
E’ dalla penna di Fabio Santoro, avvocato, classe 1984 napoletano di nascita, e londinese d’adozione, che prendono vita le avventure di Paolo Mori. Fabio Santoro, gia’ autore della “Bara Vuota” , ha scelto cosi’ di far proseguire le vicende del suo protagonista ne ” Gli occhi dell’inferno” edito da golem Edizioni, e di dedicare un sito internet www.paolomori.com, a questo personaggio, un modo per dargli letteralmente vita
Londra, ore 4:17 del mattino: l’ispettore Crowe viene svegliato da una telefonata. E’ il detective Julie Pitt, bella, bionda, ma sopratutto una delle detective piu’ promettenti di tutta Scotland Yard. ” Sua Maesta’ ” e’ tornato a colpire. Cosi e’ stato ribattezzato il killer che da anni oramai, non da pace agli esperti di investigazione, per via della corona di sangue che disegna sul muro piu’ vicino alla sua vittima. La numero 22, Isabelle Mc Shane. Suo padre, Sir Ian Mc Shane, siede alla camera dei Lord. Questa scia di sangue, dopo anni di indagini, non ha ancora nessun punto da cui partire, fino a che l’Ispettore Capo Ben Crowe, si imbatte in un conoscenza di vecchia data: Paolo Mori. L’avvocato partenopeo, approdato nella capitale inglese per una conferenza universitaria, destando il malcontento della storica fidanzata Rosa, si trovera’ inevitabilmente coinvolto in un’ indagine mortale e impossibile. Dopo gli eventi della ” Bara vuota” infatti, Mori ha cercato di ricostruirsi una vita tranquilla , lontano da situazioni pericolose. Ma ” spesso cio’ che e’ avulso dal quotidiano e’ vicino alla propria natura” consapevole del bene, ma affascinata dal male quella di Mori, lo portera’ in prima fila nelle indagini per catturare un mostro pronto a colpire di nuovo. E forse proprio Rosa potrebbe essere la nuova vittima.
E’ dalla penna di Fabio Santoro, avvocato, classe 1984 napoletano di nascita, e londinese d’adozione, che prendono vita le avventure di Paolo Mori. Fabio Santoro, gia’ autore della “Bara Vuota” , ha scelto cosi’ di far proseguire le vicende del suo protagonista ne ” Gli occhi dell’inferno” edito da golem Edizioni, e di dedicare un sito internet ,www.paolomori.com, a questo personaggio, un modo per dargli letteralmente vita, svelando tratti di una personalita’ intrigante, per coinvolgere ed appassionare sempre di più il lettore alle indagini. Il Torinese ha intervistato l’autore per farsi svelare alcune curiosita’ che si celano dietro ai racconti e alle ambientazioni.
Ovviamente quando ho pensato a Paolo Mori, quando l’ho immaginato agire all’interno delle storie che gli ho creato intorno, non ho potuto fare a meno di fare un parallelo con me stesso. In fondo veniamo entrambi dallo stesso passato professionale e abbiamo molti lati caratteriali in comune. Per quanto riguarda gli eventi nei quali si trova coinvolto è tutt’altra storia. La mia vita fortunatamente non ha mai avuto frangenti così rischiosi come i suoi e mi auguro che non li avrà mai. Credo che scrivere o leggere alcuni tipi di storie sia assai più facile che viverle in prima persona. Quello che mi piace del mio personaggio è la sua capacità di distaccarsi da ciò che lo circonda ma sempre e solo con spirito razionale. Riuscire a capire le emozioni rivestendole di logica. Vedere ed accettare il mondo per quello che è ma viverlo comunque con leggerezza e buonumore. Ma è solo la mia opinione.
Credo che ogni scrittore si lasci guidare da quello che ama di più come lettore. Sono convinto che se fossi stato un amante del fantasy avrei scritto prevalentemente di quel genere. Io ho amo il thriller, il giallo e il noir praticamente da sempre. Tuttavia ogni opera letteraria, almeno per quanto mi riguarda, parte da una storia che si ha in mente e che si desidera raccontare. Che rientri in un genere o in un altro è da rimandare solo alla storia stessa. Dubito che un qualsiasi autore faccia una scelta mirata del genere letterario dell’opera.
Credi pero’, come autore ,che ci sia una difficolta’ maggiore nello scrivere un thriller rispetto ad altri generi?
Tutti i romanzi hanno una loro difficoltà intrinseca. Il thriller può risultare arduo se non si riesce a dare una giusta e concreta spiegazione a tutto quello che avviene nel romanzo. Ogni avvenimento deve essere ben collegato e strutturato all’interno di una trama unitaria. Almeno questo è quello che credo io.
Perchè hai ambientato questo secondo romanzo a Londra? In un periodo storico in cui così tanti giovani come te si recano all’estero in cerca di lavoro lo hai usato come espediente per unire ad un romanzo ricco di suspense anche uno spaccato di una realtà che hai vissuto in prima persona?
Sostanzialmente si. Io vivevo a Napoli quando ho scritto il primo romanzo e ho scritto Gli occhi dell’inferno quando mi sono trasferito a Londra. A differenza di molti altri io non ho lasciato l’Italia esclusivamente per ragioni lavorative. Ho sempre amato l’Inghilterra e desideravo viverci, anche solo per un periodo. Ciò detto Londra è una città meravigliosa e carica di quel fascino che la rende adatta ad essere teatro di un thriller come Gli occhi dell’inferno.
Fabio Santoro Gli occhi dell’inferno Golem Edizioni
“Ecco, senti la sirena? E’ il Camoscio. Se stai attento t’accorgi che il suono è più cupo, più profondo di quello dell’Alpino. Da non confondersi con la sirena della Helvetia , un po’ meno cupa e un tantino singhiozzante”. Il bello è che aveva quasi sempre ragione
I battelli, Marta, li “sentiva”.Specialmente d’inverno, quando la nebbia lattiginosa impediva di vedere ad un palmo del naso e bisognava segnalare con le sirene ed il lampeggiante l’attracco dell’imbarcadero, lei era in grado di indovinare quale battello stesse per ormeggiare. “Ecco, senti la sirena? E’ il Camoscio. Se stai attento t’accorgi che il suono è più cupo, più profondo di quello dell’Alpino. Da non confondersi con la sirena della Helvetia , un po’ meno cupa e un tantino singhiozzante“. Il bello è che aveva quasi sempre ragione. L’errore era un eventualità piuttosto rara e, quando capitava, era del tutto venale. “Sentiva” i battelli soprattutto nelle prime ore del mattino, quando gli scafi iniziavano le loro corse di linea sulle rotte del lago, tra imbarcaderi ed attracchi sulle isole. “Zitto un attimo… Lo senti anche tu? E’ il vento che va a cavallo dell’onda. Sibila piano, a pelo dell’acqua. Guarda bene il filo della lenza del Peppo: l’aria la tende, dritta come un fuso e poi lascia che si rilassi, molle. E’ quello che mio padre chiamava al “veent cunt’el pàss balòss, quell che vöri mia tiram via da dòss”. Il vento un po’ bricconcello, dal passo svelto, che non si vuol togliere di dosso. Lui, mettendosi controvento qui sul molo, allargava le braccia. Lo annusava, lo abbracciava e diceva che gli prendeva i sospiri e gli portava indietro i sorrisi, dopo aver baciato le montagne d’inverno, quando queste avevano i capelli bianchi per le prime nevicate. Si riempiva i polmoni di quest’aria di lago. Un aria che pulisce la faccia, caccia via le ombre
e lascia sulla pelle una carezza prima di soffiar via su un’altra sponda“. L’udito l’aveva ereditato da suo padre, il Ruggero “Cavedano”, grande pescatore a canna fissa e frequentatore fisso del bar dell’Imbarcadero. Il vento, quando soffiava, dava una mano a ”sentire” i battelli. Era un amico, il vento, per Marta. A parte le bufere che, ululando, alzavano onde terribili e coprivano ogni rumore, tutti gli altri venti l’aiutavano a decifrare le imbarcazioni. Se uno specchio riflette la luce, l’aria del lago amplificava i suoni, i cigolii, il ronfare dei motori, lo sfregamento delle fiancate sui lunghi pali di legno degli attracchi. “Mio padre mi raccontava che, da giovane, sentiva il Torino quando si staccava dal molo dell’isola Pescatori. La motonave, quando i motori riprendevano fiato, aveva come un sussulto e lui – dal lungolago – lo percepiva anche se le ombra della sera inchiostravano il lago. Lo stesso difetto l’ho riconosciuto in altri due battelli: il Delfino e il Milano. Nel primo era uno strappo più secco, inconfondibile; nel secondo si doveva proprio avere un bell’orecchio perché era appena percepibile. Comunque, non mi sono mai sbagliata. Era tropo facile, invece, riconoscere il Roma. Era un bestione che poteva portare fino a 840 passeggeri ma, nonostante la sua mole, la sensazione che dava era di
agilità e di potenza. Lo sentivo quando si staccava da Pallanza perché aveva un motore che cantava come un tenore”. Rammenta bene il suono emetteva il Piemonte, l’ultimo grande piroscafo – costruito nel 1904 e varato inizialmente con il nome di “Regina Madre” – mentre solcava le onde di questo piccolo mare d’acqua dolce. I suoi viaggi, per un secolo, erano allietati dalle luci delle sue lampadine accese sul ponte principale, mentre suonava l’orchestrina a poppa e la mezza luna di levante rifletteva , vanitosa, la sua luce sul lago. Marta, appoggiata alla ringhiera vicino al molo, mi fa notare che anche stasera la scia di luce che la luna lascia sul pelo d’acqua non turba l’immobile calma del Maggiore. Persino le onde sonnecchiano e lo sciabordio è appena percepibile nel silenzio. Un silenzio che, accompagnato al buio, esalta i sensi, li estende a dismisura. Sul lago, le distanze tra le sponde si riducono, e terra, acqua e cielo sembrano parti di un’unica cosa. Solo l’aria, da una stagione all’altra, cambia. Tiepida, come una carezza vellutata in tarda primavera e d’estate; ghiacciata e carica di un infinità di piccoli aghi di neve nelle tempeste d’inverno, sfregando sulla pelle come carta vetrata. Questa sera di fine estate l’aria è particolarmente fresca ed offre, senza possibilità di scelta, un anticipo d’autunno. Marta mi ha dato appuntamento a quest’ora perché al largo passano i catamarani. Quale dei natanti lascerà scorgere il suo profilo? Il “Foscolo”, il “Pascoli” o lo “Stendhal”? Lei scommette che lo indovinerà prima ancora che sia visibile. Impresa tutt’altro che facile, ma lei è sicura. Si sente, mettendoci tutta l’attenzione del caso, un lievissimo ronzio in lontananza. Sul lago c’è una nebbiolina fine che non consente di vedere al largo. Lei mi guarda e sorridendo, dice: “E’ lo Stendhal. Ne sono certa”. E sorride. Io, perplesso, attendo che s’avvicini fino al punto di poterlo avvistare e, con stupore, vedo sulla fiancata che il nome corrisponde. “Ma come fai?”,
bugia: “Sai,Marco.. Finché si tratta di battelli e traghetti li sento bene ma i catamarani francamente non saprei riconoscerli. E poi lo Stendhal fa servizio tra Arona ed Angera. Questa sera è passato di qui perché è stato “dirottato” dalla navigazione a supplire un servizio nella parte svizzera, alle isole di Brissago. Per questo non avevo dubbi, vedi: lo sapevo in anticipo”. Rideva, rideva come una matta. Ed io feci finta di essere seccato ma la sua allegria era contagiosa e non potei resistere alla tentazione di sorridere anch’io. Bevemmo un tè al bar dell’Imbarcadero e ad un certo punto, alzando improvvisamente il capo, mi disse: “Aspetta un po’. Questo lo sento bene. E’ il Venezia. I motori sembrano avere l’asma. Cos’è successo?”.
anni universitari, o ancora l’impareggiabile luce del Mediterraneo contemplata a Santorini. Ma se c’è un luogo cui ancora oggi ricorro per trovare rifugio e possibilità di quiete per pensare a me stesso e alla comunione con gli altri, questo è la mia cella”. Ed ecco i racconti dei falò nelle notti di vigilia del 24 giugno ( San Giovanni) o di ferragosto (l’Assunta), la lode al vino come gratuità, gioia, piacere anche se “richiede misura, esige responsabilità, il raccogliersi attorno alla tavola dove il cibo è un dono. L’autunno, con la vendemmia, la torchiatura e l’odore del mosto che sconfina nella stagione dei morti, nei lunghi inverni e nella notte dell’attesa. E l’epifania che “tutte le feste porta via” ma che accende anche la speranza e ne fa una festa larga, generosa. Scrive Bianchi: “Non ci sorprende,allora, se perfino i fautori della laicissima rivoluzione francese ripresero le tradizionali galettes des Rois che addolcivano l’Epifania e disposero – con decreto del 4 Nevoso dell’anno III (il 24 dicembre 1792) – che i cittadini condividessero le galettes de l’égalité , semplici biscotti capaci di far assaporare il gusto dell’umanità che ci accomuna allo straniero, che ci fa sentire tutti uguali:quel sapore di cui resta impregnata la festa dell’Epifania”. La madre (“debole di cuore”) persa quand’era ancora bambino , Cotto ed Etta le “maestre” e poi Pinèn, il padre Giuseppe, socialista e burbero, polemico, ma generoso come sanno esserlo le persone che conoscono la fame. Bianchi ricorda come amasse ripetere, con rispetto e mai con cinismo “a ciascuno il suo mestiere. Quello che devi fare, fallo bene. Poco importa quello che uno fa:l’essenziale è che, se ne è convinto,lo faccia bene. Questo è il suo dovere!”.

per le iniziative di sensibilizzazione, formazione del personale, prevenzione dei casi di discriminazione e viene creato il Fondo regionale per le vittime di discriminazione con un primo stanziamento di 100.000 euro annui. Il Piemonte diventa così la prima Regione Italiana a istituire, dopo quello del Governo, il Fondo regionale per le vittime di discriminazione
Le principali innovazioni: rispetto della parità di trattamento da parte dei fornitori che stipuleranno contratti con la Regione; richiamo del principio di parità di trattamento nelle elezioni in attesa della nuova legge elettorale che stabilirà la forma di questa parità; interventi di informazione, formazione e sensibilizzazione nei confronti di tutte le categorie di operatori pubblici, estensione delle competenze del Garante dei detenuti anche ai casi di ex detenuti in via di reinserimento; promozione di iniziative di responsabilità sociale di impresa connesse all’attuazione del principio di non discriminazione; consultazioni periodiche con associazionismo coinvolto e competente per materia; obbligo per la Regione e gli enti strumentali di pubblicare ogni anno una relazione sullo stato di attuazione della legge sul diritto al lavoro dei disabili.


. L’Atto costitutivo e lo statuto autenticati davanti al notaio. Con indicato il nome della società, la sede legale, lo scopo sociale, il capitale iniziale, la durata della società (in Albania può essere illimitato) ed il nome/i del socio/i degli amministratori oppure i direttori2. Il modulo compilato (CNR – QKR) è depositato dal rappresentante legale della società (o da persona autorizzata con procura) In caso di registrazione di una filiale (branch)o di un ufficio di rappresentanza, il Centro Nazionale della Registrazione (CNR-QKR), oltre alla documentazione richiede:

L’esaltante esperienza di Gutenberg, Schongauer, Durer, il clima umanistico delle botteghe di Colmar e Norimberga presso Wolgemut e Koberger vengono rievocati anche attraverso utensili e materiali di lavoro tramandati da secoli, apparentemente solo funzionali, in realtà pregni di vita perché recuperati dopo avventurose e appassionate ricerche in mercati antiquari
fuorilegge? Guarda che il contrabbando è una forma di ribellione alle imposizioni. Eravamo un po’ come dei Robin Hood ed i canarini della Finanza sembravano gli sgherri del sceriffo di Nottingham”.
sott’acqua :il “sigaro del Ceresio”. Era il 1948 e veniva usato per trasportare merce di contrabbando attraverso il lago. Tre mesi di “servizio”, tre viaggi al giorno per quasi tre quintali di merce a viaggio. Poi, nel novembre di quell’anno, a Porlezza, sulla sponda comasca, il “sigaro” –che andava avanti indietro – portando roba di qua dal confine ed “esportando” in Svizzera riso, carne ed alcolici, l’hanno beccato, sequestrandolo.
chili portate in spalla, molti dei nostri “sfrosit” diventarono anche dei “passatori”, aiutando ebrei,antifascisti e militari alleati a superare quella frontiera Elvetica che equivaleva alla salvezza”. Le
pagare la multa scontava un ulteriore giorno di carcere ogni 10 lire di ammenda. Se erano in due potevano rischiare sei mesi di prigionia per espatrio clandestino, che salivano a cinque anni nei casi di recidiva e quando venovano “pizzicate” più di tre persone insieme. Ma la vita su questo pugno di terra e acqua tra Italia e Svizzera era così e l’aria, il vento, il lago e i contrabbandieri non badavano alle pietre che segnavano il confine. “Ora, dai. Allungami un po’ di foglia di Brissago”. Rinaldo si è sempre di
al servizio di un “impresario”, i contrabbandieri cercavano di fregare le pattuglie dei “canarini” della Finanza (dal colore giallo del simbolo dell’arma). “Erano bei tempi, caro mio. Tempi di fame e di fatica ma avevamo una gran voglia di vivere. Oggi, invece, sono diventati tutti tristi, un po’ matti, nervosi. Corrono,non sorridono quasi mai, sono sempre ingrugniti, insoddisfatti. Quasi fanno fatica a salutarsi e quando lo fanno, non sembrano nemmeno sinceri. A volte mi viene voglia di mettere ancora in acqua la barca, come ai bei tempi e remare finché non sono al largo per poi stendermi sul fondo e stare lì, tra l’acqua e il cielo, a farmi cullare dalle onde”.
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