ARTE- Pagina 2

“Adapted Sceneries” al “MAO”

La tradizionale pittura di paesaggio coreana si confronta con la “modernità” e la memoria ancora viva dei fatti del “18 maggio ‘80”

Fino al 7 settembre

“Scenari adattati”. Ovvero il passaggio dalla delicata, sacrale bellezza artistica del paesaggio alla rivendicazione del farsi, la pittura, atto di ricerca e memoria legata alla storica tragicità di spietate, mai del tutto sopite, dittature. “Adapted Sceneries”: di qui il titolo dato alla mostra programmata fino a domenica 7 settembre prossimo, al secondo piano delle “Collezioni permanenti” e nell’area espositiva “t-space” al piano terra del “MAO” di Torino. Organizzata dal “Museo” di via San Domenico in collaborazione  con il coreano “Gwangju Museum of Art”, la rassegna é dedicata alla più storica “pittura di paesaggio coreana” (sansuhwa) affiancata ad opere di più stretta “attualità” (storica ed artistica), insieme ad altre ispirate al “Movimento di Democratizzazione del 18 maggio” ovvero alla rivolta popolare scoppiata il 18 maggio 1980 nel centro di Gwangju (la “Tienanmen coreana”) in Corea del Sud contro la dittatura di Chun Doo-hwan con scontri, davanti alla “Chonnam National University” che portarono a migliaia di vittime fra studenti, professori e comuni cittadini. Nel 1997 i presidenti Chun Doo-hwan e Roh Tae-woo vennero processati e condannati per il “massacro” di Gwangju, insieme ad altri 17 imputati e, in seguito, graziati. Nel 2002 venne creato un cimitero nazionale per le vittime e il 18 maggio fu dichiarato “Giornata Nazionale di Commemorazione”.

Mostra, dunque, su cui riflettere, non solo come suggestivo, poetico “spaccato” artistico di un’arte le cui origini risalgono al periodo cosiddetto “Goguryeo” (37 a. C. – 668 d. C.) e tipicamente caratterizzata nel corso dei secoli, fino ai primi del Novecento – con il declino del “buddismo” e la diffusione del “confucianesimo” – dai “colori brillanti” e dalle “linee fluide”, riattate in epoca moderna in minuti contrasti di bianco e nero, da cui emergono astratte visioni di figure umane e animali captate in un certosino gioco di realtà e pura fantasia, ma anche in pagine narrative che ancora vogliono essere documento storico di denuncia e vitale espressione e domanda di quotidiana libertà sociale per cui combattere e resistere fino alle estreme conseguenze.

L’evento espositivo rientra nell’ambito del progetto “Cultural City Gwangju 2025” e dell’accordo di collaborazione tra la “Città di Gwangju” e la “Città di Torino” sottoscritto nel 2024.“Adapted Sceneries” offre dunque un’opportunità significativa “per far conoscere – sottolineano i curatori Ik YunHyeokjin Lee e per il ‘Museo’ torinese Davide Quadrio (direttore) e Anna Musini – la tradizione artistica e la storia di Gwangju e della regione di Jeollanam-do al pubblico italiano attraverso la collaborazione con il ‘MAO’ di Torino, città che si distingue per la sua vivacità culturale e che, come Gwangju, soprannominata la ‘Città dell’Arte’, valorizza la cultura come elemento chiave della sua identità”.

L’itinerario espositivo offre dunque inizialmente  uno sguardo approfondito sulla “pittura Namjonghwa” (“Scuola di pittura del Sud”), un genere fondamentale nella storia dell’arte coreana, insieme però a “reinterpretazioni contemporanee” della pittura più tradizionale. Tra le opere esposte, quelle di Heo Ryeon (soprannominato “Peonia” per il frequente reiterarsi della profumatissima “pianta” nei suoi dipinti), Heo Baekryeon e Heo Hangmyeon sottolineano la “sensibilità estetica della pittura coreana classica”, mentre i lavori di Lee SunbokHeo DalyongHong Sungmin e Kim Hoseok (con quel minuto lavoro grafico di “The History of the Gwangju Democratic Uprising 2” dove il caos segnico di una sorta di “nuvola antropomorfa” racconta, a ben guardare, la durezza della rivolta e della sofferenza popolare) mostrano l’evoluzione del linguaggio pittorico, attraverso un riavvicinato dialogo fra tradizione e modernità. Uno spazio particolare viene dato proprio alle opere ispirate al “Movimento di Democratizzazione del 18 maggio”, movimento quasi del tutto sconosciuto in Europa. Attraverso queste opere e alcuni importanti materiali d’archivio forniti grazie al supporto di “5.18 Democracy Moviment Archives” e “The May 18 Foundation”, il pubblico potrà approfondire le testimonianza drammatiche di questo momento storico cruciale per la Corea, “non solo ammirandone la bellezza del panorama artistico, ma anche comprendendone il valore e il significato sia in relazione alla storia moderna, sia allo scenario culturale globale”.

Gianni Milani

“Adapted Sceneries”

“MAO-Museo d’Arte Orientale”, via San Domenico 11, Torino; tel. 011/4436932 o www.maotorino.it

Fino al 7 settembre

Orari: mart.- dom. 10/18; lunedì chiuso

Nelle foto: Parte allestimento (Ph.Studio Gonella); Heo Baekryeon “Painting of Bronze Vessels and Flowering Plants”, 1950 circa; Heo Hangmyeon “View of Baekyangsa Temple”, 1942; Kim Hoseok “The History of the Gwangju Demomocratic Uprising 2”, 2000

L’Aeropittura di Michele Falanga, un originalissimo artista che reclama una scoperta

Alla Galleria Pirra, una mostra curiosa e imperdibile

È il risultato di una ricerca improvvisa e di un innamoramento da parte di Daniela Pirra, dei successivi colloqui con uno dei bisnipoti, Daniele (settembre 2024), e di un viaggio con un aereo che di lì a pochi giorni partiva per Catania, la scoperta di Michele Falanga (1865 – 1937), di origini calabre ma trasferitosi a Messina per insanabili rapporti con il padre. Una vita trascorsa in gran parte nel grande laboratorio di pellami e scarpe, attraversata drammaticamente soprattutto dal terremoto del 1908 nella città siciliana, evento dal quale Falanga uscì vivo (sepolto sotto le macerie ma portato in salvo da un amico) ma perse due dei suoi figli: da quell’evento significativo e distruttivo gli nacque una complessa concezione della vita e del destino, il desiderio a dedicarsi alla scrittura prima attraverso testi in prosa e poesia e alla pittura poi, immersa in quella corrente del Futurismo che in Sicilia conosce le prove di Pippo Rizzo e Giulio D’Anna. Dagli anni Venti, con bozzetti, disegni, progetti e opere pittoriche s’addentra sempre maggiormente all’interno di quel mondo, inteso anche come “forma di testimonianza storica”, apprezzando nella corrente anche “una rivoluzione tecnologica e una nuova visione del mondo, dove velocità, dinamismo e potenza si fondono con una ricerca estetica che celebra sia la modernità che l’eredità del passato”, ha sottolineato Tommaso Polleschi nella presentazione alla mostra che la Galleria Pirra offre nei propri spazi sino al 6 luglio prossimo.

È in primo luogo un sobrio quanto perfetto “artigiano” Falanga, capace di posare la sua pittura su mezzi inusitati: non tele e non tavole, ma la semplicità di un mezzo altrettanto importante, la carta di giornale, in gran parte quegli stessi fogli di quotidiano che ogni mattina possono essere passati sotto la sua mattutina lettura (si va dal 1910 al 1935). Altri capitati nel suo studio chissà come. Metodicamente come con un estro pieno d’invenzioni, Falanga dà luogo ad aerei futuristi, ad architetture monumentali (vede Messina risorgere a poco a poco dalle macerie e tutti i suoi moderni cambiamenti) e a paesaggi siciliani, coglie tutto il movimento in queste nuove quanto innovative forme a cui dava vita per un divertimento e una necessità personali, per donarle agli amici, senza mai il pensiero di una vendita. Una produzione rara (in totale circa 150 soggetti), che d’improvviso prende giusto valore e che, dopo le recenti presenze in mostre a Lecco e Como, è ospitata con due esemplari nella mostra intorno al “Mondo Futurista” curata al Castello di Desenzano del Garda da Giordano Bruno Guerri e Matteo Vanzan, visitabile sino al prossimo 26 ottobre, accanto a Balla e Boccioni, a Plinio Nomellini e a Italo Fasulo e a Cesare Andreoni, agli scritti di Marinetti.

Eclettico e fantasioso, nei quotidiani e nei settimanali come La Stampa (la Cronaca Cittadina del 28 settembre 1933 mostra un’illustrazione di Felice Vellan circa l’imminente inaugurazione del Monumento all’Arma dei Carabinieri nella parte esterna dei Giardini Reali) e La Gazzetta del Popolo (in una prima pagine del 28 febbraio 1935 s’allineano “La potenza dell’Italia caposaldo della pace europea”, “Il fraterno omaggio alla giovinezza grigioverde” che si deve “alle gloriose memorie delle Ardenne e di Verdun” e “Il saluto del popolo di Messina al vessillo e alle truppe partenti”, secondo la grammatica altisonante dell’epoca), Le peti journal (che il 5 novembre 1926 ci informa, allo stesso tempo, in prima pagina, di una turista americana a Parigi vittima del furto di una borsa contenenti valori per 300 mila franchi suddivisi tra gioielli e denaro e dello scoppio di una mina che ha ucciso cinquanta minatori) e L’Avvenire d’Italia (ai primi di gennaio 1909, squilla il titolo “Sulle ruine bagnate di pianto”), La Domenica del Corriere (Beltrame raffigura “La conquista della Libia: ricognizione pacifica all’interno per amicarsi le popolazioni e riconoscere i luoghi”) e testate dell’isola (“Il luminoso sorriso di una bella bocca è sempre elemento primo di bellezza, vanto di chi usa la classica Pasta Dentificia Erba”, recita una pubblicità) come su cartine dell’Africa Orientale di cui esistono tre soli esemplari: è su questi “supporti” che Falanga opera. Aerei soprattutto, che si alzano tra le nubi o sorvolano campi disseminati d’alberi dalle ricche chiome verdi, magari occasioni per una pubblicità di un amaro o di una marca di calze, diversamente colorati a pastello, che si mescolano a onde azzurre più o meno alte, degne del miglior Hokusai, e poi vulcani e ponti e bianche costruzioni che sono di volta in volta chiese grandiose e palazzi che potremmo trovare all’Eur di Roma, agglomerati urbani, la scenografia di certe piazze e le architetture piacentiniane, un veliero e le stilizzate figure di coraggiosi carabinieri, ancora aerei rossi e verdi a mescolarsi, tra le colonne del “Nuovo Giornale”, ai “Nuovi prezzi della Rinascente”: tecnica mista e collage impressi sulle pagine del 30 maggio 1927.

Originalissimo (si veda anche quel collage firmato e apposto sul coperchio di una piccola valigia, molto in “area dada”), curioso e inaspettato, l’omaggio a Falanga è la scoperta di un passato che con ogni probabilità reclama ancora studi e occasioni maggiori, di una modernità e di un’estetica estremamente vivaci, di una figura che nel dinamismo e nelle nuove sperimentazioni esprime tutta se stessa. È la conferma di certi azzardi che i galleristi devono osare e costruire, dell’offerta che può essere artisticamente data al visitatore non frettoloso e in cerca ancora una volta di quella novità che mai ci si aspetterebbe.

Elio Rabbione

Nelle immagini: di Michele Falanga, “Aeropittura su pagina de La Stampa del 1910 (1933-1937), tecnica mista, 43×59 cm; Aeropittura su pagine de La Stampa del 1933 (1933.1937), tecnica mista, 86×59 cm (da notare in alto a sinistra un’illustRazione di Felice Vellan dell’imminente inaugurazione del monumento all’arma dei Carabinieri nella parte esterna dei Giardini Reali); Aeropittura – Crociera aerea del 1933 (1935-1937), tecnica mista su pagine della Gazzetta del Popolo del 1935, 86×60,5 cm.

“Contrasti. Racconti di un mondo in bilico” in mostra al “Forte di Bard”

La nuova rassegna fotografica realizzata in collaborazione con l’“Agence France-Press”

Da sabato 8 marzo a domenica 20 luglio

Bard (Aosta)

Tanto audace da imbambolarti e tanto bella e geniale da apparirti impossibile! Il “Salto dell’atleta paralimpico francese Arnaud Assoumani davanti alla Piramide del Louvre, in vista delle Olimpiadi e Paralimpiadi di Parigi 2024”, opera del fotografo parigino Franck Fife, è solo una delle 84 fotografie ospitate, fino a domenica 20 luglio, nelle Sale dell’“Opera Mortai” del “Forte di Bard”, che con questa rassegna torna a rinnovare la stretta collaborazione con l’“Agence France-Press”, una delle principali e più autorevoli e pluripremiate “Agenzie di Stampa” al mondo, fondata a Parigi nel 1835 (con la denominazione di “Agence des feuilles politiques, correspondance générale”) dal banchiere Charles-Louis Havas e oggi rappresentata da una rete di oltre 450 fotografi sparsi in tutto il mondo e completata dalle produzioni di oltre 70 Agenzie partner.

La mostra dal titolo “Contrasti. Racconti di un mondo in bilico”, segue (e di sicuro è destinata ad ottenere non minor successo) la precedente “Non c’è più tempo”, realizzata, dal 29 marzo al 21 luglio del 2024, sempre in collaborazione con l’“AFP” (curata dal giornalista, responsabile della promozione dei contenuti multimediali dell’Agenzia, Pierre Fernandez) e rivolta ad indagare, anche in quel caso attraverso un’ottantina di mirabili scatti, le conseguenze disastrose dei cambiamenti climatici sul Pianeta, nostra “Casa comune”. Obiettivo di entrambe le rassegne, scuotere le coscienze ed offrire spunti di riflessione sulle vicende che tendono a ‘mortificare’ o, in qualche modo, a ‘creare speranze’ rispetto all’attualità e alle attese future del mondo contemporaneo, evidenziandone le contrapposizioni e le diseguaglianze che ne segnano a fondo, dalle Americhe all’Europa all’Asia e all’Africa, le varie società.

Ecco allora, accanto alla succitata – pagina aperta a svolazzi di gioia e speranza – foto di Franck Fife, quella del messicano di Puebla, Pedro Pardo, con la toccante dolorosa immagine della “Famiglia di migranti che attraversa il muro di confine fra Messico e Stati Uniti”. Scatto del 25 novembre del 2018. C’è un padre, una madre e un piccolo che, con aria incredula, neppur tanto impaurita, passa a fatica di braccia in braccia. “Contrasti”, per l’appunto. E altri bimbi troviamo nelle foto del nigeriano Benson Ibeabuchi, di Sergei Chuzavkov e di Bashar Taleb. A firma del primo, la struggente delicata poetica immagine di una “fanciulla che si allena nelle povere, terrose strade di Ajangbadi, sobborgo di Lagos, in Nigeria”; non meno capace di prenderti il cuore e l’anima, l’immagine di Chuzavkov, con quella “bimba in monopattino, ancora l’incredulità negli occhi, tra le case del villaggio di Horenka, nella regione di Kiev, colpito dai bombardamenti russi”. E che dire, ancora, del “gruppo di bambini che corre tra le case distrutte lungo una strada di Khan Yunis, nel sud della Striscia di Gaza”, immagine fermata nel tempo e nella parte più amara dei ricordi dal fotoreporter Bashar Taleb? “Racconti di un mondo in bilico”, come ci ricorda e ci palesa davanti agli occhi, il sottotitolo della rassegna.

Mostra che t’inchioda al soggetto. Che ti impone la domanda, domanda d’obbligo Ma come farà un fotoreporter a scattare tali fotografie? A trovarsi nel posto giusto al momento giusto? Sempre. E, soprattutto, intuire che quello, proprio quello, è il posto giusto e il momento giusto. E riuscire a raccontare e a trasmettere emozioni, gioie, sogni, illusioni e disillusioni in un semplice sguardo rubato in un nanosecondo. E cristallizzato a vita! E poi, piccole storie, a raccontare tutto un mondo.

 

Nei suoi molteplici aspetti. Dall’economia alla guerra, dalle tradizioni culturali al mondo dell’arte, dello sport e dello spettacolo, senza tralasciare l’emergenza climatica e l’inarrestabile urbanizzazione. Temi, tutti quanti, che ritroviamo raccontati per immagini nel “progetto espositivo” oggi realizzato al “Forte” valdostano, vero “Polo Culturale” delle Alpi occidentali. Temi comuni, in fondo, in piccola o in grande parte, a realtà sociali assai diverse e assai lontane tra loro. Pedine di un grande gioco, spesso “gioco al massacro” simile ad “un grande affresco di un mondo sempre più in bilico: il nostro”.

Gianni Milani

“Contrasti. Racconti di un mondo in bilico”

Forte di Bard, via Vittorio Emanuele II, Bard (Aosta); tel. 0125/83381 o www.fortedibard.it

Fino al 20 luglio

Orari: mart. – ven. 10/18; sab. dom. e festivi 10/19

Nelle foto: France Fife “Un salto dell’atleta paralimpico Arnaud Assoumani davanti alla Piramide del Louvre”; Pedro Pardo “Una famiglia di migranti attraversa il muro di confine Messico – USA”; Benson Ibeabuchi “Una ballerina nelle strada di Ajangbadi , un sobborgo di Lagos”; Sergei Chuzavkov “Una bambina in monopattino tra le case di Horenka – Kiev, colpita dai bombardamenti russi”; Bashar Taleb “Bambini che corrono tra le case distrutte di Khan Yunis, nel Striscia di Gaza”

Quando il re e Cavour inaugurarono il Conte Verde

Situato al centro di piazza Palazzo di Città, davanti al Comune, il monumento rappresenta Amedeo VI di Savoia

Situato al centro di piazza Palazzo di Città, dove risiede il Palazzo Civico sede dell’amministrazione locale, il monumento rappresenta Amedeo VI di Savoia detto il Conte Verde, durante la guerra contro i Turchi, mentre trionfante ha la meglio su due nemici riversi al suolo. La riproduzione dei costumi mostra grande attenzione ai particolari secondo i canoni “troubadour” e neogotico, stili in voga nell`Ottocento, ispirati al medioevo e al mondo cortese-cavalleresco.

 

Figlio di Aimone, detto il Pacifico e di Iolanda di Monferrato, Amedeo VI nacque a Chambery il 4 gennaio del 1334. Giovane, scaltro ed intraprendente, Amedeo VI in gioventù partecipò a numerosi tornei, nei quali era solito sfoggiare armi e vessilli di colore verde, tanto che venne appunto soprannominato Il Conte Verde: anche quando salì al trono, continuò a vestirsi con quel colore. Il monumento a lui dedicato non venne però realizzato subito dopo la sua morte ma bensì nel 1842, quando il Consiglio Comunale, in occasione delle nozze del principe ereditario Vittorio Emanuele II con Maria Adelaide arciduchessa d`Austria, decise di erigere il monumento al “Conte Verde”. Il modello in gesso della statua, ideata da Giuseppe Boglioni, rimase nel cortile del Palazzo di Città finché re Carlo Alberto decise di donare la statua alla città. La realizzazione del monumento, che doveva sostituire la statua del Bogliani, venne però commissionata all’artista Pelagio Palagi. I lavori iniziarono nel 1844 e terminarono nel 1847, ma la statua rimase nei locali della Fonderia Fratelli Colla fino all’inaugurazione del 1853. Il gruppo statuario rappresenta Amedeo VI di Savoia in un episodio durante la guerra contro i Turchi alla quale partecipò come alleato dell’imperatore bizantino Giovanni V Paleologo. Ma qui subentra una piccola diatriba scatenata dall’ “Almanacco Nazionale” che vedrebbe come protagonista del monumento non Amedeo VI ma bensì suo figlio Amedeo VII detto invece il “Conte Rosso”, durante l’assedio alla città di Bourbourg nella guerra contro gli Inglesi. Il 7 maggio 1853 re Vittorio Emanuele II inaugurò il monumento dedicato al “Conte Verde” alla presenza di Camillo Benso Conte di Cavour. All’inizio la statua venne circondata da una staccionata probabilmente in legno, sostituita poi da catene poggianti su pilastrini in pietra e quindi da una cancellata.Nel 1900 il Comune decise di rimuovere la cancellata “formando un piccolo scalino in fregio al marciapiede”; una nuova cancellata, realizzata su disegno del Settore Arredo e Immagine Urbana, venne collocata intorno al monumento in seguito ai lavori di restauro effettuati nel 1993. Per dare anche qualche informazione di stampo urbanistico, va ricordato che la piazza in cui si erge fiero il monumento del “Conte Verde” ha subito negli anni numerose trasformazioni.Piazza Palazzo di Città è sita nel cuore di Torino, in corrispondenza della parte centrale dell’antica città romana. L’area urbana su cui sorge l’attuale piazza aveva infatti, già in epoca romana, una certa importanza in quanto si ritiene che la sua pianta rettangolare coincida con le dimensioni del forum dell’antica Julia Augusta Taurinorum, comprendendo anche la vicina piazza Corpus DominiPrima della sistemazione avvenuta tra il 1756 e il 1758 ad opera di Benedetto Alfieri, la piazza aveva un’ampiezza dimezzata rispetto all’attuale. All’inizio del XVII secolo, Carlo Emanuele I, avviò una politica urbanistica volta a nobilitare il volto della città che essendo divenuta capitale dello Stato Sabaudo doveva svolgere nuove funzioni amministrative e militari; piazza Palazzo di Città con annesso il “suo” Palazzo di Città (noto anche come Palazzo Civico), ne sono un esempio lampante. Nel 1995, sotto il controllo della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte, sono stati avviati i lavori di riqualificazione della piazza; la totale pedonalizzazione, la rimozione dei binari tranviari che collegavano Via Milano a piazza Castello e la realizzazione di una nuova pavimentazione, hanno restituito ai cittadini una nuova piazza molto più elegante e raffinata. Da ricordare come piccola curiosità, il fatto che per tutti i torinesi piazza Palazzo di Città sia conosciuta con il nome di “Piazza delle Erbe”, probabilmente a causa di un importante mercato di ortaggi che, nell’antichità, aveva sede proprio in questa piazza. 

(Foto: il Torinese)

Simona Pili Stella

“Uno che disegnava, uno che scriveva”. Mostra in ricordo di Benny Naselli

Anja Langst, bavarese di nascita naturalizzatasi nostra cittadina da tanti anni, in quanto valida artista di lunga carriera e moglie del compianto Benny Naselli ha avuto l’idea di inaugurare una mostra retrospettiva sui lavori di suo marito.

“Uno che disegnava, uno che scriveva” è titolo intelligente che riassume in pochi accenni chi veramente fosse Benny. La semplicità descrittiva del titolo rappresenta in toto l’anima artistica di Benny. E’ stato un personaggio letteralmente vulcanico, mancato in tarda età, ma operativo nel mondo dell’arte praticamente fino al suo ultimo giorno di vita, in quanto della vita, Benny Naselli fu veramente innamorato!

Già, la vita .. forse pecchiamo di superficialità quando ci esprimiamo a proposito della nostra esistenza. In linea di massima – non avendo nessuno di noi (almeno consciamente), esperito altre realtà – tutti ci riteniamo attaccati alla vita. È, però, spesso un superficiale e vuoto modo di dire.

L’amor mundi di Benny si esplicitava in un inguaribile ottimismo che, nonostante sofferenze che non gli sono mancate, non gli è mai venuto meno.
Grande ritrattista, con pochi schizzi di carboncino o pennarello, era allegramente in grado di ‘cogliere’ velocemente quanto poteva esprimere un viso, un personaggio, tante figure famose (come il suo John Wayne, Clark Gable e altre star di Hollywood).

Da giovane, per anni, è stato vignettista di personaggi legati all’epopea del western americano (le famose ‘strisce’ di gran moda negli swinging anni ‘60), principalmente lavorando per editori della sua Liguria, ma anche creando suoi simpatici personaggi. Lui disegnava, disegnava ininterrottamente, ma sapeva anche scrivere. Di un buon livello intellettuale sono, infatti, le pubblicazioni inerenti la sua vita, una sua particolare visione del mondo, le tante creazioni artistico-fumettistiche.
Benny scriveva come disegnava: come quando gestiva un pennello o un carboncino, scriveva velocemente e allegramente. Anche sulla carta stampata, chi lo leggerà ritroverà il suo magico stile di vignettista… veloce, essenziale, preciso. Da ogni pagina scritta, evidente usciranno la sua infantile e prorompente allegria, la bonaria ironia, una personale forma di tatto stilistico e l’innato rispetto per il prossimo.
Dato che la retrospettiva a lui dedicata è concomitante con il Salone del Libro, interessante sarà l’elenco delle sue pubblicazioni: Parole Dipinte (poesie), del 2010; Tequila, l’indiano del 2000 (comic strips, del 2012); Angeli, pepe e sorrisi (racconti e vignette), del 2014; Oltre il lenzuolo (autobiografia), del 2016.

Ma l’uomo non vive solo d’arte. Dietro occhi azzurri di bimbo adulto, sempre ridenti e che sapevano di mar ligure, la sua esperienza esistenziale si coniugava (ancora felicemente) con la sua attività di ferroviere e di … papà single di non pochi figli, tutti gestiti, educati, fatti meravigliosamente fiorire alla vita.

Poi l’arte, tanta arte, creatività, curiosità senza limiti, amore per il teatro, letture importanti… e infine (come spesso capita nelle fiabe) con l’età della consapevolezza, Benny finalmente approda all’amore degli amori: la meravigliosa Anja, il suo approdo più sicuro.

MOSTRA IN RICORDO DI BENNY NASELLI: Torino, via Belfiore 18, fronte strada

-Venerdì 16 e Sabato 17 maggio 2025 – per info: 349/12.56.345

(dalle 16.00 alle 22.00)

Ferruccio Capra Quarelli

Tinissima, la fotografa che mise a fuoco il mondo

Il 2025 si sta rivelando l’anno di Tina Modotti a Torino. Dopo la lunga e apprezzatissima esposizione al Museo Camera, il capoluogo piemontese ha ospitato un incontro vivo, vibrante, presso la Fondazione Circolo dei Lettori. Protagonista, la giornalista e agitatrice culturale Annalisa Camilli, che ha restituito al pubblico non solo il ritratto di una fotografa straordinaria, ma il mosaico complesso di una donna dalle mille vite. Durante l’incontro, nell’ambito del progetto “Giornaliste. Raccontare e fotografare il mondo”, Camilli ha raccontato Modotti con passione e intensità, intrecciando la narrazione storica con le immagini del suo viaggio personale a Città del Messico, sulle tracce della tomba ormai dimenticata di Tina. Lì, nel Panteón de Dolores, tra tombe in rovina, ha faticosamente ritrovato il luogo dove riposa colei che fu operaia, attrice, modella, fotografa, militante comunista e funzionaria politica. Una donna che, in soli 46 anni, ha attraversato quattro continenti senza mai perdere contatto con le proprie origini, anzi facendone motore della sua arte e militanza. “Descriverla solo come fotografa sarebbe riduttivo”, ha detto Camilli, e basta scorrere la sua biografia per capirlo.

Modotti – fotografa, attrice, militante comunista, amante, musa e pioniera – non ha mai vissuto una sola vita. Ne ha attraversate molte, come onde. Nata a Udine, figlia di un padre emigrato, ha iniziato a lavorare a tredici anni in una fabbrica tessile. Nel 1913 lasciò la madre in Italia per raggiungere il padre a San Francisco, attraversando l’Atlantico e chiudendosi alle spalle il Golfo di Napoli. Non mise mai più piede nella sua patria, che le fu preclusa a causa della sua attività politica. San Francisco, risorta dopo il terremoto del 1906, la accoglieva come città di rinascita. Qui Tina si inserisce subito nella comunità italiana e inizia a recitare per loro. Lavora come sarta, posa come modella, recita nei primi film muti: è il prologo di una metamorfosi. Nel 1918 sposa Roubaix de l’Abrie Richey, “Robo”, e con lui condivide il sogno di una vita d’artista, combattuta tra l’arte e la vita stessa: “C’è troppa arte nella mia vita”, scrisse, “e mi rimane poca creatività”. Si sposta a Los Angeles ed entra nello studio fotografico di Edward Weston, dove scopre il potere della luce e delle forme. Modotti ne diventa modella, assistente e amante. Quando Robo si trasferisce a Città del Messico, Tina lo raggiunge, portando con sé anche l’amate e maestro Weston. Una scelta difficile, che segna una frattura personale e morale: Weston ha moglie e figli, ma a proposito dice “sarei diventato veleno per me stesso e per gli altri, se fossi rimasto”. In Messico tutto cambia. Weston matura come artista e Tina impara a fotografare. Diventa autrice. Infatti bene presto passa dal ruolo di musa a quello di sguardo. Il suo è un occhio attento ai simboli nascosti nella realtà, ma soprattutto rivolto agli ultimi: contadini, donne, mani che lavorano. Il suo sguardo è quello di un’emigrata, di una donna che conosce la fatica e crede nel riscatto. Si lega al Partito Comunista Messicano, diventa amica di Frida Kahlo e pubblica per “El Machete” con  fotografie di  volti e corpi con uno stile nuovo, politico e poetico insieme. Dopo la morte di Weston si lega a Julio Mella, con il quale approfondisce l’interesse e la passione politica. Ma l’anno dopo, un colpo durissimo proprio il suo compagno Julio Antonio Mella- giovane rivoluzionario cubano-  il quale viene assassinato. Tina viene subito coinvolta mediaticamente: i giornali insinuano un delitto passionale, pubblicano sue foto di nudo, la trasformano da testimone a colpevole. È una distorsione tutta patriarcale: da militante a “femme fatale”, da artista a oggetto. La sua casa viene perquisita, i beni sequestrati, la dignità violata.

Dopo il processo, Tina si rifugia nel Sud del Messico, vicino al Chiapas. In una comunità matriarcale, torna alla fotografia, questa volta con un taglio etnografico e antropologico. Scatta immagini cariche di rispetto, curiosità e ascolto.

Ma la pace dura poco. Un attentato al presidente messicano la coinvolge indirettamente e le accuse ricadono nuovamente su di lei: è costretta a lasciare il Paese. Parte per l’Europa in pieno fermento prebellico, accompagnata dal comunista italiano Vittorio Vidali. Smette di fotografare. Scrive a Weston la sua decisione: ora è la militanza politica a chiamarla.. In Spagna partecipa alla guerra civile, poi torna in Messico nel 1939.  La città però è cambiata. Gli amici si sono dispersi, i sogni affievoliti. Muore sola, su un taxi, nel 1942. Morte naturale, dicono. Ma in pochi ci credono. Nemmeno Neruda:

Sono i tuoi, sorella: quelli che oggi pronunciano il tuo nome, quelli che da tutte le parti, dall’acqua, dalla terra, col tuo nome altri nomi tacciamo e diciamo. Perché non muore il fuoco

Tina Modotti non è mai stata solo una fotografa. È stata un’idea in movimento, un corpo in lotta, uno sguardo che resiste. Oggi, anche dalla polvere, continua a parlarci. E non dorme. No, non dorme.

VALERIA ROMBOLA’

Carignano, “L’arte preziosa dell’acqua” in mostra

Nella Sala Mostre della Biblioteca Civica, ventinove artisti si confrontano con la tecnica dell’acquerello

Fino a domenica 25 maggio

Carignano (Torino)

“In questi bambini ci sono io”: c’è un velo di malcelata commozione negli occhi e in quelle poche parole di Luciano Spessot nell’indicarmi i due bimbi del suo “Giochiamo con Pinocchio”, che s’improvvisano “burattinai” muovendo i fili del loro “pupazzo” di legno dal lungo naso, attore improvvisato di un teatrino d’altri tempi. I tempi in cui “scorrazzavo – ancora Spessot – nella mia campagna friulana” e i giochi s’improvvisavano con poche cose (sassi, sabbia, cordini, foglie, un rimasuglio di legno o un ramo abbandonato a terra capace di trasformarsi in “fionda” o in rutilante “spada”) costruite da bimbi, fantasiosi “artigiani” e (perché no?) a loro modo “artisti”, quando ancora erano roba dell’altro mondo parole come socialvideotablet e manco si poteva immaginare di parlare un giorno della possibilità “marziana” dell’a-venire di un’“intelligenza artificiale”! Che bello rivedere in parete gli acquerelli delicati di Spessot, poetico narratore di “storie” d’altri tempi, inserito oggi fra i 29 artisti (circa 60 le opere) messi insieme nella panoramica di una collettiva interamente dedicata all’arte “non facile” dell’acquerello ed ospitata, fino a domenica 25 maggio, con il titolo de “L’arte preziosa dell’acqua”, nella “Sala Mostre” della “Biblioteca Civica” di Carignano.

Curata con la consueta e impegnata maestria da Elio Rabbione (che fa di parte del catalogo un’erudita esposizione della “storia dell’acquerello” dai primordi fino alla rivoluzione cinquecentesca di Durer per arrivare, attraverso la Scuola inglese e francese ottocentesca, fino ai giorni nostri), la rassegna “vuole essere un omaggio – sottolineano il sindaco di Carignano Giorgio Albertino e Miranda Feraudo, consigliere alla ‘Cultura’ – a una forma artistica che qualcuno, in passato come nella nostra epoca, ha forse privato di quel giusto riconoscimento che invece merita appieno, quale tecnica che ad ogni occasione esprime difficoltà nel dover mettere in primo piano l’immediatezza, la ricerca delle diverse intensità cromatiche e quella lunga, approfondita esperienza che è la cifra prima del valido artista”.

“Il flirt è l’acquerello dell’amore”: diceva bene lo scrittore e saggista francese Paul Bourget. Delicato, leggero, un mondo “ancora tutto da esplorare – s’è anche giustamente scritto – un po’ filosofico, dove s’impara a controllare ma anche a lasciare andare”. Dove il segno deve accordarsi in giusta trasparenza al colore, in un lieve narrato “dove l’acqua rende il risultato in parte imprevedibile e mai ripetibile”. Flirt, immediatezza di “trasporto amoroso”. E l’amore verrà, se … vorrà. Come nel caso del gruppone di artisti raccolti in mostra a Carignano, che vanno dall’indimenticato Guido Bertello con la sua trasognata parigina “Place du Palais Royal” al “perfetto” Roberto Andreoli con i suoi tre visi di donne dagli “sguardi precisi – annota Rabbione – difficili da dimenticare”, accanto ai liberi “primi piani” di Alessandra Berger e ai dolci “micini” di Ines Daniela Bertolino, mentre Lidia Bracciano immagina complessi scorci monregalesi accanto alla segusina Lia Laterza  che simbolicamente ci omaggia di “Memorie evocate” di una terra, la sua, fatta anche di non poche miserie mai del tutto rimosse.

Al paesaggio attingono anche le prove del rivolese Gianni Bombi, così come i “panorami piovosi” di Maurizio Rossi, il ricordo delle sue “betulle” di Luciana Pistone, la “storicità” dei luoghi di Teresio Pirra, gli intrepidi “Skyline” di Graziella Alessiato, insieme alle “personali ruvide carte” di Ezio Curletto, alle “acque” di luce vagamente “turneriana” di Giorgio Cestari contrapposte alle più grafiche spiagge di Gabriella Malfatti e all’aspra Sardegna di Marisa Manis. E ancora i lampioni, e i “ricami architettonici” dell’antica capitale sabauda di Paola Brencella, accompagnate dall’ombroso scorrere del “nostro” fiume di Dario Cornero, dalle “finestre e portoni segreti” di Cristina De Maria, dalle sfatte geometrie veneziane di Lidia Delloste e dalla pura poesia del bianco cigno che in acqua si fa largo lungo “cari percorsi antichi” di Sandro Lobalzo. Non mancano interessanti prove di astratta informalità con i rossi contrasti di “fuoco” di Giorgia Madonno e di Marina Monzeglio, accanto alle sfumate “maschere” di Rosella Porrati, agli aspri incalzanti blu accesi di Eleonora Tranfo e ai più blandi “primi raggi” di Magda Tardon. Per concludere con il “tema floreale”, perfetta messa alla prova per Mariarosa GaudeAnna Maria Palumbo e gioia per gli occhi davanti ai vividi tulipani e al “viola imponente” delle melanzane di Adelma Mapelli, fondatrice del “Museo dell’Acquerello” di Montà d’Alba.

Gianni Milani

“L’arte preziosa dell’acqua”

Sala Mostre – Biblioteca Civica, via Fricchieri 13, Carignano (Torino); tel. 011/9698481 o www.biblioteca@comune.carignano.to.it

Fino al 25 maggio

Orari: lun. – ven. 15/18; sab. 10/12 e 15/18

Nelle foto: Luciano Spessot “Giochiamo con Pinocchio”, 1987; Roberto Andreoli “Tre storie”, 2024; Guido Bertello “Place du Palais Royale”, 1956; Adelma Mapelli “Composizione in viola”, 1987

Arte e sacro, la chiesa di San Dalmazzo a Torino

In centro citta’ un gioiello molto antico

Dopo un lungo periodo di chiusura, e’ di nuovo possibile visitare la chiesa di San Dalmazzo, situata tra via Garibaldi, una volta via Dora Grossa, e via delle Orfane.

Costruita nel lontano 1271 e destinata all’assistenza dei pellegrini e alla cura degli infermi, nel tempo la sua struttura subi’ un consistente deterioramento e fu cosi’ che nel 1573, periodo in cui fu affidata ai frati Barnabiti, si decise per una riedificazione. Qualche anno dopo per volere del cardinale Gerolamo della Rovere fu nuovamente restaurata e decorata, anche grazie alle numerose donazioni dei Savoia mentre alla fine dell’800 furono ripresi ulteriormente i lavori che la riportarono al suo stile originario. Durante la Seconda Guerra Mondiale fu bombardata riportando seri danni al tetto e agli infissi, il suo ultimo restauro risale al 1959.

L’esterno e’ l’unica parte rimasta in stile Barocco con i suoi pilastri di ordine corinzio, i finestroni da cui entra la luce e un timpano semicircolare che avvolge un prezioso affresco. La chiesa, di medie dimensioni, trova la sua bellezza, oltre che nei suoi sorprendenti interni in stile neogotico che catturano subito l’occhio del visitatore, ma anche nella superficie proporzionata che la rende accogliente e affascinante.

Al suo interno lo sfondo e’ quello tipico dello stile gotico caratterizzato dallo slancio verticale, da vetrate colorate, da stucchi, dipinti neo-bizantini di Enrico Reffo e dorature. L’elemento che attira legittimamente l’attenzione e’ la fonte battesimale originale ereditata dalla vecchia chiesa di San Dalmazzo Martire. La struttura e’ a tre navate decorate da edicole, il bellissimo pulpito incorniciato da mosaici e il ciborio a baldacchino.

Spesso la chiesa di San Dalmazzo si fa scenario di concerti di musica, dal gospel alla musica da camera, il prossimo appuntamento? Domenica 15 Dicembre 2024 ore 17:00 TORINO CHAMBER MUSIC FESTIVAL, vibrazioni all’interno di un contesto suggestivo e incantevole.

Per informazioni sugli eventi

www.diocesi.torino.it

Maria La Barbera

Malinpensa by La Telaccia chiude la stagione con Luisa Piccoli e Paola Dalla Pellegrina

Informazione promozionale

Si apre presso la galleria torinese Malinpensa by La Telaccia la mostra conclusiva della stagione 2024/2025, che sarà possibile visitare dal 9 al 21 maggio prossimo negli spazi di corso Inghilterra 51.

L’esposizione in realtà si articola in due mostre di due artiste, Luisa Piccoli, che presenta la mostra “Viaggio tra Emozioni e Umanità”, e Paola Dalla Pellegrina, con “Tra Terra, Acqua e Spirito”.
Luisa Piccoli, con un linguaggio di grande spessore umano, porta alla luce una figurazione di notevole tensione lirica e di poetica creatività che si distingue rilevante e personale. L’artista, che concepisce opere sulla condizione umana e sociale con profonda essenza emotiva, offre al fruitore vari e importanti spunti di riflessione sentimentale. Sono racconti di pura contemplazione che suscitano emozioni e che svolgono una funzione molto impegnativa e simbolica. Singolari cromatismi, fantasia di composizione e azione formale evidenziano nelle opere una ricchezza di valori pittorici notevoli, dove il gioco delle figure vive in perfetta simbiosi con i diversi materiali utilizzati dall’artista.

L’intera visione pittorica di Luisa Piccoli si presenta attraverso un’intensa spiritualità in cui sublimano pensieri, ricordi e valori di chiaro effetto emozionale e concettuale. I soggetti si avvalorano di uno stile unico che si riconosce pienamente e che si esprime con un linguaggio che comunica all’osservatore una libertà essenziale, che sa far pulsare l’opera di sentimento e di purezza dell’animo. È un’arte altamente psicologica che si anima di vita interiore e di una rielaborata scena universale del mondo, costantemente ritmata da una dinamica realistica e da uno stile ben definito. Luisa Piccoli indaga sia sull’esistenza sia sulle proprie emozioni, trasmettendo messaggi universali  di pace e amore. Le sue composizioni sono memorie pulsanti di simboli che scorrono inarrestabili e sempre più intensi nell’opera con fascino e poesia. Luisa Piccoli realizza una strutturazione fortemente originale dal grande impatto visivo che si libera in una consapevole interpretazione e in una tecnica personale autentica. Sono opere di evidente equilibrio dense di resa formale e di suggestivi accordi tonali da cui traspare l’interiorità e che si orientano verso tematiche di grande spessore contenutistico e analisi introspettiva. Esse piene di bravura esecutiva e di espressività. Vibranti accostamenti di collage vengono esaltati da un vigoroso aspetto della materia e conferiscono all’opera effetti dinamici capaci di esprimere un’energia vitale. Si sviluppano in uno spazio pittorico, ricco di sensibilità e di limpidezza dell’anima. L’artista Luisa Piccoli, sempre attenta ai particolari, indaga sull’identità dell’uomo in una dimensione spirituale profonda che vive  fondamentale all’interno del suo iter.

“Vibranti accostamenti di collage vengono esaltati da un vigoroso aspetto della materia – dichiara l’Art Director Monia Malinpensa – e creano all’opera effetti dinamici capaci di esprimere un’energia vitale”.

Luisa Piccoli è nata a Bisceglie, in provincia di Bari. Ha conseguito la maturità artistica e ha frequentato l’Accademia di Belle Arti di Bari. Pittrice, scultrice, scrittrice, poeta e scenografa, docente di arte e immagine, viaggiatrice, ha trascorso la sua vita tra Bisceglie, Udine e Vienna. Ha allestito diverse mostre personali e collettive, e partecipato a molti concorsi con successo di pubblico e critica. Ha partecipato all’Expo Arte Internazionale di Innsbruck, selezionata alla Biennale d’Arte Internazionale a Montecarlo, è stata presente ad Arte Bergamo.

E’ una pittura, quella dell’artista Paola Dalla Pellegrina, di evidente introspezione psicologica,  ancorata ai veri valori di intima ricchezza umana e contenutistici, sempre condotta con potenza creativa e logica strutturale. La vibrante resa stilistica, la personalissima sintesi della forma e la grande comunicatività testimoniano una composizione moderna a dimostrazione di un risultato figurale di notevole carica interpretativa. Il tratto deciso, il colore vivido e incisivo, la stesura magistrale della tecnica mista ad acrilico e olio su tela trovano all’interno dell’opera una narrazione altamente simbolica di una sensibilità immediata.

 

L’artista Paola Dalla Pellegrina, affascinata dalla mitologia classica, realizza immagini con una fervida fantasia creativa, con un effetto scenografico e con una notevole sensibilità espressionistica. Il rapporto diretto con la natura e con la figura femminile, di spontanea bellezza e di viva interiorità, si trasforma in un linguaggio netto e personale dove lo stato d’animo è ben evidente nel suo iter. L’inventiva, la scansione cromatica e gli inconfondibili elementi formali e segnici definiscono originalmente le sue creazioni, evidenziandone la cifra stilistica. Il sicuro possesso della tecnica riconosce un impianto formale impegnato e studiato. Le lunghe chiome delle sue creature che si liberano in un suggestivo intreccio di linee e di forme sempre in movimento, vivono in una essenziale simbiosi con l’ambiente naturalistico che  le circondano. I toni brillanti e intensi dei blu e degli azzurri, che sono i colori prediletti dall’artista, evidenziano un modulo descrittivo altamente suggestivo, dove il gioco della luce e l’armonia timbrica palpitano di sensazioni e di sentimenti. Con estetica, rigore e sensibilità l’artista Paola Dalla Pellegrina riesce a trasmettere al fruitore un perfetto equilibrio sia disegnativo sia cromatico, in continua ascesa, che regala emozioni sempre diverse.

“Tra terra, acqua e spirito, l’estasi della natura, presenza significante  el suo percorso pittorico – commenta l’Art Director Monia Malinpensa – domina assoluta e si esalta di un linguaggio originale e di un’impronta personale”.

Paola Dalla Pellegrina è nata a San Bonifacio, in provincia di Verona. Ha intrapreso un percorso di studio del colore, della linea e delle tecniche da autodidatta, frequentando per un anno i corsi liberi dell’Accademia di Belle Arti di Verona. Sente un legame viscerale con la natura in tutte le sue forme e manifestazioni, soprattutto per gli elementi vegetali e per l’acqua. Dagli ambienti naturali trae forza ed energia, il rigoglio verde dell’estate la ritempra puntualmente. Sa perdersi e fantasticare sulla forma di una radice, di una foglia, di un fiore, e percepisce le piante come esseri silenziosi ma palpitanti, di una bellezza commovente e che nascondono significati da interpretare.

Mara Martellotta

“Hiroshige Utagawa. Lungo la via della Tokaido”, una riflessione per la società contemporanea

Alla galleria Salamon di Torino si è  aperta la mostra sull’importante artista giapponese

La mostra “Hiroshige Utagawa. Lungo la via della Tokaido” è ospitata presso la Galleria Elena Salamon Arte Moderna, che si affaccia sulla storica piazza IV Marzo dal 10 al 31 maggio prossimi. Si tratta di  un’esposizione che offre una rara opportunità di ammirare un prezioso nucleo di opere originali di questo raffinato incisore e pittore, figura di spicco della scuola ukiyo-e, l’arte della ‘pittura del mondo fluttuante’.

Hiroshige (1797-1858), con la sua sensibilità lirica e un’attenzione straordinaria al dettaglio naturale e atmosferico, ha immortalato un Giappone sospeso tra realtà e immaginazione,  trasfigurandolo in un paesaggio emotivo che avrebbe esercitato un fascino piuttosto duraturo sia in Oriente sia nell’Occidente impressionista.

Il focus della mostra è  rappresentato dalla Tokaido, l’arteria vitale che, nel periodo Edo, connetteva l’allora capitale Edo,l’odierna Tokyo, con Kyoto, lungo un percorso di oltre 500 km, scandito da 53 stazioni di posta. Per Hiroshige la Tokaido non aveva tanto la sola funzione di una semplice via commerciale o militare, ma diventava il nucleo di un viaggio simbolico che si dipanava attraverso il mutare delle stagioni, la varietà  dei climi, gli incontri fugaci e i silenzi contemplativi. Ogni stampa rappresenta una sosta, un frammento di vita, che si pone in perfetta sintonia con l’estetica giapponese del “mono no aware”, che indica la consapevolezza della caducità delle cose.

L’intera esposizione è introdotta da un’opera che ne definisce il tono. È la celeberrima “Shono Haku-i” La pioggia sferzante a Shono”, una delle stampe più iconiche della serie. Nell’opera viandanti colti da un violento e improvviso acquazzone accelerano il passo lungo il sentiero, protetti soltanto da leggeri mantelli di paglia.

Dalle linee diagonali della pioggia nasce un senso di movimento impetuoso e la composizione intera suggerisce la sensazione di umidità e di freddo dell’aria. Accanto a questa opera  sono presenti altre dieci preziose xilografie policrome, in eccellente stato di conservazione.  Ricordiamo “Yoshiwara, isole galleggianti nella palude del Fuji”, che offre un momento di pura contemplazione, con l’ampio orizzonte acquatico punteggiato da erbe, dalle risaie allagate che riflettono il profilo maestoso e al tempo stesso ieratico del monte Fuji.

La vibrante gioia dei colori primaverili esplode nell’opera “Cherry blossom Viewing at Asuka Hill”, una celebrazione sentita della tradizionale usanza dell’hanami, il rito del picnic conviviale sotto la delicata fioritura dei ciliegi.

“Allestire una mostra su Hiroshige – spiega la direttrice della galleria Elena Salamon- significa aprire una finestra tra due culture, due distinte concezioni del tempo e due modi profondamente diversi di osservare la natura che ci circonda. Portare la sua arte qui a Torino rappresenta un invito prezioso per rallentare il ritmo frenetico della nostra quotidianità”.

Mara Martellotta