Una bisavola della nostra nonna materna era sorella maggiore di quello paterno di Guido Gozzano. A partire dal 1965 e poi dal 1976 e in ultimo quasi ininterrottamente dal 1986, ho approfondito la storia di quegli antenati e parenti. Nel XV Secolo, un esponente dei Gedda (gruppo famigliare scandinavo originario del Gotland),che doveva aver combattuto i Tuchini con le compagnie di ventura, cessati i conflitti, fissò la sua dimora in Val Chiusella, e,tra i suoi discendenti, noi dividiamo con i Gozzano quegli antenatiche, nel corso del XVII Secolo, si spostarono ad Agliè, fissandovila loro dimora.

Da sempre Agliè mi è famigliare, e tanti dei cambiamenti che ha subito nel corso del tempo mi sono noti e facili da rilevare perché spesso li ho documentati avvalendomi anche di scritti e immagini, inoltre, giovandomi della formazione di architetto, mi sono soffermato sui cosiddetti luoghi “gozzaniani” … cosicché, mentre sto liquidando per le stampe le diverse pagine sull’argomento, passo ad anticiparvi alcune notizie inedite.
Argomento di questo scritto sarà il Chiosco del Meletto – Meletto, si badi, e non Meleto, perché proprio così il toponimo era scritto nei tempi più antichi, e anche Chiosco, e non Chalet, poiché questo sostantivo definisce correttamente quella tipologia architettonica da giardino. Il Chiosco, insieme all’ambiente naturale che lo circondava (isola, laghetto, ponte e bosco di piante esotiche), fu realizzato nel 1866 dal (più volte deputato al Parlamento Subalpino) comm. Massimo Secondo Mautino.All’epoca Diodata, la sua figlia minore e futura madre di GuidoGozzano, era una bambina di 9 anni, la sorellastra di lei, Ida Galletti, era morta da due anni, e i suoi due figli: Elvira e Arturo, avevano rispettivamente 11 e 9 anni.

Definendo quello il luogo “gozzaniano per antonomasia”, non intendo negare l’esistenza di quegli altri che in qualche modo possano evocare la presenza di Gozzano ad Agliè, sostengo peròche questo, in assoluto, è il più emblematico, perché, voluto dal nonno materno – che non solo amava la poesia (come provano le opere della sua biblioteca) ma, in gioventù, ne scrisse anche di sue e le pubblicò su certi fogli ebdomadari – e, per oltre cinquant’anni, fu frequentato dalla seconda figlia – che pure scrisse poesie e che, più del figlio Guido, ritornò spesso là – e pure dal nipote Arturo – il quale, nato pochi mesi prima di lei,proprio a quell’ambiente accennava in una composizione poetica per il matrimonio della zia con il futuro padre del Poeta. Perquesto, il Chiosco del Meletto, era davvero un luogo di forti richiami poetici. Di significativa importanza lo fu poi anche per Guido Gozzano, che vi andava volentieri (come attesta la foto in cui è ritratto in piedi con la madre, la sorella Erina, il marito di lei,avvocato Giordano, e la loro figlia ragazzina), perché, come gli altri famigliari, riceveva un benefico influsso da quell’ambiente.
Fissati i riferimenti temporali e ricordati fatti, interpreti e motivazioni, sarà facile capire come, nel corso degli anni, quello spazio abbia avuto per i ragazzi il ruolo di ambiente di sogno, e, per le ragazze, forse sia stato anche qualcosa di più della casa delle fate (o delle bambole). La costruzione – tutta in legno – era posta su un isolotto al quale si accedeva da un ponticello (sul quale è bello rivedere Guido insieme alla sua mamma, nella foto ingiallita che il tempo ci ha tramandato) o dalla barca (l’unica che stazionasse sempre là), e il luogo, già ben dotato dalla natura che lo circondava, era arricchito dalle piante che il nonno deputato aveva voluto che crescessero tutto intorno al laghetto, in un’epoca in cui il parco del Castello di Agliè contava ancora diversi giardinieri in pianta stabile. I tre ragazzi ebbero là un luogo ideale di confronto in cui potevano ritrovarsi per parlareconfidenzialmente tra loro, mentre divenivano grandi.
Ciò detto, possiamo smontare l’affermazione di due studiosi della letteratura italiana (De Rienzo – che, così dicendo, finisce per meritarsi lui quel titolo di “bugiardo” che troppo facilmente ha appioppato a Guido – e Sanguineti – che sembra ignorare del tuttoi legami (di sangue e di affetto) che Gozzano aveva con la Liguria– infatti entrambi, muovendosi in un contesto a loro ignoto, senzaconoscere la storia (che io vi ho raccontato), accusano Guido di un lapsus perché, in un foglio indirizzato a Amalia Guglielminetti, aveva scritto: «in questo casolare campestre (la cascina del Meletto, che era dei Mautino già nel XVIII Secolo), in riva di questo laghetto boschivo che ha visto l’infanzia di mia madre». Smentita che baso esclusivamente sulla relazione peritale di un geometra, che, nel 1938, su quei luoghi ebbe a scrivere, sentitaDiodata Mautino, la vedova ultra ottuagenaria dell’ingegner Gozzano, che a viva voce gli aveva fornito le testimonianzepreziose che io utilizzo. (Ma i letterati, forse, non considerano letteratura le relazioni tecniche, e allora chissà cosa avrebbero a ridire su Franz Kafka, ché le sue pagine di perizie trovano spazio tra i suoi scritti letterari?)
Ora, ritornando al chiosco e all’incantevole ambiente cheMassimo Mautino volle dare alla figlia e ai due nipoti quasi aconfortarli perché tutti ancora giovani erano rimasti privi dellamadre, ricorderò che quella costruzione, la cui esistenza qualche fotografia in bianco e nero attesta ancora negli anni Ottanta del Novecento, non ebbe affatto una vita breve e, giacché ebbe bisogno di tempo perché, senza aver mai conosciuto una manutenzione, si sancisse la sua fine (accettandone la demolizione o constatandone il crollo). Anche le piante di quel piccolo orto botanico conobbero soltanto il taglio di chi, negli anni, se ne servìper bisogno di legna da ardere: tutto era facile, libero l’accesso,senza recinzioni né barriere, si poteva prendere, manomettere edistruggere a volontà! Oggi che da vedere non rimane altro che le verdi canne che crescono rigogliose nell’acqua e i rifiuti abbandonati sullo spiazzo, il rustico cartello di legno che abbiamo fotografato segnala il luogo (ma quale?) con le parole di Guido(ma quali?). L’assenza di quell’ambiente si fa avverte, non solocome una perdita sentimentale, ma come grave danno per la storia dell’architettura stessa. Sappiamo infatti che il commendator Mautino (il cui padre, morto prima ch’egli venisse al mondo, era un misuratore diplomato all’ateneo torinese dove aspirava anche il titolo di architetto) era egli stesso in buoni rapporti con diversi professionisti anche tra i coetanei del padre. Uno per tutti, Ignazio Michela, al quale in una lettera egli accennava di aver visto il Crystal Palace durante un soggiorno a Londra. E poiché le costruzioni da giardino godevano nel Regno Unito di attenzioni particolari, non è possibile che Massimo Mautino non affidasse quel progetto per il suo a un architetto importante, magari a un giovane che gli era stato segnalato. Purtroppo però, quella costruzione non c’è più: avrebbe documentato, ad Agliè,l’intervento di un progettista attivo tra noi a metà Ottocento…certamente la tipologia del chiosco in legno (ma dall’interno tappezzato in stoffa e arredato con mobili rustici progettati su misura) per i più, ad Agliè, non era che una “baracca di legno”… ma questo non giustifica affatto, anche se le motiva, incuria e trascuratezza ai danni di una tecnologia che, in uso in tante parti del mondo, qui si lasciò sparire nel nulla, perché “era una baracca” ma stava in piedi da cento e vent’anni almeno!!!

Probabilmente mi si accuserà di essere ingiusto per considerare il chiosco “più importante” degli altri luoghi, che, ad Agliè, si dicono gozzaniani, dirò allora che, a cent’anni dalla morte di Guido, nel 2016, la realtà fisica della maggior parte di essi era del tutto compromessa e che quelle costruzioni, stravolte e malridottecome sono, oggi rimangono solo per testimoniare i più indegni interventi edilizi che, negli ultimi cento anni, il nostro Paese (qui sta per Nazione) ha sofferto.
Chiudo questa pagina con un’immagine di serenità, una fotografia, che in amicizia (credendo negli studi che porto avanti ormai da tanti anni sui nostri antenati e parenti) mi ha passato Valentina Sapio, la discendente diretta di Erina Gozzano, la sorella di Guido. In essa Diodata e Guido sono le figure dominanti che compaiono sfocate in una dimensione quasi trascendentale.

Il contesto è indefinito e non si riesce proprio a localizzalo, ma questo permette di affermare che per ogni uomo, per un Poeta soprattutto, ogni ambiente è carico di valori, e allora, se è vero che, come si legge ad Agliè in un’iscrizione funebre di San Gaudenzio, “la sua poesia è dappertutto”, si deve fare molto ancora perché la Poesia abbia un suo ruolo nella Storia, che è poi l’intento che per tanti anni ha mosso i miei studi su Guido Gozzano e i suoi.
Carlo Alfonso Maria Burdet
Rubrica settimanale a cura di Laura Goria
La sua mente resta ancorata soprattutto al ricordo dell’amore per il giovane medico bostoniano Harris Harden: un passione che nonostante i successivi tre matrimoni non si è mai ripetuta. Il pensiero ritorna a un preciso fine settimana in cui tutto è nato, si è compiuto e concluso. Ma non pensiate a una scontata storia di amore, qui il tema è decisamente più alto. Vola tra illusioni, sogni, il passare del tempo, illusioni, tutto giocato con un costante senso di tensione che solo alla fine vi farà scoprire quanto era accaduto in quei giorni lontani.
E’ legato a Lorenza, più grande di lui e con già un figlio al seguito. Ma è in pieno disagio coniugale; di quelli in cui se ti chiedi come vi vedete insieme nel futuro, finisci per affacciarti su un dirupo il cui fondo resta imperscrutabile.
Va in profondità questo libro della grande scrittrice americana, autrice di una pietra miliare della letteratura mondiale “L’anno del pensiero magico”, che nel 2005 le valse il National Book Award per la saggistica.
E’ una raccolta di racconti, 10 per l’esattezza, che mettono a nudo gli infiniti anfratti delle relazioni umane; tra lutti, amori persi e ritrovati, legami familiari e mille altre sfaccettature della vita.
Pare quasi superfluo dire che questo è un volume prezioso in cui vengono eccezionalmente aperte alcune case private, privatissime, difficilmente espugnabili; nell’impresa è riuscita Valentina Nasi Marini Clarelli il cui nome ha ovviamente fatto breccia.




preda e predatore. A spezzare i ritmi abitudinari di Massimo è la notizia che figlia e genero sono morti sul colpo in un incidente d’auto; a bordo c’era anche Checco, ora ricoverato in ospedale, operato d’urgenza, in coma e sospeso tra vita e morte. Addio tranquillità e ordine, Massimo lascia il suo rifugio -spera solo temporaneamente-, sale al nord ed affronta la dura realtà.
un reportage; decise di rintracciarla e ci riuscì grazie all’aiuto di un amico che aveva lavorato per la Croce Rossa in quella zona.
sensibile ed acuto che mette a fuoco svariate realtà. Il giornalista ha avuto la fortuna di lavorare per 5 anni (fino al 2009 anno in cui è morta) al fianco dell’immensa Fernanda Pivano che è stata l’artefice della scoperta in Italia di grandi scrittori americani, prima quasi ignoti da noi e mai tradotti. Insieme a lei ha percorso in lungo e in largo New York, ed ha incontrato molti protagonisti della scena culturale. Non perdetevi l’introduzione di questo libro dedicato “a Nanda” in cui Rotelli racconta il loro incontro e l’avvio dell’entusiasmante avventura come suo assistente, trascinato nella coinvolgente scoperta delle firme più prestigiose e dei loro pensieri sulla vita, sulla letteratura e sul mondo.
In un capannone viene trovato il cadavere straziato di Laura Andersson: ha la bocca e il mento coperti di nastro adesivo telato, lo stesso con cui qualcuno le ha fissato le palpebre aperte, ed una mortale ferita di arma da taglio alla testa. E’ in un bagno di sangue, sotto un trattore e in una posizione innaturale. E’ la moglie 53enne del ricchissimo finanziere Douglas Andersson di 72 anni. Una coppia senza figli né altri parenti, proprietari di una vasta tenuta che era appartenuta ad una famiglia dell’aristocrazia locale.
Siamo nella seconda metà del XVII secolo ma tutta la nevrosi che circola tra le pagine del “Malato immaginario” di Molière rimanda al secolo che abbiamo da poco lasciato, a quel Novecento che ha inventato – e vissuto – nuovi meccanismi drammaturgici, che ha prosciugato la scrittura e le azioni, che ha parlato più di altri di solitudine, di alienazione, di fuga dalla realtà. Quadro perfetto dell’ipocondriaco, il protagonista Argante, dice Guglielmo Ferro – regista di questa edizione prodotta dalla Compagnia Molière e La Contrada, Teatro Stabile di Trieste in collaborazione con il romano Teatro Quirino Vittorio Gassman in occasione dei quattrocento anni dalla morte del grande autore francese, in scena all’Alfieri da stasera sino a domenica 10 febbraio per la stagione di Torino Spettacoli – “ha più paura di vivere che di morire, e il suo rifugiarsi nella malattia non è nient’altro che una fuga dai problemi, dalle prove che un’esistenza ti mette davanti”. Quando i tempi di Freud erano ancora ben lontani, l’uomo Argante, cercando rifugio da ogni sua debolezza, si pone al riparo – all’interno della malattia, con l’aiuto cercato e la distruzione al tempo stesso dello stuolo di medici dai nomi e dalle virtù più assurdi – di quanto lo circonda, della vita di ogni giorno, di chi abita nella sua casa, delle vicende che come mostri gli piovono addosso. Non è certo una errata questione di anagrafe, non è questione di abbinare con troppa semplicità la malattia alla vecchiaia. È la rappresentazione della vita di mezzo, con le sue paure e le sue debolezze. Molière rappresenta quest’ultima sua opera quando da poco meno di un mese ha compiuto i 51 anni e Emilio Solfrizi, interprete oggi di Argante (dopo i vari Buazzelli, un grande Romolo Valli immerso nell’interno vermeeriano di Pier Luigi Pizzi, Bonacelli, Franco Parenti e Alberto Sordi sullo schermo), sta per raggiungere il mezzo secolo e si pone bene in linea con l’età, restituendo al “Malato” quell’aspetto che a volte è stato dimenticato. Oltre a rendere, con il cinismo e il disincanto con cui l’autore guarda alla sua epoca, il grande divertimento che sta nelle sue pagine e nei personaggi.
La stagione dei Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa continua dall’11 al 13 febbraio, alle ore 20,45, al teatro Marcidofilm di corso Brescia 4bis (