Rubriche- Pagina 8

La gallina Maddalena e gli opossum

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Nel santuario torinese di piazza Santa Rita da Cascia, con un gesto cristianamente dubbio e poco credibile considerate le sue convinzioni religiose, Carletto accese una candela davanti alla statua della santa degli Impossibili ringraziandola, confidando nella sua divina intercessione affinché venisse mantenuta nel tempo quella grandissima invenzione che gli anglofoni chiamavano smart working e gli autoctoni avevano tradotto in lavoro agile. A dire il vero, almeno per lui e per chi apparteneva a quello che alcuni ribattezzarono “il club degli opossum”, la parola lavoro provocava un naturale rigetto, una sorta di eritema dell’animo. Cerimonioso, abilissimo a svicolare gli impegni e a rendersi quasi invisibile per schivare il lavoro, Carletto aveva interpretato a modo suo il lavoro a distanza, da casa. Omettendo il riferimento a tutto ciò che significasse attività, servizio, impiego, mansione, compito, responsabilità, azione oppure risultato si era concentrato sulla parte dell’agile da intendere come un processo di inoperosità, massima aspirazione per coloro che non provavano alcun rimorso nell’essere dei perdigiorno, degli scansafatiche. Pazienza se poi questo atteggiamento sfociasse nell’imbroglio o nella truffa, ingannando il prossimo e principalmente chi gli aveva affidato il lavoro.

Rosina, sua socia in tutto e per tutto (aspetti sentimentali a parte), la pensava ovviamente alla stessa maniera. Erano davvero una bella coppia e, affidandosi all’immortale capolavoro di Collodi, non si faticava a identificarli con il gatto e la volpe. O con l’opossum e la sua nota strategia di fingersi morto per scoraggiare i predatori. Solo che, nel caso dei due, si trattava di un buon modo per schivare lavoro e impegni, infrattandosi al fine di rendersi indivisibili e silenziosi. Il lavoro reclamava attenzione e presenza? Chissenefrega e buonanotte ai suonatori, tanto c’era sempre qualcuno sul quale si poteva, in qualche maniera, scaricare le incombenze. Rosina era nipote di Mario, conosciuto dai più come “il Mario pulito”, uno stradino originario della provincia di Rovigo il quale, mantenendo fede al suo soprannome, aveva sempre e tenacemente operato per ottenere con il minimo sforzo la massima resa dalla sua attività. A differenza di sua moglie Maria che si “tirava nera” a lavorare, lui era diventato famoso per la proverbiale abilità a sdraiarsi ai bordi della strada dove, disteso su un vecchio plaid, allungava le mani nelle cunette per estirpare le erbacce con movimenti tanto lenti quanto studiati. Ben attento a non faticare troppo e a non sporcarsi gli abiti. Se ne accorse anche il vecchio cavaliere Hoffman, pentendosi amaramente di avergli offerto il lavoro di giardiniere nel parco della sua villa. Il buon Mario si sdraiava sotto gli alberi sul finire dell’estate in pigra attesa che le foglie cadessero e solo quand’erano tutte a terra, con una gran flemma, iniziava a raccoglierle, una ad una. E lo stesso in primavera quando, dopo la sosta invernale dove veniva pagato per non far nulla, attendeva che l’erba crescesse fino ai polpacci per rasare il prato con il tosaerba riservandosi tutto il tempo che riteneva necessario. La nipote non poteva certo smentire quell’attitudine perché, come si usa dire, buon sangue non mente. Eppure i due, nonostante tutto, erano simpatici e nemmeno lontanamente paragonabili a Stella, conosciuta come “la gallina Maddalena”, parafrasando una canzone di Roberto Vecchioni. A parte l’idiosincrasia per il lavoro che, forse, poteva accomunarla a Carletto e Rosina ma in una versione molto più acuta, la sua personalità era contorta e poco raccomandabile. Falsa come il peccato di Giuda, cattiva d’animo e terribilmente pettegola, anche lei come la gallina Maddalena si credeva una faraona e ingrassava “senza fare mai le uova”. Piena di se e sempre pronta a cambiar bandiera, tagliuzzava i vestiti addosso al prossimo con la sua linguaccia ma non voleva essere criticata (“io, le cose, non le mando mica a dire… Io, le cose, non le faccio alle spalle. Non è vero che io non abbia mai torto: sono gli altri che non hanno mai ragione”). Quel posto di lavoro per lei era solo un rifugio all’ombra del politico compiacente e lo smart working lo intendeva non come lavoro a distanza ma la maggior distanza possibile dal lavoro che, peraltro, non era in grado di fare a causa dei propri limiti e dell’assenza di un seppur piccolo barlume di volontà. Ma come spesso capita le cose possono cambiare improvvisamente e non è detto che i cambiamenti siano in meglio. Anzi. E così capitò che un giorno finì il suo credito con la fortuna e dovette ridare indietro tutto ciò che aveva ottenuto con intrighi e piccole furbizie. In poche parole, dalla sera alla mattina, la gallina rimase “senza penne sul di dietro”. Ancora una volta quella canzone del grande maestro ritornava quasi fosse una condanna (“Maddalena dei lamenti, che stà lì, che aspetta e spera; Maddalena senza denti, vittimista di carriera; Maddalena dei padroni che van bene tutti quanti: le stanno tutti sui coglioni, però manda gli altri avanti”). Quelli che definiva i suoi santi in Paradiso caddero in disgrazia e per quanto manifestasse la sua disperazione, le toccò andare a lavorare in un fast food. Tra le otto e le dieci ore al giorno a friggere ali di pollo e patatine senza il conforto di un aeratore che funzionasse erano il risultato dell’applicazione della legge del contrappasso per chi, come lei, aveva sempre riso in faccia a chi era costretto a faticare per mettere insieme il pranzo con la cena. E lì la presenza al lavoro era obbligatoria, non facoltativa. Qualche volta capitò che dei conoscenti ai quali aveva riservato in passato le sue attenzioni, delle quali avrebbero fatto volentieri a meno, si fermassero a fare un boccone in quel locale canticchiando “Maddalena, Maddalé, Maddalena dei funamboli: prima c’era e poi non c’è, Maddalena, Maddalé; Maddalena dei tuoi comodi: basta che va bene a te; Maddalena dei pronostici: “io l’avevo detto che…”. Maddalena dei colpevoli: tutti quanti tranne te, Maddalena, Maddalé”.

Marco Travaglini

Sapore di mare: gratin di pesce in conchiglia

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Una preparazione dedicata ad un momento di festa che soddisfera’ anche i palati piu’ raffinati

Eccovi una proposta deliziosa a  base di pesce per  un antipasto originale e d’effetto. Una ricetta delicata, un’armonia di sapori resi ancora piu’ invitanti dalla presentazione in conchiglie di capesante, una preparazione dedicata ad un momento di festa che soddisfera’ anche i palati piu’ raffinati.

 

Ingredienti per 8 persone:

300gr. di filetto di nasello

300gr. di salmone fresco

10 code di gaberoni

250gr. di besciamella

100gr. di parmigiano grattugiato

100gr. di emmenthal

Sale, pepe, prezzemolo q.b.

Cuocere a vapore il nasello, il salmone e le code di gambero, lasciar raffreddare. In una ciotola sminuzzare il pesce, salare, pepare, aggiungere tre cucchiai di parmigiano, l’emmental tagliato a cubetti, il prezzemolo tritato e la besciamella. Mescolare con cura, riempire con il composto ottenuto i gusci delle capesante, cospargere di parmigiano e infornare a 200 gradi per 10 minuti poi lasciar gratinare sotto il grill sino a completa doratura. Servire la conchiglia calda su un letto di insalatina.

 

Paperita Patty

Oltre il grigio sabaudo: eleganza e libertà di colore a Torino

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Quando ci si avvicina a Torino, al ritorno da un periodo altrove, si vede una città grigia. E’ stato, per decenni, il grigio-fabbrica; ora la fabbrica non c’è più, ma il grigio è rimasto.

Molte signore torinesi si adattano al grigiore: anche in virtù dell’understatement sabaudo, scelgono grigio, blu e nero, un po’ di beige, e bianco nelle stagioni più calde. All’arrivo a Torino, si tende a conformarsi a questa tendenza: gli altri colori ci sembrano fuori posto. Continuiamo così, a ignorare (pressoché) gli altri colori, o prendiamo atto che qualche altro colore ci piace e ci sta pure bene?

Io credo che uscire dalla monotonia e dall’uniformarsi sia sempre un bene.

Nero, grigio, blu, sabbia sono senza dubbio eleganti e raffinati. Essi rientrano tra i cosiddetti “Crossovers”, cioè i colori che stanno bene a tutti e si abbinano con tutti gli altri colori. Diversamente, il bianco è un colore, che esiste in tonalità diverse ciascuna delle quali è consigliata a seconda delle caratteristiche di ciascuno. Un capo o accessorio bianco non è particolarmente facile da abbinare, se non con i colori Crossovers. Dipende, poi, dal tipo di capo: una camicia bianca – capo base del guardaroba – sarà più semplice da abbinare di un blazer bianco. Certamente i commercianti hanno facilità a trattare i colori Crossovers:  come le taglie uniche e i capi base, quale la citata camicia bianca, possono essere proposti a tutti i clienti indistintamente. Proporre questo gusto come simbolo di unica, o preferibile, eleganza mi pare invece una forzatura, che non tiene conto dei possibili gusti del cliente. I colori citati lo sono sicuramente, ma escludere gli altri tout court è limitativo.

Che cosa pensiamo del cammello, colore non certo stravagante, che ha fatto la fortuna di tanti capi spalla e resta uno dei colori preferiti per il cappotto? Certo, non si può proporre a qualsiasi cliente, occorre avere nozioni di armocromia, alla base degli studi, e del successo planetario di Pantone.  Che cosa vogliamo dire del bordeaux, o del melanzana, colori di grande eleganza, specie in autunno-inverno? Anche qui, occorre sapere individuare la giusta tonalità di questo colore per il singolo cliente. Altrettanto diciamo per il verde, altro colore che può essere indossato nella stagione alle porte. Ancora, il marrone: uno dei colori fantastici per l’autunno. Potrei continuare, per affermare che non soltanto i colori Crossovers come nero, blu, grigio sono eleganti e raffinati: sono semplicemente più facili da proporre.

Possiamo osare e indossare nella “città grigia” un tocco di colore? Se risponde al nostro gusto, perché no? E’ un’ottima occasione per distinguerci dalla massa, anche di livello elevato. Certo, indossare i colori è più difficile. I colori vanno scelti con armonia, in modo adatto a noi: oltre che secondo il nostro gusto, anche secondo le nostre caratteristiche. La scelta di una tonalità piuttosto di un’altra può avere effetti favolosi o devastanti. Eventualmente, l’occhio dell’esperto saprà aiutare e guidare negli abbinamenti dei colori, altro aspetto importante e non sempre facile.

Alla domanda: a Torino l’armocromia può esistere, chi la sa applicare risponde: perché no?

Chiara Prele

 

Rock Jazz e dintorni a Torino: Daniele Silvestri e Francesco Tristano

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GLI APPUNTAMENTI MUSICALI DELLA SETTIMANA 

Lunedì. Al Le Roi Music Hall per il Festival MITO, concerto del pianista Francesco Tristano con sonorità che spaziano dalla classica alla techno. All’Hiroshima Mon Amour suona la CFM Big Band.

Mercoledì. Al Vinile è di scena l’electric duo SergioMoses & Tony DE Gruttola. All’Hiroshima si esibisce Motta. All’Osteria Rabezzana suonano i Korishanti.

Giovedì. Al Conservatorio G. Verdi concerto acustico di Daniele Silvestri.

Venerdì. Al Blah Blah si esibiscono i Vexovoid + Lilith Legacy. Al Circolino suona il Generation Quartet.

Sabato. Al Magazzino sul Po sono di scena gli Ozone Dehumanizer. Allo Spazio 211suonano Irossa +Stasi.

Domenica. Allo Ziggy si esibiscono Zolfo+The Apulian Blues Fondation.

Pier Luigi Fuggetta

Ansia, come tenerla a bada e vivere più sereni

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Quando la nostra ansia non ha caratteristiche fortemente patologiche che necessitano di interventi di figure professionali specialistiche (psicoterapeuti o psichiatri) possiamo cercare di affrontarla con buone probabilità di successo e, se magari non riusciamo a eliminarla del tutto, abbiamo almeno la possibilità di ridurla in modo significativo, impedendole di invadere negativamente la nostra esistenza.

Chi percepisce di essere eccessivamente ansioso e di provare quelle emozioni e sensazioni che annunciano che l’ansia sta prendendo possesso dei propri giorni può riuscire a tenerla a bada, mantenendola a un livello sufficientemente limitato e tale da non interferire più di tanto, sia nell’intensità che nella durata, su di noi.

Stiamo in ogni caso attenti a evitare certi maldestri tentativi che, spesso indicati come tecniche calmanti, anziché aiutarci a contenere l’ansia, finiscono con l’alimentare ancora di più i nostri stati ansiogeni. Ad esempio, in previsione di imminenti e importanti eventi che ci coinvolgono, evitiamo di interrogarci continuamente sul modo migliore di comportarci.

Cosa che non fa che accrescere le nostre paure e incertezze, perché in questi casi si rischia di essere un po’ troppo confusi e di immaginare scenari eccessivamente pessimistici. Cosa fare quindi per recuperare la giusta tranquillità? La madre di tutte le regole per calmare l’ansia è la giusta respirazione, perché la prima reazione fisica all’ansia è la sensazione di mancanza di respiro.

Che concretamente si accorcia, si fa più affannoso e accelerato, così come i battiti cardiaci. È in questo momento che occorre concentrarci sulla nostra respirazione, inspirando lentamente e profondamente, utilizzando il muscolo diaframma, che si trova tra il torace e l’addome e che, proprio per la sua funzione sulla respirazione, viene chiamato “il muscolo della serenità”;

Nella respirazione diaframmatica la pancia “si gonfia”. Dopo una lunga inspirazione tratteniamo il respiro per alcuni secondi e quindi buttiamo fuori l’aria “sgonfiando l’addome”, come quando si soffia. Proviamo a farlo quando l’ansia sale, resteremo sorpresi dalla sua efficacia rilassante. A domenica per qualche ulteriore suggerimento per tenere a bada l’ansia.

(Fine della seconda parte dell’argomento).

Potete trovare questi e altri argomenti dello stesso autore legati al benessere personale sulla Pagina Facebook Consapevolezza e Valore.

Roberto Tentoni
Coach AICP e Counsellor formatore e supervisore CNCP.
www.tentoni.it
Autore della rubrica settimanale de Il Torinese “STARE BENE CON NOI STESSI”.

Le torte di Torino: una città da gustare morso dopo morso

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Scopri – To alla scoperta di Torino

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Passeggiare per Torino significa anche lasciarsi tentare da profumi e sapori che si diffondono dalle sue caffetterie più caratteristiche. In alcuni angoli del centro e nei quartieri più vivaci si celano piccole meraviglie artigianali, dove il dolce diventa esperienza. C’è un mondo fatto di glassa, burro, impasti profumati e farciture inattese che merita di essere raccontato. Tra le varie realtà che animano la scena cittadina, alcune si distinguono per originalità e cura. Ecco un itinerario del gusto che parte dal cuore di Vanchiglia, attraversa Via Po e tocca un’altra tappa immancabile per gli amanti delle torte fatte come una volta. Un viaggio che non è solo gastronomico, ma anche estetico e affettivo: i luoghi del dolce raccontano storie di città, di passioni e di mani che lavorano con dedizione ogni giorno.
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Caffè Cesare: dolci che raccontano storie
In Via Vanchiglia 9, in una zona che mescola anima studentesca e atmosfere retrò, Caffè Cesare non passa inosservato. Il bancone è un invito continuo alla curiosità, e appena si entra si capisce che qui la pasticceria non è solo una questione di ricette, ma di cultura del gusto. La proposta è sorprendente e variegata, a cominciare dagli alfajores: due biscotti friabili uniti da un generoso strato di dulce de leche, rifiniti con una leggera spolverata di cocco. Un omaggio alla tradizione argentina, che conquista chiunque abbia voglia di provare qualcosa di autentico e diverso.
Ma non finisce qui. La Charlotte all’ananas, elegante nella sua semplicità, è una proposta che pochi conoscono ma che lascia il segno. C’è poi il matcha fresco con fragole pestate, che affianca profumi orientali alla freschezza della frutta, in un contrasto perfettamente bilanciato.
Chi ama le ricette più familiari potrà invece contare su una carrot cake che non tradisce, oppure tuffarsi tra muffin per ogni gusto e palato. Ogni settimana spuntano anche novità fuori menu, che rispecchiano la stagionalità e l’inventiva dello staff.
La vera firma della casa però sono i Crumbl Cookies. Chi entra una volta per provarli, ritorna. Grandi, friabili, burrosi: esistono in infinite combinazioni, come se ogni gusto fosse una tappa di un viaggio. Dal classico cioccolato, passando per cheesecake, red velvet, Lotus, caramello salato, fino al pistacchio, la scelta è praticamente infinita. Qui non si parla di semplici biscotti, ma di piccoli dessert da assaporare con lentezza. Il tutto accompagnato da bevande che escono dalla consuetudine: chai latte profumato, cinnamon caldo e speziato, oppure una lemon cake da gustare con il tè del pomeriggio. Anche il cappuccino ha un tocco personale, decorato con disegni di latte art che rendono ogni tazza un piccolo quadro da bere.
Caffè Cesare è un luogo dove sedersi a leggere, chiacchierare, studiare o semplicemente lasciarsi coccolare da un profumo che cambia ogni giorno. L’arredamento semplice ma curato, i tavolini in legno e la luce naturale che filtra dalle grandi finestre rendono questo posto una seconda casa per molti.
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Caffetteria Clarissa: eleganza, torte e feste sotto i portici
Spostandosi verso il centro storico, in Via Po, la Caffetteria Clarissa si rivela un’altra tappa imperdibile. Un locale dall’anima sontuosa, arredato in tonalità rosso scuro che evocano ambienti retrò, ma mai superati. L’atmosfera è intima, raffinata, ideale per una pausa ma anche per qualcosa di più: qui infatti si organizzano feste di laurea, compleanni e incontri privati nelle sale interne, che assicurano privacy e uno stile unico.
Le torte di Clarissa hanno una personalità precisa: artigianali, curate nei dettagli, con ingredienti selezionati e combinazioni equilibrate. Che si tratti di una classica Sacher, di una millefoglie rivisitata o di una torta moderna al cioccolato e lamponi, ogni fetta racconta una ricerca e un amore per la pasticceria fatta con passione. Il personale accoglie sempre con un sorriso e sa consigliare chi cerca qualcosa di particolare per una ricorrenza o semplicemente per sé. L’attenzione al cliente è un altro ingrediente che fa la differenza.
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Berlicabarbis: l’altra dolce faccia di Torino (FOTO DI COPERTINA)
Infine, non si può concludere un giro tra le torterie di Torino senza citare Berlicabarbis. Il nome è già una dichiarazione d’intenti, un richiamo al dialetto piemontese che promette dolcezza. Qui le torte sono protagoniste assolute: alte, colorate, spesso scenografiche. I gusti variano a seconda delle stagioni e dell’ispirazione del momento, ma ciò che non cambia è la sensazione di casa che si respira appena varcata la soglia.Berlicabarbis è un rifugio per chi cerca una pausa sincera, un luogo che mette d’accordo amanti della pasticceria classica e fan delle novità. Tra cheesecake, crostate, torte di mele, red velvet e brownies, si può passare un pomeriggio senza accorgersi del tempo che scorre. Il locale ha anche una vena giocosa, con arredi colorati e citazioni sparse qua e là, che lo rendono perfetto per chi ama un tocco di originalità. Non è raro vedere clienti scattare foto alle vetrine prima ancora di ordinare: qui anche l’occhio vuole la sua parte.
In queste tre caffetterie Torino si racconta attraverso il dolce. Ogni torta è un gesto, una piccola forma di accoglienza, un invito a fermarsi. In un mondo che corre veloce, i profumi che escono da questi forni ci ricordano che a volte basta un biscotto ben fatto per cambiare il ritmo della giornata. E in una città che unisce tradizione e innovazione, sedersi davanti a una fetta di torta è anche un modo per sentirsi, per un attimo, nel posto giusto al momento giusto.
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NOEMI GARIANO

Alla Beccaccia una signora “dedita all’altrui piacere”

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La notizia, lì e nei dintorni, girava già da qualche settimana. A mezza voce, tra ammiccamenti e gomitate, si era sparsa la voce che “La Beccaccia”, un’osteria con locanda, ospitasse una signora dedita alla promozione dell’altrui piacere.

Ovviamente, dietro pagamento di una modica somma perché, com’è noto, il “mestiere più vecchio del mondo”, come tutte le attività che si rispettino, non era gratis. Natalino e Pacifico, un po’ per curiosità, un po’ per l’indole trasgressiva che li accomunava, decisero di andare a vedere se quanto si sentiva dire corrispondesse poi al vero. “Un sopralluogo s’impone”, sentenziò Pacifico, che per mestiere s’occupava a tempo pieno della tutela dei lavoratori ( “di tutti i lavoratori”). Ovviamente Natalino, operaio e pubblico amministratore, non obiettò alcunché, trovandosi d’accordo con l’amico in tutto e per tutto. Quindi, inforcate le bici, partirono. La strada non era molta tra il loro paese e quello dell’osteria. Pedalando di buona gamba, i sette chilometri e mezzo s’accorciarono in un baleno e i due amici, raggiunto il campanile del paese, svoltarono a sinistra, imboccando la strada che saliva verso la stazione ferroviaria, dove – un po’ prima dello spiazzo davanti all’edificio – si scorgeva, sulla facciata di una vecchia casa a  due piani,  l’insegna de “La Beccaccia”. Lasciate le bici- nell’apposita rastrelliera collocata tra la Stazione e la locanda, i due entrarono. L’oste, tal Tossichini Aristide, detto “Burbero” per il carattere

ruvido e scontroso, in maniche di camicia, era intento ad asciugare dei bicchieri. Vedendo comparire  sull’uscio Natalino e Pacifico, non tradì particolare curiosità. Continuando a passare i calici nell’asciugamano, senza dire una sola parola e con un cenno del mento, chiese ragione della loro presenza. Un po’ impacciati, i due esitarono a parlare per qualche istante. Poi, incrociato lo sguardo interrogativo del Tossichini, Natalino prese coraggio e, schiaritasi la voce, chiese: “Si può vederla?”. “Burbero”, senza scomporsi più di tanto, con fare svogliato, indicò la scala in fondo al locale che portava al piano superiore. I due amici, ringraziando, salirono svelti i gradini di legno, trovandosi davanti ad un corridoio dove, da una parte e dall’altra, s’aprivano tre

porte. Due a sinistra e una a destra. Quale delle tre era quella giusta? Tentarono a destra ma la porta era chiusa a chiave. Afferrata la maniglia della prima a sinistra, il risultato fu lo stesso: bloccata. Rimaneva l’ultima porta. E questa s’aprì, con un lieve cigolio. Entrati nella stanza, restarono a bocca aperta, sgranando gli occhi davanti alla scena che si presentò  davanti al loro sguardo smarrito. Altro che femmina compiacente e lussuriosa! Nella penombra della stanza, sdraiata sul letto, vestita di nero e con il rosario in mano, s’intravvedeva il cadavere di un’anziana donna.  Ai fianchi del letto quattro grossi ceri accesi diffondevano una luce tremolante e fioca da far venire i brividi. Pacifico e Natalino si guardarono in faccia e, quasi di scatto, fecero dietrofront, uscendo dalla stanza, chiudendosi rumorosamente la porta alle spalle. La scala dalla quale erano saliti con un po’ d’imbarazzo e circospezione, venne ridiscesa in fretta e furia. Quell’impazienza insospettì l’oste che non ci mise molto a capire la situazione, considerando che i due non erano i primi a sbagliare indirizzo e credere che nella sua locanda si praticasse il mercimonio. Rosso in volto, furibondo perché i due avevano scambiato la vecchia zia Giuditta, morta il giorno prima a ottant’anni d’infarto , per una poco di buono, “Burbero” iniziò ad inveire. Brandendo minaccioso una vecchia scopa di saggina, si lanciò all’inseguimento dei malcapitati che, inforcate al volo le biciclette, pedalarono via come due indemoniati. Giunti al paese, trafelati e stanchi, si presentarono ansimando all’osteria dell’Uva Pigiata. Paolino Pianelli, a conoscenza della loro avventura, vedendoli in quello stato, fece l’occhiolino sussurrando: “L’avete vista, eh?”. Pacifico, con un filo di fiato e una buona dose d’ironia, rispose che sì, l’avevano vista. Ma che già al primo sguardo, avevano capito subito che non faceva per loro e se n’erano andati via.

 

 Marco Travaglini

Il segreto delle Porte Palatine: tra storia romana e suggestioni medievali

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SCOPRI – TO ALLA SCOPERTA DI TORINO
Passeggiare oggi in piazza Cesare Augusto, nel cuore di Torino, significa compiere un salto indietro di duemila anni. Tra il traffico cittadino, i palazzi moderni e la vita frenetica del centro, all’improvviso si aprono davanti agli occhi le Porte Palatine, imponenti e silenziose.
Le Porte Palatine non sono solo un monumento. Sono un ponte tra epoche diverse, un luogo dove storia e leggenda si intrecciano. Forse per questo, ancora oggi, continuano ad affascinare torinesi e turisti, attirando chi vuole scoprire un lato più intimo e antico della città.
Una delle porte meglio conservate dell’Impero romano
All’epoca della sua fondazione, Julia Augusta Taurinorum era una città strategica: sorgeva lungo la via che collegava Roma alla Gallia e, in seguito, alle province settentrionali dell’Impero. La città era protetta da mura poderose e quattro porte principali permettevano l’accesso da ogni lato.
Le Porte Palatine erano l’ingresso settentrionale, quello che conduceva verso Ivrea e le vallate alpine. Oggi sono considerate uno dei migliori esempi di architettura romana conservati in Italia.
Nonostante le vicissitudini dei secoli, la struttura ha mantenuto intatto il suo fascino. Non è un caso che il sito sia stato inserito nel percorso di Torino romana e che rappresenti una delle mete preferite da chi vuole conoscere la città partendo dalle sue radici.
Dal Medioevo alla rinascita
Dopo la caduta dell’Impero romano, le Porte Palatine conobbero un periodo di abbandono. Come molte strutture antiche, furono inglobate nelle nuove costruzioni medievali e in parte smantellate per riutilizzare i materiali.
Nel corso del Medioevo, le torri furono trasformate in fortificazioni e poi in dimore nobiliari.
Fu solo tra il XVIII e il XIX secolo, con l’arrivo dei Savoia e la crescente attenzione per le origini della città, che le Porte Palatine tornarono al centro dell’interesse culturale. Gli scavi archeologici avviati nell’Ottocento riportarono alla luce gran parte della struttura originaria, restituendole dignità storica e valore artistico.
Leggende e suggestioni
Intorno alle Porte Palatine non si intrecciano solo fatti storici, ma anche leggende popolari che contribuiscono al loro fascino misterioso.
Una delle più note riguarda l’imperatore Augusto. Si dice che, poco dopo la fondazione della città, egli vi si sia recato di persona per benedire il passaggio delle legioni. Secondo la tradizione, avrebbe pronunciato parole propiziatorie per il futuro di Torino. Non ci sono prove storiche, ma la leggenda ha alimentato per secoli l’immaginario collettivo.
Un’altra suggestione riguarda le energie esoteriche. Torino è famosa per essere parte del cosiddetto “triangolo della magia bianca”, insieme a Lione e Praga. Alcuni sostengono che proprio le Porte Palatine siano uno dei nodi energetici più potenti della città. Non ci sono conferme scientifiche, ovviamente, ma basta visitare il sito di notte per percepire un’atmosfera diversa, sospesa, quasi fuori dal tempo.
Le Porte Palatine oggi
Oggi le Porte Palatine sono al centro di un grande progetto di valorizzazione promosso dal Comune di Torino. L’area circostante è stata riqualificata, con nuovi percorsi pedonali, pannelli informativi e visite guidate organizzate in collaborazione con il Museo di Antichità.
NOEMI GARIANO

I custodi della morale

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FRECCIATE

Il Pd invoca le dimissioni di un proprio consigliere di circoscrizione a Torino per una frase sessista pronunciata quando l’autore della gaffe pensava che il microfono fosse disattivato. Niente da dire: se predichi virtù, devi dare l’esempio. Ma è singolare come i democratici, a furia di fare i custodi della morale e dell’etica, finiscano per inciampare sulle bucce di banana lasciate da loro stessi. E a quel punto non servono nemici: basta un microfono acceso.

Iago Antonelli

Allegre bruschette tricolori

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Bastano davvero pochi minuti per realizzare uno sfizioso aperitivo o un antipasto estivo allegro e colorato con ingredienti freschi di stagione dal sapore mediterraneo. La bruschetta e’ la soluzione ideale, un piatto estremamente semplice e gustoso, sempre gradito, dalle infinite combinazioni, secondo il vostro gusto e fantasia, perfette anche per accompagnare una bella grigliata di carne da gustare con gli amici.

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Ingredienti

 

Fettine di pane tostato

1 pomodoro maturo

1 peperone giallo

4 champignons

1 spicchio di aglio

Prezzemolo

Caciotta fresca

Olio evo, sale

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Strofinare con l’aglio le fettine di pane tostato. Lavare le verdure. Tagliare il pomodoro, svuotarlo dei semi, lasciar scolare poi, tagliare a cubetti. Preparare una dadolata di peperone, tagliare a fettine sottili i funghetti, la caciotta, mettere tutto in una terrina e condire con olio, sale e prezzemolo. Distribuire su ogni fetta di pane e servire.

Paperita Patty