In mostra “opere degli argentieri piemontesi” da inizio Settecento a fine Ottocento. Dal 2 luglio al 15 novembre
“Assaggiatore d’argento”. Mestiere improbabile o, quanto meno, bizzarro? Assolutamente, no! Niente di più concreto e impegnativo, ai tempi dell’antica corte sabauda. Di tal mestiere – mestiere di Stato !– se ne ha infatti contezza (per chi ancora ne avesse ignorato l’esistenza) in apertura della mostra“Argenti preziosi”, curata da Clelia Arnaldi di Balme e allestita (nell’ambito del progetto della Regione Piemonte “L’essenziale è Barocco”), in “Sala Atelier” di Palazzo Madama dal 2 luglio al 15 novembre.
Lì, infatti, s’apprende che già nel lontano 1476 a parlare di “assaggiatore d’argento” era un’antica normativa piemontese, successivamente ripresa e ufficializzata nel 1677 da Maria Giovanna Battista di Savoia Nemours, la seconda Madama Reale, madre dell’editto che ufficialmente istituì – nell’ambito delle attività dell’Università degli Orafi e Argentieri di Torino – proprio la figura (“assaggiatore”) del funzionario statale incaricato del compito assai importante di certificare con un marchio il titolo della lega, ossia la quantità di argento presente nel metallo con cui veniva realizzato ogni oggetto che usciva in allora dalle botteghe cittadine. Di quella Torino che fra inizi Settecento e per tutto l’Ottocento vantò una tradizione di maestri argentieri di assoluta eccellenza ed originalità. A darne prova è proprio la suggestiva mostra di Palazzo Madama che in esposizione vede autentiche mirabilia, selezionate dalle collezioni dello stesso Palazzo juvarriano. In una ricca panoramica che cavalca due secoli d’arte e di storia, si va così dalla comune “argenteria da tavola” (con posate, zuppiere, cioccolattiere, teiere, zuccheriere e quant’altro accanto alle piemontesissime “paiole” o tazze da puerpera dove le donne erano solite sorseggiare il primo brodo dopo il parto) agli “oggetti da arredo” più preziosi, fino agli “argenti destinati al culto”, come un “Reliquiario di San Maurizio” (1740 ca.) – che nel corso del restauro per la mostra ha rivelato la presenza del punzone con San Rocco da riferire a Giovanni Francesco Paroletto, membro di una delle più importanti
famiglie di argentieri sabaudi – e il “Calice” di Giovanni Battista Boucheron, realizzato nel 1789 in memoria di Carlo Emanuele III, accanto ad alcuni “argenti ebraici” come un bel piatto per la cena durante le celebrazioni della Pasqua ebraica (Seder) e un calice per la benedizione sul vino recitata nel giorno del riposo (Kiddush). Di Giovanni Battista Boucheron (Torino, 1742 – 1815) la rassegna presenta anche grandiosi “disegni preparatori” alle opere in argento insieme a raffinati “Ritratti” degli argentieri della sua famiglia, autentica culla di generazioni di importanti maestri orfèvres. Vera chicca della mostra, la “Mazza cerimoniale” della Città di Torino, restaurata ed esposta al pubblico per la prima volta. Realizzata in argento sbalzato e cesellato, fra il 1814 ed il 1824, la Mazza veniva portata a mano dall’usciere comunale nelle occasioni ufficiali e riprende i tre progetti della prima Mazza civica eseguita da Francesco Ladatte nel 1769, con tanto di testa taurina e corona, sostituita nel 1849 da quella “turrita”, opera dell’argentiere di corte Carlo Balbino. A proseguire l’iter espositivo, sono le “armi” d’epoca con preziose decorazioni in argento, una serie di “monete” che ripercorrono la storia del Ducato di Savoia e una scelta accurata di disegni di Lorenzo Lavy (Torino, 1720 – 1789), fra i più apprezzati incisori di monete e medaglie della settecentesca Zecca torinese. In chiusura, alcune tavole dell’“Encyclopedie”, una selezione di “bastoni da passeggio” con il pomo d’argento (autentica sciccheria per gli elegantoni del tempo) e un curioso nucleo di “dorini” della seconda metà dell’Ottocento, ornamenti da acconciatura e spilloni in argento lavorato a filigrana, che madame e madamin piemontesi amavano vezzosamente appuntarsi fra trecce e capelli ai dì di festa.
Gianni Milani
“Argenti preziosi”
Palazzo Madama – Sala Atelier, piazza Castello, Torino; tel. 011/4433501 o www.palazzamadamatorino.it
Fino al 15 novembre
Orari: gov. e ven. 13/20; sab. e dom. 10/19
Nelle foto
– Giovanni Damodé: “Paiola”, 1740-1750 ca.
Le sciabolate di colore esprimono la qualità di una pittura sempre e comunque legata a momenti di sofferte passioni, al trascendentale, alla forza insinuante delle emozioni, che appaiono quali aspetti e luoghi d’incontri e di incommensurabili silenzi. Angelo Mistrangelo
Finora avevano avuto facile memoria il vecchio siciliano pronto a indicare al soldato italoamericano accovacciato la direzione presa dal nemico tedesco (era l’agosto del ’44, ci viene tramandato persino il nome del soggetto locale, Francesco Coltiletti detto “massaru Ciccu”), o Pablo Picasso, con la sua corona di capelli bianchi, sulla spiaggia assolata, costretto servizievole a ombreggiare con un grande ombrellone la compagna Françoise Gilot, mentre un giovanotto muscoloso e sorridente occhieggiava in secondo piano o il miliziano della guerra spagnola del ’36 (immagine controversa: immediata realtà o troppo perfetta, falsa ricostruzione?) colpito a morte. Immagini in bianco e nero, rigorosamente (c’insegna una pubblicità), un attimo catturato e tramandato alla Storia.
mettere nei preventivi un buon carico di rullini e a dare sempre maggior spazio alle immagini a colori (sapeva anche farsi debitamente i conti in tasca, erano certo meglio pagate). Magari con qualche esempio già alcuni anni prima. Trovandosi in Cina per testimoniare il conflitto sino-giapponese, scriveva il 27 luglio 1938 ad un amico della agenzia di New York: “Spediscimi immediatamente 12 rulli di Kodachrome con tutte le istruzioni su come usarli, filtri, etc… in breve, tutto ciò che dovrei sapere, perché ho un’idea per Life”. Fu esaudito ma dell’arrivo di quel materiale ci rimangono soltanto quattro immagini.
per iniziare una breve quanto intensa storia d’amore con Ingrid Bergman; quando scese tra le risaie del Vercellese, sul set di mitico Riso amaro, probabilmente l’intreccio della vicenda e il lavoro di De Santis poco lo interessarono ma il viso e le forme di Doris Dowling lo colpirono parecchio). Quindi sfilano l’immagine di un membro dell’equipaggio del commodoro Magee che manda segnali, i soldati americani che ispezionano un carrarmato tedesco o si ricoprono di una bandiera con svastica che hanno catturato; il volto di Trockij e quasi l’udibile voce stessa su di un palco di Copenhagen ed il conflitto arabo-israeliano, tra la lotta e le prime costruzioni a formare i nuovi kibbutz, tra il ’49 ed il ‘50; il viaggio nel 1947 a Mosca in compagnia di John Steinbeck e le code sulla Piazza Rossa negli anni a venire, a visitare la tomba di Lenin, con i visi degli uomini, delle madri con i figli, riverenti e muti, Picasso che gioca con il figlio, perfetto nonno ed incredibile padre; l’allegria all’aria aperta di Hemingway in compagnia della terza moglie, Martha Gellhorn, e dei due figli, la bellezza di certe facce, le fasce rosse legate attorno alla fronte, in un primo maggio descritto tra le strade del Giappone. Ancora i set cinematografici che lo incuriosiscono e lo eccitano, Ava Gardner che balla durante le riprese della Contessa scalza, una Anna Magnani carica di vitalità, John Huston intento a raccontare tra Parigi e gli studi di Londra la vita di Toulouse-Lautrec in Moulin Rouge, l’amico Humphrey Bogart (con cui nel ’52 andrà nella capitale inglese per riprendere l’incoronazione di Elisabetta) e Peter Lorre, ombroso e ingessato viveur l’uno, elegante damerino l’altro, entrambi alle prese con Il tesoro dell’Africa (possibile che nell’occasione la nostra Lollo non l’abbia almeno fotograficamente punzecchiato?), Ingrid Bergman che ascolta le indicazioni di Roberto Rossellini prima che si giri una scena di Viaggio in Italia nel ’53. Sono gli ultimi sprazzi di questo suo mondo che non vuole più dolori, combattimenti e morti, i divertimenti di Bayonne e di Deauville stanno lì a testimoniare. Ma anche per questa vena di divertimento l’interesse s’affievolisce, o addirittura si spegne del tutto: e Capa chiede di essere mandato dove ancora una volta possa respirare i venti della guerra. Invitato dalla Mainichi Press, si trova in Giappone quando riceve da Life la proposta di sostituire il fotografo della rivista in Indocina dove infuria il conflitto franco-vietnamita. Raggiunge Luang Prabang, fotografa i soldati feriti e le zone di guerra e la vita che continua a scorrere ad Hanoi e nelle altre città. Accompagna un convoglio francese lungo il delta del Fiume Rosso: mentre il convoglio è costretto a fermarsi per il fuoco nemico, Capa scende dalla jeep su cui viaggiava per fotografare un campo di riso a lato della strada. Mette il piede su una mina antiuomo e resta ucciso. Era il 25 maggio del 1954. Quella sconosciuta località aveva un nome forse grazioso, Tay Ninh. Capa aveva da pochi mesi compiuto quarant’anni. Era stato il più grande fotoreporter di guerra.


È da subito evidente che il suo è uno stile inconfondibile: i suoi scatti sono velati da una patina erotica che spesso sfiora i tratti sado-masochistici e feticisti, le sue fotografie non possono passare inosservate, sono eccentriche e lussuriose, ma mai banali o volgari.
