Digital Art con successo alla Galleria Cristiani&co.
Martedì 14 dicembre a Torino la Galleria Cristiani&co ha ospitato l’evento di lancio del progetto Hesos Gallery.
Fra schermi led e pezzi di design storico, Andrea Pagliano e Filippo Aimo con l’Intervento di Luca Pannoli, noto per le sue “luci d’artista”, hanno acceso il dibattito sulla crypto-arte.
“Un’opera creata in digitale può reggere il confronto con una reale? Assolutamente si!” A questa domanda spiazzante è stata data risposta, portando esempi e spiegando al pubblico i meccanismi di blockchain ed NFT. Durante la serata sono state mostrate al pubblico opere digitali inviate da importanti artisti del mondo della crypto arte italiana come Fabiano Speziari, , Domenico Barra, Mattia Cuttini, Luca Donno, Massimo Franceschet, Marcello Baldari, Niro Perrone ed Andrea Chiampo
Hesos è una galleria d’arte virtuale che mira ad unire i pubblici dell’arte tradizionale e del digitale.
“Collaborando con artisti che da sempre lavorano e credono nell’arte, miriamo ad arricchire e far comprendere meglio il mondo del digitale”
Salvatore Zito e Roberta Verteramo, rispettivamente pittore ed art designer, hanno deciso di collaborare con Hesos Gallery per la creazione delle loro prime opere in NFT, disponibili in prima assoluta sul sito hesos.art dal 21 dicembre.




E la lezione morandiana ha segnato e segnerà per sempre, nella ricerca dell’essenzialità e della purezza segnica del dettato artistico, l’opera di Claudio Parmiggiani. Anche in quelle ingegnose sperimentazioni, giocate (attraverso materiali “suoi”, quali polvere e cenere, fuoco e aria, ombra e colore o luce e pietra e vetro e acciaio) sui concetti di silenzio-assenza, che hanno fatto di lui uno fra i protagonisti più prestigiosi e, soprattutto, singolari dell’arte contemporanea. Ne è prova concreta la significativa rassegna a lui (emiliano di Luzzara, classe ’43) dedicata dalla GAM di Torino. Quarto appuntamento del ciclo espositivo nato dalla collaborazione fra l’“Archivio Storico della Biennale di Venezia” e la “VideotecaGAM”, la mostra, curata da Elena Volpato, rappresenta una preziosa chicca – nella scoperta di un artista che da parecchi anni ha scelto un “volontario esilio” dai clamori delle troppe avanguardie – in quanto incentrata intorno all’unica opera video realizzata da Parmiggiani nel ’74. Prodotto da “Art/Tapes/22” di Firenze, il video si intitola “Delocazione” ed è accompagnato da altre due opere “capitali” nello sviluppo del suo lavoro e provenienti dalla “Collezione Maramotti” di Reggio Emilia: la stampa fotografica su tavola “Delocazione 2” del ’70 e “Autoritratto” del ’79, una silhouette d’ombra riportata su tela, anch’essa opera unica nella produzione dell’artista. “La triangolazione di queste opere – scrive Elena Volpato – racchiude l’intero arco degli opposti visivi che attraversa il lavoro di Parmiggiani. L’assenza dell’opera, che emerge in riserva sulla parete, nel bianco contornato dal grigio della polvere e della fuliggine, si riflette nel suo contrario visivo: la proiezione di un’ombra grigia che si disegna sulla tela bianca, presenza negata dello sguardo dell’artista sull’immagine svanita”.
Nel video “Delocazione” è, invece, possibile rintracciare la reazione a ciò che l’artista chiama “azionismo”: l’immagine ripresa è la sagoma scura di una sedia che emerge come da una fitta nebbia, dal bianco iniziale dello schermo, accompagnata dall’“allegro” del Concerto n.1 per clavicembalo dell’amatissimo Bach, per Parmiggiani compositore in assoluto di una musica perfetta. “Basta quella presenza a negare la possibilità di un’azione, e non soltanto perché la sedia è vuota e resterà tale, ma perché è girata verso la parete retrostante, disposta di fronte a una ‘Delocazione’, alla traccia di polvere e fuliggine di un dipinto svanito”. Silenzio. Assenza. Come suggestiva possibilità di riaccostarsi al “mistero”. Come drastica reazione al vocio scomposto della scena artistica di allora. Nel 1985, a poco più di dieci anni dalla realizzazione del video, Parmiggiani dichiarava in un’intervista ad Arturo Schwarz: “Ho fatto un unico video che tra l’altro non ho mai visto, nel 1972 o forse nel 1973, a Firenze, con Maria Gloria Bicocchi, era un’immagine fissa per quindici minuti, tra l’altro un’immagine assente, l’ombra di un’immagine. Anche qui ancora un no sia all’immagine sia alla funzione fotografica e dinamica dello strumento, era probabilmente una reazione a un ‘azionismo’ e ‘contorsionismo’ esasperato in quel periodo, per me era l’equivalente del ‘silenzio’ di Duchamp”. A completare la rassegna alla GAM, troviamo anche una selezione di libri realizzati da Parmiggiani tra il 1968 e il 1977, provenienti dalla “Collezione Maramotti” e dalla “Collezione CRT”. “Libri pensati da un artista per il quale la pagina bianca non è fatta per la riproduzione o la documentazione del lavoro, ma è innanzitutto spazio di manifestazione dell’opera e, insieme, primo luogo dell’assenza”. Assenza giustificata, in questo caso.
Animali, in gran numero, esotici e domestici. E autoritratti. Tanti. Disarmante e geniale nella ricerca di un’autoviolenza atroce e distruttiva é l’“Autoritratto con mosche” realizzato nel ’57 e di certo fra i più interessanti e dolorosamente amari nel gruppone di quelli posti in mostra. Il volto come sempre di sguincio, nessuna concessione alla benché minima positività, le mosche artigliate al collo e all’occhio destro che sembra trasudare sangue, il cranio malformato dal rachitismo sviluppato (insieme al “gozzo”) fin dall’infanzia, ogni singola imperfezione volutamente accentuata con pennellate di colore che calano sulla tela come sciabolate mortifere. In volo due corvacci, gracchianti dolorose cantilene foriere di oscuri presagi. Sofferenza. Dolore. Compagnia assidua di una vita disperata. Di un’infanzia negata. Di continue entrate e uscite dai manicomi.”Questo è il mio volto, se volete non ‘gradevole’, ma questo io sono” sembra dire l’artista, impegnato a rendersi ancor più “sgradevole”, autolesionista all’eccesso in una sorta di autoironica rappresentazione, esorcizzante forse il suo profondo malessere interiore. Antonio Ligabue, al secolo Laccabue (dal cognome del patrigno che egli rifiutò per tutta la vita) si trovava allora a Gualtieri, nel Reggiano, dov’era arrivato nel ’19, dopo aver aggredito la madre adottiva durante una lite. Arrivava dalla Svizzera (era nato a Zurigo, nel 1899) e aveva già conosciuto l’affidamento adottivo, la vita randagia, le case di cura.
A Guatieri dove visse come “straniero in terra straniera” era, per tutti o quasi, “Toni el matt”, nonostante in alcune opere come nel superbo “Autoritratto con cavalletto”, egli ami raffigurarsi vestito di tutto punto mentre en plein air dipinge un trionfante gallo. Un Toni quasi irriconoscibile, come i “normali” lo avrebbero voluto. Ampio spazio è dedicato in mostra anche alla scultura (oltre venti opere in bronzo, soprattutto di animali) cui l’artista iniziò a dedicarsi fin dai primi anni di attività usando al principio la creta del Po, resa più malleabile attraverso una lunga masticazione e solo più tardi ricorrendo alla cottura. E infine, altro filone ben narrato in mostra, quello dei paesaggi padani, dove sullo sfondo irrompono le raffigurazioni dei castelli e delle case, con le loro guglie e bandiere al vento, della natia e mai dimenticata Svizzera. Qui troviamo un velo di fanciullesca pittura “naive”. Ma solo un velo. Perché Ligabue fu soprattutto un grande “espressionista tragico” e, per certi versi, un “primitivo” alla Rousseau il Doganiere, pur se affascinato da van Gogh, non meno che da Klimt, dai “fauves” e dagli espressionisti tedeschi. Un artista diventato “mito”. Forse a sua insaputa. Mitizzato dall’attenzione dei rotocalchi degli anni Cinquanta fino a quella a lui ancor oggi riservata dal teatro (“Un bes” di Mario Perrotta) e dal cinema (dal recente “Volevo nascondermi”) di Giorgio Diritti. In mostra, a tal proposito, non mancano anche testimonianza dirette di autori, registi ed attori.