vetrina3- Pagina 6

RIUSO D’ARTISTA PER 100 CAPI IN SETA, USATO E’ BELLO

Prima tappa di “DREAMERS visioni e progetti di moda contemporanea”ABITI VERVE 2

Dal 5 al 22 luglio 2016 il progetto VeRve / 100 / seta lancia la raccolta di 100 capi in seta, usati o inutilizzati, che saranno affidati alla creatività e manualità di un artista. I capi, interpretati e rivitalizzati con interventi di grafica serigrafica, saranno esposti in occasione di DREAMERS dal 6 al 9 ottobre 2016 al Museo Ettore Fico di Torino, e potranno essere ri-acquistati (al costo di € 40) dai loro legittimi proprietari, domenica 9 ottobre 2016.

VeRve è la prima tappa di DREAMERS visioni e progetti di moda contemporanea, un inedito percorso emozionale che fonde le esperienze di mostra, vendita e conoscenza, dove la moda non è soltanto prodotto, mercato, marchio, marketing, ma anche, e soprattutto, un oggetto culturale che parla del progetto che c’è dietro, del corpo, dell’anima, del tempo. E soprattutto parla di sogni e futuro. È quindi importante e significativo che per annunciare la prima edizione di DREAMERS sia stato scelto VeRve che combina il design alla sostenibilità, la verve appunto- al riuso.

VeRve coglie il fenomeno, sempre più diffuso e strategico, del ri-uso interpretandolo attraverso l’arte, l’immaginazione, il design, l’artigianalità eccellente. Il tema di questa edizione è la seta, preziosa ma familiare, tradizionale ma versatile, che rinascerà nelle mani di Sergio Perrero ricercatore, artista, da oltre 20 anni sperimentatore e trasformatore di materie, antesignano del riuso ecologico-etico artistico. Attraverso l’arte e la lavorazione manuale, il suo intervento offrirà ai capi una seconda vita, restituendo loro un valore che avrà la suggestione del pezzo unico, esclusivo e senza tempo.

Per partecipare al progetto: dal 5 al 22 luglio 2016 saranno attivi due punti di raccolta: MEF Museo Ettore Fico, Via Cigna 114 (Aperto dal mercoledì al venerdì con orario 14/19, sabato e domenica con orario 11/19) e REZINA, Via Des Ambrois 6/D. Per partecipare è sufficiente consegnare nei punti di raccolta un capo in seta (camicie, bluse, vesti da camera, cravatte, gonne, foulard, ecc…) inutilizzato e abbandonato nell’armadio, accompagnato dai dati del proprietario (nome-cognome-telefono-email). Il progetto coinvolgerà i primi 100 capi consegnati nei punti di raccolta che, protagonisti di un’installazione in mostra a DREAMERS dal 6 al 9 ottobre 2016, potranno essere ri-acquistati (al costo di € 40) dai loro legittimi proprietari domenica 9 ottobre 2016.

Informazioni: bc@dreamerstorino.it, www.dreamerstorino.it, 011 852510

ABITI VERVEVeRve / 100 / seta prevede il ritiro e la rigenerazione di vestiti usati e/o inutilizzati, secondo un’etica del non consumo. La trasformazione non intacca la qualità e la materia prima del prodotto, che vengono conservate, ma agisce sul suo aspetto, sulla sua fisionomia, determinando una profonda alterazione della sua espressione e nella sua visione. Il riuso diventa così non soltanto una scelta etica ed ecologica, ma un investimento vero e proprio.

Protagonisti di questo capitolo sono i capi in seta dismessi e dimenticati, arenati sul fondo dei nostri armadi e cassetti. Verve li rigenera attraverso serigrafie e interventi visionari. Imprime sulla loro epidermide inedite sinfonie cromatiche e grafiche, facendoli rinascere come pezzi unici e atemporali: i capi non hanno più scadenza stagionale, non sono più scarti ma oggetti nuovi, perché rivitalizzati da nuove logiche e da precisi codici eco-estetici.

La filosofia di VeRve che attribuisce valore agli oggetti perché instilla in loro una seconda vita, è etica ed ecologica perché promuove la cura del mondo materiale e naturale. Agisce sul piano culturale perché contrappone al modello consumista una concezione antica come il mondo: in natura non esistono scarti, ma solo risorse da rinnovare.

VeRve è l’occasione per comprendere come, lavorando sull’epidermide delle cose, se ne possa modificare l’immagine e la percezione; coniugando creatività, innovazione e sostenibilità possiamo diventare consumatori responsabili per vivere meglio

VeRve è la prima tappa di DREAMERS visioni e progetti di moda contemporanea, un evento a cura di Barbara Casalaspro e Ludovica Gallo Orsi.

DREAMERS 01

visioni e progetti di moda contemporanea

6 9 ottobre 2016

c/o Museo EGore Fico Via Cigna 114 Torino

dreamerstorino.it

 

Alternanza scuola-lavoro: ecco la strategia del Piemonte

scuola corteoDefiscalizzazione del tutor aziendale, benefici per le imprese che assumeranno in apprendistato formativo e quelle che ospiteranno studenti in alternanza scuola-lavoro, valorizzazione dell’investimento formativo dell’impresa, sostegno alla mobilità degli studenti e supporto logistico tra istituzioni formative e imprese. Sono solo alcune delle proposte emerse nell’incontro organizzato  a Torino dalla Regione Piemonte e dall’Ufficio scolastico regionale per il Piemonte sul tema dell’apprendimento basato sul lavoro. Sono 96.196 gli studenti piemontesi che frequentano il triennio delle scuole superiori coinvolti, il prossimo anno, in percorsi di alternanza scuola-lavoro: 92.476 provengono da istituti statali, 3.720 da scuole private. Il 50 per cento degli iscritti abita nel Torinese, la provincia di Cuneo conta quasi 14.000 studenti e, ad esclusione di Vercelli e del Verbano-Cusio-Ossola, che hanno un numero di studenti ridotto, le altre province oscillano fra i 6 e gli 8.000. A questi numeri si aggiungono poi i circa 13.700 giovani che frequentano percorsi finalizzati all’acquisizione di una qualifica o diploma professionale. Da qui al 2018, considerando gli alunni iscritti alle classi terze, quarte e quinte, si stima che a fruire di percorsi di alternanza dovranno essere complessivamente 288 mila studenti delle scuole superiori e quasi 42 mila iscritti a percorsi di formazione professionale per l’ottenimento di qualifica o diploma professionale.

La legge “La Buona Scuola” ha infatti reso l’alternanza un elemento strutturale dell’offerta formativa, con l’obbligo di effettuare almeno 400 ore negli ultimi tre anni degli istituti tecnici e professionali e 200 nei licei. Ad oggi, il 72% delle scuole piemontesi ha attivato percorsi di alternanza, cosi come in costante aumento risultano essere le aziende che stipulano convenzioni con le singole scuole per avviare percorsi di alternanza. Grazie all’istituzione di una cabina di regia, sarà ora compito dei diversi attori istituzionali, economici e sociali (Città Metropolitana di Torino, Inps, Inail, Unioncamere, associazioni datoriali e sindacati) costruire, attraverso una strategia comune e il raccordo degli interventi e delle risorse, costruire un progetto pilota che consenta alla regione di crescere e cambiare modello formativo.

 

Susanna De Palma – www.regione.piemonte.it

 

Il sogno infranto del "Brasile d'Europa"

JUGOCALCIO 4Il Brasile d’Europa. Il calcio nella ex Jugoslavia tra utopia e fragilità” ( edito da Urbone Publishing) è un libro interessante, ben scritto da Paolo Carelli, giornalista, ricercatore universitario, grande appassionato di football. La vicenda del calcio nella ex Jugoslavia  è sempre stata intrecciata con l’originalità politica, sociale e culturale di una nazione costruita sul delicato equilibrio di popoli eterogenei, attraversando il Novecento con i suoi traumi, utopie e contraddizioni. Dai primi successi olimpici ai contrasti (anche sportivi) con l’Italia sulle “questioni” di Fiume e Trieste, dall’impresa della nazionale under 20 vittoriosa in Cile fino allo sgretolamento del Paese cominciato proprio su un campo di calcio, il Maksimir Stadion,  con gli scontri del 13 maggio 1990 durante l’incontro tra i padroni di casa  croati della Dinamo Zagabria e i serbi belgradesi della Stella Rossa. Un’epopea fatta di successi e talenti, ma soprattutto di una costante ricerca della perfezione ed una fatale rivelazione di un senso profondo di instabilità eJUGO CALCIO fragilità. Il calcio jugoslavo è stato davvero un caso unico, inedita combinazione di geometria e fantasia, con giocate pulite ed eleganti, trame ipnotizzanti  e fulminee verticalizzazioni, tanto sofisticate quanto incostanti, esempio di virtuosismo mitteleuropeo che spesso tracimava in un lezioso senso di superiorità che, a volte, veniva dissipato a causa di quello spirito balcanico che porta all’eccesso. La Stella Rossa di Belgardo è stata l’unica compagine jugoslava a vincere la Coppa dei Campioni e quella Intercontinentale, entrambe nel 1991. Il 29 maggio di quell’anno in molti se lo sono appuntato tra i ricordi più belli. Fu una serata speciale, nello stadio San Nicola di Bari, dove la “crvena zvezda” di Dejan Savićević piegò ai rigori (5 a 3 ) l’Olympique Marsiglia di Amoros e Papin grazie ai  goal di Prosinečki,Binić,Belodedić,Mihajlović e Pančev. Simbolo della Jugoslavia multietnica, la Stella Rossa era scesa in campo schierando serbi e macedoni, montenegrini , croati e bosniaci.

JUGOCALCIO 5

Un successo internazionale importante che, purtroppo, coincise con uno degli ultimi atti del calcio jugoslavo, quasi una sorta di canto del cigno. Infatti, al termine del campionato 1990-1991 le squadre croate e slovene abbandonarono il torneo, e lo stesso fecero l’anno successivo quelle macedoni e quelle bosniache. Dopo la dissoluzione della “terra degli Slavi del sud”,con la nascita dei nuovi stati, presero forma anche i singoli campionati nazionali. Sei in tutto, tanti quante le nazioni nate dall’implosione  che incenerì il capolavoro di Tito: la Socijalistička Federativna Republika Jugoslavija.JUGO CALCIO 2 Anche la nazionale di Jugoslavia, intesa nella sua interezza, giocò di lì a poco la sua ultima partita, esattamente il 25 marzo del 1992. Era un amichevole con gli “orange” olandesi e rimediò una sconfitta per 2-0 . Non se la presero più di tanto perché gli sguardi e le attese erano puntati  sull’Europeo in Svezia di quell’estate, alla cui fase finale la nazionale Jugoslava sia era qualificata a pieno merito. Già vincitrice del già citato mondiale under 20 del 1987, con giocatori del calibro di Boban, Suker e Mijatovic e ingiustamente eliminata ai quarti del mondiale di Italia ’90, quella squadra – che alcuni ribattezzarono “ il Brasile d’Europa” – era pronta a cogliere un grande risultato. Avrebbe potuto vincere quell’Europeo? Probabilmente sì, ma la domanda restò lì, sospesa a mezz’aria, senza risposta poiché – scoppiata la guerra nei Balcani – la squadra jugoslava venne esclusa dalla competizione e sostituita dalla seconda classificata del suo girone. Quest’ultima, la Danimarca, si aggiudicò il torneo, battendo in finale con un secco 2-0 la Germania di Andreas Brehme e Jürgen JUGO CALCIO3Klinsmann. Un segno del destino? L’ironia della sorte? Più giusto dire, forse, che la realtà tragica del conflitto fece – tra le prime vittime – anche quella del sogno balcanico di una squadra che, raggiunto l’apice della maturità, praticamente sul più bello, si vide cancellare di colpo ogni sogno e qualsiasi prospettiva. A quei giocatori, ricchi di estro e genialità , era stata affiancata un’organizzazione solida e rigorosa. Insomma, gli “slavi del Sud” avevano in mano le carte giuste per fare il botto e vincere. Il botto,invece, lo fecero le bombe, i tonfi dei mortai, le fucilate secchedei cecchini, il crepitio delle scariche di mitraglia. Il sogno di gloria di quei ragazzi in maglia blu finì sotto le macerie e oggi, ciò che resta del calcio  slavo è senz’altro dignitoso e rispettabile ma ha poco a che vedere con il talento e la forza di  quella squadra , in grado di regalare concrete emozioni e promettere gloria e successi. E’ questa la storia che Carelli racconta, rammentando a tutti che c’è stato un tempo in cui anche l’Europa aveva il suo “Brasile”.

Marco Travaglini

BORSEGGI E MOLESTIE. UN NUMERO TELEFONICO DELLA POLIZIA MUNICIPALE

polizia civich2Entrerà in funzione martedì 14 giugno e sarà attivo tutti i giorni dalle 7.30 alle 23.30 lo 011/011.30000, sportello telefonico del nucleo di Polizia Giudiziaria dei Vigili Urbani

Si tratta di un nuovo servizio rivolto a tutti, in particolare alle fasce più deboli della nostra città, obiettivi di reati odiosi. Il centralino dà assistenza e supporto in modo particolare alle persone più anziane, particolarmente prese di mira nei tentativi di truffa, nei borseggi e nelle molestie.
Il contatto immediato con gli operatori consente di raccogliere tutte le segnalazioni e le denunce-querela che potranno essere formalizzate nella sede del Comando, in via Bologna, 74 oppure raccolte dagli stessi agenti della Municipale direttamente a domicilio.
 

(foto: il Torinese)

“Piccolo Alpino”, la Grande Guerra nella letteratura per ragazzi

ALPINO PICCOLO 2“La mattina del 24 dicembre 1914, un piccolo gruppo di persone saliva su per la strada del Gran San Bernardo. Quelle persone erano il signor Michele Rasi, bell’uomo forte e robusto, di una quarantina d’anni, la signora Ebrica sua moglie e suo figlio Giacomino, un ragazzetto di dieci anni, bruno, tozzo, coraggioso camminatore”. Così inizia Piccolo Alpino di  Salvator Gotta. Un libro che il regime fascista immaginò  come romanzo ideale per la formazione dei giovani italiani, vedendo in quelle pagine il segno di tutti i valori patriottici che il fascismo gonfiò a dismisura negli anni successivi alla Grande Guerra:l’amore per la Patria, l’abnegazione e lo spirito di sacrificio – nel caso di specie, da parte del giovane Giacomino –  per una causa sofferta, lo spirito di solidarietà fra i soldati italiani e, dulcis in fundo, una breve parentesi dedicata al Re. In realtà, queste furono valutazioni fatte in seguito. Il romanzo non fu certamente scritto con lo scopo di esaltare il fascismo, dato che uscì nel 1926, ma fu già abbozzato dall’autore in precedenza, sulle trincee del Carso. Salvator Gotta, tornato dalla guerra, a cui aveva partecipato come ufficiale di artiglieria, scrisse – traendo ispirazione dall’esperienza al fronte –  il suo romanzo più ALPINO GOTTAamato. In un’Italia dov’era ancora vivo e dolente il ricordo della Grande Guerra, le disavventure del piccolo Giacomino che, rimasto senza famiglia viene adottato dagli Alpini e con loro combatte nelle trincee del Carso, ebbero subito un grande successo. Il Piccolo Alpino diventò un simbolo nazionale, un affascinante racconto d’altri tempi che, attraverso il fedele ritratto di un periodo così drammatico della nostra storia, rimase nei cuori di intere generazioni. Un libro che in tanti, superati da un pezzo i cinquant’anni, abbiamo avuto occasione di leggere. Salvator Gotta pagò nel dopoguerra la sua aperta adesione al regime, riconducibile più che altro alle opere successive da lui scritte. Lo scrittore piemontese, nato nel Canavese, a Montalto Dora, nel 1888, e morto a Portofino nel 1980,  a 92 anni, entrò giovanissimo nel mondo della letteratura e del giornalismo. Nel 1915, si arruolò ALPINO PICCOLOvolontario fra gli alpini per combattere al fronte. Tornato dalla guerra, tornò a penna e carta, non solo scrivendo il Piccolo Alpino ma, aderito al fascismo, legò il suo nome  al regime come autore delle parole dell’ex-inno degli Arditi poi usato anche dai fascisti: “Giovinezza”. Continuò a scrivere, anche nel dopoguerra, romanzi di evasione. Divenne popolarissimo tra gli adolescenti negli anni ’60 e ’70 perché teneva una rubrica di domande e risposte sul settimanale a fumetti Topolino ( tra l’altro, in una puntata della rubrica, rivelò di essere stato tra coloro che rinvennero il corpo di Emilio Salgari, suicidatosi il 25 aprile del 1911 a Torino) e per i suoi romanzi storici sul Risorgimento. Rileggendo il Piccolo Alpino, in questi tempi di celebrazioni sulla Prima guerra mondiale, comunque lo avessimo amato, si presenta ora – novant’anni dopo la sua uscita –  come un utile esercizio storico per chi voglia analizzare il costume  dell’epoca e la retorica che ne scaturiva, sbirciandolo dallo spioncino dell’ infanzia.

Marco Travaglini

Cresce la produzione industriale, ma aumenta anche la cassa integrazione: +14,5%

OPERAIO LAVOROSale nei primi tre mesi del 2016 la produzione industriale in Piemonte, registrando un +2,2%. In crescita quasi tutti i settori e le province, in particolare le industrie elettriche ed elettroniche (+8,9%) e il Verbano Cusio Ossola (+8,4%). I dati sono stati diffusi da Unioncamere in collaborazione con Confindustria Piemonte, Intesa Sanpaolo e UniCredit. Sono state rilevate 1.259 imprese manifatturiere piemontesi, per un totale di 94.938 addetti e un valore di oltre 54 miliardi di euro di fatturato. Nel  primo trimestre 2016, tranne le imprese della provincia di Asti, in sostanza stazionarie,  (-0,5%), tutte le realtà territoriali hanno registrato incrementi della produzione industriale. La performance più significativa è stata realizzata, dal Verbano Cusio Ossola (+8,4%). Poi le province di Alessandria (+4,5%), Vercelli (+3,1%), Biella (+2,6%), Cuneo(+1,9%), Torino e Novara (+1,3%).

Invece nel primo quadrimestre in Piemonte la richiesta di cassa integrazione è stata pari a 39.029.755 ore, in crescita del 14,5% rispetto all’anno prima (-52% ordinaria, +70,1% straordinaria, -80,6% deroga). I lavoratori coinvolti sono stati, mediamente, 57.397,  7.275 unità  in più rispetto al primo quadrimestre 2015. Torino, con 31.447.524 ore richieste, si conferma provincia più cassaintegrata d’Italia, seguita da Roma (18.464.229 ore) e Milano (10.530.867 ore).La nostra è al 2/o posto tra le regioni, dopo la Lombardia.

SOTTOPASSO MARONCELLI, APPROVATO IL PROGETTO

E’ stato approvato dalla Giunta Comunale, su proposta dell’Assessore alla Viabilità e Infrastrutture della Città di Torino, nella seduta di oggi, il progetto di fattibilità tecnica ed economica per il sottopasso della Rotonda Maroncelli.

maroncelli sottopasso

Il nuovo sottopasso ha l’obiettivo di decongestionare uno dei più trafficati nodi cittadini situato all’incrocio tra i corsi Maroncelli, Unità d’Italia e Trieste, sul confine con Moncalieri.

Questa nuova opera, disposta sull’asse nord-sud, è stata infatti progettata per separare i due flussi di traffico che percorrono c.so Unità d’Italia – c.so Trieste e c.so Maroncelli, in modo tale da alleggerire e velocizzare l’ingresso e l’uscita verso le zone a sud della Città.

Il tunnel, al di sotto dell’attuale rotonda Maroncelli, avrà una lunghezza di 75 metri con due rampe di accesso e uscita sulla direttrice di c.so Unità d’Italia – c.so Trieste di circa 140 metri.

Completati i lavori, sulla superficie verrà mantenuta l’attuale viabilità con la rotatoria nella zona di incrocio e con la presenza di una corsia per senso di marcia nel tratto di c.so Unità d’Italia – c.so Trieste interessato dalle rampe del sottopasso.

Per tutta la durata dei lavori sarà comunque sempre garantita la percorribilità veicolare dei tratti dei corsi Unità d’Italia, Trieste e Maroncelli con momentanee deviazioni della circolazione veicolare.

www.comune.torino.it

“La fragilità della farfalla”

LIBRO SALONE

Ambientato nell’Irlanda settecentesca delle leggi penali

La scrittrice casalese Maura Maffei presenta venerdì 8 aprile alle ore 21, alla libreria Belgravia in via Vicoforte a Torino, il libro “La fragilità della farfalla” scritto con Ronan O Lorcain, L’autrice dialogherà con la saggista Silvia Scaranari Introvigne. Il romanzo, uscito pochi mesi fa per i tipi di 45° Parallelo è ambientato nell’Irlanda settecentesca delle leggi penali.

Massimo Iaretti

 

Rubare l’erba, omaggio alle radici contadine

Molti nuclei, oggi disabitati, offrono ancora esempi notevoli di quell’ architettura alpina riconoscibile nei tetti in paglia di segale. Roaschia è stata a lungo la patria di generazioni di famosi pastori transumanti, costretti a spostarsi continuamente dal monte al piano

ERBA2

Marco Aime, antropologo e scrittore, con “Rubare l’erba” – piccolo, prezioso saggio –  ha reso omaggio alle sue radici, a quella civiltà contadina cuneese che ha sempre saputo ascoltare il respiro della terra e delle stagioni. La sua famiglia, infatti, è di Roaschia, piccolo paese situato nel fondovalle dell’omonimo vallone laterale alla destra del torrente Gesso, a 820 metri sul livello del mare, in mezzo a montagne costellate di frazioni (i roaschini si distribuivano nel passato in ben 52 frazioni intorno al paese). Un paese, con le sue viuzze strette e i cortili aperti , eccezionale per il fresco d’estate ma temibile per il freddo d’inverno. La popolazione, per tradizione, si era sempre divisa in due tra pastori (gratta) e stanziali (üvernenc). In una valle povera , stretta, scarsamente illuminata dal ERBA5sole, terra di pastori e contadini, Roaschia aveva nel 1911 duemila abitanti mentre  oggi ne conta si e no centocinquanta, la maggior parte di essi ha superato i settant’anni. Molti nuclei, oggi disabitati, offrono ancora esempi notevoli di quell’ architettura alpina riconoscibile nei tetti in paglia di segale. Roaschia è stata a lungo la patria di generazioni di famosi pastori transumanti, costretti a spostarsi continuamente dal monte al piano in cerca di quei pascoli che in paese non bastavano mai, dove l’agricoltura si poteva praticare soltanto a livelli di sussistenza e da dove – per sopravvivere – bisognava necessariamente imboccare le strade e le vie del mondo. E così c’erano i “cavié” (commercianti di capelli)e gli “anciuè” (i venditori di acciughe), i quali entrambi a piedi o con un carrettino se ne andavano in giro, spingendosi verso la pianura o a volte sino al mare, comprando e rivendendo. Ma soprattutto c’erano i pastori di pecore e transumanti, ed è a loro che Marco Aime, che ha trascorso in questo paese a venti chilometri da Cuneo lunghi periodi della sua infanzia e della sua adolescenza, dedica questo libro. Il paese, i suoi abitanti e gli alpeggi sono parte della sua storia. Quindi, non solo perché di mestiere fa l’antropologo, in questo libro racconta con una partecipazione diretta, intensa e dal sapore antico di questa terra e della sua gente, dei pastori e della transumanza, un rito ormai del tutto scomparso, gente migrante, a volte costretta a “rubare l’erba” per dar da mangiare alle pecore, che si sposava, lavorava, partoriva e moriva in viaggio, senza un tetto sopra la testa. “Partivano. La gente di queste parti è sempre partita“. Così, i  ricordi di Toni e Margherita, un anziano pastore e sua moglie, fanno rivivere la loro storia nel contesto del  Piemonte rurale di oltre mezzo secolo fa. Pastori, acciugai, venditori di capelli, uomini perennemente in viaggio: Marco Aime si chiede se abbia senso parlare di “radici“, quando esistono “terre dove vivere è un lusso che non ci si può concedere sempre“, quando si è costretti a fuggire dal proprio villaggio per scampare alla povertà, per sopravvivere. Eppure, dice “ continuiamo a pensare che il nomade, il randagio, il bastardo, sianoERBA3 l’eccezione, e che il sedentario sia la norma”. La vita del pastore, segnata dall’universale diffidenza che i sedentari covano per i migranti di ogni tempo e luogo, diventa l’emblema – e la guida – di tutte le nostre peregrinazioni: “È quello il suo sapere, uno dei saperi del pastore, che tu non sai: conoscere la strada, trovarla sempre“. Un libro che rivendica quasi il bisogno di essere letto, per conoscere una vita difficile fatta di silenzi e di solitudine, ma anche piena di scoperte e di conquiste. Quando Aime ci accompagna a Roaschia ( “il paese dai cinque cognomi e dai due mestieri: contadino e pastore”) lo fa per esercitare un diritto di conoscenza e un dovere di memoria. D’inverno, i contadini, restavano in paese mentre i pastori dovevano partire, caricando su un carro i pochi beni e mettendosi in strada, con tutta la famiglia. Poche cose, ad accompagnarli, sul carro: un baule, con gli abiti più belli, quelli “della festa” – perché sia per un matrimonio o in occasione di un funerale bisogna vestirsi con decoro -; il sacco con i vestiti di tutti i giorni, quello con le patate per nutrirsi, i materassi e un po’ di spazio per gli agnelli nati da poco e ancora incapaci di camminare. È così ogni anno, quando l’inverno si avvicinava, in viaggio verso le nebbie della pianura , sempre attenti ai proprietari che difendevano i beni attraversati dal gregge. “La vita era faticosa, se ci penso non mi sembra nemmeno vero che ho fatto quelle cose. Comunque l’abbiamo attraversata” afferma Toni, grattandosi la testa. “Attraversata, perché per Toni e Margherita e per tutti i pastori come loro – scrive l’antropologo Aime – la vita è come una terra, non ci si siede a guardarla, ad attendere che dia qualcosa. La si attraversa”.

Marco Travaglini

“Il Sancarlone” di Arona e l’irriverente Piero Chiara di “Sotto la sua mano”

Per costruire la statua – alta poco più di 23 metri , appoggiata su di un piedistallo di granito dell’altezza di quasi dodici metri, seconda per altezza solo alla Statua della Libertà – furono  richiesti 84 anni di lavoro

sancarlone2

Il 19 maggio del 1698 il cardinale Federico Caccia, arcivescovo di Milano, diede la solenne benedizione al Colosso di San Carlo Borromeo ( conosciuto anche come il Sancarlone o, nel dialetto locale al Sancarlòn), sulla collina del Sacro Monte San Carlo, ad Arona, sul lago Maggiore. Per costruire la statua – alta poco più di 23 metri , appoggiata su di un piedistallo di granito dell’altezza di quasi dodici metri, seconda per altezza solo alla Statua della Libertà – furono  richiesti 84 anni di lavoro. Un’impresa che mise alla prova il talento e la pazienza degli scultori Siro Zanella di Pavia e Bernardo Falconi di Bissone che operarono, con tutti gli aiutanti, sul disegno di Giovanni Battista Crespi, detto “il Cerano”. Un’opera mastodontica, realizzata su un’anima in muratura con lastre di rame battute a martello e riunite utilizzando chiodi e tiranti in ferro, eretta in memoria di San Carlo Borromeo che era nato nel 1538 proprio lì vicino, alla Rocca di Arona.  Quello che da molti viene sancarlone 3considerato tra i massimi riformatori della chiesa cattolica nel XVI secolo,  assieme a Sant’Ignazio di Loyola ed a San Filippo Neri, diventato vescovo e cardinale a ventidue anni, fu eletto cinque anni dopo, giovanissimo, arcivescovo di Milano e si prodigò nell’assistenza materiale e spirituale soprattutto in occasione di flagelli quali carestia e peste. Morì a quarantasei anni, il 3 novembre 1584 (secondo l’uso del tempo, essendo spirato dopo il tramonto, si considera il giorno quattro), fu beatificato nel 1602 e canonizzato nel 1610, a soli 26 anni dalla morte. Il cugino Federico Borromeo, anch’esso arcivescovo dell’arcidiocesi meneghina, più volte citato dal Manzoni ne “I promessi sposi” ( “Fu degli uomini rari in qualunque tempo, che abbiano impiegato un ingegno egregio, tutti i mezzi d’una grand’opulenza, tutti i vantaggi d’una condizione privilegiata, un intento continuo, nella ricerca e nell’esercizio del meglio”) , insieme a Marco Aurelio Grattarola, supervisore dei lavori del Sacro Monte, vollero che l’enorme statua fosse ben visibile dal lago Maggiore. Con il braccio destrosancarlone leggermente teso, benedicente.  E così fu. L’opera era, per altezza, tecnica e materiali utilizzati, in qualche modo simile al mitico Colosso di Rodi, enorme statua del dio Helios, situata nel porto della città greca, considerata – da romani ed ellenici, a quell’epoca-  una delle “sette meraviglie del mondo”. Anche quellastatua era alta circa 32 metri e, secondo l’opinione di alcuni storici, la struttura era costituita da colonne di pietra con delle putrelle di ferro inserite al suo interno, a cui venivano agganciate le piastre di bronzo del rivestimento esterno. Il “colosso di Rodi” restò in piedi per quasi settant’anni, fino a che l’isola greca fu colpita da un terribile terremoto  – nel 226 a.C. – che la fececolosso sancarlone crollare. La sua mole , sdraiata e “ferita”,  fu visibile per diversi secoli, come testimoniò Plinio il Vecchio affermando che “anche a terra la statua costituisce ugualmente uno spettacolo meraviglioso. Pochi possono abbracciare il suo pollice, e le dita sono più grandi che molte statue tutte intere”. Smembrata a più riprese e rifusa a pezzi, fu in qualche modo riciclata con varie destinazioni in diversi punti del sancarlone chiaraMediterraneo. Secondo una leggenda, tra queste, figura anche il lago Maggiore, e più precisamente, la cittadina di Arona che, in epoca romana fu luogo di passaggio verso il passo del Sempione. Il Sancarlone, partendo proprio da questa leggenda,  è diventato – suo malgrado – protagonista di un racconto di Piero Chiara. Lo scrittore luinese, in “Sotto la sua mano” , con una fantasiosa narrazione venata di quell’umorismo anticlericale che spesso lo contraddistinse, immaginò che una parte della materia usata per costruire la testa e la mano della statua derivasse dalla fusione del membro virile del Colosso di Rodi, originariamente destinato ad abbellire il giardino di una casa aristocratica in età romana. Chiara, nel racconto, ricostruisce le peripezie della “parte”, che, finita da una grotta di Akka nelle mani chiara2di un antiquario e poi nella residenza sull’Aventino di un procuratore romano, affondò in un prato durante il trasloco a Pallanza, per riaffiorare nel 1692 e completare così – previa fusione che ne cancellò l’imbarazzante e irriguardosa origine – la statua del Santo.  Come da prassi,  il narratore, consapevole di dover maneggiare la storia con cautela, comprensione e una punta d’ironia, avvolse il tutto in una  dimensione d’incertezza, ricorrendo alle  formule prudenziali del “si dice, correva voce, venne riferito”. L’unica cosa certa è che “il Sancarlone” sta lì, sulla collina, da più di trecento anni e c’è sempre parecchia gente che lo visita, salendo le ripide e strette scale attraverso le quali è possibile raggiungere la testa. Gli occhi, le orecchie del gigante e alcune finestrelle che si aprono sulla veste, permettono di ammirare uno stupendo panorama tra le due riviere, quella piemontese fino a Solcio e quella lombarda, da Santa Caterina del Sasso ad Angera.

 Marco Travaglini