80 anni dopo le Topolino alla conquista di Torino

Anche Moncalieri, Pralormo, Revigliasco, Pecetto saranno teatro del raduno storico delle storiche vetture
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Dal 16 al 19 giugno 2016 Torino e la sua provincia saranno teatro dello storico raduno delle Fiat 500 Topolino, a 80 anni dalla loro nascita, avvenuta nel 1936. La piccola vettura creata dall’ingegner Giacosa venne prodotta fino al 1955. A dieci anni di distanza dallo storico raduno della 500 che riuscì a affrontare la difficile salita della Sassi Superga, Torino torna a rendere omaggio alla mitica Topolino. E questa sarà l’occasione per far confluire a Torino circa 300 equipaggi di appassionati collezionisti provenienti da tutta Europa, Svezia, Olanda, Norvegia, Ungheria, Polonia, Germania, Svizzera, Francia e Belgio. Il quartier generale sarà il Lingotto, dove nacque la Topolino, stabilimento di grande prestigio architettonico citato anche da Le Corbusier. Il Comitato organizzatore è denominato “Ling 80 anni dopo”; è nato dalla volontà di due importanti Club presenti nel mondo del collezionismo storico, il Topolino Aeroclub Italia e il Club Topolino Fiat, che hanno promosso l’evento internazionale nell’ambito della Fondazione Europea Topolino Club, nata nel 2006, sull’onda delle celebrazioni per il settantesimo anniversario, svoltosi a Torino.

“Ottant’anni per un’automobile potrebbero sembrare tantissimi – spiega Laura Laurenti Garavoglia del “Comitato Ling80annidopo” – ma in realtà la Topolino è una vettura che si mantiene sempre giovane, per la sua capacità di percorrere ancora le strade del mondo, conquistando i cuori di tutti, bambini compresi. Lo scrittore Paolo Rumiz, di recente ospite al Salone del Libro, ha scritto ” La leggenda dei monti naviganti”, da cui sarà tratta la piece che verrà rappresentata al teatro Matteotti di Moncalieri venerdì 17 giugno alle 22, dal titolo ” Il poema dei monti naviganti”.

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Il romanzo di Rumiz è un libro di viaggi, per l’esattezza di due viaggi compiuti nel 2003 e nel 2006, attraverso le due maggiori catene montuose italiane, le Alpi e gli Appennini. Un viaggio di 7 mila km a bordo della Topolino dal golfo di Quarnaro, presso Fiume, al punto più meridionale della penisola, Capo Sud. I due libri presentano cadenze e metriche diverse. Le Alpi sono raffigurate come monoliti illuminati, costituiti di grandi strade, gli Appennini come catene arcane, spopolate. Su tutto domina la Topolino che, secondo lo scrittore, “semplifica la vita e facilita i contatti umani”.

“Un momento cruciale di questi 4 giorni di eventi – aggiunge Laura Laurenti – sarà sabato 18 giugno, quando le Topolino saranno esposte nella storica piazza Vittorio, la piazza porticata più grande in Europa. Ma prima tutto inizierà all’ 8 Gallery del Lingotto, giovedì 16 giugno, quando verrà inaugurata una mostra ex libris che raccoglie le incisioni dedicate all’ingegner Giacosa e alla Topolino da artisti di respiro nazionale e internazionale. Dopo la mostra i partecipanti al raduno potranno visitare il Museo Egizio, quello del Cinema e anche palazzo Bricherasio, dove avvenne la firma dell’atto costitutivo della Fiat. Oggi è sede della Banca Sella, nostro sponsor. Dopo il benvenuto ai partecipanti alle 18, seguirà la Lectio magistralis dal titolo “Back to the future”, che terrà Roberto Giolito, responsabile brand di FCA, a lungo designer della Fiat. A lui si deve anche la linea della Multipla. Seguirà la cena al Museo dell’Automobile”.

“Venerdì 17 giugno le Topolino saranno sulla pista del Lingotto- spiega Laura Laurenti – e poi si avvieranno lungo un tragitto che toccherà le principali residenze sabaude, Stupinigi, Racconigi e Pralormo, con sosta per il lunch e visita guidata del castello, per poi proseguire verso Moncalieri. Qui nella piazza del Municipio si esibiranno le due Filarmonichee di Gassino e Moncalieri, che come Comune ha dato il suo patrocinio al raduno storico. Diverse Topolino sosteranno, quindi, sulla piazza, mentre una cinquantina entreranno nel giardino del castello, dove alle 19.30 avrà luogo la sfilata di moda dello stilista Walter Dang. Quindi alle 22 lo spettacolo teatrale aperto al pubblico al Matteotti di Moncalieri”.

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Sabato 18 giugno le tappe per le Topolino saranno, dal Lingotto, le colline torinesi, Moncalieri, Pecetto e Revigliasco, via Villa della Regina e poi l’approdo finale in piazza Vittorio, dove le Topolino saranno in esposizione e dove si potrà salire anche sulle vetture di tram storici. Quindi seguiranno la partenza per lo Juventus Stadium alle 16.30, la visita al museo e la cena di gala.

La 500, detta poi simpaticamente Topolino, fu una vettura capace da subito di ispirare la fiducia e la simpatia da parte delle famiglie italiane. Comparve in varie versioni, tra cui la splendida “Belvedere”, la Giardinetta metallica in grado di trasportare gli attrezzi del mestiere del capofamiglia e i componenti delle celebri gite domenicali delle famiglie italiane degli anni Cinquanta. Nel 1948, dodici anni dopo la sua nascita, fu la volta della versione della 500 B con motore a valvole in testa, capace di 100 km orari, poi la volta della giardiniera, in versione station wagon; quindi, nel 1949 della 500 C con carrozzeria in stile americano, disponibile nelle versioni berline a due posti, con e senza tettuccio apribile in tela, o Giardiniera in legno.

Mara Martellotta

Apre a Torino la "Casa della Solidarietà", per 12 universitari stranieri

studenti giovaniApre a Torino la “Casa della Solidarietà”, per 12 universitari stranieri che, in cambio, aiuteranno anziani e inquilini in difficoltà che vivono nello stesso edificio. Il progetto è finanziato dalla Chiesa Valdese nella zona di a Barriera di Milano e ha comportato la riqualificazione di un palazzo dell’ Atc. I ragazzi al secondo anno di università, in regola con gli esami e in difficoltà economica, possono essere ospitati, non a costo zero, ma senza il pagamento di un affitto, bensì con attività di supporto a vicini di casa che non possono uscire: fare la spesa, pagare le bollette, curare il giardino condominiale. Il progetto è stato reso possibile attraverso i fondi dell’otto per mille e al Comune di Torino.

Il fuoco e il gelo sui monti della Grande guerra

ALPINI FUOCOCent’anni dopo il primo anno della “Guera Granda”, rileggendo le storie di vita e di guerra raccolte da Enrico Camanni in Il fuoco e il gelo. La Grande Guerra sulle montagne  – crude e vere perché narrate dai protagonisti in prima persona attraverso le lettere e i diari – si scopre un mondo d’insospettata complessità e ricchezza

GUERRA ALPINI

Si uccidevano nella bellezza assoluta della montagna, nella vertigine delle Dolomiti, sui deserti degli altipiani e nel gelo dei ghiacciai. Combattevano per pezzi di roccia così impervi che talvolta le valanghe si portavano via i vincitori. Era la guerra più assurda, nei posti più incantati”. Cent’anni dopo il primo anno della “Guera Granda”, rileggendo le storie di vita e di guerra raccolte da Enrico Camanni in Il fuoco e il gelo. La Grande Guerra sulle montagne  – crude e vere perché narrate dai protagonisti in prima persona attraverso le lettere e i diari – si scopre un mondo d’insospettata complessità e ricchezza. E di speciale umanità. Per tre anni e tre terribili inverni la Grande Guerra scaraventa migliaia di uomini sul fronte che dallo Stelvio e dall’Ortles scende verso l’Adamello, le Dolomiti, il Pasubio e Asiago. In quegli anni di fuoco, su 640 chilometri di ghiacciai, creste, cenge, altipiani e brevi tratti di pianura cadono circa centottantamila soldati. Le Alpi diventano un immenso cimitero a cielo aperto, sfigurate da una devastante architettura di guerra che scava strade e camminamenti, costruisce città di roccia, legno e vertigine, addomestica le pareti a strapiombo e spiana le punte delle montagne.Alpini e soldati del Kaiser si affrontano divisi tra l’odio imposto dalla guerra e l’istinto umano di darsi una mano, invece di spararsi, ALPINI GUERRA6per far fronte alla tormenta e alla neve. Si ingaggiano battaglie anche a tremilaseicento metri, ma la vera sfida è sempre quella di resistere per rivedere l’alba, la primavera, la fine della guerra, prima che la morte bianca si porti via le dita di un piede, o la valanga si prenda un compagno. Intanto, l’isolamento, il freddo, i dislivelli bestiali, le frane, le valanghe, la vita da trogloditi, la coabitazione tra soli uomini producono risposte sorprendenti, insolite collaborazioni umane, geniali rimedi di sopravvivenza e adattamento. “La guerra – racconta Camanni – trascina il popolo contadino sulle montagne e lo obbliga a scoprire un mondo severo e ignoto, astrusa frontiera nel cuore dell’Europa rurale e industriale. I soldati si accorgono all’improvviso che tra l’Italia e l’Austria ci sono le montagne, che lassù passano i confini delle nazioni, che bisogna morire per delle rocce dove i ricchi andavano a divertirsi”. In questa guerra assurda  si rafforza il mito del legame degli alpini con la montagna. Serve a dare un senso al nonsenso, aiuta a sopravvivere. I valori di eroismo e altruismo legati al sacrificio dei soldati-alpinisti che si vanno a immolare sull’altare della ALPINI GUERRA 14Patria per difenderne i confini. “La leggenda delle penne nere, il cameratismo montanaro, gli stereotipi del fiasco di vino e del vecchio scarpone – scrive l’autore –  segneranno tre generazioni perché metà delle famiglie italiane perderà un padre, un marito, un figlio al fronte, o lo vedrà tornare invalido, oppure pazzo. Il mito dell’Alpe insanguinata conquisterà un ruolo indelebile nel Novecento e offuscherà il ricordo romantico dell’alpinismo dei pionieri”.  E’ la Guerra Bianca a consacrare una montagna tragica e austera, “la Madre che non perdona i propri figli ma dona loro l’immortalità”. A quell’immagine e a quella memoria il fascismo si appiglierà per fortificare la coscienza nazionale, lodando le gesta esemplari degli alpini-alpinisti. “Pochi miti della storia moderna hanno impiegato tanto tempo a sbiadire e a perdere forza, senza mai abbandonarci del tutto – dice Camanni –  anche se si tratta di un racconto di sofferenza e morte (o forse proprio per quello), anche se è la cicatrice di un sacrificio che lasciò sui ghiacciai e sulle creste del fronte orientale una processione di ragazzi innocenti”. In centottantamila non tornarono dalle Alpi, e un terzo se li prese la montagna stessa.

Marco Travaglini

SOTTOPASSO MARONCELLI, APPROVATO IL PROGETTO

E’ stato approvato dalla Giunta Comunale, su proposta dell’Assessore alla Viabilità e Infrastrutture della Città di Torino, nella seduta di oggi, il progetto di fattibilità tecnica ed economica per il sottopasso della Rotonda Maroncelli.

maroncelli sottopasso

Il nuovo sottopasso ha l’obiettivo di decongestionare uno dei più trafficati nodi cittadini situato all’incrocio tra i corsi Maroncelli, Unità d’Italia e Trieste, sul confine con Moncalieri.

Questa nuova opera, disposta sull’asse nord-sud, è stata infatti progettata per separare i due flussi di traffico che percorrono c.so Unità d’Italia – c.so Trieste e c.so Maroncelli, in modo tale da alleggerire e velocizzare l’ingresso e l’uscita verso le zone a sud della Città.

Il tunnel, al di sotto dell’attuale rotonda Maroncelli, avrà una lunghezza di 75 metri con due rampe di accesso e uscita sulla direttrice di c.so Unità d’Italia – c.so Trieste di circa 140 metri.

Completati i lavori, sulla superficie verrà mantenuta l’attuale viabilità con la rotatoria nella zona di incrocio e con la presenza di una corsia per senso di marcia nel tratto di c.so Unità d’Italia – c.so Trieste interessato dalle rampe del sottopasso.

Per tutta la durata dei lavori sarà comunque sempre garantita la percorribilità veicolare dei tratti dei corsi Unità d’Italia, Trieste e Maroncelli con momentanee deviazioni della circolazione veicolare.

www.comune.torino.it

Da Torino alla Grande Mela, il sogno targato USA

New York, il crollo di Wall Street (2008), l’intraprendenza italiana, il sogno targato U.S.A, il successo; poi il capitombolo nell’aula di un tribunale, con dosi di amore e qualche tragica amarezza. Sono gli ingredienti principali del romanzo “Ai nostri desideri” (Marsilio) del torinese Enrico Pellegrini, brillante ed estroso avvocato d’affari 45enne che da anni vive e lavora nella Grande Mela, nella mecca del denaro, a Wall Street. Ergo, sa bene di cosa parla.

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Nell’ultima sua fatica letteraria ritroviamo alcuni personaggi del suo romanzo rivelazione (“La negligenza” Premio Selezione Campiello 1997); primo fra tutti il protagonista, Rosso Fiorentino, che ora non svolazza più di festa in festa, ma è comunque ancora inconcludente. Sogna di scrivere e intanto si barcamena tra lavoretti vari, incluso fare da chaperon (gratis) in India a uno scrittore di successo che gli indica un piano B di larghissimo respiro “ricordati, fa qualcosa di bello e di grande”. Ed ecco la folgorante idea: esportare la focaccia genovese in America. L’improbabile progetto parte lento…ma di negozio in negozio finisce per essere quotato a Wall Street e procurare soldi a palate. Poi tutto precipita, la società del Rosso si schianta al suolo, trascina nel vuoto le principali banche americane e sfracella un milione di posti di lavoro. Tonfo notevole che lo porta dritto davanti al giudice, a rischiare una condanna che, in anni di carcere, sconfina nell’eternità. Negligenza o truffa? Demente, profeta delirante o il più grande filibustiere 27enne di tutti i tempi? Come andrà a finire? Ai lettori l’ardua sentenza e il gusto di avventurarsi in questa favola moderna sospesa tra ironia, divertimento e… riflessioni serissime.

Sei un avvocato imprestato alla letteratura o uno scrittore ferrato anche in giurisprudenza e finanza?

«Credo nessuno dei due. Di giorno faccio l’avvocato e rappresento l’establishment, quindi i poteri forti, e di notte scrivo romanzi raccontando le storie degli “underdogs” che sono quelli che faticano».

Come mai 20 anni tra un libro e l’altro? E in che lingua scrivi?

«Scrivo sia in inglese che in italiano. 20 sono gli anni che ho impiegato per scriverlo. Forse mi è mancato il talento; ma è anche vero che la struttura del libro è particolarmente difficile e complicata. Un grande scrittore americano mi ha detto che se Manzoni ha sciacquato i panni in Arno, io ho sporcato i miei nell’East River, fiume particolarmente lercio attorno a Manhattan»

Sbaglio o c’è una buona dose di autobiografia? Dove inizia e dove finisce Enrico Pellegrini nel romanzo?

«Mi piace molto una frase che dice “questa storia è vera perché l’ho inventata io”».

Il protagonista Rosso Fiorentino a chi si ispira?

«Nel mio secondo romanzo “La negligenza” il protagonista era Enrico Celestri. Qui è sempre lui, ma ha cambiato nome all’anagrafe per far perdere le sue tracce. Sceglie di chiamarsi Rosso Fiorentino, come un pittore maledetto del Rinascimento».

Quando, perché e com’è stato passare da Torino a New York?

«Intanto è vero che l’Italia è ancora più bella vista da lontano. Dopo l’università a Torino, ho fatto un Master a Chicago e lì ho ricevuto un’offerta da uno degli studi più importanti di Wall Street che non era rifiutabile. Ecco come sono arrivato a New York».

Tu ce l’hai fatta, che consigli daresti a chi ha il tuo stesso sogno e deve ancora partire?

«A New York tutto è possibile e non c’è alcun limite all’immaginazione. Ma bisogna sapere che è una città molto tosta in cui ogni cosa è basata sul rapporto di forza. Quando ci arrivi da single tutte le candeline sono accese per te e sei un predatore. Poi improvvisamente, quasi senza accorgertene, quando magari incominci a mettere su famiglia e a comprare casa, diventi una preda nella pancia della balena dove tutti cercano di spolparti».

In Italia riscuotono molto successo i legal thriller che trasmettono l’idea di una vita frenetica, aggressiva, competitiva al massimo dove puoi guadagnare tantissimo ma se non vinci non sei nessuno. E’ un’immagine che corrisponde alla realtà?

«Assolutamente si. Quando arrivi ti rendi conto che le tue possibilità sono infinite; però proprio perché tutto è possibile, accade anche di trovarsi in un legal thriller vero, dove la realtà in realtà è finzione e dove tutti sono contro tutti».

Racconti un crack finanziario che travolge le banche, te ne sei occupato?

«Si dal crack Enron in poi mi sono occupato di alcuni momenti della storia finanziaria americana».

La domanda ti sembrerà ingenua, ma sono davvero tutti lupi a Wall Street?

«Si, anche se secondo me il vero lupo è il sistema. E’ la sua pressione che spinge la gente ad essere lupi».

In un’intervista hai detto che in America ogni famiglia si indebita al punto di correre rischi incalcolabili pur di mantenere il suo standard di vita. E’ ancora così dopo la lezione del 2008 o si sono ridimensionati?

«E’ ancora così. I pre asili costano 50mila dollari all’anno, le case vengono comprate con il 20% in contante e l’80 % a debito, ovvero con un mutuo. Quindi tutto il sistema è basato sull’avere quello che non si ha».

E’ vero che abitavi vicino a Bernard Madoff?

«Si e le mie bambine gli correvano in braccio come se fosse Babbo Natale. E siccome i bambini hanno un grande istinto, questo ovviamente dice molto delle sue capacità di riuscire a presentarsi come uomo prodigo».

Conosci altri lupi di Wall Street?

«Ricordo che quando vivevo in Italia era chiara la distinzione tra buoni da una parte e cattivi dall’altra; invece a New York è tutto un grigio perla dove persone che ti sembravano moralmente integerrime, le ritrovi il giorno dopo sul giornale accusate di truffe da milioni di dollari».

Conosci davvero Jonathan Franzen? E altri scrittori?

«Franzen ha la mia stessa agente americana e, anche se qualcuno sostiene che abbia un caratteraccio, invece è molto simpatico e piacevole, sebbene non ami esporsi e difenda la sua privacy. Poi John Irving che invece ama molto le feste, o almeno questa è la mia opinione.

Tra l’altro il suo libro “Vedova per un anno” è stato adattato per il cinema da un mio amico ed è diventato il film “The door in the floor” con Kim Basinger e Jeff Bridges».

Come sono i rapporti tra scrittori?

«Non c’è concorrenza, ce n’è molta di più a Wall Street dove appena tiri su il telefono il lunedì mattina alle 10 inizia il linciaggio».

Dove e come vivi a New York? Nel libro scrivi che tutti la amano, meno quelli che ci vivono. C’è qualcosa che chi sogna di stabilirsi nella Grande Mela dovrebbe sapere e ancora non sa?

«Vivo a Manhattan tra la 62° e Park Avenue, nell’Upper East Side. Quando abitavo in uno studio di 50mq stavo come un papa. Il segreto a New York è non possedere nulla».

Quando sei fuori dall’ufficio cosa ti piace fare? I tuoi hobby?

«Amo scrivere. Poi avendo tre bambini ovviamente loro rappresentano la mia agenda. Mi piace vivere la città scoprendo sempre angoli nuovi; giocare a tennis a Central Park dove ci sono dei campi meravigliosi che almeno giustificano le tasse così alte; andare a mangiare nel Queens ad Astoria nei ristoranti greci; camminare giù per Lexington Avenue fino a Gramercy il sabato mattina».

Da dove arriva l’ispirazione per i tuoi romanzi?

«Dai sentimenti. Io spero sempre nell’innamoramento; invece a New York, città molto dura, purtroppo il più forte è quello della sopravvivenza».

Laura Goria

 

Dantès

dantes“No, non lo voglio un coso così”, s’impuntò, mettendo il broncio. “Com’è possibile giocarci? E’ talmente piccolo, fragile. No e poi no. Io adesso voglio un cane grosso, robusto. Voglio un cane che sia pronto a scattare ai miei ordini, che mi riporti il pezzo di legno quando lo scaravento lontano. Che mi faccia anche da cavallo quando voglio salirci in groppa. Un cane grosso, capito?”

Guardava fuori dalla gabbia con i suoi occhi da cucciolo. Occhi dolci, stupiti, grandi. Fin troppo grandi per quel batuffolo di morbido pelo. Sembrava uno di quei peluche per i quali vanno matti i bambini. Eppure, nonostante quella sua aria persa che avrebbe spezzato il cuore a chiunque, era stato rifiutato. Sì, proprio così: rifiutato. O, per meglio dire, scartato da quella famiglia di gente – ricca solo nel portafoglio – perché, in quanto a sensibilità, beh… ci sarebbe molto da discutere. Lui, stimato padre di famiglia, sposato con prole, banchiere di successo, aveva promesso al figlio un cane in regalo. Quest’ultimo, di nome Lorenzino, aveva fatto i capricci pur di averne uno tutto per se. Lo voleva piccolo, da coccolare ma, come tutti i capricciosi, era estremamente volubile e, alla vista di quel tenero batuffolo di pelo, cambiò idea. “No, non lo voglio un coso così”, s’impuntò, mettendo il broncio. “Com’è possibile giocarci? E’ talmente piccolo, fragile. No e poi no. Io adesso voglio un cane grosso, robusto. Voglio un cane che sia pronto a scattare ai miei ordini, che mi riporti il pezzo di legno quando lo scaravento lontano. Che mi faccia anche da cavallo quando voglio salirci in groppa. Un cane grosso, capito?”, disse con quella vocina isterica che faceva venire i nervi. E così suo padre, abbandonata l’idea del cagnolino, scelse un grosso alano che portava sulla piastrina già il nome:Bertone. Nulla da dire su quest’ultimo particolare. Ad un cagnone (e quello era davvero un cagnone) quel nome calzava a pennello. Lui, invece, solo e piccino, restò lì, nella sua gabbia. Si era illuso di poter andar via con quel bambino. Aveva un aspetto non proprio gradevole, grasso e pieno dantes4di foruncoli, ma era pur sempre meglio andare con lui che restare chiuso in quella gabbia. Si era fatto notare, scodinzolando allegro, tirando fuori la lingua, allungando la zampa. Ma quello, niente. Nemmeno una piega. Aveva detto qualcosa in quella sua lingua da umano che lui non aveva compreso poi, senza nemmeno degnarlo di uno sguardo, aveva voltato le spalle e se n’era andato via. Da quando era nato, terzo di una cucciolata di quattro bastardini incrociati non si sa bene con chi, era sempre stato lì nel canile. I primi tempi, per lo svezzamento, era rimasto con la mamma e i fratelli, e poi – a due mesi – l’avevano messo lì, solo soletto, in quella gabbia che era diventata la sua cuccia. Aveva guaito a lungo, fino a sfinirsi, ma nessuno si era mosso in suo soccorso. Non si ricordava nemmeno quanto tempo fosse passato. Un paio di volte al giorno (ma qualche volta una sola…) un uomo, che doveva essere il guardiano del canile municipale, gli allungava una ciotola con dell’acqua e un pastone che non sapeva di nulla. Le prime volte l’aveva annusato, senza mangiarlo. Ma cos’era mai quella sbobba? Era insipida, insapore e persino incolore se si eccettuava un vago color grigiastro. Poi, nei giorni successivi, visto che il menù passato dal convento era sempre quello, vinte dalla fame le ultime resistenze, se lo fece andar bene, lasciando la scodella vuota. Le sue giornate passavano monotone in una noia terribile, fatta dei soli pochi gesti che gli erano consentiti: andare avanti e indietro in quella gabbia che ormai conosceva a memoria, dopo averla ispezionata centimetro per centimetro. Poteva seguire il suo percorso obbligato ad occhi chiusi ma, quando lo fece, sbatté il muso contro la rete e, da allora, decise di non fare altri esperimenti e di tenere ben aperti gli occhietti. In poco tempo le gabbie vicine si svuotarono. Non erano molti gli “ospiti” lì dentro ma in breve furono molti di meno. Un pastore tedesco venne prelevato da una guardia giurata che si dilettava d’allevamento e che intendeva addestrarlo per il suo lavoro di vigilanza. Un giovane pitbull condivise un destino più o meno simile, finendo a fare la guardia nel parco di una villa signorile. Il pechinese con il quale, una volta, aveva abbaiato del più e del meno, già male in arnese, finì a fare da “dama di compagnia” ad una contessa che sembrava una vecchia megera con quel grosso naso arcuato sul quale svettava un orribile porro. Ansimava come un mantice, quella vecchia incipriata, ma non rinunciava alle sue sigarette infilate nel lungo bocchino di madreperla. Anche i due bastardini come lui, entrambi volpini mezzosangue, avevano trovato modo di accasarsi dal droghiere, che amava i cani e s’era subito affezionato ai due inseparabilidantes3 animali dal pelo fulvo. Rimanevano solo lui, sua madre e gli altri fratelli, un vecchio Setter quasi cieco e ormai inibito alla caccia, un Rottweiler che sembrava, o voleva sembrare, cattivissimo e Pucci, un bassotto tanto grasso da strisciare la pancia per terra. Erano loro i superstiti del canile, i più sfortunati: relegati nelle gabbie in attesa che accadesse qualcosa o che, meglio ancora, qualcuno venisse a reclamarli. Intanto passavano i giorni e dalle finestre entrava una luce fredda e triste, riflesso di quel cielo d’inverno, color grigio cenere. Una mattina, quando ormai rassegnato e sfiduciato non aveva nemmeno voglia di tirarsi su sulle quattro zampe, standosene sdraiato e sonnacchioso, avvertì un certo trambusto. Dalle stanze degli uffici si udiva una discussione a più voci. Una di queste, cristallina e piuttosto acuta, era senz’altro di una giovane donna. Almeno, così sembrava. Di lì a poco, nell’ampio locale con le gabbie, comparì una ragazza dal piglio deciso e allegro. Non tanto alta, dai bei lineamenti, teneva i lunghi capelli raccolti dietro la nuca, a coda di cavallo. Dopo una rapida ricognizione s’accovacciò davanti alla sua gabbia. “Che bello che sei, con quel musetto”, disse, appoggiando la mano aperta alla rete. Lui, d’istinto, capì che era giunta la sua occasione e non poteva permettersi di sprecarla. Sì alzò e, con delicatezza, leccò il palmo della mano. “Che tenero. Sei proprio un amore”, sospirò la ragazza. Rialzatasi in piedi, si rivolse al signore che stava al suo fianco. “Papà, vorrei lui. Prendiamo questo piccolino? Che dici?”. L’uomo, cingendo con un braccio le spalle della figlia, sorrise e annuì. In pochi minuti, sbrigate le pratiche dell’affido, il cucciolo passò dalla condizione di recluso a quella di cane libero, felice e coccolato. Infatti, la ragazza l’aveva preso in braccio e gli stava lisciando il pelo con un’infinità di carezze. Gli diede subito un nome: Dantès. In fondo anche lui, come Edmond Dantès, il protagonista de “Il Conte di Montecristo” di Alexandre Dumas, aveva subito dei torti e sofferto, così piccolo e indifeso, una vita grama. Dantès venne rinchiuso nella tetra prigione del Castello d’If su una piccolissima isola dell’arcipelago di Frioul, nel golfo di Marsiglia. Lui, nel canile municipale, in una gabbia.  “Dantès, piccolo mio, ti piace il tuo nome?”. Alle parole della ragazza, che si chiamava Carla, replicò guaiendo timidamente e leccando la mano che lo accarezzava, dimostrando la sua felicità. Nella bella casa di campagna dove vivevano Carla e suoi genitori, il piccolo Dantès si trovò a meraviglia. Coccolato e ben nutrito, era diventato la mascotte di quella famiglia. Anche i vicini e gli amici di Carla lo riempivano di coccole e lui, scodinzolando, non si tirava certo indietro.  Gli unici momenti tristi li viveva quando il pensiero andava alla madre e ai fratelli che erano rimasti nel canile. Poverini, chissà quanto dovevano essere tristi! In quel periodo, a poche settimane dalle feste di fine ann
o, era difficile che qualcuno li adottasse. A lui era andata bene, anzi benone. Ma erano ormai poche le persone che regalavano dei cani ai bambini. Soprattutto d’inverno, quando avrebbero dovuto tenerli in casa gran parte del tempo, almeno fino ai primi tepori della primavera. Oggi vanno di moda solo i videogiochi. Non si lamentano, non sporcano, non si ammalano e quand’anche si rompessero, si buttano nella spazzatura e se ne acquista di nuovi. Un cane, per di più se cucciolo, è delicato, ha bisogno di cure, attenzioni. Bisogna prestare ascolto ai consigli del veterinario, seguire una certa dieta alimentare. Eh, già… erano proprio questi i motivi per cui era pessimista sulla sorte della sua famiglia, quella d’origine.  Una vena di tristezza velava i suoi occhietti e diventata mogio, mogio quando, sdraiato sulla sua copertina di lana, vedeva scorrere sullo schermo televisivo le immagini di cani che si rincorrevano, giocando. Carla, da ragazza intelligente qual dantes2era, non ci mise molto a comprendere le ragioni di quegli sguardi languidi e malinconici. Così, parlandone più volte con i genitori, finì per convincere anche il padre e la madre che la famiglia di Dantès andava in qualche modo riunita. La casa era grande e ampio era il giardino che la circondava. Ospitare più cani non era un’impresa così impossibile. Tornarono al canile ma lì trovarono solo due cuccioli. “ E gli altri?”,chiese Carla. “Che fine hanno fatto gli altri due? Sono stati affidati? ”. Il responsabile del canile tranquillizzò la ragazza. La madre e il terzo componente della famiglia erano stati trasferiti momentaneamente in un altro canile, insieme a vecchio Setter e al bassotto Pucci,  a causa di alcuni lavori che si erano necessari. Se volevano prelevarli là, non c’era problema. La documentazione necessaria l’avrebbe preparata subito. E così fece.  Iniziavano a calare le prime ombra della sera quando l’auto del signor Casolare varcò il cancello di casa con a bordo, insieme a lui e alla figlia, i tre cuccioli e la madre. Ispirata dai racconti di Dumas, Carla non esitò a trovare i nomi per tutti. Così i cuccioli diventarono Athos, Porthos e Aramis, come i tre più famosi moschettieri del Re di Francia, e alla cagnetta che li aveva partoriti assegnò un bel Regina Margot, a parziale risarcimento delle sue umili origini di trovatella. Dantès non stava nella pelle dalla gioia e saltellava felice, giocando a rincorrersi con i suoi fratelli che, più che tre moschettieri, erano tre piccole pesti. La Regina Margot, dalla sua cesta, guardava felice, con una finta aria di distacco, le evoluzioni della sua cucciolata. E non si stupirebbe nessuno se pensasse “Che belli, i miei figlioli. E che fortuna che abbiamo avuto, tutti insieme, ad incontrare queste brave persone”. Una fortuna che, evidentemente non è da tutti. Bastava guardare fuori dalla finestra, verso i prati al limitare del bosco, per capirne il perché. La neve, caduta in abbondanza, si era trasformata in pioggia, rendendo ancora più infido e scivoloso il terreno. Un ragazzino grassoccio stava correndo dietro ad un grosso cane che, a  dire il vero, lo stava letteralmente trascinando. Tentava di trattenerlo con il guinzaglio, ma non aveva forza sufficiente. Piangeva, imprecava, supplicava il cane di fermarsi. Aveva il fiato grosso, incespicò e cadde.  Si rialzò, ansimando. Ma le suppliche non servirono a nulla. Il suo Bertone aveva voglia di muoversi, correre e non prestava ascolto a quel lagnoso ragazzetto. Dantès e tutti gli altri guardavano la scena divertiti dalla finestra, al caldo. Si direbbe, dalle smorfie, che stessero sorridendo. In fondo, non era quello che voleva tanto, quel ragazzino piagnucoloso, tutto bagnato e sporco di neve fangosa? Un bel cane grosso, robusto, scattante…

Marco Travaglini

Alle Vallere nasce l'eco-camping

Po alberi imbrunireSu una superficie di 30 mila metri quadrati, con 40 aree sosta per camper, 40 postazioni per le tende, un ristorante, una piscina naturale biodesign, alle porte di Torino nasce ‘Grinto’, la struttura ricettiva per il turismo sostenibile, nel Parco delle Vallere, lungo il Po, verso l’abitato di Moncalieri. Si tratta di un Urban Eco Village, il primo in Europa, consacrato al basso impatto e all’utilizzo delle energie alternative, prodotto in un’alleanza con il Parco del Po e delle colline torinesi.

(Foto: il Torinese)

27 BORSE DI STUDIO AGLI ALLIEVI DELL’ISTITUTO ARTUSI

ARTUSI CUOCHISono previste per l’anno scolastico2015/16 Borse di Studio per gli allievi più meritevoli dell’Istituto Alberghiero Artusi di Casale Monferrato. Le erogherà la Banca Popolare di Novara agli studenti che nell’Anno scolastico 2015/16 hanno conseguito risultati di eccellenza per profitto, comportamento, capacità e perseveranza; ciò sia sui banchi di scuola che nelle attività pratiche. Sarà una commissione, presieduta dal dirigente Claudio Giani, a stabilire quali saranno i destinatari delle borse di studio secondo la classifica stilata in base ai criteri fissati nel regolamento interno. Per ognuna delle classi dell’Istituto si avranno un primo, un secondo e un terzo classificato a seconda del punteggio ottenuto. Si tratta di un significativo riconoscimento da parte di Banca Popolare di Novara, da sempre punto di riferimento per risparmiatori ed aziende, che a Casale Monferrato vanta una presenza quasi secolare, con un forte radicamento nel tessuto sociale ed economico.

Marco Rizzo: “il mio primo atto da sindaco? La rottura del patto di stabilità”

Il segretario generale del Partito Comunista, in corsa come candidato sindaco, affronta con noi i temi più rilevanti per la città: dalla viabilità all’emergenza ex Moi e campi rom

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Qual è la sua visione per Torino, cosa auspica per la città?

Direi la rottura del patto di stabilità, perché la gabbia europea che ci è imposta dal pareggio di bilancio in Costituzione, di fatto inficia l’utilizzo di risorse, quindi tutti i programmi degli altri candidati, belli o brutti che siano, non hanno alcuna risorsa per essere messi in campo. Detto questo, crediamo che Torino debba tornare a essere la città del lavoro, della ricerca e dell’innovazione: non si può pensare che sia una Disneyland per grassi ucraini, come già dissi in altre occasioni. Non esiste alcuna città al mondo che abbia investito in cultura più del 13-14% come si fece in Spagna negli anni ’80, che aveva i grattacieli deserti a Marbella. Sarebbe come raddoppiare di botto la popolazione di Venezia, che di colpo sarebbe una città invivibile. Il turismo e la cultura servono, ma devono essere aggiuntivi.

metro2Ultimamente si è parlato molto della linea 2 della metro, quando la linea 1 è in balia di cantieri eterni che hanno messo alcuni commercianti in ginocchio, lei come gestirebbe la situazione? Inizierebbe una seconda linea?

Credo che bisognerebbe fare un piano strategico per i trasporti; questa giunta come in generale la politica di oggi, si bea di grandi annunci. In realtà sono stati fatti tagli alle corse, specie in periferia e ridotti gli autobus in orari non lavorativi. Noi avremmo bisogno di una ristrutturazione della rete e degli autobus, un incremento del trasporto pubblico dal punto di vista energetico: linee ferrate che inquinano meno e nuove piste ciclabili. Insomma spiegare alla gente, non con divieti ma con un’offerta diversa, che è meglio prendere i mezzi che l’automobile.

Finché i mezzi non saranno efficienti questo non succederà…

Ci sono delle modalità per cui una città si può più o meno inginocchiare a una grande industria. Se la Fiat invece di produrre suv per ricchi, producesse trasporti pubblici elettrici, piccole auto elettriche, sarebbe una scelta industriale di altro tipo. Il comune qualcosa può fare, ma da una parte non c’è la volontà politica e dall’altra ci sono impedimenti generali dovuti alla politica europea.

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Come gestirebbe l’annosa questione dei campi rom e dell’ex moi?

Il problema delle abitazioni è un problema enorme, viviamo in una città dove gli alloggi di proprietà privata nelle periferie perdono sempre più valori e gli affitti si alzano. Questo giochetto è dovuto alla speculazione dei grandi gruppi immobiliari che tengono sfitte migliaia di case. La soluzione c’è ed è prevista dall’art 41-42-43 della Costituzione, i quali dispongono che, in casi particolari, si possa procedere all’espropriazione. Noi dovremmo prendere le case da questi gruppi e obbligarli ad affittarli a canoni popolari: non voglio spaventare nessun signor Pautasso che ha la seconda casa che tiene sfitta per i figli, ma parlo di grandi gruppi immobiliari che vanno privati di questa condizione. In secondo luogo, l’immigrazione non la risolve sicuramente il sindaco di Torino, ma potrebbe spingere per una legge nazionale che preveda a parità di lavoro parità di salari, perché questi grandi spostamenti di massa servono a creare forza lavoro, quello che Marx definiva “l’esercito industriale di riserva”, per abbattare i diritti dei lavoratori. A quel punto saremmo oltre la xenofobia ed elimineremo inoltre anche la spinta a venire qui.

 

asl sanitaSanità: vi sono stati molti problemi sul territorio, che hanno generato la chiusura di realtà ospedaliere come l’Oftalmico, cosa ne pensa?

Anche qui il patto di stabilità è una gabbia che blocca qualunque sindaco. Si colpiscono purtroppo tutti i diritti sanciti dalla Costituzione. Pensare che su questioni così delicate vi sia dietro il mero profitto del privato dietro, è un errore strategico. Il padrone che verrà a investire, lo farà per guadagnare: se la ricchezza sarà generata maggiormente dalle analisi del sangue farò quelle, a discapito di altre analisi. Finirà che le cure più dispendiose saranno a carico dello Stato, le altre alla mercé del profitto.

Fassino ha recentemente proposto l’asilo nido gratuito per le fasce ISEE più basse, è una scelta che condivide?

mole vittorioCredo che il 90% delle richieste degli utenti resterebbe comunque inevasa. L’idea poi di pensare alla formazione in funzione all’impresa è un’operazione miope: fare un corso finalizzato a una macchina in particolare non ha senso, una volta terminato le tue conoscenze non saranno più valide, a causa di una macchina nuova. Cosa fare in alternativa? Elevare l’obbligo scolastico e la conoscenza generale, insieme alla capacità degli strumenti di formazione. L’Italia ha bisogno di un popolo formato che si possa reinventare, anche quando qualcosa in un settore diviene desueto.

In ultimo le chiederei di valutare la candidata dei 5 Stelle, ritiene abbia abbastanza esperienza per amministrare la città?

Appendino sarebbe un cambio e a Torino non serve un cambio, serve una rivoluzione. Il progetto dei 5Stelle, aldilà della candidata che è anche simpatica, rappresenta una continuità, ovvero un “efficientamento” del modello esistente. Lo si può vedere a livello nazionale, se fanno fuori Renzi è già pronto Di Maio che va a Londra e alla BCE, Marco Rizzo non ci andrà mai alla BCE, se non per abbatterla.

Romana Allegra Monti

Arriva Salvini per Morano e manda baci ai contestatori

salvini bacisalvini polizia“Torino non ti vuole #Mai con Salvini” : con questo slogan e il lancio di qualche pomodoro un gruppetto di ragazzi dei centri sociali ha accolto Matteo Salvini nella sua visita al mercato di Porta Palazzo. Il leader del Carroccio, arrivato sotto la Mole per sostenere il morano salvinicandidato sindaco Alberto Morano  ha risposto loro inviando ironicamente baci. Secondo Salvini è “inconcepibile che per pochi manifestanti debba intervenire tanta polizia” .Torino, per il segretario leghista necessita di ” pulizia, ordine,  lavoro e sicuramente di qualche centro sociale e campo rom in meno”.  Poi ha ricucito il mezzo strappo con il candidato Morano, dopo la convergenza di quest’ultimo con Fassino in una dichiarazione sull’immigrazione. “Morano e noi andiamo d’accordo al 90%, certo lui è un uomo libero che ragiona con la sua testa e rappresenta la sola speranza per la città”

(foto: il Torinese)