Al Castello “Gamba” di Châtillon, si racconta la persistenza del gesto figurativo nell’ingorgo “sperimentale” del Novecento . Fino al 27 settembre a Châtillon (Aosta)
Magnifica. Di straordinaria armonia e lirica sensualità la “Ragazza sulla sedia” realizzata nel 1983 da Giacomo Manzù (Bergamo, 1908 – Roma, 1991) – fra gli artisti più grandi del secolo scorso e che soprattutto ha fatto del suo mestiere un mezzo grandioso di denuncia storica e civile delle brutture del mondo – da sola potrebbe bastare a raccontare l’essenziale universalità di quella coraggiosa e resiliente “figurazione”, capace di esprimere le tensioni e i capricci sperimentali di molte cosiddette avanguardie artistiche del Novecento, senza mai accantonare la preziosa lezione dei grandi Maestri del passato.
E da sola, la “Ragazza” di Manzù ben sintetizza anche il leitmotiv della mostra “Ritornanti”, ospitata lungo il Parco e nel percorso della Collezione Permanente del Castello “Gamba” di Châtillon – Museo d’Arte Moderna e Contemporanea della Vallée, fino al 27 settembre. Oltre 30 (anche di grandi dimensioni e articolate in un percorso che va dalle sperimentazioni del secondo dopoguerra alle produzioni più recenti) le opere esposte, in una mostra curata da Domenico Maria Papa, con quel titolo che lontanamente echeggia il francese “revenant”, redivivo o fantasma, e il cui intento è quello di documentare “il ritorno periodico alla figurazione – sottilinea Papa – lungo tutto il Novecento”, sia pure attraverso “linee carsiche non sempre evidenti” ma tenacemente parlanti. “La scultura infatti ci parla ancora”, ribadisce Papa. “Anche in tempi come i nostri affollati di simulacri, di perfetti sostituti immateriali, illusoriamente più veri del vero, ma non per questo più belli”. Ed è lingua ancora viva, in mimesi palese con la realtà,
complice di uno stilizzato e sintetico “primitivismo” formale tradotto in volumi di rigorosa intensità plastica, nelle sculture, allestite al “Gamba”, di Arturo Martini (Treviso, 1889 – Milano, 1947) così come nelle “immagini ideali” (definizione di Carlo Carrà) perfettamente esaltate nella rinascimentale bellezza di quello stupendo “Narciso” bronzeo, realizzato dal siciliano Francesco Messina (Linguaglossa, 1900– Milano, 1995) nel ’56. Manzù, Martini, Messina: tre voci esemplari e storiche dell’arte del secolo scorso, cui fece costante riferimento, pur se allievo all’Accademia bolognese di Belle Arti di Giorgio Morandi, anche Luciano Minguzzi (Bologna, 1911 – Milano, 2004), accostato in mostra alle “pagine” più sperimentali del napoletano, ma milanese d’adozione, Giuseppe Maraniello, elemento di spicco negli anni ’80 e sotto l’egida di Renato Barilli, della corrente dei “nuovi nuovi” e dell’ottantanovenne toscano da Barberino del Mugello Giuliano Vangi autore di opere di intenso e minuzioso realismo “capace di dialogare con la scultura di tutti i tempi: da quella assiro-babilonese, all’egizia, fino alla scultura del primo Rinascimento”. Donatello, il suo artista di riferimento. Originali e di suggestivo valore simbolico anche le proposte di “frammentata umanità” del romano Paolo Delle Monache (classe ’69), cui si accompagnano sei sculture di Aron Demetz (Vipiteno, 1972), uno dei più rappresentativi artisti di una giovane generazione che in Val Gardena reintepreta oggi la tradizione della scultura in legno accoppiandola, nel caso di Demetz, al metallo, anteponendo l’intervento umano sulla forma all’azione del tempo con i suoi processi naturali di trasformazione della materia. A completare l’iter
espositivo sono infine gli scatti in bianco e nero della fotografa torinese Carola Allemandi (relizzati espressamente per l’occasione) e 12 grafiche di Mimmo Paladino (fra i principali esponenti della Transavanguardia italiana, teorizzata negli anni Ottanta da Achille Bonito Oliva), appartenenti al ciclo creato nel 2005 dal talentuoso artista di Paduli e dedicato alla fantasiosa interpretazione della favola senza tempo di Pinocchio: “metafora di una materia che attraverso lo scalpello diviene persona viva, allegoria dell’arte stessa della scultura”.
Gianni Milani
“Ritornanti”
Castello “Gamba”, Località Crêt-de-Breil, Châtillon (Aosta); tel. 0166/563252 o www.castellogamba@regione.vda.it
Fino al 27 settembre
Orari: dal lun. alla dom. 9/19
Nelle foto
Si è scritto che la mostra Sussurri nel bosco, a cura di Luigi Castagna e Giuliana Curino, con cui Serena Zanardo presenta le sue opere fino al 25 ottobre (ogni sabato e domenica, dalle 16 alle 20) presso lo spazio di “Arte per Voi” ad Avigliana, è “da visitare in punta di piedi”: e credo sia vero. 




Tutti diffidano di questo uomo che sembra destinato a fallire sempre, tutti tranne una persona, il fratello minore Theo che lo spinge a proseguire nella sua missione artistica, convincendolo ad adattarsi a tornare nella canonica di Nuenen presso i genitori dove potrà dipingere senza pensieri.
E’ la vita nella sua drammatica povertà, nella sua bruttezza e nella sua deformità a posare nei dipinti di Van Gogh, l’uomo si trasforma in oggetto e diventa simile a quelle patate che ha coltivato e raccolto.Nel 1886 e, dopo una breve parentesi a Anversa, Van Gogh si trasferisce nell’appartamento del fratello Theo in rue Lepic, 54 a Parigi. La passione per le stampe giapponesi, i contatti e gli scambi culturali con Monet, Renoir, Degas, Pissarro, Seurat, Signac, Toulouse Lautrec da soli non sono sufficienti a giustificare il repentino cambiamento della sua pittura. L’evoluzione è immediata, lo stile si modifica, i colori si schiariscono e tramontano i toni scuri. E’ come se Van Gogh, in pochi mesi, avesse assorbito, letteralmente, la lezione di tutti i movimenti pittorici che dominano la scena parigina e li avesse rielaborati a modo suo, stravolti e, al tempo stesso, migliorati, andando oltre.
della sua vita, l’antidoto al desiderio di morte. Un anno prima aveva scritto al fratello Theo: “Se non avessi la tua amicizia sarei rispedito senza rimorsi al suicidio e per quanto io sia codardo, finirei per andarci”. A Auvers sur Oise, tuttavia, non c’è serenità, i cieli si scuriscono di nuovo, il blu squillante della Provenza diventa un blu cupo, nero che schiaccia tutto e che tutto domina. Scrive ancora Vincent: “Mi sono rimesso al lavoro, anche se il pennello mi casca quasi di mano e, sapendo perfettamente ciò che volevo, ho dipinto tre grandi tele. Sono immense distese di grano sotto cieli tormentati, e non ho avuto difficoltà per cercare di esprimere la tristezza, l’estrema solitudine”.
La mattina di quel giorno, secondo gli studi condotti sulla sua opera da Louis van Tilborgh e Bert Maes e rivelati in una pubblicazione del 2012 dal Van Gogh Museum di Amsterdam, aveva abbozzato la sua ultima opera, il suo ultimo grido al mondo, il suo testamento: “Radici e tronchi d’albero”. 
Il successo e l’arrivo di un bambino con la creazione di un nucleo familiare proprio da parte del fratello se da un lato rappresentano per lui episodi felici, dall’altro portano, tuttavia, con sé un profondo carico di turbamento e paure ataviche: quella del peso insostenibile della fama il primo e quello della perdita di un’intimità con Theo il secondo. Era arrivato un altro Vincent a prendere il suo posto, come lui aveva fatto con il suo fratellino nato morto 37 anni prima e l’artista inizia a percepire dentro di sé, con dolore, il passaggio da fratello amato a peso gravoso.
L’esercizio continuo e quasi disperato dell’arte pittorica, tuttavia, non basta ad allontanare le crisi e i periodi sereni si fanno sempre più rari fino a scomparire del tutto il 6 luglio 1890 quando Vincent ritorna a Auvers profondamente turbato e convinto di essere solo un fardello per i suoi cari. Durante la sua visita a Parigi, Theo gli è apparso, infatti, nervoso e distante, prostrato dai primi segni della sifilide, dalla preoccupazione per la salute del figlio che soffre di frequenti e inspiegabili attacchi di pianto e per gli affari.
Antonin Artaud nel suo “Van Gogh. Il suicidato dalla società” scrive: “Van Gogh non abbellisce la vita. Ne fa un’altra”. Non abbellisce la realtà, ne fa un’altra, dipinge la realtà che i suoi occhi colgono, vedono, osservano. Sempre Artaud: “[…] dirò che Van Gogh è pittore perché ha ricomposto la natura, che egli ha come ritraspirato e sudato, fatto schizzare a fasci sulle sue tele, a sprazzi scrocchianti di colore, la secolare frantumazione di elementi, la spaventosa pressione elementare di apostrofi, di strie, di virgole e di sbarre di cui sono composti gli aspetti naturali…”.