Rubriche- Pagina 75

Ricordare Norma Cossetto significa onorare le vittime di violenza

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni / La commissione toponomastica della città di Reggio Emilia ha  bloccato  la delibera del Consiglio Comunale che prevedeva   una targa in ricordo di Norma Cossetto, Medaglia d’oro al Valor Civile, simbolo del martirio degli istriani infoibati ad opera dei partigiani di Tito

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Norma Cossetto era una giovane studentessa universitaria a Padova, allieva di Concetto Marchesi. Venne prelevata da casa, seviziata e stuprata con violenza bestiale  inaudita e poi ammazzata  e gettata in una foiba. La Commissione di Reggio Emilia afferma che mancano prove storiche certe della sua fine e giunge a mettere perfino in discussione il conferimento della Medaglia d’oro  da parte del Presidente della Repubblica Ciampi. E’ una forma di arroganza negazionista intollerabile  che oltraggia la figura della giovane studentessa istriana che  dopo le vicende belliche ottenne  la laurea honoris causa alla memoria su proposta del prof. Marchesi , deputato comunista ed insigne studioso. Il riconoscimento della giorno del ricordo, il 10 febbraio, sembrava aver posto fine alle discussioni di parte sulle foibe e sull’esodo Giuliano – Istriano – Dalmata . Solo una minoranza di vetero- comunisti votò  contro l’istituzione del giorno del ricordo  in Parlamento. In realtà tuttavia il 10 febbraio – malgrado la legge istitutiva – non viene ricordato in molte città e in tantissime scuole, violando la legge. Ma nessuno, finora, era giunto a mettere in discussione la morte tremenda a cui fu condannata Norma Cossetto, colpevole di avere un padre fascista. Eccepire addirittura sulla Medaglia d’oro è un’offesa alla verità storica oltre che alle comunità di esuli  esistenti, in primis all’ Associazione Dalmazia Venezia – Giulia. Mi sento particolarmente anche colpito  sul piano personale da questo vile negazionismo che solleva dei dubbi senza portare prove di sorta, se non discorsi di mera natura ideologica. Fui infatti  io a scrivere a Ciampi, segnalando il caso  della studentessa Norma Cossetto  e fu il Segretario Generale del Quirinale Gifuni ad avviare la pratica che ebbe  iter regolare e trasparente, come impone il conferimento di una medaglia d’Oro.   Ciampi ebbe il merito storico di aver riportato la verità storica sulle foibe e sull’esodo che Gianni Oliva aveva per primo evidenziato nei suoi libri. Rimettere in discussione in modo strumentale certe verità significa un arretramento barbaro della nostra  coscienza civile. Le memorie non sono mai condivise, ma i fatti storici non possono essere ridiscussi in base ad un revisionismo becero e arrogante. Norma Cossetto é un’eroina nazionale, una vittima che va onorata come vanno onorate tutte le vittime della violenza, di tutte le forme di violenza. E’ una giovane donna vittima della violenza sulle donne che oggi giustamente è oggetto di particolare attenzione.
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Arturo Diaconale liberale duro e puro

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni        Arturo Diaconale, con la sua coerenza liberale, ha dimostrato cosa significhi credere in una Idea politica senza mai manifestare ambizioni personali . E’ mancato a 75 anni dopo una lunga malattia. In novembre avrebbe dovuto, insieme ad altri amici, presentare il mio ultimo libro su Pannunzio a Roma su invito di Enrico Morbelli, ma la pandemia ci ha impedito di rivederci.

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Un Paese che non ha saputo dare un seggio parlamentare ad Arturo Diaconale è un Paese indegno. Una cosa simile a quella accaduta al prof. Vittorio Mathieu , non eletto nel Polo della libertà .Due volte candidato, venne bocciato perché i collegi a lui assegnati era già perduti in partenza.  Con tutti gli sprovveduti ed i voltagabbana nominati deputati e senatori da Berlusconi , balza ancora più forte il trattamento iniquo riservato al giornalista Diaconale che tenne viva la testata liberale per eccellenza “ L’ Opinione”su cui ho scritto volentieri in passato .Tanto su “Il Giornale” mi venivano rifiutati articoli dalla responsabile della cultura Caterina Soffici ( che non aveva nulla della cultura liberale che avrebbe dovuto esprimere ), tanto ho avuto ospitalità dall’” Opinione”. Negli ultimi tempi mi è capitato che” Il Giornale”, per bocca di Alessandro Gnocchi, sia giunto a chiedermi un articolo per poi non pubblicarlo. Così va il mondo, liberale solo in apparenza, ma  in effetti profondamente illiberale nella realtà delle cose. Diaconale ,che veniva dal” Giornale” di Montanelli, era uomo di tutt’altra pasta umana e professionale. Lo nominarono presidente del Parco Nazionale d’Abruzzo e poi per due anni nel consiglio della Rai dove condusse molti anni prima  la trasmissione “Ad armi pari “ che durò pochissimo, forse perché troppo libera ed obiettiva . Io quando penso a lui penso anche a Pia Luisa Bianco, una affascinante  giornalista di alto livello, relegata a Bruxelles. Un altro esempio di incapacità a valorizzare il meglio, premiando i mediocri.

Il giornalismo italiano perde un grande professionista , i liberali perdono uno dei loro  più coerenti leader, la politica un suo protagonista autentico ,duro e puro ,  anche se scandalosamente  privato del seggio parlamentare che gli sarebbe spettato di diritto. Se il partito di Berlusconi si è afflosciato, una delle cause è quella di non aver dato spazio a gente preparata come Diaconale, preferendogli la prima “fanciulla” di passaggio. Il giornale “L’Opinione” e’ uscito per tanti anni e continua ad uscire on line, dimostrando l’ indipendenza ed il coraggio del suo direttore, uno dei pochi uomini che abbiano sentito e vissuto il liberalismo con sincerità e dedizione rispetto ai tanti che in passato si sono detti liberali, senza neppure  sapere cosa significasse quella parola ,rifiutando  anche solo la frequenza di   un corsetto  al Cepu in materia di liberalismo di cui continuano ad essere digiuni.

Insieme al giornalista Enrico Morbelli, che con le sue “Scuole di liberalismo“ ha formato in tutta Italia  tanti giovani  al liberalismo, alcuni dei quali diventati famosi come Nicola Porro, Diaconale ha testimoniato il suo liberalismo  inteso come scelta di  vita, pur mantenendo il distacco critico proprio dell’intellettuale libero. Per dirla con Benedetto Croce, le sue opere oggi  parlano per lui e chiunque volesse tracciare la storia travagliatissima dei liberali dopo la fine traumatica della Prima Repubblica e la svendita  del Partito liberale per ottenere la riconferma in Parlamento di certi personaggi minori, non potrà fare a meno di scrivere di Diaconale, un uomo davvero fuori ordinanza. Un liberale ottocentesco, nato per nostra fortuna  nel secolo sbagliato.

Ho un solo grande rammarico, quello di non avere più intensamente collaborato con lui.

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Cinquant’anni fa la legge sul divorzio

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni      Il 1° dicembre 1970, cinquant’anni fa, il Parlamento italiano votò la legge sul divorzio chiamata anche “Fortuna –  Baslini“ dal nome dei deputati che stesero il testo. Loris Fortuna era un socialista riformista, mentre Antonio Baslini era un liberale malagodiano. Fu cosa difficile introdurre in Italia una legge sullo scioglimento del matrimonio perché  i vari tentativi fatti negli anni successivi all’ Unità d’Italia  vennero bloccati sul nascere dalla forte opposizione della Chiesa cattolica e di forze cattoliche e conservatrici

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Il Governo Zanardelli ai primi del ‘900 fu promotore di un disegno di legge che venne battuto in Parlamento da 400 voti contrari. Giolitti di fatto bloccò ogni tentativo divorzista perché  la sua politica, volta a trovare l’appoggio dei cattolici, e il patto Gentiloni in particolare, impedirono di procedere su quella strada, malgrado lo statista di Dronero fosse laicissimo. L’ Italia aveva conosciuto il divorzio solo durante la dominazione napoleonica. Il fascismo, che firmò il Concordato con la Chiesa cattolica, mise il divorzio in soffitta. Solo con la ripresa della democrazia il deputato socialista  Luigi Sansone tentò di riaprire il discorso in Parlamento con una legge relativa al “piccolo divorzio“ che naufragò miseramente. Il deputato Loris Fortuna riprese le fila  di quella battaglia e dopo varie vicende  si giunse all’approvazione di cinquant’anni fa. Ad essere decisiva fu la battaglia ingaggiata fuori dal Parlamento dalla LID ( Lega Italiana per il Divorzio), dal partito radicale e soprattutto da Marco Pannella. Fu una battaglia fondata sul confronto civile di opinioni e sulla considerazione difficilmente contestabile che uno Stato laico non possa considerare il matrimonio un sacramento indissolubile, ma un contratto. Ernesto Rossi disse allora che non si poteva andare in Paradiso accompagnati dai Carabinieri, evidenziando che una scelta religiosa non può essere imposta da una legge dello Stato. Certo ad ingarbugliare la materia fu il matrimonio concordatario celebrato, con effetti civili, in chiesa. Lo stesso Papa Paolo VI si schierò contro la legge sul divorzio, vedendola come un “vulnus” al Concordato. Il partito comunista, per quanto impegnato in linea di principio per il divorzio, fu molto esitante perché anche lui interessato a stabilire un buon rapporto con i cattolici, come già  dimostrò il voto all’articolo 7 della Costituzione che inseriva in essa in Patti Lateranensi. Non fu facilissimo spiegare che non si trattava di una riforma “borghese, ma che già allora  riguardava mezzo milione di coppie “ irregolari “ conviventi. La legge Fortuna –  Baslini era una legge austera e severa che nulla aveva a che vedere con certi divorzi all’americana. Se al Senato passò per pochi voti con la mediazione del cattolico liberale Giovanni Leone e con il voto del senatore a vita Eugenio Montale, fu perché essa era una legge seria e meditata.
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Io giovanissimo partecipai a quella battaglia (come poi negli anni successivi a quella del referendum per impedirne l’abrogazione) insieme a Zanone  Magnani Noya, Segre  accusato come avvocato di volersi accaparrare futuri clienti), Pannella e il coraggioso magistrato Mario Berutti. Con Pannella e Zanone allora nacque un’amicizia destinata a durare tutta la vita. Furono giorni entusiasmanti di volantinaggio e di comizi appassionati, anche se io scelsi fin da allora il confronto pacato delle posizioni laiche  con il mondo cattolico, una scelta che portò ad un grande risultato al referendum del 1974: la nascita dei cattolici del No con gli amici Passerin d’Entréves e Traniello. A Torino va anche ricordato, tra gli altri, Francesco Proietti Ricci che fu il segretario della LID e seppe operare con moderazione ed equilibrio nel rispetto delle convinzioni cattoliche , pur in un confronto dialettico appassionato. Proietti Ricci si diceva cattolico e affermava che non avrebbe mai fatto uso della legge sul divorzio che non era un obbligo ma una scelta di libertà. Vincemmo e andammo a festeggiare con una grande cena  con Mario Berutti che divenne anche lui mio grande amico. Il Presidente Saragat firmò subito la legge che però non ebbe immediata attuazione a causa della lentezza degli Organi giudiziari nel creare le apposite sezioni a cui rivolgersi per il divorzio. Era stabilito un termine minimo di 5 anni tra separazione e divorzio , poi ridotto a tre. Non sarebbe onesto se non riconoscessi che quella legge giusta e necessaria ebbe anche come conseguenza quella di matrimoni affrontati più alla leggera e culminati spesso nel divorzio. Era il tema che stava a cuore ai giuristi cattolici preoccupati degli effetti  sulla tenuta delle famiglie. Non ci furono però  gli sconvolgimenti intravisti e molti cattolici fecero ricorso al divorzio, persino chi lo aveva combattuto come il missino Giorgio Almirante e tanti altri.
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Poi negli anni Duemila si volle un divorzio all’americana, molto facile e immediato che addirittura si può ottenere attraverso gli uffici anagrafici . E’ stata una scelta che non ho condiviso perché era giusto un periodo di ripensamento e di tregua dopo un naufragio matrimoniale. Il matrimonio è una cosa seria. Chi non si sente di accedervi può convivere o scegliere l’unione civile che non riguarda solo i gay. Lo scioglimento del matrimonio così come è oggi finisce di provocare delle inevitabili conseguenze sulle famiglie. Lo scardinamento di ogni vita morale – anche laica – ha creato delle situazioni di sfaldamento sociale oltre che famigliare. Uomini rigorosi ed austeri come Croce e Salvemini che condussero laicamente vite esemplari, non sarebbero d’accordo con l’attuale legge perché  esistono diverse moralità laiche con delle regole precise, come ci ha insegnato Bobbio. Essere laici non significa essere libertini , come pensava Scalfari prima dell’incontro con Papa Francesco. Il mondo attuale, creato ed incoraggiato  da certi programmi TV a dir poco “disinvolti”, è devastato e a sua volta  devastante . Sicuramente non è laico, ma profano, anzi fa pensare in piccolo a Sodoma e Gomorra. Il <<s’ei piace, il lice >>, di cui scrisse l’animo tormentato del Tasso, non può trovare nelle feste più o meno eleganti  il suo volgare ed avvilente corrispettiv , che troppo spesso sfocia nel dramma e nella tragedia . Il clima di trasgressione attuale è cosa totalmente diversa dal modo di interpretare laicamente e seriamente la vita di chi cinquant’anni fa volle il divorzio. Basta rileggere il resto di quella legge per comprendere qual era lo spirito che mosse Fortuna e Baslini : fu in anteprima un lib – lab ,rafforzato da Pannella. Un qualcosa che sarebbe piaciuto anche a Mario Pannunzio.
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Ecce Turin

Torino vista dal mare /5       Camminare per conoscere. Un’immagine semplice ma efficace che descrive al meglio uno dei migliori modi per scoprire una nuova città. Abituarsi a nuovi paesaggi, differenti abitudini di quartiere, spesso è difficile, ma passeggiando tra le vie e le piazze più battute, per poi allontanarsi e perdersi in quelle meno trafficate permette di appropriarsene, cogliendo scenari, scorci e dettagli che spesso si perdono nella frenesia del quotidiano. Torino – io che vengo dal mare – provo a scoprirla così, raccontandola per impadronirmene allo stesso tempo.

“…città dignitosa e severa! Niente affatto grande città, niente affatto moderna come avevo temuto: ma una residenza del diciassettesimo secolo, dove su tutto era stato imposto un unico gusto, quello della Corte e della noblesse. Su ogni cosa è rimasta impressa una quiete aristocratica: non vi sono meschini sobborghi; un’unità di gusto persino nel colore (tutta la città è gialla o rosso-bruna). É un luogo classico anche per i piedi come per gli occhi! Che sicurezza, che pavimentazione”

” Trovo che qui valga la pena di vivere sotto tutti gli aspetti.”

Queste sono solo alcune delle tante parole che Federico Nietzsche scrisse nei suoi scambi epistolari lungo tutto il suo soggiorno nella capitale sabauda dal 21 settembre 1888 al 9 gennaio 1889. Il suo appartamento si trovava al quarto piano di via Carlo Alberto 6 e affacciava proprio sulla piazza sopra la galleria Subalpina. Nonostante una permanenza fugace il pensatore tedesco arrivò a definire Torino come la città che si è rivelata la mia città. Un’affinità decisamente alchemica. A distanza di più di un secolo cosa è rimasto oggi di quegli aspetti meditativi e rigorosi che hanno affascinato Nietzsche?

È chiaro che non si possano paragonare le architetture e “le pavimentazioni”, tanto care al filosofo, di oggi con quelle di ieri, tuttavia la città è riuscita a disseminare in maniera abbastanza estesa palazzi di un tempo, sfoggiando balconi di pietra e vetrate colorate anche fuori dal centro storico. Ma basta un po’ di decorativismo urbano a donare quella nobiltà degna di nota? Nietzsche non è una persona che utilizza il termine nobiltà con leggerezza; per lui l’aristocrazia è d’animo e non di ostentazione. La nobiltà, Nietzsche racconta di incontrala all’osteria, nella donna che gli serve l’agnello ottimamente cucinato, e ancora più nel respirare il silenzio delle vie che aprono sulle montagne, placide fonti di acqua e di rispetto; e ancora Nietzsche parla di concerti sublimi, musiche che sono superiori a quelle mai udite in altri paesi.

Oggi mi chiedo se i torinesi si rendono conto della fortuna che hanno nel vivere in questo equilibrio di forze, dove architettura e natura giocano a scambiarsi le parti. In generale, le sensazioni positive provate da quel pazzo visionario, che io adoro, mi pare di riviverle, anche se filtrate da un tessuto igienico posto su naso e bocca.  Quella stessa tensione assoluta verso l’alto che il nostro uomo visse passando sotto la Mole Antonelliana è impossibile non avvertirla ancora oggi. Nietzsche addirittura battezza quell’antenna energetica Ecce Homo, l’opera che qui scrisse, a sottolineare ancor di più quel profondo legame instauratosi con la città.

Si può dire che sia facile rifarsi alle parole di un vecchio filosofo; io penso che sia doveroso meditarvici sopra, ascoltare quanto i grandi pensatori hanno detto, perché essi sono stati in primis grandi “sensitivi”, capaci di percepire quanto nascosto ai più. Si mediti allora se le musiche di oggi rispecchino i bisogni dell’animo; si osservi se l’arte sia valorizzata; si indaghi se l’interiorità sia ricercata oppure se la gente abbia più premura di riversarsi ai tavoli degli aperitivi che nei musei (chi ha mai avuto problemi di distanziamento sociale in un museo, negli ultimi dieci anni?).

Con Nietzsche si apre un filone di pensiero che esalta le potenze vitali dell’uomo, quelle che ribollono dentro e che necessitano di un giusto “habitat” per coltivarsi e manifestarsi: in questo senso va inteso l’apprezzamento urbanistico di Torino. Ma all’epoca il Po era pulito e le carrozze non rilasciavano particelle inquinanti. Questo dovrebbe farci meditare sull’impatto del nostro ecosistema (in questo caso urbano-collinare) sulle nostre menti, sulla potenzialità ch’esso ha nel plasmarci, nello stimolarci o nel deprimerci. Perché uno dei più grandi pensatori di tutti i tempi ha considerato questa la sua città? Dovremmo chiedercelo, riversando ammirazione su ogni scorcio cittadino gradito all’anima e difendendolo con tutte le forze dagli orrori dell’inciviltà estetica, nella sua accezione di sensibilità.

Quella di Nietzsche fu un’unione profonda, totale, oltre lo spirituale, come è stato a tutti evidente nel momento in cui davanti alla sua abitazione torinese abbracciava un cavallo ferocemente frustato dal suo padrone: non era pazzia, era solo difesa di una sensibilità superiore.

Annachiara De Maio

L’isola del libro

Rubrica settimanale a cura di Laura Goria

Guillame Musso  “La vita è un  romanzo”  -La nave di Teseo-   euro 18,00

Intrigante e sofisticato, pieno di colpi di scena, geniale gioco letterario che alterna fasi da thriller e richiami continui ai grandi autori prediletti. Ecco in estrema sintesi  l’ultimo romanzo in cui lo scrittore francese Guillame Musso ha distillato la sua bravura…e vi terrà in tensione fino alla fine.

Da una parte c’è la scrittrice 39enne di successo Flora Conway, (insignita del prestigioso Premio Kafka): vive in fuga da lettori, stampa e riflettori, quasi auto segregata a Williamsburg (la zona più cool di Brooklyn) e sprofonda in una tragedia senza spiegazione. La sua adorata figlia di 3 anni, Carrie, (nome che richiama l’opera satanica di Stephen King) scompare misteriosamente dall’appartamento mentre stavano giocando a nascondino. Nessuno è entrato, nessuno è uscito…ma allora cosa è successo?

Dall’altra parte dell’oceano c’è un altro scrittore di talento e vendite alle stelle; il 45enne parigino Romain Ozorski (qui il nome richiama quello di Romain Gary), che sarebbe anche un uomo realizzato, peccato sia affossato dalla zavorra di una tragedia privata. L’ex moglie Almine l’ha trascinato in un divorzio che è non solo un massacro economico, ma soprattutto infamante. Lei ex top model, transitata poi in una fase di estremismo para-terroristico e scivolata infine nel fanatismo ecologista, lo accusa di essere un alcolizzato violento e gli porta via il figlio Theo di 6 anni per  trascinarlo in una comune di pazzi in America.

Di più posso solo anticipare anche la comparsa di una tosta editrice snob, che forse ha a che fare con la sparizione di  Carrie ….

Ma cosa unirà i due personaggi centrali? Sembra che l’una non esista senza l’altro e in qualche modo le loro storie sono strettamente collegate in un gioco che Guillame Musso conduce in modo magistrale. Ha a che fare con il mestiere di scrittore, con la tentazione di credersi un demiurgo che muove i  fili dei destini dei suoi personaggi, in una lotta costante tra fantasia e realtà. Un romanzo in cui diversi livelli di finzione sono quasi una sfida a Dio e le sorprese vanno a getto continuo.

 

Carolina Pobla  “I gerani di Barcellona”  – Garzanti-   euro 18,00

E’ una grande saga familiare ispirata alle vite dei nonni paterni della scrittrice ed è il suo romanzo  di esordio.

Il racconto inizia a Malaga in Spagna nel 1928 e finisce  nel 1953, attraversando mezzo secolo di storia, inclusa la vittoria del generalissimo Franco che instaura col sangue  un’aspra dittatura.

Protagoniste principali sono le sorelle Torres – Rosario e Remedios- figlie del ricchissimo Don Rafael che vive nella villa più bella  di Malaga, “La Macarena”, insieme all’insignificante moglie Beatrice (che si spegne a poco a poco, in silenzio) e ai loro 5 figli.

Don Rafael è un self made man di successo che ha accumulato una fortuna e stravede per i suoi  rampolli, prima fra tutti Rosario con la quale ha un rapporto unico.

Ma in un attimo, con l’affondare della nave di famiglia e il suo prezioso carico, cola a picco anche il mondo dorato dei Torres.

La bancarotta costringe Don Rosario a inventarsi una nuova attività; ma un’altra tragedia, irrimediabile e straziante, si abbatte sulla famiglia e nulla potrà mai più essere come prima.

Il resto è il racconto di come Rosario –viziata, bella, elegante e col sogno di una carriera come cantante- e la sorella minore Remedios –cresciuta nell’ombra della primogenita- prendono le distanze dalla famiglia  e affrontano il futuro nella tumultuosa Barcellona.

Nel frattempo si dipana anche il destino del giovane studente di ingegneria agraria, Tobias Vila, figlio di un industriale catalano, che insieme all’amico Felix salpa alla volta dell’America e vive tutta una serie di esperienze formative.

Poi la sua strada incrocia quella di Rosario e l’autrice ci racconta le loro vite, e quelle di un variegato corollario di personaggi, tra alti e bassi, amore e distanze emotive, tragedie e ricongiungimenti, lotte e continui colpi di scena.

 

Morten A.  Strøksnes  “Il libro del mare”  -Iperborea-  euro 17,50

E’ magnifico questo libro nel quale, soprattutto chi ama il mare, dovrebbe tuffarsi e non lasciarselo sfuggire. Lo scrittore, storico, giornalista e fotografo norvegese imbastisce un epico racconto attraverso momenti speciali condivisi con un eccentrico amico artista e pescatore.

Insieme solcano le gelide acque del nord a bordo di un gommone, alla ricerca del grande squalo della Groenlandia che vive nei fondali intorno alle isole Lofoten. E’ il più grosso squalo carnivoro del pianeta e può vivere fino a 400-500 anni.

Ed è lo spunto iniziale di un magnifico racconto di mari, pesci, spedizioni del passato, scoperte continue di biologi marini, fari e tempeste.

Pagine che rimandano a Melville e Verne, e conducono il lettore tra antiche leggende marinare, scienze, storia, geologia, esplorazioni oceaniche, pesci e molluschi di ogni foggia e colore, boschi corallini e tanto altro.

Un viaggio che parte da echi della Preistoria e approda all’attuale surriscaldamento climatico, con la chimica dei mari che sta cambiando… e non in meglio. Oggi scompaiono specie a un ritmo velocissimo “…paragonabile all’estinzione di massa che uccise tutti i dinosauri nel giro di poche centinaia di anni”.

Perdita dell’habitat, riscaldamento globale e acidificazione del mare ci collocano sulla scivolosa china di una prossima estinzione e questo libro ci fa pensare.

E ci ricorda che «C’è cosi tanta acqua in mare che se  immaginiamo che il fondo intero si innalzi fin dove ora si trova la superficie, tutti i continenti verrebbero  completamente sommersi da parecchi  chilometri di acqua salata. Solo le cime delle montagne più alte spunterebbero dal mare».

 

Eudora Welty   “Nozze sul Delta”  -minimum fax-   euro 18,00

Eudora Welty (nata a Jackson nel Mississippi, nel 1909 e morta nel 2001) è considerata una delle scrittrici più rappresentative della letteratura del sud degli Stati Uniti, (alla stregua di firme della levatura da Carson McCuller e Flannery O’Connor) vincitrice del Premio Pulitzer nel 1972 con “La figlia dell’ottimista” ed  insignita della Medaglia presidenziale della libertà.

Questo romanzo, pubblicato la prima volta nel 1946, è la storia di una famiglia del sud, i Fairchild, proprietari terrieri sul Delta del Mississippi.

Siamo nel 1923 e sta per sposarsi la 17enne Dabney, rampolla della grande e tumultuosa famiglia che impera sulla piantagione di cotone a Shellmound. Forse più per senso di ribellione e capriccio, che non per amore, sta per unire la sua vita a quella del soprintendente della tenuta, Troy Flavin, che ha il doppio dei suoi anni e scarsissime attrattive.

Per l’occasione arriva anche una cugina, la piccola Laura di 9 anni che ha appena perso la mamma e si trova catapultata tra gli adulti in fibrillazione per l’evento.

Fervono i preparativi per il matrimonio e Laura si affaccia così sul mondo della famiglia materna che osserva con attenzione, curiosità e continue sorprese.

La Welty compone un’affascinante mosaico di personaggi, tra storie familiari di scheletri nell’armadio e fantasmi, tra ambienti e situazioni che mostrano come una classe sociale facesse fatica ad adeguarsi ai cambiamenti in corso e non si accorgesse di essere sull’orlo della decadenza.

Un viaggio tra il profumo di magnolie delle piantagioni, l’umido avvolgente delle paludi del bayou, in una storia domestica in cui poco accade, ma si rinvangano momenti del passato come guerre, duelli, imboscate. Una società in cui gli atti di eroismo erano declinati al maschile, ma il vero potere in famiglia era femminile, perché come ci racconta la Welty «Era risaputo che, sin dalla Guerra di secessione – o magari dai tempi degli indiani- a comandare in casa Fairchild erano le donne, che gestivano tutto. Erano loro ad ereditare  i beni, o erano i fratelli a elargirglieli….Nel Delta la terra apparteneva alle donne, che la concedevano agli uomini  e qualche volta tentavano di riprendersela per darla a qualcun altro».

Grande è la confusione sotto il cielo…

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PAROLE ROSSE … E quindi la situazione è eccellente, era la conclusione della massima del “grande timoniere” Mao Tse Tung. La famosa citazione mi è ritornata in mente in questi giorni, sia parlando con alcuni esponenti della sinistra torinese , sia leggendo gli articoli dedicati alla scelta del candidato Sindaco della città di Torino

Purtroppo, a dispetto della citazione, la situazione mi sembra sì ideale ma per una nuova e più bruciante sconfitta. Questa volta avverrebbe, e sarebbe la prima, con la destra. Andando con ordine e provando a districarsi nell’affollata coalizione di centro sinistra, quindici sigle e oltre trenta partecipanti, riunita dal e intorno al PD (Partito Democratico). La partenza dell’operazione riconquista del Palazzo Civico, per le evidenti divisioni e veti contrapposti delle varie componenti dell’azionista di riferimento, della coalizione di centro sinistra, il PD, è avvenuta in ritardo. Deciso, non senza contrasti interni, che la strada era quella delle primarie, la stessa decisione, questa volta con divisioni tra i vari alleati, Radicali, +Europa, Verdi e almeno un candidato a Sindaco del PD a favore e con i restanti contrari o agnostici, è stata recentemente congelata fino a fine dicembre. Questo proprio mentre a Bologna, sempre il PD ed il centro sinistra, hanno definito che la strada per scegliere il successore a Palazzo d’Accursio sono proprio le primarie, pandemia o non pandemia. Spauracchio, credibile o no, condiviso o meno, agitato da molti sotto la Mole per il congelamento prima e l’annullamento poi delle stesse primarie. Discorso diverso quello di Roma dove le implicazioni politiche nazionali fanno pensare ad una scelta politica senza competizione interna per definire il candidato al Campidoglio.

Ma tornando alle vicende torinesi, mi hanno colpite alcune cose, per certi versi incredibili. relative ai nomi circolati finora. La cosa più inverosimile è stato l’appiattirsi sul nome del rettore del Politecnico Guido Saracco. Definito da molti, tra i quali un’autorevole esponente nazionale e parlamentare del PD torinese “ esponente dei poteri forti”. Proposto dalle liste civiche e centriste è diventato subito anche l’alfiere della parte più sinistra della coalizione. Scelta avvenuta senza prima definire un programma e rinunciando a priori a proporre un proprio candidato con un proprio programma. Alla faccia dei grandi temi cari, a parole, alla sinistra nostrana e cioè, periferie, lavoro, giovani, assistenza e così via. Ai più è apparsa subito una scelta dettata da interessi personali di qualche esponente della stessa area e di suoi eventuali, futuri ed ipotetici tornaconti. Una cosa mai vista. La decisione fa il paio con le dichiarazioni di uno dei garanti della lista civica che, invece di appoggiare il rettore Saracco, come scritto prima candidato proposto dalla stessa area e lista civica, ha dichiarato di preferire il capogruppo del PD in “sala rossa” (aula del consiglio comunale di Torino) Stefano Lo Russo. E siamo ancora alle schermaglie. La candidatura del rettore è nel frattempo tramontata, di qualche giorno la sua comunicazione dettata, e gli facciamo sinceri auguri, da motivi personali. Un’ultima cosa sulla proposta di candidatura del rettore, come pensavano di recuperare l’abisso elettorale del centrosinistra nelle periferie con la sua candidatura? Domanda che oramai resterà non solo un mistero ma anche senza risposta. Della sinistra della coalizione ho detto prima e merita di essere ricordato il tentativo, fatto a cavallo della scorsa estate, di mettere insieme buona parte dei partiti movimenti e soggetti della sinistra torinese, fallito per il prevalere di vecchi ed inossidabili personalismi. Rimangono le candidature del PD e di alcuni suoi esponenti. Il primo a lanciare la sua candidatura è stato Enzo Lavolta, attuale vice presidente della “sala rossa” ed ex assessore della giunta Fassino. Ex sindaco che ha dichiarato, tra gli scongiuri dei suoi sostenitori, di appoggiare con una parte dell’ala cattolica del PD il centrista Luca Jahier.

 

A seguirlo subito dopo un altro ex assessore della fulminante, soprattutto per gli elettori del centro sinistra e per i torinesi, giunta Fassino, Stefano Lo Russo, attuale capo gruppo del PD in consiglio comunale. Con grande dispiego di mezzi e di appoggi o “endorsement” che dir si voglia. Questo nonostante le velenose voci che parlano della sua come di un’operazione di puro “posizionamento” con obiettivo reale un posto nel futuro parlamento nazionale. Ancora una volta si è distinta, negativamente, la sinistra, in questo caso quella interna del PD. Alla candidatura di Enzo Lavolta è seguita quella di Gianna Pentenero, ex assessore regionale, prima con Bresso e poi con Chiamparino, con una conferenza stampa dove lanciava oltre alla sua, in alternativa quella dello, e qui le interpretazioni si dividono, lo stesso Saracco o, addirittura, Chiamparino. A ruota. un’altra autorevole esponente della sinistra locale nonché vice presidente del Senato e dirigente nazionale del PD, Anna Rossomando, che, con uno sfortunato tempismo, spezzava più di una lancia in favore del rettore Saracco pochi giorni prima del ritiro dello stesso. Al poker dei principali esponenti dell’ala sinistra del PD torinese mancava Andrea Giorgis, attuale sotto segretario alla giustizia, ex capogruppo in comune e vicinissimo all’ex Sindaco e Presidente della Regione Sergio Chiamparino, che è stata lanciato un paio di giorni fa sui quotidiani torinesi. Subito il “fuoco amico” a bollarlo come candidato della ZTL (zona a traffico limitato) indicando con questo i quartieri centrali e collinari dove il PD fa il pieno dei voti e lo stesso Giorgis è stato eletto. Questo dovrebbe favorire sicuramente il sostegno del consigliere regionale di LUV (Liberi Uguali Verdi) Marco Grimaldi, autorevole rappresentante della sinistra esterna al PD che meglio di tutti rappresenta la sinistra fighetta e della movida e di parte di quell’area di sinistra rimasta orfana del rettore e che ora non sa che pesci prendere. Insieme a quello di Giorgis hanno incominciato a circolare i nomi di Mauro Salizzoni, in realtà il suo già da prima, luminare della medicina e votatissimo consigliere regionale, attuale vice presidente dello stesso consiglio e l’inossidabile, intramontabile, come dicono alcuni suoi detrattori, “buono per tutte le stagioni”, Sergio Chiamparino. L’ex sindaco, dicono i bene informati, nega decisamente. Da questo complicato, confuso e poco entusiasmante quadro emergono alcune considerazioni finali, sulla coalizione di centro sinistra, sulla sinistra del PD e su quella a sinistra dello stesso Partito Democratico. La coalizione appare tanto numerosa quanto velleitaria dove manca una guida chiara, sia politica che programmatica. Ruolo che spetta di diritto al principale partito della coalizione che, bloccato dalle divisioni ed interessi interni, non riesce a svolgere.

 

Fa venire in mente quanto disse un paio di anni fa lo storico e sempre lucido dirigente del PCI (Partito Comunista Italiano), Emanuele Macaluso, “il PD non c’è, ma è tutto quello che c’è”. La sinistra interna del PD esce spappolata, disintegrata con il rischio, grande, che a seconda dell’esito finale potrebbe portare anche a scelte estreme. La stessa candidatura di Andrea Giorgis, che ha il pregio di liberare, in caso di vittoria, un posto in parlamento, nel governo e nella direzione nazionale del PD e che quindi mette d’accordo molti parlamentari uscenti e aspiranti tali, non risolve tutte le divisioni e le fratture che si sono create, Rimane la sinistra fuori dal PD, ridotta oramai a percentuali minime, servirebbe molto tempo e spazio per elencare cause e responsabilità sia nazionali che locali. Il fallimento del progetto nazionale di LeU (Liberi e Uguali) non ha tenuto conto del risultato torinese che pure nel deludente risultato nazionale, a Torino ottenne il massimo dei consensi, non solo in percentuale ma in termini di voti assoluti. Più delle due ultime competizioni politiche, regionali e comunali. Ma se si esclude il tentativo di due esponenti di LeU torinesi tutti gli altri si sono accodati alle scellerate e fallimentari decisioni nazionali. Il risultato, l’anno dopo alle regionali, è stato di dimezzare i voti con LUV ed eleggere un solo consigliere, Grimaldi, con i resti e con uno striminzito e misero 0,15% di margine e pregiudicando così gli eventi futuri, a cominciare dalle elezioni amministrative del 2021. Diversi dei soggetti della variopinta e numerosa coalizione di centro sinistra torinese faranno fatica, qualcuno non ci riuscirà, a presentare la lista alle elezioni. Poi, di quelli che ce la faranno la maggior parte non eleggerà nessuno e farà da portatore di voti o da utili idioti che dir si voglia, al PD ed a chi ce la farà. Si stanno creando le condizioni per la “tempesta perfetta” e far vincere così le elezioni comunali di Torino, per la prima volta come scrivo all’inizio, alla destra. Vale la pena ricordare che, sembra oramai deciso, candida l’imprenditore Paolo Damilano, nominato, giusto per non dimenticare, dalla giunta regionale Chiamparino Presidente del Museo Nazionale del Cinema ed ora diventa l’alfiere della destra. Tutto questo e siamo solo all’inizio.

Sindaco cercasi

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni / Nella storia di Torino la città difficilmente ha avuto sindaci e podestà  inadeguati. L’ esempio di Chiara Appendino è una rara  eccezione. Ha avuto sindaci più bravi come Valentino Castellani ed Amedeo Peyron e sindaci meno bravi. Ma un livello minimo è sempre stato salvaguardato. Persino un sindaco per caso come Giorgio  Cardetti non è stato male.

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Oggi dopo il ritiro del rettore del Politecnico  dalla candidatura a Sindaco  nel centro sinistra su cui espresse già delle riserve Castellani, ritornano in pista nomi di scarso significato che non rappresentano nulla di significativo  a livello politico e neppure amministrativo. Per avere un’idea adeguata  di paragone bisogna riandare a Piero Fassino che fu segretario nazionale dei ds e due volte ministro. Nel 2011 stravinse. Aveva anche il pregio di aver fatto da giovane il consigliere comunale a Torino prima di diventare deputato. Il deficit accumulato da Chiamparino impedì a Fassino di realizzare il suo programma. Il centro- sinistra dovrebbe guardare ad un modello del genere che in effetti non possiede e impedire a Chiamparino di continuare a lavorare dietro le quinte come sta facendo. C’è chi parla di Laus come ad una grande risorsa che risolverebbe tutti i problemi. Ma verrebbe voglia di domandarsi chi sia politicamente il sen. Laus per pretendere di candidarsi a sindaco di Torino. Il suo curriculum è molto povero anche i termini culturali e resta nell’ambito delle vecchie clientele meridionali del passato che dominarono nella Dc e nel Psi. L’unico nome di grande prestigio ed autorevolezza è quello del prof. Mauro  Salizzoni, medico di fama internazionale che ha appena terminato il suo impegno di direttore del Reparto Trapianti di Fegato delle Molinette e che quindi potrebbe dedicarsi a tempo pieno alla sua città. Le mezze figure dei politicanti  sono inconciliabili con i problemi di una Torino abbandonata  a sé stessa da Appendino. Nel fronte del centro – destra appare come unica risorsa l’imprenditore di successo Paolo Damilano che ha simpatizzato in passato  per  lo schieramento opposto. Lo stesso Salvini ha capito che un leghista  candidato lo condannerebbe ad una sconfitta sicura perché  non ha figure qualificate nella Lega torinese. Sicuramente i resti di “Forza Italia“ non possono avere l’impudenza di riproporre come cinque anni fa Napoli, un cognome a priori inadatto a fare il sindaco di Torino, ma non è solo il cognome a renderlo tale. Il giovane Marrone sta dimostrando grinta e capacità, ma non penso sia adatto a guidare una coalizione che deve guardare a Torino soprattutto ai moderati. Il centro- destra avrebbe una grande risorsa nell’ex presidente della Regione Piemonte Enzo Ghigo, l’unica figura politica che questo schieramento ha  saputo esprimere  tra i tanti carneadi berlusconiani costruiti artificialmente a tavolino  in oltre vent’anni. Un confronto Salizzoni – Ghigo  riporterebbe  sui binari giusti il confronto elettorale di primavera, facendo voltare pagina rispetto al grillismo devastante della Appendino.
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Scrivere a quaglieni@gmail.com

Il Metodo Montessori: la rivoluzione raccontata in TV

Torino e la Scuola

“Educare”, la lezione che ci siamo dimenticati
Brevissima storia della scuola dal Medioevo ad oggi
Le riforme e la scuola: strade parallele
Il metodo Montessori: la rivoluzione raccontata in TV
Studenti torinesi: Piero Angela all’Alfieri
Studenti torinesi: Primo Levi al D’Azeglio
Studenti torinesi: Giovanni Giolitti giobertino
Studenti torinesi: Cesare Pavese al Cavour
UniTo: quando interrogavano Calvino
Anche gli artisti studiano: l’equipollenza Albertina

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4 “Il Metodo Montessori: la rivoluzione raccontata in TV”

Voi ve li ricordate i vostri insegnanti?  Ogni scuola ha il suo professore “preferito” e quello “che fa paura”, così come c’è quello “nuovo”, l’ultimo arrivato, che si controbilancia con il docente “storico”, che pare sia lì da quando hanno edificato le mura.  Quante persone abbiamo incrociato nei corridoi, quanti docenti di ruolo, ad oggi esseri mitologici, e quanti precari, che appena iniziavano a imparare la disposizione delle aule dovevano ricominciare a sperare di essere richiamati l’anno successivo, in chissà quale altra struttura. Quel che è certo è che ognuno dei docenti che avete incontrato si differenziava dagli altri, non solo per carattere o indole, ma perché, a livello più o meno inconscio, adottava una differente metodologia educativa. C’erano sicuramente i personaggi più autoritari, quelli che seguivano pedestremente il libro di testo, quelli che vi lasciavano più liberi nella gestione del tempo e del lavoro, probabilmente avrete incontrato professori che passeggiavano tra i banchi intanto che spiegavano, o altri che non si allontanavano mai dalla cattedra, quasi a voler sottolineare che c’è un confine ben preciso tra chi “docet” e chi deve imparare. Se siete stati fortunati avrete conosciuto anche docenti che osavano spostare i banchi o che addirittura chiamavano attorno alla cattedra gli studenti, tentando di portare un senso di democrazia e parità all’interno dell’aula. Qual è il giusto approccio? E chi lo sa. Di certo più metodologie si conoscono, più se ne possono utilizzare, e più si è in grado di relazionarsi con la classe, tenuto in debito conto gli studi pedagogici. Personalmente penso sia corretto alternare diversi metodi educativi, e proporre il “cooperative learning” o il “debate”, passando per la “peer education” e il “tutoring”, senza dimenticare, tuttavia, l’importanza e l’essenzialità della lezione frontale.

La storia della scuola si intreccia con il quadro delle metodologie didattico-educative, che a loro volta si incatenano alle vicende di alcuni personaggi specifici, i quali, grazie ad un particolare coraggio o ad una straordinaria lungimiranza e intelligenza, si sono distinti dai più, e hanno mostrato a tutti che c’è un’altra via, un altro modo di fare le cose.
Le avventure di tali pionieri non sono mai semplici, al contrario, queste personalità innovatrici hanno dovuto nella maggior parte dei casi combattere strenuamente per far affermare le proprie teorie.  Una di queste figure coraggiose si chiama Maria Montessori. Il nome completo è Maria Tecla Artemisia Montessori, che nasce a Chiavarella (AN), il 31 agosto del 1870. È educatrice, pedagogista, medico, neuropsichiatra infantile, filosofa e scienziata, nonché una delle prime donne a laurearsi presso la Facoltà di Medicina. Il suo nome passa alla storia grazie al suo metodo educativo, ovvero il “metodo Montessori” il cui intento è dare al bambino la libertà di manifestare la propria spontaneità.

L’educatrice sostiene che la salute, fisica e mentale, sia il risultato della “liberazione dell’anima”. Secondo la sua visione il processo educativo è in realtà un percorso di liberazione che il bambino deve intraprendere quasi in completa autonomia; il ruolo dell’adulto, in questo contesto, è quello di un accompagnatore che deve intervenire solo laddove risulti necessario un aiuto per proseguire in un tale progetto di conquista. Nel metodo Montessori l’insegnante ha il ruolo di agevolare le attività dei bambini ed è molto di più di una persona che tiene una lezione su determinati argomenti che vorrebbe insegnare.  Centrale per tutta la filosofia montessoriana è l’ambiente. Il luogo dell’apprendimento deve essere “a misura di bambino”, oltre che familiare, inoltre è necessario che vengano posti a disposizione degli alunni oggetti pedagogici appositamente studiati per favorirne lo sviluppo intellettuale. Gli scolari, da soli, saranno in grado di imparare dal proprio comportamento e di autocorreggersi. È opportuno che l’ambiente sia altresì ordinato, poiché l’abitudine all’ordine aiuta i piccoli a comprendere quanto sia importante riporre i giochi e gli oggetti dopo l’utilizzo. Il bambino apprende meglio in un ambiente stimolante e ricco di oggetti interessanti che attirino la sua attenzione. Egli dovrebbe poter disporre di diversi tipi di materiali anche di differenti dimensioni, nonché di strumenti per disegnare e colorare, in modo tale che il piccolo possa stimolare la propria creatività. Sono dunque consigliate attività incentrate sull’utilizzo delle mani, in questo modo il bambino, divertendosi, impara a concentrarsi e a coordinarsi. È importante inoltre che gli argomenti e i concetti da apprendere siano inseriti nel giusto contesto. In questo modo i bambini li comprenderanno e li ricorderanno meglio. Esempi concreti sono più facili da capire rispetto a concetti astratti. Tale indicazione sottolinea come i bambini imparino meglio “facendo” qualcosa piuttosto che rimanendo semplicemente ad ascoltare.

Il principio più importante attorno a cui ruota tutto il pensiero montessoriano è la libera scelta. I bambini imparano e assorbono più informazioni quando vengono lasciati liberi di compiere le proprie azioni. Ovviamente ciò non significa “libertà di fare ciò che si vuole senza alcuna regola”, al contrario, in questo modo lo scolaro impara a responsabilizzarsi e a capire qual è la scelta giusta da compiere.  Il metodo Montessori incoraggia i bambini a sviluppare indipendenza e autodisciplina; con il tempo e con la possibilità di agire in autonomia, gli studenti iniziano a riconoscere quali siano le proprie passioni e inclinazioni. È bene ricordare come alla Montessori non stiano a cuore i metodi di insegnamento basati su premi e punizioni, in quanto la studiosa ritiene che la vera ricompensa per il bambino sia rappresentata dall’apprendimento stesso e dalla sua capacità di aver imparato qualcosa di nuovo grazie alla propria curiosità e alle proprie capacità.
Altra peculiarità della sua metodologia riguarda l’apprendimento in gruppi misti, costituiti da bambini di diverse età; la Montessori sostiene infatti che tale difformità possa essere uno stimolo aggiunto per l’apprendimento. Ad esempio i bambini più piccoli potrebbero essere incuriositi da ciò che fanno i più grandi e potrebbero chiedere loro delle spiegazioni; così i grandi saranno felici di insegnare ai piccoli ciò che sanno fare e che hanno già imparato.

Tutto questo Maria Montessori lo propone a fine Ottocento, opponendosi ad un sistema scolastico più che mai rigido e classista. Possiamo dunque giocare a fare meno i “dottoroni” quando inseriamo appositamente nei nostri discorsi quei termini anglofoni che tanto vanno di moda oggi, il lavoro di gruppo non è una novità e il dibattito è un metodo educativo utilizzato già dagli antichi.  La letteratura che riguarda Maria Montessori e i suoi studi è decisamente vasta, molto si è detto a riguardo delle sue scoperte e delle innovazioni che ha apportato al sistema scolastico.
Nel 2007 Canale 5 le dedica una miniserie televisiva di due puntate, intitolata “Maria Montessori -Una vita per i bambini”. A interpretare la protagonista è stata scelta Paola Cortellesi, camaleontica attrice nota sia per i suoi numerosi spettacoli teatrali sia per le numerose parodie, abile interprete di ruoli comici e drammatici, ma mai scontati o banali.
Proprio per ricollegarci al discorso iniziale delle varie metodologie didattiche, mi sento di poter affermare che ogni tanto ci possiamo concedere anche l’utilizzo di strumenti “meno scolastici” come la televisione o le fiction per imparare divertendoci. È ovvio che in questo caso si tratta di un riadattamento romanzato della vita di Maria Montessori, e non di un vero e proprio documentario biografico; infatti la miniserie presenta tutte le caratteristiche che un programma televisivo in onda in prima serata deve contenere: la biografia della pedagogista diventa narrazione piacevole e scorrevole e le difficoltà private della protagonista si intrecciano con i suoi successi professionali: insomma la nostra eroina è la classica grande donna capace di affrontare le proprie fragilità e sconfiggere l’ingiusto sistema supportato dalla tradizione.

Una bella storia raccontata con la leggerezza della fiction televisiva. Ma è dalle cose semplici che si impara di più. E forse la drammatizzazione non è poi così lontana dalla realtà.
La Montessori è stata una donna coraggiosa, una pioniera e un’innovatrice, i posteri hanno ben giudicato le sue metodologie e le sue azioni.
Certo è che il mestiere dell’insegnante non è facile, anche se a mio parere è tra i più belli che esistano. Ogni tanto anch’io penso: chissà se sto facendo bene, se il mio approccio con i discenti è adeguato, se sto commettendo degli errori. Dovrei chiedere ai miei studenti, che da sempre sono i giudici più severi.

Alessia Cagnotto

Calabresi il “solito ignoto“

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni   M ario Calabresi, figlio del commissario L uigi Calabresi ucciso dai sicari di Lotta Continua, è apparso in tv come “solito ignoto“ nella trasmissione di Rai 1 condotta da Amadeus. Si è prestato a far la parte del solito ignoto per pubblicizzare in poche battute il suo ultimo libro.

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Calabresi ha 50 anni ed è  stato direttore dei quotidiani  “La Stampa“ e “Repubblica“. Venne brutalmente licenziato dall’editore illuminato e progressista Carlo de Benedetti dalla direzione di quest’ultima e non è più riuscito a rientrare nel giro. Ambedue le  sue direzioni sono state deludenti ed hanno registrato un crollo nelle vendite dei due giornali che comunque continuano a perdere copie a vista d’occhio.
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Calabresi commise  dei gravi errori nella scelta dei suoi collaboratori  sia a Torino che a Roma, piccoli giornalistini arroganti e faziosi che, malgrado tutto, continuano a galleggiare. Neppure un direttore come Maurizio  Molinari è riuscito ad eliminarli da ruoli di responsabilità. Calabresi ebbe in passato persino una sua trasmissione televisiva che a causa del clamoroso insuccesso fu eliminata dopo poche puntate. L’ho conosciuto di sfuggita in qualche occasione, soprattutto quando venne ad un  mio ricordo di Carlo Casalegno. Mi sembrò simpatico e gentile anche perché succedeva all’arcigno Anselmi, una delle persone più antipatiche persino a cena. In effetti Calabresi  si rivelò un direttore poco presente che delegò molto a persone non adeguate alla conduzione del giornale. Una sua idea fissa era la linea politica “azionista“ del giornale con un sinistrismo evidente che minava la stessa  credibilità del quotidiano. La moglie Caterina, nipote  di Natalia Ginzburg (che scrisse e sottoscrisse  cose ignobili contro il Commissario Calabresi), ebbe anche il cattivo gusto di praticare una militanza politica a Torino nel Pd che era del tutto fuori luogo.   Nessun direttore de “La Stampa“ avrebbe permesso una simile compromissione non opportuna. Calabresi che deve in larga misura la sua notorietà al fatto di essere figlio del Commissario vittima dei terroristi, non ha mai sentito in modo particolare il legame con la storia di suo Padre in nome di un perdonismo che a molte vittime del terrorismo non piacque. Un libro  coraggioso del figlio del magistrato genovese Coco vittima delle Br, il maestro Massimo, non piacque  a sua volta a Calabresi: “La Stampa” ignorò anche la sua presentazione torinese forse perché il libro poteva suonare come critica all’oblio di certi parenti delle vittime dei terroristi come Calabresi. Dante Notaristefano presidente della Associazione Vittime del Terrorismo mi diceva il suo disagio nel sentire la indifferenza di M ario Calabresi nei confronti dell’associazione fondata a Torino da Maurizio Puddu. L’ultima volta che lo vidi fu dal panettiere torinese  Ficini di via Berthollet, di cui era affezionato cliente. Rivederlo stasera in Tv in una comparsata anonima  di pochi istanti mi ha intristito, cosi come mi ha rattristato  vedere che ha accettato di andare alla trasmissione come esperto di tartufi. Un ruolo in verità un po’ umiliante per un ex direttore di giornali.  Questo è il giornalismo odierno e non ci si può aspettare molto di più . E’ triste dover constatare che il nome del Commissario Luigi Calabresi sia anch’esso finito nel dimenticatoio insieme a suo figlio. Una storia di smemoratezza e di tramonti davvero imprevedibile , quasi le “colpe“ dei figli ricadessero sui padri. E’ strano che i suoi amici Fazio e compagnia si siano dimenticati del giornalista che li ha sostenuti  ed ha contribuito in passato  al loro successo. Purtroppo sic transit gloria mundi.
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Scrivere a quaglieni@gmail.com