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REGOLAMENTO PUBBLICITÁ ELETTORALE 2016

CODICE AUTOREGOLAMENTAZIONE

PER LA PUBBLICITÁ ELETTORALE 2016

SUL QUOTIDIANO “IL TORINESE”

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La Testata Giornalistica www.iltorinese.it comunica che, per le elezioni amministrative 2016, mette a disposizione gli spazi pubblicitari per la diffusione di messaggi politici elettorali, in conformità delle norme dell’Agcom. Tali messaggi devono riportare la dicitura “Messaggio Politico” o “Pubblicità/Messaggio elettorale” e indicare il soggetto politico committente, nell’ambito della legge che regolamenta la vendita degli spazi pubblicitari per propaganda elettorale e nel rispetto delle Delibere adottate dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni della Repubblica Italiana.

  •  Gli spazi di propaganda saranno offerti a tutti i partiti, a tutte le liste e a tutti i singoli candidati che ne facciano richiesta;
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I lettori: "Giardini reali? Belli ma spogli, c'è molto da fare"

Qual è l’opinione dei torinesi sui rinnovati Giardini Reali? Ecco alcuni dei commenti apparsi nel sondaggio sulla nostra pagina Facebook

giardini reali3
Giovanna Pistilli
Giovanna Pistilli Sicuramente c’è ancora molto da fare per restituirli nella loro bellezza , ma meno male che i lavori hanno avuto inizio e che quello spazio bellissimo sia ridato alla città. Chi si lamenta oggi non avrà sicuramente visto lo stato di abbandono e degrado in cui si trovavano prima della riapertura!! Che ci aiuti anche la primavera….

Anna Maria Patruno
Anna Maria Patruno Sono ancora da finire i lavori e penso che con un po di fiori e il sole tutto sara più bello

Laura Ferrero Merlino
Laura Ferrero Merlino Ciao ,propongo a tutti di portare un vaso con una piantina fiorita( esem. da 2 euro), come si fa di solito nei cimiteri
Marina Identi
Marina Identi Non mi sono piaciuti…mi aspettavo di più e comunque c’è ancora tanto da fare….

 
Alberta Vai
Alberta Vai Visitati oggi mi hanno deluso tanto sarà che non c’era il sole ma….. 

Lucetta Pollone Non ci sono stata … però mi fa male sentire solo critiche sarei più per valorizzare le nostre cose anche se alle volte forse non lo meritano impariamo ad amarle ugualmente dobbiamo essere noi torinesi a portarle in alto e darle importanza .. grazie

 
Lorenza Bracchi si,sono solo spogli,speriamo nella fioritura in primavera.

Mauro Giammanci
Mauro Giammanci Secondo me è sempre la stessa cazzata che sono stati more stati la città è allo sbando tracolma di marocchini fa veramente schifo Fassino se ne sbatte di Torino da quando è sindaco non ha organizzato nessun evento in città x portare soldi e non ha mai neanche bloccato mai il traffico ne alterne ne niente e infatti ti basta stare una giornata fuori città e al rientro ti ACCORGI DI COME PUZZA DI GAS DI scarico bye bye Turin Di 20 anni fa bye bye

Enrico Bertoglio
Enrico Bertoglio Incompleti e spogli

Caterina Lofaro
Caterina Lofaro Fanno proprio schifo una presa in giro a noi torinesi e non!!!!!!

Maria Taretto
Maria Taretto Delusione !!!

Tammy Esse
Tammy Esse Non piaciuti

Claudio Tizzone
Claudio Tizzone Nessuna parola. Solo turpiloqui.

Angela Pirosa
Angela Pirosa Bello!!

Anna Alvarez
Anna Alvarez Meravigliosa.

Noemi Nila Polacco
Noemi Nila Polacco stupendi

Tiziana Porta Ezio Munarin
Tiziana Porta Ezio Munarin Ma

Tiziana Porta Ezio Munarin
Tiziana Porta Ezio Munarin Giardini ?

Al Museo Nazionale della Montagna " Semplicemente famiglia rurale"

L’essenza della vita quotidiana di alcune famiglie rurali narrata attraverso gli scatti di Moreno Vignolini

famille-rurale montagna

Raccontare l’essenza della vita quotidiana delle famiglie rurali, fermare nel tempo per fotogrammi tanto i loro momenti più privati quanto quelli più strettamente lavorativi, per spiegare tramite fermo-immagini la decisione di ritornare ancora oggi alla terra, è alla base del progetto fotografico “Tout simplement…Famille rurale”, realizzato da Moreno Vignolini con il patrocinio di Cipra Italia, in esposizione al Museo Nazionale della Montagna di Torino dal 18 marzo scorso fino al 29 maggio prossimo.

Il fedele obiettivo di Vignolini ha seguito tre giovani famiglie rurali tra l’estate 2013 e l’autunno 2014 con l’intento di illustrare al visitatore della mostra in maniera più ampia possibile quel modello di “famiglia rurale” non solo tornato di attualità, ma addirittura in continua crescita negli ultimi anni.

E’ attraverso i volti di Ruben e Roberta, con il loro allevamento caprino e la loro produzione di formaggi, quelli di Davide e Sylvie, dediti al loro allevamento bovino, e infine quelli di Elisa e Davide, visti nella loro fattoria didattica, nel loro agriturismo e produzione da piccoli frutti, che Vignolini mostra quanto sia innovativo il modo di queste giovani famiglie di rapportarsi al territorio e alle sue risorse, pur seguendo il filo di una lunga tradizione agro-pastorale.

E’ ponendosi al loro fianco, sia nelle lunghe giornate di lavoro sia nei momenti di quotidianità familiare, che Vignolini racconta per immagini quanto la scelta di ritornare alla terra, pur in assenza di una tradizione familiare alle spalle, rappresenti non tanto una voglia di ritorno al passato, quanto un desiderio di futuro, di “..mangiare il futuro!”, come dice lo stesso Vignolini che, parlando della sua opera, spiega: “..Sono tasselli silenziosi, operosi, nascosti, con una gran voglia di fare, che è importante sostenere. Certo ogni azienda è una storia a sé, una storia fatta di impegno, sacrificio, amore, passione, tenacia, sogni realizzati e sogni in divenire … per ora ho scelto di raccontarne tre, non mi dispiacerebbe con il tempo riuscire a raccontarne altre, in altri territori, per delineare storie di contesto alpino”.

Tutto ciò è lì, fermato in quei 50 scatti in bianco e nero e nei pannelli descrittivi che li accompagnano, fornendone al visitatore una chiave interpretativa bilingue (italiano-francese), edita da Testolin Editore.

Una panoramica ancor più ampia del lavoro è data dall’esposizione, oltre ai 50 scatti della mostra, di immagini aggiuntive, scattate nello svolgimento del progetto, capaci di fornire una visione ancor più completa della vastità del lavoro, grazie anche ai testi di Lorenza Bravetta e di Federica Corrado, che arricchiscono e completano l’accuratezza dell’intero progetto.

Stefania Tagliaferro

 

VITA E MORTE DI CRISTO secondo Federico Gozzelino

gozzelinoGiovedi Santo, 24 marzo, alle ore 21 presso il Museo Borgogna in Vercelli le note della composizione The mystical story of Christ

Chi ha mancato l’appuntamento di domenica 20 marzo all’Accademia Le Muse in Casale Monferrato avrà modo di rifarsi Giovedi Santo, 24 marzo, alle ore 21 presso il Museo Borgogna in Vercelli per apprezzare le note della composizione The mystical story of Christ di Federico Gozzelino, vercellese di nascita ma casalese a tutti gli effetti. L’evento ha rappresentato la composizione, di chiaro stampo post-moderno, che il Maestro, ispirato da alcuni passi dei Vangeli, dedica a vita e morte di Cristo.   Il periodo, si osserverà, è sicuramente consono alla rievocazione di passi evangelici in un percorso mistico che rievoca la Pasqua; e la forma post-moderna, con il ritorno alla melodia, è quanto mai attuale per verificare il superamento di quel che nel ‘900 hanno scandagliato ed elaborato musicisti come Schoenberg e Stravinskij, o come gli italiani Nono e Berio. Il percorso dei citati, sicuramente di respiro europeo, non poteva certo considerarsi il più adeguato per coniugare musica e parola. Ecco quindi l’evoluzione verso il genere, che è contraddistinto dall’aggettivo post-moderno, in cui pur senza giungere ad un contesto squisitamente melologico si fa ricorso alla coniugazione della musica con la parola, con il testo. Federico Gozzelino in questo è autenticamente Maestro: attraverso la musica che evidenzia testi poetici profani, da Federico Garcia Lorca a Jacques Prevert, da Alda Merini a David Maria Turoldo, oppure passi ed episodi che vanno dal mistico al sacro, evoca delle immagini. C’è calore e colore mediterraneo nella sua musica, suggestione e profumo di ambienti certamente europei. E, se vogliamo scomodare il grande Marshall Mc Luhan, possiamo convenire che è musica che si può vedere con l’orecchio e ascoltare con l’occhio. Sembra un’osservazione paradossale a livello di sensi. Non lo è di certo. Come non lo è la considerazione che, ritornando alla melodia, il cuore della musica post-moderna sia antico. Con il ritorno alla melodia, e il ricorso alla parola recitata la tradizione non è tradizionalista; nel linguaggio è semmai innovazione, adeguamento al tempo che si vive, ricerca nella semplicità tonale di note che proiettano luce in questo momento storico sconsolatamente confuso e oscuro. Lo si può fare anche ispirandosi ad episodi che nella tradizione, nella liturgia   vengono mantenuti in vita da ricorrenze storiche e non solamente mnemoniche.  Silvia Belfiore al pianoforte e Alberto Raiteri come voce narrante hanno realizzato un connubio che ha dato vita ad un oratorio di sublime intensità, prodigandosi in una interpretazione di alto livello, molto partecipata dall’attento pubblico presente.

Andar di frodo, oltre il confine, in barba alla frontiera

Un “sfrusadur” è colui che praticava il mestiere dell’andar di frodo  (“ da sfroos”, nel nostro dialetto sui laghi ), grazie al contrabbando. Rinaldo è stato una specie di “teorico” della materia. Ricordo ancora quella volta che mi tenne una specie di “lezione”. La parola già ti dice tutto. Cosa significa,  “contrabbando” se non contravvenire al “bando”, cioè alla legge che esige un tributo minacciando una pena?

contrabbando lago svizzera

“E’ l’esistenza stessa di un confine e dei  vincoli  per attraversarlo che è sempre suonata, nella mia testa, come un invito a  fregarmene, a farli fessi, insomma a  frodarli. Vedi…quando  chi esercita un potere, qualunque esso sia, decide che per andare  da una parte all’altra di un territorio, è necessario pagare un prezzo, io sto con quelli che s’ingegnano ad  escogitare  il sistema di passare senza pagare un bel niente. E’ una questione di principio e di libertà”. Ribelle e poco incline alle regole, Rinaldo è stato anche uno dei tanti “sfrusit”. Un “sfrusadur” è colui che praticava il mestiere dell’andar di frodo  (“ da sfroos”, nel nostro dialetto sui laghi ), grazie al contrabbando. Rinaldo è stato una specie di “teorico” della materia. Ricordo ancora quella volta che mi tenne una specie di “lezione”. “La parola già ti dice tutto. Cosa significa,  “contrabbando” se non contravvenire al “bando”, cioè alla legge che esige un tributo minacciando una pena? E allora, noi contrabbandieri realizzavamo un guadagno  violando la legge. Ad una condizione, ovviamente. Che il ricavo fosse tale al punto che il costo del passaggio del confine della merce fosse inferiore al prezzo che si pagava praticando le vie legali. Alla faccia del dazio e delle gabelle, capisci? “. Se obiettavo che era, dopo tutto, qualcosa di illegale e che lui ed i suoi amici erano, nei fatti, dei fuorilegge, si metteva a ridere.“Ma va là. Non dire stupidagini. Noi, ilago svizzera contrabbandieri fuorilegge?  Guarda che il contrabbando è una forma di   ribellione alle imposizioni. Eravamo un po’ come dei Robin Hood ed i canarini della Finanza sembravano  gli sgherri del sceriffo di Nottingham”. Quando parlava del “confine”, s’illuminava. Era stato il teatro naturale delle sue gesta da contrabbandiere e si capiva che , in fondo, l’aveva fatto più per l’avventura che per il guadagno. Quando capitava di trovarci, soprattutto nelle serate d’inverno, al caldo  dell’Osteria dei Gabbiani, davanti ad una bottiglia di vino, mi raccontava, le “regole” del mondo degli “sfrosit” .“ Devi sapere che spesso capitava che contrabbandieri e guardie di confine si trovassero nella stessa osteria prima di “andare al lavoro”, e  devi sapere anche che le guardie non avevano “le fette di salame sugli occhi” ma, consapevoli che i loro paesani erano costretti per fame a fare un viaggio pericoloso sui sentieri di montagna o sulle barche,  chiudevano spesso un occhio e, a volte,  anche tutti e due. In quel caso lasciavano che noi spalloni attraversassimo il confine, limitandosi a sequestrarci una parte della merce, segnalando sul rapporto che era stata confiscata ad ignoti.  A volte eravamo noi stessi a consegnare alla Finanza una piccola parte del carico, ma solo per salvare il resto”. Mi racconta di come ilbisogno aguzzasse l’ingegno. Addirittura, sul lago di Lugano,  avevano sperimentato un piccolo, rudimentale sommergibile a pedali che viaggiava giornali svizzerasott’acqua :il “sigaro del Ceresio”. Era il 1948 e veniva usato per trasportare merce di contrabbando attraverso il lago. Tre mesi di “servizio”, tre viaggi al giorno per quasi tre quintali di merce a viaggio. Poi, nel novembre di quell’anno, a Porlezza, sulla sponda comasca, il “sigaro” –che andava avanti indietro – portando roba di qua dal confine ed “esportando” in Svizzera riso, carne ed alcolici, l’hanno beccato, sequestrandolo. Risalendo la nostra “quota parte” di catena alpina , tra la Valle Anzasca ed il passo di Gries, per poi scendere fino alle rive del lago Maggiore, attraversando le valli Vigezzo e Cannobina, erano ben 36 i colli e canaloni di confine frequentati,più o meno  assiduamente, dai contrabbandieri. E non erano certamente incustoditi. Lo stesso valeva per le sponde dei laghi “confinari”, come il Maggiore e il Lario, quello di Como. Per farsi un’idea basterebbe leggere il rapporto di un ufficiale al comando del IV° Circondario Svizzero, dove risulta che nel 1935 ,tra il lago Maggiore e il passo di Nufenen -il passo della Novena-,  sul versante italiano del confine, erano schierate ben 579 tra guardie di finanza e militi confinari e su quello svizzero 159 guardie doganali. Ma la fonte principale era sempre Rinaldo che, davanti ad un bicchier di vino,aveva la lingua sciolta e s’appassionava nel raccontare.“Nel contrabbando, oltre a quello del sale che ci porta indietro nella notte dei tempi, si possono distinguere tre periodi che prendono il nome dalle merci che andavano per la maggiore:  dalla seconda metà dell’ottocento fino al primo dopoguerra troviamo il periodo del caffè , poi c’è stato quello del riso che copriva gli anni della seconda guerra mondiale ed un terzo , quello delle sigarette e del tabacco,  che è durato dagli anni ’50 fino a poco dopo gli anni ’60. A dire il vero c’é stato anche il periodo della Resistenza e dell’opposizione al fascismo quando, insieme alle bricolle da trenta e piùlago svizzera contrabbando chili portate in spalla, molti dei nostri “sfrosit” diventarono anche dei “passatori”, aiutando ebrei,antifascisti e militari alleati a superare quella frontiera Elvetica che equivaleva alla salvezza”. Le “fasi del contrabbando” , com’era facilmente intuibile,prendevano il nome dal tipo di merce che “passava” la frontiera: caffè, riso, sigarette ma anche saccarina, dadi, cioccolata, zucchero, orologi, tabacco sfuso,  cartine per sigarette, accendini , scarpe, liquori,  stoffe, calze di nylon e tutto quello che veniva richiesto sul mercato di entrambe le nazioni. Con tutti i rischi del caso. Si correvano i pericoli sui sentieri percorsi di notte, quando le nubi  si mangiavano le stelle: bastava mettere un piede in fallo e si finiva giù, negli strapiombi. Dal tardo autunno a inizio primavera, in quei lunghi inverni, capitavano delle bufere di neve con tremende slavine che hanno seppellito molta gente. Sul lago, invece, si remava nelle notti senza luna, meglio ancora se c’era un tempo da lupi, a volte dentro a tempeste che strappavano preghiere e maledizioni. C’erano anche le sparatorie e  si contavano in quel caso feriti ed anche caduti sotto il piombo della guardia confinaria. Ma il rischio più frequente era il sequestro delle merci con annessi sei giorni di galera  ed una salatissima multa che poteva variare dal doppio fino a dieci volte il valore della merce sequestrata, nonché –  durante i periodi bellici – l’arruolamento forzato. Chi non aveva i soldi per lago svizzerapagare la multa scontava un  ulteriore giorno di carcere ogni 10 lire di ammenda. Se erano in due potevano rischiare sei mesi di prigionia per espatrio clandestino,  che salivano a cinque anni nei casi di recidiva e quando  venovano “pizzicate” più di tre persone insieme. Ma la vita su questo pugno di terra e acqua tra Italia e Svizzera era così e l’aria, il vento, il lago e i contrabbandieri non badavano alle pietre che segnavano il confine. “Ora, dai. Allungami un po’ di foglia di Brissago”. Rinaldo si è sempre di
vertito un mondo  nel rivolgermi parola usando il linguaggio degli sfrosadori. Condividendo un’attività che richiedeva complicità e segretezza, lui ed i suoi “soci”  parlavano in “codice”.Quando  “commerciavano” in  “ossa di morto” si riferivano allo zucchero. Il “coniglio bianco” era la  saccarina e le “bionde” le sigarette, mentre per “foglie di Brissago” s’intendeva il tabacco. Dalla manifattura tabacchi del paesino ticinese, appena oltre confine, dove lavoravano centinaia di donne, uscivano dei sigari straordinari ed un tabacco dall’aroma inconfondibile che – nei giorni di vento – passava allegramente il confine senza per questo pagar dazio. Con le “bricolle” in spalla e le pedule ai piedi, organizzati in “combriccole” guidate da un caposvizzera lago al servizio di un “impresario”, i contrabbandieri cercavano di fregare le pattuglie dei  “canarini” della Finanza (dal colore giallo del simbolo dell’arma). “Erano bei tempi, caro mio. Tempi di fame e di fatica ma avevamo una gran voglia di vivere. Oggi, invece, sono diventati tutti tristi, un po’ matti, nervosi. Corrono,non sorridono quasi mai, sono sempre ingrugniti, insoddisfatti. Quasi fanno fatica a salutarsi e quando lo fanno, non sembrano nemmeno sinceri. A volte mi viene voglia di mettere ancora in acqua la barca, come ai bei tempi e remare finché non sono al largo per poi stendermi sul fondo e stare lì, tra l’acqua e il cielo, a farmi cullare dalle onde”.

Marco Travaglini

 

Egitto-Pompei parte il 5 marzo al Museo Egizio con 300 meraviglie

egizio llbandiere egizio 2Protagonisti gli affreschi della Casa del Bracciale d’oro di Pompei

Inizia a Torino, con una importante mostra  dal 5 marzo nel Museo Egizio, Egitto-Pompei, la grande rassegna che mesi successivi coinvolge anche gli scavi campani.

Protagonisti gli affreschi della Casa del Bracciale d’oro di Pompei, con la ricostruzione di tre grandi tombe complete del loro corredo, oltre a pitture, vasellame, sculture.

Più di 300  capolavori per raccontare il fascino che l’Egitto esercitava sulla nostra cultura fin dall’antichità.

 

(Foto: il Torinese)

Alleati confusi? Molinari: "La Lega può correre anche da sola"

salvini giavenolega 23La Lega Nord Piemont organizza per questo fine settimana l’inizio della campagna elettorale con una serie di gazebo sotto la Mole e a Novara
 

Il nuovo segretario leghista del Piemonte, Riccardo Molinari va all’attacco: “Siamo stanchi di aspettare i comodi dei nostri alleati che non rispettano i patti”. La lega intende ” dare ai torinesi e ai novaresi un’alternativa credibile di governo e se le cose non cambiano siamo pronti e determinati ad andare da soli”. Così la Lega Nord Piemont organizza per questo fine settimana l’inizio della campagna elettorale con una serie di gazebo sotto la Mole e a Novara per spiegare ai cittadini che se la coalizione non funziona, il Carroccio ” un programma e un candidato sindaco per le due città li abbiamo”. E cioè Fabrizio Ricca, capogruppo della Lega in sala Rossa a Torino, e Alessandro Canelli a Novara.

Un libro per raccontare le persone del "miracolo olimpico"

STADIO OLIMPICO BRACIEREpalaolimpic2olimpico arco ‘Quelli che costruirono i Giochi’, un racconto inedito scritto da Loris Gherra e Luca Rolandi
 

I Giochi Olimpici  invernali di Torino 2006 non hanno lasciato in eredità soltanto palazzetti sportivi e infrastrutture.

Restano anche le  esperienze e le professionalità, Nel decennale dell’evento che ha cambiato il volto della città esce il libro  ‘Quelli che costruirono i Giochi’, un racconto inedito scritto da Loris Gherra e Luca Rolandi, due dei  giornalisti che tra il 2001 e il 2006 hanno lavorato al Toroc, il comitato organizzatore.

La pubblicazione è edita da Edizioni Effedì, in collaborazione con gli studenti del Master in Giornalismo di Torino. Si propone di ” riconoscere l’impegno di 23.000 persone che ad esso lavorarono: 2.700 dipendenti e collaboratori del Toroc, 97 dipendenti dell’Agenzia Torino 2006, 20.000 volontari. Di questi, oltre settemila hanno proseguito nell’esperienza di volontariato costituendo associazioni ancora operative oggi.”

 
(Foto: il Torinese)

VITTORIO SGARBI: "TORINO E' LA CITTA' PIU' BELLA D'ITALIA, HA IMPARATO A METTERSI IN LUCE"

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INCHIESTA: LA CULTURA A TORINO / 3

Negli ultimi 20 o 30 anni, l’unica città che ha puntato seriamente sulla cultura è stata Torino, mi sento di parlare di un nuovo Rinascimento. Forse questa città è partita troppo presto. E oggi vive ancora sugli allori dell’arte povera. L’arte contemporanea è tuttora una peculiarità di Torino, però, occorrerebbe investire maggiormente sulla caratterizzazione delle varie sedi museali, affidando a ciascuna una sua vocazione. Allargherei la  vocazione  di Stupinigi a tutto l’ambito delle arti applicate, per farne una sorta di Victoria and Albert Museum”

 

Intervista di Alberto Vanelli con Vittorio Sgarbi per IL TORINESE

Negli ultimi anni, Torino è riuscita in gran parte a superare la vecchia immagine stereotipata di “città della Fiat”, scoprendo in sé un’identità nuova, di città culturale. Questa, almeno, è la percezione dei torinesi. Ma qual è l’opinione di chi vede il volto di Torino dal di fuori? Qual è, sul piano culturale, l’immagine di Torino in Italia?

Anche se una persona che conosco ultimamente l’ha trovata un po’ malinconica, io la considero la più bella città d’Italia, sia sul piano dell’urbanistica, sia per quanto riguarda l’ordine delle cose e la capacità di riscatto, dopo il tramonto dell’industria automobilistica. Negli ultimi 20 o 30 anni, l’unica città che ha puntato seriamente sulla cultura è stata Torino. Mi spingo a dire che si tratta dell’unica città italiana che ricorda Parigi. Certo, è meno vitale di Parigi – le abitudini di vita sono quelle che sono – ma il paragone non mi sembra azzardato. Una delle cose interessanti di Torino, poi, è la sua illuminazione. Rispetto ad altre città, che trovo represse, Torino ha imparato a “mettersi in luce”. L’esempio più significativo, in questo senso, è quello delle Luci d’artista, che il sindaco De Luca ha voluto portare anche a Salerno, ma mi riferisco anche all’illuminazione normale, che riguarda piazze e monumenti.

 

Come riassumerebbe, in una parola, la Torino culturale?

Se devo definire ciò che ho visto succedere a Torino negli ultimi 30 anni, mi sento di parlare di un nuovo Rinascimento, che in seguito allo sviluppo dell’arte povera, la grande avanguardia artistica torinese, ha visto la riscoperta della Reggia di Venaria, dell’Egizio, della Galleria Sabauda, di Palazzo Madama, e insieme la moltiplicazione di alcune grandi iniziative culturali: la Fiera del Libro, Artissima, Settembre Musica, il Festival del Cinema, il Salone del Gusto, le mostre. È una città in cui capita sempre qualcosa, e dove una persona curiosa e interessata alla cultura sa di avere degli appuntamenti, in diversi momenti dell’anno.

 

Tutto perfetto, quindi?

Naturalmente no: esistono le potenzialità per fare di più. La pinacoteca Agnelli, per esempio, per il valore che ha, viaggia a basso regime. E anche il castello di Rivoli: un museo straordinario, che meriterebbe un rilancio.

 

L’argomento Rivoli offre lo spunto per una domanda precisa. Vent’anni fa, Torino era uno dei poli mondiali dell’arte contemporanea. E ovviamente lo è ancora: oltre al museo di Rivoli, si possono citare le collezioni della GAM, delle Fondazioni Sandretto e Merz, della nuova Fondazione Fico. E anche le OGR, tra non molto, potrebbero diventare un “luogo” dell’arte contemporanea. Non c’è dubbio, però, che l’arte contemporanea stia vivendo, a Torino, un momento di crisi, che solo la vitalità di una manifestazione come Artissima, con tutti i suoi eventi collaterali, riesce in parte a contrastare. Nella direzione del contemporaneo, intanto, centri come Roma e Milano stanno recuperando posizioni, investendo molte energie e riscuotendo un certo successo. Lei cosa ne pensa?

Forse Torino è partita troppo presto. E oggi vive ancora sugli allori dell’arte povera, nella quale è stata centrale, certo, ma nella quale si è anche fermata. Se dopo l’arte povera non è successo più nulla, è probabilmente perché è venuta a mancare la Fiat. Il senso dell’arte povera stava nella contrapposizione ideologica al mondo del capitalismo e all’industria che, in Italia, ne era il simbolo. L’habitat favorevole all’arte povera era quello del marxismo obbligatorio, dove tutti eravamo di sinistra e non c’era nessun democristiano, anche se la DC vinceva le elezioni. Quella, infatti, era la maggioranza silenziosa. La maggioranza parlante, invece, quella che “contava”, parlava le parole dell’opposizione. La stagione della contrapposizione ideologica, però, a un certo punto, è finita. Già alla metà degli anni ’80, era chiaro che il clima stava cambiando, ed è cambiato definitivamente con l’arrivo di Berlusconi. Le contrapposizioni sono rimaste, certo, ma Berlusconi ha stabilito un’altra polarità: non più la polarità capitalismo/anticapitalismo, ma la polarità spettacolo/politica seria. Per l’arte povera è stata la fine. La chiave di lettura del mondo che ne alimentava l’espressione artistica e culturale, si è spenta con lo spegnimento della Fiat. E oggi, mentre a Torino il peso della Fiat si è ridimensionato enormemente, quella stagione artistica emette gli ultimi fiati…

 

Passando al tema dell’organizzazione museale e delle decisioni da prendere, che cosa si potrebbe fare per rilanciare l’arte contemporanea? Forse le istituzioni dedicate al contemporaneo sono diventate troppe?

L’arte contemporanea è tuttora una peculiarità di Torino. Forse, però, occorrerebbe investire maggiormente sulla caratterizzazione delle varie sedi museali, affidando a ciascuna una sua vocazione. Rivoli torni a essere il simbolo unico e riconoscibile dell’arte contemporanea. La Reggia di Venaria, allo stesso modo, diventi il centro dell’arte antica… E’ un esempio, naturalmente. Allo stesso modo, però, è importante evitare che il singolo museo diventi una sorta di ghetto, nel quale puoi trovare una cosa sola. Occorre mescolare le carte, facendo operazioni analoghe a quella che ho proposto io al presidente De Luca, per ospitare una mostra sul Mantegna al MADRE di Napoli, che è un museo di arte contemporanea.

 

Ha appena citato due importanti residenze sabaude: Rivoli e Venaria. Fra i gioielli che compongono la corona delle residenze dei Savoia, uno – la palazzina di caccia di Stupinigi – è in attesa di idee e soluzioni per un rilancio. Lei cosa farebbe?

Stupinigi è già un museo dell’arredamento. Forse allargherei la sua vocazione a tutto l’ambito delle arti applicate, per farne una sorta di Victoria and Albert Museum. Per i mobili, si partirebbe dalle meraviglie di artisti mobilieri come Piffetti e Bonzanigo. Le massime espressioni dell’arte dell’arredamento italiana, è inutile precisarlo, sono piemontesi. Ma poi ci sarebbe la scultura: un’antologia della scultura tra ‘500 e ‘900. Senza spingersi troppo in là nel tempo, però, per evitare un inutile sovrapposizione all’arte povera. Mi fermerei agli anni ’50, con Fontana, Melotti, Mollino…

 

Nel campo della divulgazione culturale, lei è stato certamente un innovatore. Ha saputo mantenere un alto rigore scientifico, unendolo però a un’efficacissima comunicazione pop, che ha saputo esercitare tanto in qualità di scrittore e organizzatore di mostre, quanto servendosi del mezzo popolare per eccellenza: la televisione. Al di là del suo talento personale, che le consente di catturare il pubblico senza cadere nella facile banalizzazione, non crede che la televisione e ancor più internet – luoghi privilegiati della banalità – abbiano favorito un’eccessiva semplificazione della cultura e del modo di raccontare le forme di espressione artistica?

Il processo che lei descrive, in effetti, è reale. Non a caso, ha avuto delle dirette conseguenze anche nell’ambito specifico delle mostre. Gli esiti, però, anche quando l’arte diventa una materia “popolare”, possono essere positivi. Nel campo della cura delle mostre, in effetti, dopo il poverismo e il celantismo (da Germano Celant, importante storico dell’arte, inventore  della definizione arte povera, ndr), si sono affermate due tendenze. Una è la mia; l’altra è quella di Marco Goldin. Se paragonassimo l’arte all’abbigliamento, potremmo dire che quella di Goldin è la strada standard; la mia è quella dell’alta sartoria. Non tutti possono vestire Prada o Armani. Ci sono anche le confezioni di bassa gamma, che sono comunque rispettabili. La bassa gamma dell’arte, di cui Goldin è un buon interprete, è quella della popolarità facile, ottenuta offrendo un prodotto “arte” che non ha timore della semplificazione: è il caso dell’impressionismo, che Goldin ha riproposto molte volte. L’altra specialità di Goldin è la creazione di un caos accattivante, che trova un esempio perfetto nella mostra dedicata a Tutankhamon, Caravaggio e Van Gogh. Inutile dire che sembra fatta apposta per incontrare il consenso più facile.

Nel mio caso, ho seguito una strada diversa. Pur cercando e ottenendo dei risultati di divulgazione, ho voluto mantenere un alto livello. Quelli che mi hanno criticato – per esempio ai tempi della polemica sulla Santa Cecilia di Raffaello alla Venaria Reale – l’hanno fatto in modo chiaramente pretestuoso. Non riuscivano a sopportare la mia invadenza e hanno colpito l’obiettivo sbagliato. Goldin è più criticabile, forse. Ma sicuramente il suo modello di divulgazione, così come il mio, sono inevitabili. L’arte è e deve essere popolare: è predestinata a esserlo. Poi, se si riesce a mantenere alto il livello del rigore, come accade anche in America, molto meglio. Io l’ho fatto anche di recente con la mostra di Bologna (Da Cimabue a Morandi. Felsina pittrice, ndr), e con quella dell’Expo (Il Tesoro d’Italia, ndr), dove, nonostante i contenuti estremamente sofisticati, i visitatori sono stati, negli ultimi fine settimana, quindicimila al giorno. L’arte elitaria e antagonista non esiste più. Occorre essere popolari. Se poi si riesce a esserlo con Mattia Preti a Venaria, come è accaduto qualche anno fa, quando quasi nessuno sapeva chi fosse Mattia Preti, allora è davvero il massimo. In quell’occasione, come ricorderà, per essere “popolari” abbiamo esposto un Caravaggio. Una volta che il pubblico è venuto in mostra, però, si è evitato accuratamente di propinargli la scorciatoia della banalizzazione e delle facili spiegazioni.

(Foto: facebook – Vittorio Sgarbi)

 

Balcani, oltre i confini

Iniziativa del Consiglio regionale

 

siccardi fotoGiovedì 17 dicembre alle ore 17, nella Sala Viglione, di Palazzo Lascaris, il presidente e il vicepresidente del Consiglio regionale, Mauro Laus e Nino Boeti, inaugurano la mostra fotografica “Balcani, oltre i confini” di Paolo Siccardi, a cura del Comitato Resistenza e Costituzione.

 

La mostra “Balcani, oltre i confini”, esposta nella “Galleria Belvedere” di fronte alla Salabalcani1 Viglione, riassume – attraverso gli scatti del fotoreporter e freelance torinese noto per i suoi reportage dalle zone “calde” del pianeta  –  dieci anni di guerre, di speranze e di frontiere mutevoli nei Balcani.Un viaggio lungo linee di confini che non rappresentano solo cicatrici nella geografia dei luoghi, ma un grumo d’emozioni sopra l’anima degli abitanti.

 

L’esposizione sarà visitabile sino al 15 gennaio ad ingresso gratuito, orario, da lunedì a venerdì, dalle ore 10 alle 18.

 

balcani2Info:

Comitato della Regione Piemonte per l’affermazione dei valori della Resistenza e dei principi della Costituzione repubblicana.

e-m@il: comitato.resistenzacostituzione@cr.piemonte.it
tel. 011/57.57.812-289 fax 011/5757-365