occasione per presentare in Italia “Untitled”, opera del 2024-2025 prodotta dal Castello di Rivoli Museo di Arte contemporanea in collaborazione con il Kunsthaus Zurich grazie al sostegno della Direzione generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura, nell’ambito del programma Italian Council 2025.

Mara Martellotta