Fino al 16 aprile
Pittore, musicista, scultore, fotografo ma, soprattutto, cineasta – fra i più grandi protagonisti del cinema sperimentale – è scomparso nel gennaio scorso a Toronto (dov’era nato nel 1928) Michael Snow. Novantacinque anni appena compiuti, Snow aveva vissuto negli anni Sessanta a New York partecipando appieno alla stagione del cosiddetto “New American Cinema”, seguendo in questo le orme del suo grande amico Jonas Mekas, regista poeta e artista lituano naturalizzato statunitense, cui è intitolato il “Jonas Mekas Visual Arts Center” di Vilnius, in Lituania. Strada non facile, ma da Snow seguita con assoluta fedeltà e convinta passione fino al suo ultimo film “Citjscape”, ideato per il formato “IMAX” (“il massimo dell’immagine”; in Italia sono solo sei i cinema “IMAX”) nel 2019. Autentico capolavoro (fra le oltre 4mila opere, clip filmici e musicali sculture e fotografie, incluse nell’“Anarchive2:Digital Snow”, DVD del 2002 promosso dal “Centre Pompidou” di Parigi) è sicuramente “Wavelenght, 1967/2003”, oggi esposto alla “VideotecaGAM” di via Magenta, a Torino. Che, accanto al film, propone anche in una mostra curata da Elena Volpato, un’altra opera di Snow: “Cover to Cover, 1975”. Un film e un libro. Due opere, due capolavori, fra i più significativi ed emblematici, della storia del cinema e del libro d’artista, “perfetta sintesi – sottolinea la curatrice – del pensiero visivo di Michael Snow e della sua capacità di fare della pagina come del fotogramma uno spazio di verifica della nostra percezione”.

La versione originaria del film, assunta immediatamente a paradigma del cinema strutturalista, è “la storia– come s’è scritto – di una lenta e inesorabile zoomata” girata nell’arco di un giorno e mezzo e trasformato in un montaggio di 45 minuti nei quali si parte dalla visione totale dell’interno di un loft per arrivare gradualmente a stringere sulla piccola foto di una superficie marina appesa sulla parete opposta alla cinepresa, tra quattro grandi finestre. L’immagine è accompagnata e “manipolizzata” da una serie di variazioni luminose e cromatiche associate ad un suono intenso e ossessivo (un’onda sinusoidale), mentre all’immagine stessa si frappongono l’uso di diversi filtri cromatici e alcune enigmatiche apparizioni di donne e uomini che agiscono nel loft senza divenire narrazione: “gli accadimenti, anche se drammatici, si riducono – sottolinea Elena Volpato – a marginali accidenti rispetto all’asettica progressione dello sguardo macchinico”. Il film è un inno geniale al potere dello “sguardo assoluto” che volutamente accantona lo “spazio della storia”, palesandoci unicamente lo “spazio geometrico e vettoriale”.Nel 2003 Snow decise di realizzare una nuova versione contratta, intitolata “WVLNT”, presente in mostra e nella collezione della“VideotecaGAM”, dividendo l’opera originaria in “tre segmenti temporali da 15 minuti” e sovrapponendoli l’uno all’altro come si trattasse di riconoscere, nella apparente linearità della percezione visiva, il ruolo della prefigurazione e della memoria: “il movimento attraverso lo spazio è fatto contemporaneamente di visione presente, di ricordo della percezione appena passata e di anticipazione dello spazio che stiamo per raggiungere”. A qualche anno di distanza dalla realizzazione di “Wavelength”, Snow, con la medesima lucidità di analisi, spostò la propria attenzione dalla pellicola al libro, realizzando “Cover to Cover” per le edizioni del “Nova Scotia College of Art and Design” . Il libro (recentemente acquisito dalla “Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT” per il “Fondo Giorgio Maffei” conservato nella collezione di libri d’artista della “GAM”) é composto esclusivamente da un’ampia sequenza di fotografie comprese tra una “prima di copertina” che presenta una porta chiusa vista dall’interno di una stanza e una “quarta di copertina” che restituisce la visione esterna della medesima porta attraverso una fotografia che mostra, con alcuni segni di usura, la propria materialità di stampa. Tra quelle due immagini di inizio e fine, l’interno è un susseguirsi di attraversamenti spaziali e temporali colti contemporaneamente da due punti di vista contrapposti: davanti e dietro, dall’alto e dal basso, dritto e sottosopra, complicati da un continuo “intercambiarsi” di fotografie e fotografie di fotografie. Artista non facile, di grande spessore estetico e di straordinari creatività, Snow amava ripetere: “Quando creo qualcosa che mi piace, spero che il piacere possa essere condiviso. Tuttavia non comincio cercando di essere apprezzato o di successo”. Ancora più lodevole, dunque, l’omaggio resogli dalla “GAM” di Torino, con l’obiettivo di ampliare la conoscenza di un’artista purtroppo ad oggi ancora troppo ignorato e trascurato in Italia.
Gianni Milani
Michael Snow
“VideotecaGAM”, via Magenta 31, Torino; tel. 011/4429518 o www.gamtorino.it
Orari: da mart. a dom. 10/18. Chiuso il lunedì
Fino al 16 aprile
Nelle foto:
– Michael Snow: “WVLNT”, 1967/2003, 16 mm su DVD, 15’
– Michael Snow: “Cover to Cover”, Halifax – New York, “Nova Scotia College of Art & Design Press – University of New York Press”, 1975, prima edizione
Mi piace sempre fare un po’ di dibattito con i miei studenti, parlare, proporre loro delle tematiche su cui riflettere, ascoltare ciò che pensano è non solo stimolante e interessante per entrambe le parti, ma necessario per tenere attiva l’attenzione. Uno degli ultimi argomenti su cui ci siamo impelagati è stato davvero complesso, ma credo che abbia fatto comprendere alla classe quanto l’arte possa essere una materia interdisciplinare, diversificata e soprattutto ampia. La riflessione riguardava il concetto di “damnatio memoriae”, e il fatto che in tempi antichi non destasse tanto scalpore la distruzione di opere d’arte; tali accadimenti erano motivati da varie ragioni, politiche prima di tutto, ma anche religiose. Il discorso si è poi allargato e ci siamo ritrovati a dibattere sulla complessa questione dell’arte come “atto distruttivo”.
Questa modalità di rappresentazione del movimento risulta totalmente nuova e avrà larga eco nelle figurazioni grafiche dei fumetti. Il ritmo del moto viene sottolineato e accentuato da linee curve, oblique, ondulate o a spirale, che accompagnano il soggetto nella sua traiettoria, come a visualizzare le “scie” delle parti che fendono l’aria. I futuristi, oltre a preferire soggetti dinamici, amano l’uso di colori intensi e vivaci, contrapponendosi ai cubisti, che privilegiano tinte smorzate o monocrome e soggetti statici.
Settanta opere, piccole e grandi tele, sculture minuscole e di estrema raffinatezza (“La pleureuse”, 1875 – 1878, di Giuseppe Grandi), otto sezioni, i maggiori protagonisti della cultura figurativa ottocentesca attivi a Milano, le vicende storiche che sono trascorse dal Regno napoleonico all’austriaco Lombardo Veneto, dalle rivolte popolari (con l’immancabile Bossoli) sino alle guerre indipendentiste, sino alla liberazione del 1859. Le visioni di una capitale meneghina ancora chiusa dentro sue certe strutture quattrocentesche e delle sue trasformazioni verso una città moderna e signorile, ma ancora portatrice di inevitabili e ampi grumi di povertà, in cui le differenze sociali si facevano sempre più visibili, una città che negli anni Sessanta vedeva la costruzione della Stazione Centrale, la rivoluzione dell’area di piazza Duomo con la demolizione del Coperto dei Figini, con la costruzione della Galleria e l’ideazione di piazza della Scala sino, dieci anni più tardi, all’abbattimento del Rebecchino, antico isolato davanti alla bela madunina, luogo d’azione dei malandrini dell’epoca. Un percorso che non è soltanto affidato alle arti, ma altresì alla Storia e alla riscoperta visiva di angoli della città ormai mutati o scomparsi del tutto.
“Pittura urbana” (la definizione la si deve ancora al Sacchi) che abbraccia vecchie prospettive, iniziata tra il secondo e il terzo decennio dell’Ottocento dall’alessandrino Giovanni Migliara (che illustra vecchi caseggiati e antichi passeggi, eleganti toilette e venditori, nella “Veduta di piazza del Duomo in Milano”, 1828), lasciando presto il campo ai più giovani ma già sguinzagliati colleghi Luigi Premazzi (“Interno del Duomo”, 1843, un fiorire di colonne e vetrate di eccezionale bellezza, a fronte della monumentalità dell’organo descritto in ogni più significativo particolare), Carlo Canella (“Veduta della corsia del Duomo”, del 1845, l’attuale corso Vittorio Emanuele, un susseguirsi di figure colte nella loro più immediata vita quotidiana, lo stagnaro e la signora con l’ombrellino, le piccole voliere e il loro mercante) e Angelo Inganni con i suoi Navigli innevati del 1852. Un “palcoscenico” abitato altresì dagli “attori protagonisti” della storia milanese di quello scorcio di secolo, l’autore dei “Promessi Sposi” raffigurato da Giuseppe Molteni (un quadro ritrovato di recente), il “Conte Carlo Alfonso Schiaffinati in abito da cacciatore” dell’Arienti e i ritratti di Giovanni Carnovali, comunemente conosciuto come il Piccio, “autore – ci viene chiarito nelle note alla mostra – impegnato fin dalla prima metà degli anni Quaranta in una personalissima ricerca intorno alle potenzialità espressive del colore, figura fondamentale per un primo affrancamento della pittura lombarda da quello che era stato l’indiscusso primato del disegno di matrice classicista.”
La terza sezione contempla la Milano occupata dagli austriaci e poi liberata, nelle tele di Carlo Bossoli, il più sensibile quanto tenace narratore delle Cinque Giornate, e di Baldassarre Verazzi (“Combattimento presso Palazzo Litta”), mentre la successiva guarda alla Storia dalla parte degli umili, soprattutto attraverso i nomi dei fratelli Domenico e Gerolamo Induno, apprezzati dalla critica come dal pubblico dell’epoca, per il loro squisito sentimento nel raccontare i drammi e le difficoltà del vivere quotidiano di gran parte delle masse. Drammaticamente resa da Domenico con “Lacrime e pane” la povera camera della donna, che raccoglie qualche soldo con i ricami fatti al tombolo, con a fianco la sua bambina, o da Gerolamo con “La scioperatella” del 1851 e soprattutto “La fidanzata del garibaldino”, conosciuta anche come “Triste presentimento”, di vent’anni dopo, anche qui una povera stanza e un letto sfatto, forse una lettera tra le mani che non promette nulla di buono o un’immagine dell’innamorato e un mozzicone di candela, l’unico abitino poggiato sulla seggiola e un catino, il piccolo busto dell’Eroe posto nella nicchia e una riproduzione, alle spalle della protagonista, del “Bacio” di Hayez. Ogni personaggio colto nel suo habitat abituale, interni domestici disadorni, tra le proprie povere cose, quasi sempre immerso in pensieri di ricordi e di indigenza, ogni particolare reso con precisa autenticità, mai vittima di una componente calligrafica fine a se stessa ma di grande, autentico realismo.
Nell’ultima sezione, l’affermazione e il trionfo del linguaggio scapigliato, di Daniele Ranzoni “Giovinetta inglese” e “Ritratto della signora Pisani Dossi” (1880, la leggerezza dell’abito bianco e quegli occhi che paiono dire a chi guarda oggi come allora tutto il rincrescimento nei confronti di un qualcosa non fatto proprio e il dolore assopito del personaggio, uno dei più begli esempi della mostra), di Tranquillo Cremona in primissimo piano a catturare l’attenzione e l’ammirazione, con “La visita al collegio” e soprattutto con un unicum suddiviso tra “Melodia” e “In ascolto”, entrambe datate 1878 ed eseguite su commissione dell’industriale Andrea Ponti, un inno all’azzardo della preparazione, alle zone lasciate alla saggia improvvisazione e al non finito, al sommario, all’evanescente, nel tripudio del “disordine” delle pennellate: “Il pennello tanto squisito del Cremona non si è fermato a determinare che certe parti più importanti della composizione, ma in queste ha messo tutta la squisitezza d’intonazione, della quale ha per così dire una privativa assoluta, e tutta quella gentilezza di figure muliebri che egli solo sa trovare”, fu uno dei giudizi a lui rivolto all’apparire delle opere. La mostra è visitabile sino al 12 marzo 2023: assolutamente da non perdere.
Arte moderna. Contemporanea. Forse. O forse no. Forse, arte antica. Antica ancor di più di quella “consacrata” come antica. Graffiti. Accumuli di graffiti. Accumuli di segni e colori che esplodono in casuali informalità. Volontà di evasione. Di distruzione. E ricostruzione. Lavori su cui perdersi in intrecci labirintici dal bandolo difficile da sbrogliare. Ma lavori che ti tengono lì, in sospeso, per lasciarti senza parole. Né esatte spiegazioni. Solo dubbi. Pur se benefici. Dubbi benefici aperti a interpretazioni mai certe ma capaci di vincolarti emotivamente, e a doppio filo, all’opera che hai davanti. Che è arte senza tempo. Senza un perché. In continuo divenire. Significativo, in tal senso, lo stesso titolo dato alla rassegna presentata alla “GAM-Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea” di Torino da giovedì 3 novembre a domenica 12 marzo 2023: “Hic sunt dracones” (dal latino, “Qui ci sono i draghi”) o “leones” ( “leoni”), espressione tecnicamente associata alle carte geografiche antiche per indicare le zone ancora inesplorate dell’Africa. Spazi sconosciuti. Immaginari e misteriosi. Realtà altre.
apparentemente non è. È un pensiero che genera draghi e, allo stesso modo ispira opere che rifuggono da ogni classificazione, che esorbitano da ogni griglia, che tengono insieme più immagini, più tempi, più momenti”. E i più svariati materiali: terrecotte, lana di pecora (“Le leonesse”), ferro, legno, erbe e fiori secchi, ma anche ceramica, porcellana terzo fuoco, ottone, rame, argento, vetro e molt’altro ancora. Le opere della Camoni rifuggono da ogni griglia o classicazione e sono create a partire da oggetti trovati o da materiali naturali in un “processo di sorellanza” in cui vengono artigianalmente coinvolte numerose persone, in una sorta di “comunità temporanee di condivisione spaziale, emotiva e spirituale”. Lavorare al di fuori delle regole, del pensiero comune, dell’artistically correct: Camoni e l’“Atelier dell’Errore”, lavorano in tal senso in modo parallelo, sotto la guida della stessa visionarietà creativa. L’alterità, la loro stella polare. “L’‘Atelier dell’Errore’ – spiega ancora Elena Volpato – lo fa per costituzione, raccogliendo sotto la direzione di Luca Santiago Mora la maestria di giovani artisti, con tratti neurologici atipici, con una naturale predisposizione al soffio errante di quella che gli antichi chiamavano follia: forma principe del pensiero metamorfico.
creativi ancor più antichi, iscritti nelle nostre origini, così come nella natura”. In occasione della mostra, venerdì prossimo 4 novembre (ore 10,30), si terrà alla “GAM”, la performance “La Distruzione Bella” realizzata da Chiara Camoni e dal suo “Centro di Sperimentazione”. Il lavoro vedrà la fusione di gioielli e piccoli oggetti in metallo per creare un passaggio dalla forma all’informe e dare vita a nuove sculture gioiello. Il pubblico è invitato a intervenire con bijoux, piccoli oggetti in metallo, qualche pezzo di argenteria per vedere il proprio oggetto cambiare sotto l’azione del fuoco in un processo di metamorfosi e ricomposizione. Seguirà colazione.



