Magnifica Torino / Questa mattina la città si è risvegliata sotto la neve




Mi capitò una sola volta di essere correlatore con lui in qualche convegno a Milano. Quando vidi che iniziò persino a parlare nei raduni massonico- sabaudi in provincia di Cuneo, ruppi ogni rapporto. E’ l’ esempio non solo dell’ homo unius libri, ma dell’ unico titolo: il bipartitismo imperfetto, spesso citato a vanvera perché la Dc e il Pc non furono mai il bipartitismo sia pure imperfetto, ma l’inciucio che ha dilapidato lo Stato con la scusa del compromesso storico. Galli è stato il teorico di uno dei periodi storici peggiori della storia Italiana. Poi quando il suo teorema cadde, Galli continuò scrivere come se niente fosse accaduto .Scienziato della politica? Direi proprio di no, in nessun modo. Non scrivo cosa mi disse di lui il grande Nicola Matteucci. Credevo amasse scrivere e pubblicare a dismisura. Purché si parlasse di Galli. Al Centro Pannunzio non lo volli mai. Bobbio fu tassativo . A più di 90 anni continuava a scrivere. Mi dicono si fosse avvicinato alla destra. Come il suo coetaneo Alberoni. Galli fu un Alberoni della politologia. Se i politologi sono questi, non dobbiamo poi troppo lamentarci dei politici “imperfetti”. Quel bipartitismo di Galli fu la rovina d’ Italia, non solo un libro molto citato da chi aveva l’età per leggero nel 1966, quando uscì. Molti lo citarono, senza neppure leggerlo, poi il sistema dei due formi ebbe fine, ma Galli forse non si accorse neppure della fine di un’era geologica. Pace all’anima sua, prolifico autore, noto per il primo titolo. In biblioteca sono almeno trent’anni che l’ho relegato nel piano più alto. Non capì neppure Craxi e il suo disegno politico di ampio respiro.
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scrivere a quaglieni@gmail.com
Qua la zampa / E’ circondato da libri e scritti questo bel gatto bianco e nero. Intellettuale come il suo padrone Emanuele! Inviateci le foto dei vostri animali domestici, le pubblicheremo sul Torinese.
di Pier Franco Quaglieni
Con Natale di sangue del 1920 si intendono gli scontri tra militari italiani e legionari dannunziani che difendevano Fiume italiana dopo che a Versailles la diplomazia italiana aveva fallito nei confronti della politica velleitaria di Wilson, un pistolero americano che creò solo disastri in Europa con il suo pacifismo antistorico
Un Trump al contrario che non capiva nulla. Certo la Grande Guerra aveva fatto milioni di morti ed era finita da poco. C’era ansia di pace, ma anche di giustizia . Gabriele D’Annunzio chiamo’ a Fiume combattenti, artisti ed intellettuali per difendere la storia della città italiana che era stato porto ungherese.
Anche oggi, malgrado i tentativi di cancellarne la sua memoria,urla la sua italianità. La Reggenza italiana del Carnaro scrisse anche una costituzione molto avanzata che piacque a Lenin e riconosceva il divorzio , per citare un esempio. L’ultimo governo Giolitti , non volendo ripetere gli insuccessi di Francesco Saverio Nitti, chiamato con disprezzo da D’Annunzio “Cagoja “, mando’ il generale Caviglia, l’eroe di Vitttorio Veneto, a scontrarsi con altri italiani che avevano dimostrato di amare e di aver combattuto per l’Italia .Il Natale di sangue.
Grigioverde contro grigioverde e una condotta poco chiara da parte della Corona che non poteva essere insensibile a dei combattenti. Io se fossi vissuto cent’anni fa, sarei stato di famiglia giolittiana anche se i nonni e gli zii erano andati volontari in guerra ed alcuni erano caduti già nel 1915. Certo c’era la fedeltà al dovere dell’obbedienza che le stellette imponeva ad un ufficiale, ma credo che l’amore per l’ Italia avrebbe prevalso. Scontrandomi con la mia famiglia, probabilmente sarei corso a Fiume , come tanti.
Non è vero che Fiume rappresento’ il ribellismo fascista che precederà la Marcia su Roma. I fascisti fiumani erano pochi e Mussolini fu sleale con d’Annunzio. Gli sottrasse persino la sottoscrizione di soldi fatta dal “Popolo d’ Italia“ per sostenere l’impresa di Fiume. Era un Mussolini avventuriero e alle prime armi , pronto a qualsiasi compromesso.
Fiume fu un ritrovo anche di avventurieri, sbandati, omosessuali, drogati. Luogo di guerra e di Libero amore. Il Natale di sangue si ridusse ad un fatterello militare di scarso significato, ma indicò al mondo che c’era un poeta soldato – un grande poeta noto a livello internazionale- e migliaia di suoi seguaci pronti a battersi per un‘ ideale di Patria. Se penso che poi Fiume divenne titina e che gli italiani non infoibati furono costretti a fuggire in Italia, provo una grande indignazione L’Italia aveva diritto a Fiume per i suoi 650 mila morti nella Grande Guerra.
Poi a Fiume c’erano anche esaltati, opportunisti e massoni che certo non guardavano alla Patria, ma ai loro affari. Ma cent’anni fa c’erano italiani capaci di correre a Fiume per un grande ideale. Oggi cerchiamo di sopravvivere con una mascherina indosso, sperando che serva a salvare la pelle. I poeti non ci sono più da tempo. Una categoria estinta in un’Italietta di fronte a cui un generale ribelle libico può alzare la voce e tenere in carcere per oltre 100 giorni dei pescatori italiani.
Dopo qualche mese che si vive in una nuova città, camminando in quelli che ormai diventano i soliti luoghi, si entra in intima confidenza con i nomi di strade, piazze, parchi; il contesto è sempre più familiare, il che ti permette quasi di muoverti con spregiudicata sicurezza. C’è da dire che siamo in epoca di pandemia e troppa audacia negli spostamenti adesso non è concessa, per giunta molte attività restano chiuse e il nostro tempo libero ne risulta completamente stravolto, quello che l’anno scorso era del tutto normale oggi ci sembra lontano. In tempo di limitazioni la creatività è d’obbligo nel tentativo di soddisfare i momenti di svago, a cui contribuisce anche una rinata curiosità.
Non è un caso che abbia parlato di nomi di vie o piazze, perché se è vero che ogni città è fatta di strade e ognuna di queste porti un nome è anche vero che l’origine di questi nomi è diversa da città e città e raccontano storie differenti. Si può quasi arrivare ad affermare che per conoscere una città e la sua storia si debba passare anche per la sua toponomastica, quel complesso studio scientifico dei nomi di un luogo, considerati nella loro tipo di derivazione, composizione, origine.
Tutto decisamente molto vero, dal canto mio però anziché addentrarmi nell’articolato reticolo di un lungo passato, quello che mi sono chiesta non è tanto come mai una via abbia un nome anziché un altro, mi sono invece concentrata sulle personalità, su cosa hanno fatto questi personaggi, curiosa di conoscere chi attraverso il loro nome è ora mio vicino di casa. Un semplice gioco, ma simpatico nei suoi risvolti.
Il vicinato è illustre, fatto di Santi Martiri, come San Maurizio e Sant’Ottavio, quest’ultimo ritenuto uno dei primi martiri di Torino, poeti, musici e letterati, Niccolò Macchiavelli o Gioacchino Rossini, duchi di Savoia, ma la maggior parte delle viuzze più piccole dedicate a varie località mi porta a visitare il Piemonte settentrionale. Un tour tra storia locale e territorio insomma, fin qui tutto regolare. Le cose iniziano a cambiare quando perdendomi tra questi nomi e strade di Torino finisco anche per ritrovarmi tra la storia e le storie di Napoli. I primi indizi emergono quando per raggiungere il parco più vicino mi scontro con via Benevento, qualcosa qui mi dice che le strade iniziano ad incrociarsi. Il parco Colletta, quello da raggiungere, è decisamente una vasta area verde in piena città, un’ottima boccata di ossigeno. Ha una storia lunga alle spalle risalente al XVII secolo quando i Savoia progettarono un grande parco di caccia vicino alla città, tra la confluenza della Dora e della Stura con il fiume Po, ottenendo così la denominazione di Regio Parco, ma con l’assedio di Torino del 1706 il parco venne distrutto. Oggi questo ultimo come lo vediamo adesso è stato recuperato negli anni ’80 ed è dedicato a Pietro Colletta, storico e generale napoletano, la sua opera più importante? Storia del reame di Napoli dal 1734 al 1825, adesso si comincia a sentire una maggiore familiarità.
Coincidenze direte voi, una simpatica casualità di sicuro, ma quando dal parco decido di spostarmi verso il centro mi trovo ad attraversare quella grande strada che spesso sento chiamare dai torinesi semplicemente come Corso Regina, la domanda sorge spontanea, ma quale regina? Parliamo della Regina Margherita ovviamente, prima regina consorte di Italia. La sua figura storica è di certo quella di donna culturalmente acuta, una personalità carismatica, ma naturalmente la mia mente non riesce ad ignorare la leggendaria storia che la vede protagonista e che la lega all’origine della pizza Margherita, grazie al cuoco Raffaele Esposito che durante il soggiorno napoletano dei sovrani nel 1889 volle omaggiare la regina attribuendo il suo nome all’iconica pietanza.
In realtà i legami tra Napoli e la Regina non si esauriscono qui dal momento che soggiornò a lungo presso la reggia di Capodimonte, e molti sono gli aneddoti, a dire il vero spesso culinari, e come darle torto. Sembra infatti che dobbiamo ringraziare ancora lei e il suo fidato cuoco Raffaele Esposito anche per le chiacchiere, o bugie come qui conosciute, dolce carnevalesco semplice, ma gustoso.
Le contaminazioni tra le strade son tante e il gioco potrebbe sicuramente continuare, ma forse adesso è solo la mancanza di quell’altra e famosa margherita a guidarmi!
Annachiara De Maio
IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni Che Chicco M e n t a n a intervisti il cardinale Gianfranco Ravasi mi infastidisce, mi intristisce, mi turba. Ravasi e’ un gigante, M e n t a n a un giornalista ambiguo, adatto a discutere con Bersani, Fini e Renzi
Quando M e n t a n a evoca la parola morte ci porta a incrociare le dita. Ravasi quando parla di morte , ci porta a pensare al mistero della morte, ma anche al mistero della resurrezione. Ravasi ci porta a riflettere per capire la vita e i suoi dolori. M e n t a n a ogni sera da’ il Bollettino dei morti e non va oltre. Mi è quasi impossibile ascoltare le alte parole di Ravasi mescolate con le banalità di M e n t a n a . Il cardinale ha una umanità smisurata, rafforzata da una cultura altrettanto smisurata. Ravasi sente la solitudine della morte non come una cronaca da tg di Cairo con la coda acida della Gruber. Così impedite di sentire il conforto del Cardinsle che è uomo, prima di essere un porporato. Io lo conosco e non lo vedo mescolato con M e n t a n a che esprime una tv commerciale, Ravasi è ricchezza spirituale, e’ donazione di se‘. M e n t a n a non mi sciupi anche il Natale della sobrietà. Ci lasci ascoltare la voce di Ravasi che ci fa sentire la parola di Cristo bambino e di Cristo risorto. Il virus ha tragicamente ucciso persone, ma ha anche ucciso le banalità giornalistiche. Non ci dia M e n t a n a lezioni di laicità. A noi basta Benedetto Croce. E insieme a Croce “non possiamo non dirci cristiani”. E non solo a Natale . E non insista ossessivamente con Pasolini che è la forzatura evidente di un ateo che vuole interferire nel cristianesimo senza averne titolo. Il Cardinale è un vero cristiano ed e un uomo molto paziente. Ma non a caso egli invoca il silenzio interiore contro la “socializzazione forzata” di cui la tv è uno strumento che guasta la nostra quotidianità, creando ansia continua. I tg vivono di titoli eclatanti, del tutto incuranti della sensibilità di chi ascolta; la fede ascolta invece i nostri sconforti e ci offre una risposta come sa fare il Cardinale Ravasi.
Era in vendita in tutte le edicole italiane e poi l’Anpi ha invitato a non venderlo in nome ovviamente della libertà… Io acquistai il calendario nel 1960 e un’altra testa quadra come mio zio molto simile a L e r n e r , mi riprese duramente per l’incauto acquisto Mio padre che era stato un vero liberale senza fanatismi, invito’ mio zio a tacere perché sentiva puzza di regime in casa. Mio padre leggeva Pannunzio e Guareschi, ma non tollerava i comunisti intolleranti. Leggeva Croce, ma non Lenin. Secondo lui i rossi e i neri andavano combattuti e basta. Pur laico, amava i preti perché nel 1948 arginarono il pci. Io sfogliai il calendario proibito senza provare ne’attrattattiva ne’ scandalo. Vidi per la prima volta il duce e sembrava illogico che non mi fosse stato mai consentito di vederlo, anche se tanti anni dopo scoprii in casa una vecchia fotografia di Mussolini dedicata ai medici d’Italia che non era lì per caso. Non indagai, ma ebbi dei dubbi sull’ dei calendari. Il discorso si chiuse li’. Dieci anni dopo, se lo avessi saputo, sarei andato a comprarmi il calendario di Alessandra Mussolini seminuda, ma forse questa era una notizia falsa per squalificare chi costrinse al ballottaggio Bassolino a Napoli, senza esibire seni e coscie. Che in questo maledetto 2020 ci sia ancora un vecchio L e r n e r che nessuno legge più, che urla contro il calendario, fa ridere . L’unica cosa comica di quest’anno. E incolpa anche un pessimo libro di Bruno Vespa sul duce scritto molto male, di aver ricreato il clima favorevole al calendario. Caro L e r n e r, a far rivalutare Mussolini , malgrado la guerra fascista con milioni di morti, sono troppi antifascisti di cartapesta che accettano e sostengono Conte e di Maio. Non è il calendario che mina le istituzioni democratiche , ma il disastro a cui ci hanno portato, con l’aiuto di una pandemia non affrontata con serietà e ancora oggi in pieno, drammatico sviluppo da chi ci governa. Un po’ ha dato una mano Scurati con il libro M. che, nelle sue esagerazioni faziose e non storiche, fa pensare ad una sorta di Achille Starace dell’antifascismo di questo primo ventennio del nuovo secolo. Ventennio, parola terribile e impronunciabile , se pensiamo che nel 1922 ci fu la Marcia su Roma.
Rubrica settimanale a cura di Laura Goria / In questa puntata dell’Isola del libro dal sapore natalizio ecco 10 libri dell’anno letti per voi, che sarebbero da portare assolutamente su un isola deserta e con i quali trascorrere ore magiche. 10 autori e titoli da non perdere e da regalare.
Questo è davvero un libro splendido. Più che una biografia, è “un romanzo liberamente ispirato” alla vita dell’americana Dorothy Parker (1893 – 1967). Un’ icona del XX secolo, emblema di fascino, raffinatezza e snobismo intellettuale nella New York degli anni 20 e 30. Fu giornalista di grido, scrittrice, poetessa, amica di artisti e del bel mondo dell’epoca.
Nasce con l’altisonante cognome Rothschild e, anche se la sua famiglia non ha connessioni con l’omonima banca, conosce e frequenta tutti i posti alla moda.
A 21 anni è assunta da Vogue come assistente editoriale: ma ha talento, è geniale ed ambiziosa. Così da semplice autrice di didascalie fotografiche diventa una firma di punta. E’ amica di grandi scrittori – Hemingway, Fitzgerald, Dos Passos-. Con Robert E. Sherwood fonda -ed è l’anima- della cosiddetta Tavola Rotonda (nel mitico Hotel Algonquin di New York); celebre anche come “circolo vizioso” dove si incontrano artisti, intellettuali e giornalisti che miscelano lavoro e divertimento. Dottie firma pezzi ferocemente acuti, autoironici, e prende brillantemente in giro il mondo dorato che frequenta.
Nella vita privata colleziona 2 aborti, 3 mariti e vari amanti bellissimi, più giovani di lei. Attanagliata da un perenne senso di angoscia, cerca di annullarlo con l’alcol e ripetuti tentativi di suicidio. La parabola della sua vita è discendente; invecchia presto e male, gli ultimi anni sono intrisi di povertà e solitudine, ed è stroncata da un infarto a 73 anni. Le ceneri del titolo sono quello che resta di lei dopo la cremazione. Dispone che sull’urna venga scritto “Scusate le ceneri”… che nessuno reclamò per ben 21 anni.
E’ la bellissima e travagliata storia del medico Victor Dalmau, scappato dalla guerra civile spagnola nel 1939, grazie all’aiuto di Pablo Neruda che noleggiò il piroscafo Winnipeg e portò più di 2000 repubblicani -in fuga dal regime franchista- in Cile. A bordo della nave ci sono Victor e la giovane pianista Roser Bruguera, i cui destini si uniscono indissolubilmente nel paese che è un “lungo petalo di mare e neve”. Tra amori passionali, matrimonio di facciata e poi unione profonda; attraversando pagine storiche durissime, come il golpe che nel 1973 fece cadere il presidente cileno Salvador Allende e consegnò il paese alla spietata dittatura dei colonnelli e alla morte di migliaia di desaparecidos. Non solo una grande storia d’amore, ma anche di rifugiati politici, esilio, migrazioni e ricerca di identità. Tutte cose che lei ha vissuto sulla sua pelle; è infatti la nipote del presidente socialista Salvador Allende destituito da Pinochet, e fu costretta all’esilio.
Per questo romanzo -con echi che richiamano il capolavoro assoluto della Allende “La casa degli spiriti”, del 1982, da cui l’omonimo film con Jeremy Irons- si è ispirata alla vita vera dell’esule Victor Pey, che conobbe in Venezuela. Lo incontrò 40 anni fa e solo ora si è decisa a raccontare la sua storia. Lui è morto -a 103 anni e lucidissimo fino alla fine- 6 giorni prima che lei potesse mandargli il manoscritto.
La scrittrice ha conosciuto personalmente anche Neruda; lei era una giovane giornalista e lui si rifiutò di concederle un’intervista dicendo che inventava troppo per il mestiere che faceva e che avrebbe dovuto invece dedicarsi alla narrativa. Ha seguito il consiglio ed oggi è la scrittrice di lingua spagnola più letta al mondo con 22 romanzi, tradotti in 35 lingue e 67milioni di copie vendute.
E’ il secondo Premio Strega che Veronesi si porta a casa (dopo quello nel 2006 con “Caos calmo”)
ed è la bellissima storia di una vita raccontata con la profondità a cui ci ha abituati. L’esistenza è quella dell’oftalmologo Marco Carrera, soprannominato “il colibrì” -come il piccolo uccello, apparentemente fragile- perché la sua statura sembrava aver segnato una battuta d’arresto. Nasce nel 1959 in una classica famiglia borghese fiorentina, e finisce i suoi giorni (in pagine che vi lasceranno il segno) in un ipotetico futuro 2030. In mezzo a questi poli opposti c’è la sua avventura umana, con gli sgambetti che il destino può fare, e ci sono i personaggi che abiteranno la sua vita.
Come la nipotina orfana Miraijin, che lui cresce con amore infinito e che diventerà una leader e concreta speranza di una nuova era per l’umanità.
I dolori nella vita di Marco sono una costante, ma lui è un colibrì e nella tempesta resiste tenacemente in volo sbattendo forsennatamente le ali. E dopo tanto peregrinare, arriva la fine che, coraggiosamente, sceglie per se, orchestrando la scena in un modo che già da solo vale tutto il romanzo.
Acapulco, Lydia e il figlio di 8 anni, Lucas, sono in bagno quando sentono i colpi a raffica che massacrano la loro famiglia – 16 persone- riunite in cortile per festeggiare la quinceañera di una nipote. Miracolosamente riescono a scampare alla carneficina; ma da quel momento saranno soli al mondo e braccati dai narcotrafficanti.
Iniziano così 400 pagine a perdifiato che narrano l’allucinante corsa verso los Estados Unidos, di una giovane donna e del suo piccolo-grande ometto, genio della geografia. E il romanzo ci catapulta in qualcosa che per noi è inimmaginabile.
“Il sale della terra” è la sconvolgente storia della loro fuga: su treni da prendere in corsa col rischio di essere spappolati, incontri con personaggi dall’umanità dolente, profonda e varia, alcuni pronti a fregarli, altri invece amichevoli. Un’Odissea che Jeanine Cummins -scrittrice spagnola, cresciuta nel Maryland, residente a New York- ha scritto dopo lunghe e approfondite ricerche, viaggiando da un lato all’altro del confine, per dare voce e rendere omaggio alle “migliaia di storie che non sentiremo mai”.
Veleggia tra romanzo e biografia lo splendido ritratto che Romana Petri dedica a uno dei massimi scrittori americani, Jack London, svelandoci gli anfratti della sua anima, gli alti e bassi della sua vita.
Amava definirsi “figlio del lupo” e presentiva di morire giovane perché il fuoco che aveva dentro “..aveva la fame di un lupo”: non si sbagliava, nato nel 1876 morì a soli 40 anni nel 1916. Una vita breve, ma in continua azione, tra mille mestieri, sempre nel tentativo di tenere insieme realtà e letteratura. Il carattere impetuoso, l’assenza del padre biologico compensata dall’affetto per il padre adottivo John London; il peso della madre Flora che parlava con gli spiriti dei defunti e mal sopportava le donne a cui si legò.
Donne che furono determinanti, ognuna a modo suo, a partire dalla giovane piccolo-borghese Mabel che non capì il suo talento. Poi l’affascinante ed enigmatica intellettuale russa Anna, che considerava anima gemella. La prima moglie Bessie, sposata con scarsa convinzione, che gli darà due figlie, ma non il tanto atteso erede maschio. Per ultima, l’amica Charmain che si trasformò in amante e poi seconda moglie, restandogli accanto fino all’ultimo respiro.
Valeria Costas è una famosa scrittrice 55enne che per 25 anni è stata l’amante dell’imprenditore di successo Martín Aclà, sposato con la pittrice Isla Lawndale con la quale ha messo al mondo tre figli. Dalla radio Valeria apprende che Martín ha avuto un ictus e da quel momento la sua vita vira bruscamente.
E’ semplicemente magnifico questo romanzo della scrittrice milanese 43enne Ilaria Bernardini, che parla di amore, tradimento, rimpianti, fraintendimenti, omissioni, segreti, lutti e ferite inferte dalla vita.
Valeria che è sempre rimasta nell’ombra, ora sprofonda nel terrore di non poterlo più rivedere. E cosa s’inventa per avere sue notizie e potergli stare più vicina? Chiede alla moglie di Martin di farle un ritratto da usare per la copertina del suo nuovo libro. Isla accetta, riesuma tele e pennelli, e invita Valeria a posare per lei nella sua casa londinese.
Trama a dir poco geniale e carica di suspense. Inizia così il via vai dell’amante nella casa di Martin,
in una situazione ambigua e anche pericolosa perché Valeria più volte, di soppiatto, si infila nella stanza in cui lui, incosciente, è tenuto in vita dai macchinari.
E come andrà a finire? Gustatevi il romanzo fino alla sorpresa finale.
E’ un’autobiografia ricca di ironia, amori, figli, amarezza, malinconia e tanto cinema quella dell’84enne Woody Allen, regista e artista poliedrico di incommensurabile talento.
E se vi state chiedendo se narra anche la bruttissima storia con Mia Farrow, sappiate che alla vicenda riserva pagine al vetriolo in cui chiarisce una volta per tutte come sono andate le cose.
Parte dagli inizi, a soli 16 anni, con l’inventiva che lo contraddistingue e lo porta a scrivere battute al fulmicotone per radio, cinema, tv; poi 60 anni di carriera in cui ha scritto e diretto una cinquantina di film, che spesso ha reso memorabili con la sua recitazione in ruoli da protagonista (uno per tutti, l’esilarante “Provaci ancora Sam”).
Nel libro ci sono gli incontri con grandi personaggi, le sue fobie, tanti aneddoti e capitoli
dedicati ai suoi matrimoni e convivenze. Poco meno di 400 pagine che scorrono alla velocità della luce…
Il nuovo travolgente e camaleontico thriller dello scrittore ginevrino (diventato famoso con “La verità sul caso Harry Quebert”), questa volta è ambientato in un hotel di lusso sulle Alpi svizzere.
Il romanzo è una sorta di gioco di specchi tra finzione narrativa e autobiografia, perché a mettersi sulle tracce del mistero che avvolge la camera 622 -nella quale 15 anni prima era avvenuto un delitto- è un giovane scrittore che assomiglia parecchio a Dicker… e riesce a risolvere un classico intrigante cold-case.
Tutto ruota intorno alla banca Ebezner, da più di 300 anni saldamente nelle mani della stessa famiglia, con la carica di presidente tramandata per generazioni di padre in figlio; ma ora le cose sono cambiate e l’incarico andrà a chi si dimostrerà davvero all’altezza.
E’ così che si scatena la lotta tra Macaire Ebezner e il brillante Lev Levovitch, affascinante self made man; i due si contenderanno anche la bellissima Anastasia (moglie di Macaire).
Movimentano ulteriormente la trama altri personaggi carichi di mistero, divoranti ambizioni, rapporti familiari complessi e controversi, amori e tradimenti, appuntamenti mancati e occasioni perdute, avvelenamenti e intrighi, in un folgorante susseguirsi di colpi di scena e con un epilogo insospettabile…632 pagine che non vorreste mai finire.
E’ un romanzo mastodontico (1127 pagine), ma dentro c’è tutto ed è magnifico.
100 anni di storia – più precisamente “Il secolo rosso” – che travolgono le vite dei protagonisti: un mix sapientemente dosato di famiglia, amore, utopie, fughe, segreti, tradizioni, ribellione, sacrificio, passioni, codardia, coraggio, torture, tradimenti, aborti, assassinii, e molto altro ancora in
un’ altalena di tragedie collettive e private.
Voce narrante è quella di Niza che ricostruisce la saga degli Jashi, famiglia borghese benestante che deve la sua ricchezza al capostipite, industriale che ha inventato una ricetta segreta della cioccolata, tramandata attraverso 5 generazioni di donne incredibili.
Fortissime nell’affrontare il vortice storico che vede la Georgia dapprima governata dagli zar, poi indipendente, in seguito bolscevica e sovietica -tra terrore, purghe e gulag-. Dilaniata da 2 guerre mondiali, l’assedio di Leningrado, la Guerra Fredda, la Primavera di Praga, la perestrojka, la caduta del Muro… fino ad arrivare alla tris nipote Brilka nata nel 1993. Un romanzo che il “New York Times” ha definito «commovente, straziante, sublime».
Protagonista e voce narrante di questo romanzo è Astolfo Malinverno: uomo sensibilissimo, zoppo, malinconico e con la capacità di comprendere a fondo i dolori altrui. Vive a Timpanara, dove sorgono una cartiera e un maceratoio dai quali escono e si librano nell’aria volumi, fogli di giornale, pagine varie e assortite che diffondono il morbo della lettura tra gli abitanti.
Astolfo è il bibliotecario del paese e il guardiano del cimitero. La sua giornata è equamente divisa tra le due mansioni, e la storia mescola in modo meraviglioso vita, dolori, gioie, vezzi, amore, follie, sacrificio e morte che si amalgamano nei vari personaggi e nei misteri inerenti all’esistenza terrena e all’al di là.
Tra le pagine più sublimi, quelle in cui Astolfo si innamora della foto di una donna misteriosa che campeggia su una pietra tombale priva di nome e date. Un colpo di fulmine e l’inizio di un mistero. Poi conosciamo altri dolenti; da chi vuole essere unito in matrimonio con un defunto, a chi, straziato
dalla morte del suo cane, è riconoscente ad Astolfo che con pietas fuori dal comune lo seppellisce nel camposanto, dove il padrone è destinato a raggiungerlo… perché anche gli animali hanno un’anima. E ancora c’è chi crede a una formula numerica come teorema per calcolare il sopraggiungere della morte, chi registra voci e sussurri dall’oltretomba e tanti altri personaggi incredibili.
Un libro tutt’altro triste, perché sciorina poesia, amore, sentimenti profondi e la favolosa sensibilità di Astolfo che capisce l’amore indissolubile che può legare i sopravissuti a chi non c’è più.
Si contano a centinaia le bands garage rock americane che negli anni Sessanta impostarono le proprie sessioni di incisione (45 giri o acetati) “al risparmio”.
Ed era alquanto difficile poter confezionare prodotti accettabili alla luce di spese ridotte all’osso, anche perché tutti ben conosciamo il vecchio proverbio che recita “non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca…”. Eppure parecchie bands tendevano ad incaponirsi, magari propendendo all’utilizzo di buona strumentazione ma con apparecchi di presa di suono del tutto inadatti e talvolta perfino dozzinali per il suono rock. Già in altri articoli feci riferimento a studi di registrazione “adattati”, “di fortuna”, ricavati in stanze d’albergo riutilizzate o perfino in sottotetti di vecchi edifici, da cui non potevano che scaturire suoni di livello mediocre, quasi imbarazzanti. Una band “meteora” che rientrò pienamente in questa casistica fu “The Insane”, gruppo sorto nell’area tra Southington, Plainville e Bristol (Connecticut), composto da studenti di liceo: Jerry Talbot (chit), Bill Tomlin (chit), Gary Shea (b), Peter Brown [(V), org], Bill Buckland (batt). La band nacque il 1 gennaio 1967 e probabilmente investì la maggior parte del “budget” in area manageriale ed esibizioni “live”, affidandosi ben presto alla guida del manager Ken Griffin e all’agenzia Christopher Productions. L’area di azione era abbastanza estesa e copriva tranquillamente 4 stati: Connecticut, Massachussets, New York e Rhode Island; il repertorio si basava su rock&roll, soul e “cover” di varie bands (“in primis” The Who). A differenza di altri gruppi (che nemmeno la videro col binocolo la sala di registrazione…), “The Insane” riuscirono già entro luglio 1967 a tenere una sessione di incisione in una palestra di liceo a Thomaston (Connecticut), con intermediazione e supervisione di Gary Przybylski. A dispetto dell’”entourage” si può facilmente evincere che il prodotto finale tradisca uno scarso investimento sul versante discografico, materializzatosi nell’unico 45 giri: “I Can’t Prove It” [Pete Brown] (side B: “Someone Like You” [Brown – Buckland]), con etichetta Allen Associates. Come detto ad inizio articolo, è probabile che in questo caso si fosse in presenza di apparecchi di presa di suono inadatti, ben denotato dal fatto che la batteria è davvero troppo invasiva ed il suono vocale è contaminato e quasi gracchiante; inoltre anche la fase di mixaggio risultava sommaria, confermata da uno squilibrio lampante tra voce principale e “back vocals”, in cui le seconde, in più punti, sovrastano la prima quasi annullandola. In seguito riprese il fitto calendario di “gigs”, specialmente in Connecticut (tra Hartford, Bristol e Middletown)e Massachussetts (Springfield e Worcester), esteso tra autunno 1967 e primavera 1968, quando ebbe luogo un secondo tentativo di incisione, questa volta sostanzialmente abortito e concretizzatosi solo in acetati mediocri. La mancata incisione assestò un colpo non trascurabile all’entusiasmo della compagine, specialmente se si pensa che, come sempre, si avvicinava inesorabile il fatidico “bivio” del college, vero banco di prova per la “tenuta” di molte bands di adolescenti americani. “The Insane” non fecero eccezione, sciogliendosi nell’estate 1968 a fronte anche della chiamata in esercito, ostacolo insormontabile per migliaia di altri gruppi musicali dell’epoca.
Gian Marchisio