ARTE- Pagina 2

OGR Torino e CAMERA presentano due mostre in occasione di Exposed Torino Foto Festival

Dal 16 aprile al 2 giugno 

 

Presso CAMERA, Centro Italiano per la Fotografia, il 16 aprile prossimo in Project Room inaugurerà la mostra dal titolo “Olga Cafiero. Cultus Langarum”.

Curata da Giangavino Pazzola e sostenuta dall’azienda vinicola Garesio, l’esposizione presenterà cinque serie fotografiche che narrano la storia, i personaggi e la cultura enologica delle Langhe, realizzate dalla fotografa italo svizzera Olga Cafiero, che utilizza diverse tecniche visive, tra cui la fotografia aerea, le scansioni digitali e i processi Off camera.

Exposed Torino Foto Festival si snoderà dal 16 aprile al 2 giugno prossimo e ha annunciato le due mostre prodotte in occasione del Festival, in collaborazione con le OGR Torino e Camera, Centro Italiano per la Fotografia di Torino.

“Beneath the Surface” è il tema della seconda edizione del Festival, organizzato dalla Fondazione per la Cultura di Torino, sotto la guida dei direttori artistici Menno Liauw e Salvatore Vitale, e promosso da Città di Torino, Regione Piemonte, Camera di Commercio di Torino, Intesa Sanpaolo, Fondazione Compagnia di San Paolo, Fondazione Crt, in sinergia con la Fondazione per l’arte Moderna e Contemporanea Crt.

Dodici mostre, tra personali e collettive, 16 artisti provenienti da 12 Paesi, sette prestigiose sedi espositive dall’Accademia Albertina di Belle Arti, all’Archivio di Stato, da Camera alle Gallerie d’Italia, dalla Gam Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea alle OGR di Torino a palazzo Carignano, dove Exposed Torino Foto Festival presenterà una panoramica internazionale delle ultime tendenze della fotografia contemporanea.

Il tema del festival invita a esplorare realtà e contenuti nascosti sotto la superficie delle immagini, non solo quelle catturate dagli obiettivi degli artisti, ma anche quelle generate, trasformate, ritoccate, attraverso tecnologie sempre più avanzate e interconnesse tra loro.

In questo solco si muove la mostra collettiva che aprirà il 16 aprile prossimo al Binario 2 delle OGR Torino dal titolo “Almost real. From Trace to simulation”, curata da Samuele Piazza, senior curator delle OGR Torino, e da Salvatore Vitale, uno dei direttori artistici del Festival, con protagonisti gli scatti e le opere di Lawrence Lek, Nora al-Badri e Alan Butler.

Dalla relazione tra videogiochi e fotografia al ruolo della memoria nei musei, fino al confine tra intelligenza artificiale e coscienza, l’esposizione mette in discussione il concetto stesso di autenticità e verità, immaginando anche le implicazioni future delle immagini di Al generated.

Alan Butler si muove tra virtuale e analogico con la serie “Virtual Botany Cyanotypes”: prendendo spunto dal mondo dei videogiochi, trasforma piante digitali in stampe fotografiche realizzate con la tecnica della cianotipia, un antico processo ottocentesco. Il risultato è un dialogo tra pixel e materia, tra il virtuale che tenta di farsi reale e il reale che si lascia contaminare dal digitale.

Nora -Al- Badri lavora sul confine tra archeologia e intelligenza artificiale. Con The Post Truth Museum e Babylionian Vision addestra un’AI su migliaia di manufatti Mesopotamici, generando nuovi oggetti che non appartengono né al passato né al presente.

Il suo lavoro solleva domande su chi abbia il potere di mantenere la memoria storica e su come la tecnologia possa riscrivere le narrazioni coloniali e postcoloniali.

Lawrence Lek porta l’AI al centro della scena con “Empty Rider”, un film ambientato in un futuro distopico in cui un’auto a guida autonoma senziente viene processata per il tentato omicidio del suo creatore. Il video esplora il confine tra intelligenza e coscienza artificiale, ponendo domande sul ruolo etico della tecnologia e su quanto le macchine possano essere responsabili delle proprie azioni.

La storia, I personaggi, la cultura enologica delle Langhe raccontati attraverso l’uso di documenti e di materiali di archivio. Ruota attorno a questi temi la mostra intitolata a “Olga Cafiero. Cultus Langarum”, che si aprirà il 16 aprile nella Project Room di Camera, Centro Italiano per la Fotografia. La mostra, sostenuta dall’azienda vinicola Garesio, raccoglie le serie fotografiche realizzate da Olga Cafiero, fotografa italo svizzera vincitrice della prima edizione del Garesio Wine Prize for Documentary Photography e fra le artiste e gli artisti selezionati da Photo Elysée-Musée Cantonale pour la Photographie di Losanna per l’edizione 2024 di Futures Photography, piattaforma internazionale di talenti emergenti della fotografia di cui Camera è partner insieme ad altre istituzioni europee.

La mostra, curata da Giangavino Pazzola, presenta cinque serie fotografiche che riflettono sul rapporto tra l’ambiente e l’uomo, utilizzando diverse tecniche visive, tra cui la fotografia aerea, la scansione digitale, i processi off camera. Il lavoro di Cafiero offre una visione inedita delle Langhe, raccontando il destino di un territorio e la sua cultura enologica attraverso la combinazione di diversi registri visivi e narrativi, che mescolano l’approccio quasi scientifico ad una visione poetica ed evocativa. L’opera di Cafiero cattura così l’essenza di un territorio che vive tra tradizione e modernità, conservazione e innovazione.

 

Mara Martellotta

Malinpensa by La Telaccia: “Tra natura e sensazioni cromatiche”, personale dell’artista Vanni

Informazione promozionale

Dal 27 marzo al 9 aprile prossimo la galleria d’arte Malinpensa by La Telaccia ospita la mostra intitolata “Tra natura e sensazioni cromatiche”, personale dell’artista Vanni.

Il pittore si avvale di un modulo cromatico segnico altamente suggestivo, che vive mirabilmente nell’opera creando effetti unici e incisivi, all’insegna di una pittura contrassegnata da una interpretativa del tutto autonoma. Il rapporto continuo con la natura, che Vanni stabilisce con qualità descrittiva e stile personale, delinea una libertà esecutiva incisivamente espressiva.

Utilizzando la tecnica mista ad olio, acrilici, pastelli e terre su tela o su tavola con magistrale stesura, l’artista realizza opere ampiamente interessanti, dove l’energia del tratto, il movimento ritmico del colore e il valido tessuto compositivo evidenziano un linguaggio pittorico di vivace scansione materica capace di vivere in continua vibrazione. La visione incontaminata della natura, che si fonde con la memoria e con il vissuto, è rivelatrice di una profonda carica vitale in cui il taglio prospettico dei suoi paesaggi si veste di abilità tecnica e contenuto poetico. La ricerca costante della dinamicità della luce attraversa magistralmente l’opera con una potenza descrittiva unica, dettata dalla sensibilità evocativa dell’artista Vanni.
L’emozionalità visiva, l’esecuzione tecnica e l’equilibrio formale evidenziano una pittura significativa, costruita con originale talento e passione.

 

Vanni vive e lavora in Umbria, contornato da una natura incontaminata, capace di suggerire spesso trame artistiche che vengono successivamente narrate con cromaticità legate alla luce mediterranea appartenente alle proprie radici. Dopo i primi studi artistici compiuti a Roma, Vanni ha perfezionato il suo percorso pittorico a Parigi, città dove ha vissuto diversi anni, entrando in contatto con il variegato mondo artistico della capitale francese. Dopo aver frequentato “Les Études des Beaux-Arts de Paris”, l’artista ha perfezionato i suoi studi presso gli atélier di affermati artisti espressionisti contemporanei, i cui insegnamenti hanno definitivamente tracciato il suo indirizzo pittorico, l’osservazione degli spazi circostanti e delle loro cromaticità. Figurano al palmarès numerose esposizioni personali e collettive in Italia, Francia, Belgio, Ungheria, Lussemburgo e Grecia, così come diverse sono le manifestazioni culturali cui Vanni ha preso parte riscuotendo sempre successo di critica e pubblico. Il linguaggio pittorico di Vanni si concretizza in opere che testimoniano inequivocabilmente la fascinazione nell’artista provocata dalla luce mediterranea, caratterizzata da visioni terse e luminose e dai colori netti ed abbaglianti. Tali contrappunti orientano la ricerca dell’artista verso un colore più marcato ed evidente, colori dominanti, decisi e filtrati da uno sguardo abbagliato dal Sole, in grado di cogliere i contorni delle cose. Di qui una palette intensa, ricca di colore, data senza compiacimenti cromatici, che pare scolpire nello spazio ciò che lo sguardo coglie.

 

Vanni – “Tra natura e sensazioni cromatiche” – dal 27 marzo al 9 aprile 2025 alla galleria d’arte Malinpensa by La Telaccia – corso Inghilterra 51, Torino.

Orario: 10.30 – 12.30 / 16 – 19 – chiuso lunedì e festivi

Telefono: 011 5628220

 

Mara Martellotta

Demarchi, la mostra: Perché gli Dei restino tra noi – il mito di Er

Giovedì 27 marzo si inaugura, alle ore 18, la mostra dell’artista Roberto Demarchi 

Si inaugura giovedì 27 marzo prossimo dalle ore 18, nello studio di corso Rosselli 11, a Torino, la mostra dell’artista Roberto Demarchi, dal titolo “Perché gli Dei restino tra noi – il mito di Er”. Questa esposizione riflette sui miti che la cultura greco romana partorì. Era un mondo popolato di Dei, senza un Dio creatore che desse un senso al tutto, per cui con le sole forze del pensiero e dell’immaginazione ci si addentrò nel mistero dell’esistente e dell’universo. L’uomo possiede la ragione, grazie alla quale “sopra-vive” nel mondo, ed è posseduto dal mito attraverso cui vive nel mondo. Il mito e le arti sono grandi illusioni che ci permettono leopardianamente di naufragar in quei cieli che la ragione saggiamente evita. Come cantava il poeta Yves Bonnefoi “Perché gli Dei restino tra noi…”

Mail: rb.demarchi@gmail.com

Mara Martellotta

La galleria Pirra presenta “La poetica dei fiori”

Un viaggio pittorico attraverso la bellezza dei fiori 

Da venerdì 21 marzo fino al 4 maggio prossimo è visitabile dal pubblico la mostra ospitata presso la galleria d’arte torinese Pirra, dal titolo “La poetica dei fiori”, che propone un suggestivo viaggio nel mondo multiforme e colorato dei fiori, visti con gli occhi di artisti diversi, impegnati nel tradurne la poetica e la potenzialità evocativa in espressione visiva.

La collettiva presenta una selezione di opere che esplorano i fiori nelle loro varie declinazioni,  dalle sofisticate e simboliche nature morte, all’esplosiva vitalità dei fiori di campo, dai delicati bouquet di fiori recisi ai rigogliosi giardini primaverili.

Autori delle opere sono gli artisti post Impressionisti Georgij Moroz, Gleb Savinov, Maya Kopitzeva, Boris Lavrenko, la cui maestria nell’uso del colore e della luce trasforma ogni fiore in un soggetto vibrante di vita, e altri artisti di formazione completamente diversa, come il fiorentino Enzo Faraoni, che ha fatto la cifra della sua pittura dell’essenza delle cose e i cui dipinti raccontano la poetica quotidianità delle cose più semplici, fiori compresi, attraverso sobrie nature morte; l’intensa e raffinata  Luisa Albert e Giulio da Milano, uno dei rappresentanti della cultura artistica torinese negli anni Trenta e Quaranta.

Nelle loro opere i fiori non sono semplici elementi decorativi, oggetti di studio, ma vengono proposti come autentici protagonisti di racconti visivi, capaci di comunicare sensazioni, emozioni e riflessioni sull’effimero  e sull’eterno.

Autentiche metafore della vita emergono dalla tela con accesa intensità, talvolta come simbolo di speranza, altre volte come rimando alla fugacità del tempo e della transitorietà, invitando il visitatore a immergersi in forme e colori capaci di suggerire una riflessione più profonda,  sul cielo della natura, sulla rinascita e sul rinnovamento continuo.

“La poetica dei fiori “ rimane un’occasione unica per esplorare la relazione tra arte e natura, situata di una mostra che parla ai sensi e alla ragione dello spettatore attraverso un linguaggio universale. 

La mostra rimarrà aperta fino al 4 maggio prossimo

Galleria Pirra, corso Vittorio Emanuele II82

Tel 011543393, info@galleriapirra.it

Mara Martellotta

 

Nelle foto: Enzo Faraoni. Natura morta con fiori. Gleb Savinov Gelsomino sul balcone

A Palazzo Falletti di Barolo “Norman Parkinson – Always in Fashion”, curata da Terence Tepper

Il 21 marzo si è inaugurata a Palazzo Falletti di Barolo la mostra “Norman Parkinson – Always in Fashion”, una retrospettiva che rende omaggio a uno dei Maestri della fotografia del Novecento. Grazie alla curatela di Terence Tepper, storico della fotografia molto apprezzato e responsabile per oltre quarant’anni della National Portrait Gallery di Londra, l’esposizione offre una panoramica completa sull’opera straordinaria di questo fotografo scomparso 35 anni fa. Centro nevralgico della mostra torinese è l’impronta lasciata dall’opera di un fotografo che in oltre cinquant’anni di carriera ha collaborato con le più importanti riviste di moda di tutto il mondo, incluse Harper’s Bazaar, Town & Country.

La mostra rappresenta un viaggio a tutti gli effetti, condensato in 80 immagini tra l’approccio dinamico sperimentale e gli studi culturali che hanno provato a fare chiarezza sui presupposti dell’essere umano di raffigurare. Norman Parkinson amava definirsi un “artigiano della fotografia”, iniziò la sua carriera nei primi anni Trenta come apprendista per i fotografi di corte Speaight e Sons Ltd, periodo in cui si ricorda la celebre fotografia scattata nel ’39 a Pamela Minchin, per Harper’s Bazaar, in cui la modella vestita con un costume da bagno di Fortnum & Mason viene ritratta mentre salta a mezz’aria su una spiaggia dell’Isola di Wight. La mostra “Norman Parkinson – Always in Fashion” è prodotta da Ares, Terra Esplendida e Iconic Images, e il suo punto d’osservazione è il “fare immagine”, quello che rende possibile l’esperienza di queste immagini, grazie alla capacità del curatore Tepper di creare un ponte tra gli anni Trenta e le mode austere della seconda guerra mondiale, il New look parigino anni Cinquanta e la Swinging London degli anni Sessanta fino al glamour e allo sfarzo degli anni Settanta e Ottanta. Attraverso questo percorso visivo il pubblico potrà esplorare le prime fotografie degli anni Trenta e Quaranta, in cui Parkinson introduce un approccio dinamico e spontaneo portando le modelle fuori dagli studi fotografici per ritrarre in ambienti reali, urbani o esotici. Alla collaborazione con le sopracitate riviste, seguirà quella con Vogue negli anni Quaranta e Cinquanta, periodo in cui sviluppa uno stile narrativo nelle immagini, suggerendo storie dietro ogni scatto. Memorabili le fotografie dedicate alla moglie e musa Wenda Parkinson e il ritratto di una splendida Audrey Hepburn in abito rosa di Givenchy nel 1955, in una fattoria sui colli albani di Cecchina, durante le riprese di Guerra e Pace di King Vidor.

La Swinging London degli anni Sessanta e il Glamour degli anni Settanta portano Parkinson a adattare il proprio stile alle nuove tendenze giovanili, immortalano modelle emergenti come Jerry Hall e Iman, oltre a personaggi come Rolling Stones, Beatles e stilisti di fama mondiale come Yves Saint-Laurent e Hubert de Givechy.

Il riconoscimento ufficiale per il fotografo avvenne negli anni Ottanta, quando fu insignito del titolo di Comandante dell’Impero Britannico dalla Regina d’Inghilterra, e ottenne una commissione per una grande mostra retrospettiva alla National Portrait Gallery di Londra.

Palazzo Falletti di Barolo – via delle Orfane 7/a, Torino

Dal 21 marzo al 29 giugno prossimi – da martedì a domenica 10-19 / chiusura lunedì- aperture straordinarie 20 -21-25-28 aprile, 1 maggio, 2 e 24 giugno, dalle 10 alle 12.

Mara Martellotta

Le uova, i limoni, le scodelle di Casorati

Grande mostra a Palazzo Reale di Milano, sino al 29 giugno

Scoprire la più durabile essenza del mondo, scavare nel fondo, trovare il numero, la misura, il peso: numerus, mensura, pondus.” La bellezza e la perfezione della tradizione classica, la convinzione ciceroniana che “di tutte le cose, nulla è migliore e più bello del cosmo”, la visione estetica che vuole abbracciare il mondo intero attraverso la elaborazione di “numerose categorie”, come ricordava Eco sul finire del millennio scorso, molte e differenti, “espressioni non coordinate e impiegate sempre a definire sia la bontà sia la bellezza delle cose.” Sono, quelle, parole di Felice Casorati, parole e pensiero siglati nel 1949, il termine di un fantastico percorso che vede l’artista protagonista della mostra che – semplicemente – da lui prende il titolo, a Palazzo Reale di Milano (è un ritorno nel medesimo luogo dell’antologica di trentacinque anni fa) sino al 29 giugno, a cura di Giorgina Bertolino, Fernando Mazzocca e Francesco Poli: percorso che ne sottolinea la poetica in una selezione di capolavori conosciutissimi e altri da troppi anni rimasti nascosti, gli esempi della grafica e della scultura e della scenografia (quella inventata per il teatro di casa Gualino nella torinese via Galliari), i rapporti con le Avanguardie e le vicinanze con i panorami simbolistici, i contatti – che è bello ricercare e toccare con mano in certe opere – con la produzione di Klimt e la scuola viennese e di Cézanne, gli influssi della metodica pittura del nord della vecchia Europa. Il Casorati che è vicino al Realismo magico e vicinissimo alla tradizione figurativa del Trecento e del Quattrocento, attingendo ai volti ai momenti agli incanti ai rimandi verso i nomi illustri che più ha amato e più ha frequentato, mettendo su tela e su altri materiali non soltanto i corpi che ne fanno un gran ricercatore di femminilità – una femminilità a tratti spenta e dolorosa, pensosa e sospesa in un gesto, allineata a confronto o solitaria, muta e spoglia, disperata con quell’attimo, che si fa simbolo, della mano poggiata sul capo, anche sognatrice in un frammento di tranquillità – ma anche e soprattutto le psicologie, gli stati d’animo, gli abbandoni e la quotidianità, delle conversazioni o dei ritrovi attorno a un tavolo per una semplice colazione, tenuta pur sempre ad un livello altissimo. Per cui balza all’attenzione quell’unico esempio maschile, “Narciso”, presentato per la prima volta alla XXIII Biennale d’Arte veneziana del 1941, dalla “magra e vulnerabile nudità”, a ricordare l’antica tragedia, ambientato in uno spoglio ambiente, lui lo sguardo rivolto verso il basso su una superficie specchiante, le due ragazze dimessamente vestite, in abiti dai morti colori eguali, dai gesti precisi a indicare anche qui la loro personale disperazione, frutti di un vasto repertorio pittorico (“Narciso” avrebbe suggerito il nome per la Galleria d’arte, con sguardo su piazza Carlo Felice, ancora Torino, inaugurata nel 1960 dai Pinottini).

Quattordici stazioni, che s’intrecciano inevitabilmente con la vita del pittore e che seguono, spiegano i curatori, “la cronologia e il filo rosso dei temi pittorici – le allegorie, le maschere, le conversazioni, la malinconia” per snodarsi “tra i momenti salienti della carriera, attraverso gli ambienti che ha frequentato”, un viaggio che prende i primi passi dal “Ritratto” della sorella Elvira, con cui Casorati fu ammesso alla Biennale veneziana del 1909, appena ventiquattrenne, per terminare – “un modo per sottolineare l’importante ruolo che Milano, le sue mostre, le istituzioni culturali e le sue gallerie hanno svolto nella vita di Felice Casorati” – con un gruppo di bozzetti che testimoniano una collaborazione con il Teatro alla Scala, collaborazione iniziata nel 1942 con i bozzetti scenici e i figurini per “La donna serpente” di Alfredo Casella per arrivare ad una decina d’anni dopo, attraverso “La folla d’Orlando” di Petrassi e “Le Baccanti” di Ghedini (1948), il “Fidelio” di Beethoven e “L’amore stregone” di De Falla, dove reinventa “pittoreschi quadri scenici e vivaci costumi spagnoleggianti per i danzatori gitani.” Del 1951è “Il principe di legno”, con le musiche di Béla Bartòk e le coreografie di Aurelio Miloss.

Ben stabile nelle proprie idee, nella personale concezione artistica, lontano dai venti del Futurismo che agitavano i primi anni del Novecento, pronto a ribattere quelle accuse di inattualità e di freddezza che gli piovevano addosso dai tanti detrattori com’era pronto a rivendicare quella “armoniosa corrispondenza tra forme geometriche, tra pieni e vuoti, composizioni di forme immobili immerse in un’atmosfera rarefatta, glaciale, fatta di incantati silenzi, una pittura in bilico tra pitagorismo e platonismo, tra il mondo del numero e quello della Idea, tra l’eternità e la geometria.” Non certo un solitario, né tantomeno un isolato, un punto di riferimento semmai, per seguaci e amici e allievi, un uomo per cui Massimo Mila coniò precisissime parole, affermando che Casorati era venuto a pulire l’aria “dalla retorica carducciana, dall’estetismo dannunziano e dalla malinconia gozzaniana”, come ricorda Domenico Piraina, Direttore Cultura e Direttore di Palazzo Reale.

Attingendo in principal modo dalla GAM torinese e di Roma come dall’Archivio Casorati, da Ca’ Pesaro e dal Mart e da collezioni private, dai musei di Genova e Verona, l’itinerario casoratiano – che tocca altresì le tante città abitate a causa degli spostamenti del padre Francesco, ufficiale del Corpo d’Amministrazione, e poi il definitivo studio torinese di via Mazzini e il rifugio di Pavarolo, nella tranquillità di quelle colline su cui guarda la finestra che inquadra la sposa (dal 1931) Daphne Maugham nel suo abito blu – si snoda nei suoi esordi tra “Le vecchie”, lodato dalla critica per lo studio approfondito e la ricerca psicologica su quegli antichi volti pieni di rughe, il chiaro rimando alla “Parabola dei ciechi” di Brueghel il Vecchio di Capodimonte (“ora dipingo delle povere vecchie, con i loro scialli sbiaditi e il fardello dei loro dolori, dei loro ricordi”) e acquistato dal Governo per la GAM romana, tra “Persone” e “Le signorine” (1912), dipinto nel nuovo domicilio veronese, gli alberi di piazza Bra sullo sfondo e un chiaro richiamo alla “Primavera” botticelliana, un aria di simbolismo che circola tra le quattro figure femminili, allegoricamente intese a raffigurare la tristezza e la timidezza, la verginità e l’allegria, adagiate su un tappeto pieno d’oggetti, diversissimi tra loro, una sorta di natura morta a richiamare un’antica “vanitas”. È con il finire degli anni Dieci e con l’inizio degli anni Venti che Casorati fissa quella cifra stilistica che lo identificherà presso la critica come presso un vasto pubblico, è l’epoca delle grandi tempere, una serie di ritratti e di capolavori, tra tutti la “spettrale” “Teresa Madinelli Veronesi”, chiusa signorilmente contro l’ombra grigia del divano, con l’incombenza delle mattonelle chiaroscure del pavimento, in un ambiente dove tutto è sospensione e geometrie, “L’attesa” (1919) e “Colazione” (1919-1920), tavoli apparecchiati in un tripudio di scodelle verdi e blu e bianche, smaltate e povere, di fronte a donne che abitano nei loro silenzi più uno spazio mentale che fisico, astrattamente realistiche, in “angosciosa attesa”, anticipando quel male di vivere e quella incomunicabilità covata nel più assoluto pessimismo che altri, nei decenni successivi, andranno a scavare

E poi “Le uova sul cassettone” – che fecero la felicità di Piero Gobetti e di Lionello Venturi, “la forma amata come tale”, Piero della Francesca con la pala di Brera e Cézanne all’orizzonte (lo ritroveremo più in là, nella “Ragazza distesa (con la gonna a quadri)”, se ne ricordò anche Pier Luigi Pizzi per la scenografia del “Gioco delle parti” pirandelliano messo in scena da De Lullo nel ’63, l’anno della morte del pittore – e i limoni e le mele di un verde intenso screziate di rosso, e quel punto inarrivabile d’arte che è “Silvana Cenni”, nome fantastico e immaginario – s’è ipotizzato che il personaggio ritratto sia la pittrice Nella Marchesini, allieva di Casorati e frequentatrice dello studio negli anni ’20 -, un omaggio novecentesco alla grandezza di Piero e del suo “Polittico della Misericordia” di Sansepolcro, donna e divinità, “donna fantasma” ieraticamente intesa, poggiata a quello sfondo che potrebbero essere i collinari Cappuccini. E, nell’attraversare le sale, tra lampi di bellezza, le maschere e le armature, i rapporti con i Gualino e i tre ritratti familiari allineati l’uno a fianco all’altro (bellissimo il giovane Renato, poco più che decenne, pettinatura alla paggio, contro i tendaggi di un rosa acceso, mentre a lato s’apre uno spiraglio abitato che ancora rimanda alla pittura del maestro di Borgo Sanseplocro), il ritratto di “Raja” (1924-25, un ampio drappo decorato a proteggere la ballerina tra una prova e l’altra mentre un’allieva alle sue spalle ha sparso sulla dormeuse verde fogli e quaderni d’appunti) e “L’annunciazione” del ’27, le Conversazioni platoniche e La Primavera della Pittura, che dà spazio al rinnovamento della pittura di Casorati, in cui “le figure appaiono immerse in un luminoso tonalismo atmosferico, che non ha però nulla di naturalistico”, come dimostra “Ragazze a Nervi” (1930), quadro che è figure femminili e marina e natura morta (imperturbabili le uova e il limone) e ancora dialogo silenzioso, di sguardi e di parole non dette; le Figure melanconiche, nella metà degli anni Trenta, la picassiana “Donna con manto“ e la “Donna davanti alla tavola” (una ragazza a petto nudo, un segno ancora di infelicità, alle sue spalle un martello catini bottiglie, poveri oggetti di casa), i Capolavori degli anni Trenta (tra tutti, “Le sorelle Pontorno” del 1938), le nature morte degli anni del dopoguerra, che sono sguardi al metafisico, tra elmi e manichini, tra frammenti statuari, tra astrolabi e uova ancora, ogni frammento a far grande e irrinunciabile l’arte dell’artista.

Elio Rabbione

Nelle immagini, “Le uova sul cassettone”, 1920, tempera grassa su tavola, coll privata, Torino; “Silvana Cenni”, 1922, olio su tavola, coll privata; “Raja”, 1924-1925, tempera su tavola, coll privata; “Annunciazione”, 1927, olio su tavola, coll privata (ph Giuseppe e Luciano Malcangi); “Ritratto di Renato Gualino”, 1923-1924, olio su tavola, Viareggio, Istituto Matteucci.

“Illusionismi”, Donato Sansone a Le Gru

Dal 21 marzo

ILLUSIONISMI
La terza mostra di Donato Sansone
per la Fase 3 dei lavori di restyling di Le Gru

Prosegue il viaggio di trasformazione e rinnovamento di Le Gru, il più grande mall del Piemonte, che con il suo restyling sta ridefinendo il concetto di spazio commerciale, trasformando l’arte pubblica in un’esperienza quotidiana che stupisce e coinvolge attraverso un progetto creativo e culturale che accompagna il cambiamento architettonico con opere d’arte che plasmano i cantieri in luoghi di ispirazione e coinvolgimento per i visitatori e per il territorio.

In questo percorso di rinnovamento di Le Gru è stato scelto come compagno di viaggio il genio creativo di Donato Sansone, che trasforma ogni cantiere del restyling in una diversa installazione d’arte, ogni volta creando un progetto artistico unico ed innovativo, che diventa una occasione di “intrattenimento interattivo” che coinvolge il visitatore.
Se per la Fase 1 dei lavori in Piazza Nord (gennaio-ottobre 2022), Sansone aveva creato un percorso ispirato dall’acronimo #NewLeGru con 8 opere gigantesche che raccontavano una storia, in Piazza Sud nella Fase 2 (gennaio-dicembre 2023) ha presentato un’esposizione in movimento composta da una video-opera integrata da tredici grandi pannelli realizzati con un processo di stampa lenticolare multiframe attraverso il quale l’immagine cambiava e si muoveva se osservata spostandosi.

La Farina, il siciliano sabaudo

Alla scoperta dei monumenti di Torino Una nota curiosa per quanto riguarda il monumento è la presenza, sul lato posteriore della balaustra, di un pannello decorato con il simbolo della Trinacria

Collocata all’interno di piazza Solferino, quasi all’altezza dell’intersezione con via Lascaris, la figura di La Farina è ritratta in piedi, appoggiata ad una balaustra. Le gambe sono leggermente sovrapposte in posizione rilassata ed indossa un cappotto chiuso dove sulla spalla sinistra, si dispiega un mantello che ricade sull’elemento architettonico. La Farina viene rappresentato mentre sta lavorando ad uno scritto: nella mano sinistra sorregge dei fogli che corregge con una penna stretta nella mano destra appoggiata anch’essa alla balaustra,mentre alle sue spalle un libro ferma alcuni fogli già letti. La balaustra presenta posteriormente un pannello decorato con il simbolo della Trinacria inquadrato tra due colonnine dal disegno complesso.

 

Nato a Messina il 20 luglio del 1815, Giuseppe La Farina fu un patriota, scrittore e politico italiano. Avvocato dalle idee liberali, sviluppò un interesse crescente per gli studi storici e letterari che lo portarono a pubblicare, lungo tutta la sua vita, numerosissimi scritti (tra i quali la Storia d’Italia dal 1815 al 1850) e a collaborare con giornali e riviste (è stato fondatore e collaboratore del giornale L’Alba che fu tra i primi a tendenza democratica-cristiana).

Nel 1837 cominciò a sostenere la causa per la liberazione della Sicilia, partecipando al primo movimento insurrezionale anti-borbonico. Dopo un periodo di esilio dall’isola, nel 1848 venne eletto deputato alla camera dei Comuni di Messina assumendo, in seguito, la carica di Ministro della Pubblica Istruzione; fece anche parte (assieme ad Emerico Amari) della missione incaricata di offrire la corona di Sicilia al Duca di Genova.

A seguito della riconquista borbonica della Sicilia, l’anno successivo si rifugiò in Francia da dove continuò la sua attività letteraria. Nel 1854 si stabilì a Torino e poco dopo fondò la “Rivista Enciclopedica Italiana”, il giornale politico “Piccolo Corriere d’Italia” e nel 1857 la Società Nazionale Italiana, un’associazione politica finalizzata a realizzare l’unità del Paese sotto la guida della Casa Savoia. La Società Nazionale Italiana aveva come presidente Daniele Manin e come vice presidente Giuseppe Garibaldi.

Dal 1856 venne chiamato a collaborare con Cavour che, nel 1860, gli affidò il delicato incarico di rappresentare in Sicilia il governo; dopo essere rientrato a Torino nel 1861, venne eletto al Parlamento italiano e nominato vice presidente della Camera dei Deputati. Muore a Torino il 5 settembre 1863. Subito dopo la sua scomparsa un comitato, composto da alcuni uomini politici, iniziò a sostenere l’erezione di un monumento alla sua memoria ma la proposta venne sospesa a causa dei lavori collegati al trasferimento della capitale da Torino a Firenze.

Nel novembre del 1866, grazie a Filippo Cordova (a quel tempo ministro dell’Agricoltura, Industria e Commercio), l’idea venne ripresa e fu aperta una pubblica sottoscrizione a livello nazionale; nel dicembre 1868 il Comitato promotore per l’erezione del monumento a Giuseppe La Farina, incaricòGiovanni Duprè, autorevole scultore toscano, della realizzazione dell’opera. Tuttavia fu solo dopo dieci anni e cioè nel 1878, che il progetto cominciò a prendere vita; Giovanni Duprè venne sostituito dallo scultore e scrittore palermitano Michele Auteri Pomar, che con le 24.000 lire raccolte, creò un monumento di una certa rilevanza.

Il monumento venne collocato nell’aiuola a mezzogiorno di piazza Solferino e fu inaugurato il 1 giugno del 1884, esattamente sedici anni dopo l’approvazione del progetto; il giorno precedente l’inaugurazione, i rappresentanti del Comitato promotore lo donarono con atto ufficiale alla Città di Torino.  Nel febbraio 1890, a seguito del progressivo distacco delle lettere bronzee che compongono l’epigrafe, il testo dell’iscrizione venne inciso sul fronte del basamento.

Una nota curiosa per quanto riguarda il monumento è (come già ricordato prima) la presenza, sul lato posteriore della balaustra, di un pannello decorato con il simbolo della Trinacria. Questo antico simbolo (Triscele per i greci e Triquetra per i romani), raffigura una testa gorgonica, con due ali, dalla quale si dispongono in giro simmetrico tre gambe umane piegate. La sua presenza sul monumento ricorda non solo le origini siciliane del personaggio, ma anche l’impegno da lui profuso nella lotta per l’indipendenza della Sicilia, durante la quale il bianco vessillo gigliato dei Borboni fu sostituito dal tricolore che recava al centro il simbolo triscelico.

 

Avendo già accennato la storia riguardante Piazza Solferino, grazie alle precedenti opere di cui abbiamo parlato, aggiungerò semplicemente che il monumento commemorativo a Giuseppe La Farina, dopo essere stato inaugurato nel 1884 all’interno dell’aiuola centrale meridionale, vi rimase fino al 2004, anno in cui la statua fu spostata per permettere alla piazza di ospitare i padiglioni Atrium per i Giochi Olimpici Invernali 2006. Il monumento fu provvisoriamente ricoverato all’interno di un deposito comunale per poi essere ricollocato, all’interno della piazza, il 16 giugno 2013. Oggi il monumento si erge in tutto il suo splendore all’interno di piazza Solferino.

 

Anche per oggi il nostro viaggio in compagnia delle opere di Torino termina qui. L’appuntamento è sempre per la prossima settimana per la nostra (mi auguro) piacevole passeggiata “con il naso all’insù”tra le bellezze della città.

 

 

Simona Pili Stella

Zaffino: “Effetti sul presente. Simultaneità, sincronia, pancronia”

In mostra alla Galleria “metroquadro” di Torino, i “mondi spezzati e spaesati” dell’artista

Fino al 30 aprile

Piacevolmente soddisfatto per la singolare magia espressa dalle opere visionate e per la complessiva accuratezza alla base della personale “Effetti sul presente”, dedicata, fino a mercoledì 30 aprile, all’artista ligure di Chiavari, Massimiliano Zaffino, esco dalla Galleria ospitante, la “metroquadro” di corso San Maurizio, a Torino (diretta con passione e simpatia da Marco Sassone), bello pimpante e ancora tutto immerso nelle forti fantasticherie regalatemi ad ampie mani dai “dipinti” e dalle “foto-collage” di Zaffino, quand’ecco che, di botto, a due passi dall’uscita, la realtà, quella proprio reale reale, del quotidiano vivere urbano, fatta di gente che ignora il sorriso di auto sfreccianti di tettoie di ombrelli a far da scudo alla pioggia che non cessa di cadere dei tram che sfrecciano lungo il corso pieni zeppi che di più non si può, mi piomba addosso in tutta la sua snervante, sempre uguale a sé stessa, frenesia. Eh no, lasciatemi almeno il tempo di metabolizzare quel tanto che basta i surrealistici “mondi spezzati” e “spaesati” dell’artista ligure!

Quegli oli su tela (una decina) dai titoli lunghi lunghi, rompicapo didattici e “strani” e “singolari” come i soggetti rappresentati in parete, insieme ad una lightbox (“scatola luminosa”) e ai “collage fotografici” non meno fuori dal sentire e dal vedere comuni e anch’essi dai titoli sempre lunghi lunghi e, per di più, tutti uguali (“Interazione visiva di paesaggio con scambio temporale di ruolo-azione”) fatta salva l’ultima “parola” inserita, dopo siffatto titolo, e mutante di volta in volta, a seconda del luogo e del pensiero capitato lì, in virtù di chissà quali bizzarre giravolte della narrazione. Bé, l’avete capito. Non è una mostra all’acqua di rose quella portata a Torino da Massimiliano Zaffino, studi all’“Accademia Linguistica di Belle Arti” di Genova e già esploratore della fotografia iperrealista e del fumetto sotto la guida del genovese di Bolzaneto Renzo Calegari, forse “il più grande disegnatore western italiano”. Alla luce di questi precedenti scolastici, anche Zaffino si dimostra artista di grandi, ineccepibili doti grafiche e di profonda sensibilità e forza coloristica. Ma soprattutto “artista visionario”, che attraverso il mestiere riesce a definire la possibilità di unire mondi assolutamente estranei fra loro, facendoli convivere in simbiosi, unendone con matematica perfezione i tratti, gli oggetti, la più varia estraniante umanità in progetti, sogni, ipotesi spaziali immersi in un’assoluta armonia, che a guardarli ti vien voglia di entrarne a far parte.

 

Proprio come quei suoi personaggi, messi lì immobili, stupefatti a prendere il sole in costume da bagno o ad osservare dubbiosi, non spaventati, dove mai siano capitati, come le due vecchiette di nero vestite mentre “particelle scorrono e si condensano in un casale di campagna” (così i titoli dei dipinti) o come i due amanti che “una piccola caverna conduce ad ammirare l’insolito lago”, per non dire delle figure “monche” (una parte di corpo o una borsa geometricamente tagliuzzata o quel ragazzo su una bici “trapassata” chissà come dal fluire del bordo-strada) di “scomposizione di metodo sottrattivo in relazione alla consegna della candela fluidoluminescente”. Eppure nessuno si lamenta. Tutto è immobile, sospeso nel vuoto e nel nulla. In una pace che attrae, pur nell’inconsapevolezza di esseri che stanno lì, forse a chiedersi perché io qui? e dove sono io qui? Paesaggi impossibili diventati possibili. Dove anche una semplice piscinotta, piombata lì a caso, appare simile al tassello di un “puzzle” impazzito.  Sconvolto solo “dall’irrompere di fenomeni fisici e climatici singolari e insoliti: fiammate vulcaniche, vortici indefiniti, spirali di luce, forme di magnetismo cosmico”. Aurore boreali fuori luogo? A volte vien da pensarlo. Mondi e soggetti immobili. In “sincronia” fra di loro (per ricordare il titolo della mostra), “simultanei” e “pancronici”, senza una specifica collocazione temporale.

 

Molto simili, come già è stato fatto notare, ai “ricordi spezzati” di quel John Grenville Stezaker, fra i primi artisti britannici concettuali e discordanti (primi anni Settanta) con l’allora predominio della “Pop art” e che Zaffino sicuramente ben conosce. Ed apprezza. “L’iperrealismo figurativo dell’artista allude – scrive bene in presentazione Roberto Mastroianni – a una realtà plurima in cui contemporaneamente possibilità e necessità convivono schiacciando sul presente i mondi possibili che avremmo potuto abitare o che abiteremo. Il presente si dilata, in questo modo, per diventare lo spazio delle infinite possibilità della nostra esistenza”. Un mondo piacevole e generoso, in tal senso. Così, stipato in piedi sul tranvai, mascherina a naso e bocca con tanto di occhiali appannati da non vederci niente, ci ripenso. E quasi quasi – mi dico – ritornerei alla “metroquadro”, a fare ancora un giro su quel pacifico, immaginario “pianeta-Zaffino”. Dài che si va! Venite pure voi?

Gianni Milani

“Effetti sul presente. Simultaneità, sicronia, pancronia”

Galleria “metroquadro”, corso San Maurizio 73/F, Torino; per info www.metroquadroarte.com

Fino a mercoledì 30 aprile

Orari: giov. – sab. 16/19

Nelle foto: opere olio su tela e collage-fotografico di Massimiliano Zaffino

Alfredo Centofanti: quando l’arte nasce spontanea nel colore delle virtù!

 

Nell’oscurità tutti i colori si somigliano. I colori più intensi però si tingono grazie alle emozioni. Nella tavolozza dei colori si esprimono i concetti più disparati ma mai scontati. Il verde non viene scelto necessariamente per colorare lo stelo di un fiore, come il blu non si caratterizza necessariamente per l’interpretazione di un cielo. Il colore esprime solitamente lo stato d’animo dell’artista. Così si presenta l’arte di Alfredo Centofanti, dove la purezza delle sue emozioni celebra l’altruismo. Un’altruismo che espande sulle sue tele la costruzione del piacere nella sua minuzia e nella sua intensità. Centofanti nasce da una cultura orafa, sperimentandosi inizialmente nel mondo con i suoi preziosi dal design davvero contemporaneo.

Si eleva poi nella cura eclettica delle sua composizioni floreali fino ad arrivare alle installazioni e agli interiors, approdando infine alla pittura contemporanea. Tutte discipline che in qualche modo si legano tra loro e dove l’attenzione del particolare trasmette la magia dello spettacolo visivo in ogni sua realizzazione, dettata dal movimento e dalla staticità delle forme e dei colori. Un connubio che lo fa divenire oggi uno degli artisti emergenti d’eccellenza, caratterizzando gran parte delle sue opere. Un impulso creativo vero e proprio il suo , che non si appesantisce di alcun limite ma che ama fluttuare semplicemente nel suo colore, al ritmo incessante di ciò che la sua sensibilità più autentica gli sussurra.

Il suo è un linguaggio originale perché assolutamente in linea con la smania di offrire a se stesso e a coloro che davvero sapranno interpretare la sua arte assolutamente naturale, nella sua evoluzione più spontanea e altamente creativa. Lui, originario delle montagne d’Abruzzo, si abbandona spesso alla sua gioiosa solitudine, nella quale estrapola nell’immaginazione più soave della sua anima le ispirazioni più caratterizzanti che gli appartengono nella sua introspezione più preziosa. Per questo bouquet di esperienze, meditazione, capacità di interpretare un’etica sentimentale d’eccellenza quasi antica, Alfredo Centofanti riesce a dipingere la sua arte con colori ora delicati, ora forti , osando un gioco di forme e messaggi di estrema libertà interpretativa, tali da incantare i suoi spettatori , rendendoli assolutamente affini ad un’empatia curiosa che con estrema naturalezza lui riesce a rappresentare.

L’accostamento dei suoi colori si esprime come una magia sopita che esplode a seconda degli stati d’animo, ora forti, ora soavi, mescolando così un insieme di palpabili sensazioni che scoppiano alla luce di uno spettacolo che non annoia mai, ma che al contrario diviene altalenante nel suo linguaggio più eclettico, il più reale ed emozionante, Tanti quadri in un quadro, tante emozioni in un solo sbaffo di colore. Un’energia parlante nella quale specchiarsi e giocare.

Alfredo Centofanti presenterà le sue opere nell’inaugurazione della sua personale che si terrà presso 515 Creative Shop in via Giuseppe Mazzini, 40 a Torino il 20.03.2025 – orario : 18.00/22.00 www.515.it centofanti.art@gmail.com

MONICA DI MARIA CHIUSANO