Rubriche- Pagina 5

La tirlindana

/

Sono ormai in pochi, sui laghi, a praticare la pesca a traino dalla barca con la tirlindana. Eppure questo semplice attrezzo ha un suo fascino e una storia. Immaginatevi una lenza in filo di rame o, in versione più moderna, in monofilo di nàilon, lunga da un minimo di 30 a oltre 60 – 70 metri, recante un finale di nàilon a cui è assicurata l’esca, il tutto avvolto su uno speciale telaietto girevole dalla sagoma molto nota detto aspo

Ci siete? Bene. L’aspo, un tempo, veniva costruito dallo stesso pescatore, artigianalmente. Oggi come oggi quest’attrezzo si trova già pronto in commercio, spesso in alluminio leggero e lucente: non vi resta che applicare il terminale con l’esca ritenuta più idonea e, sul piano teorico, siete a posto. Perché solo in teoria? Perché la chiave del successo nella pesca a tirlindana dipende dalla mano di chi la manovra. A prima vista parrebbe tutto semplice e facile come bere un bicchier d’acqua  ma non bisogna farsi ingannare dalle apparenze: occorre un certo tirocinio per impadronirsi al meglio di questa tecnica, in grado di riservare delle gran belle soddisfazioni. Intanto, occorre una buona conoscenza del fondale da battere e saper valutare con esattezza la profondità di pescaggio dell’attrezzo. Mai lasciare le cose al caso, quando si pesca con la tirlindana: sarebbe un errore imperdonabile. Ho conosciuto un “lupo di lago”, il vecchio Giuanin, in grado di valutare fondali e correnti, neanche avesse una carta nautica ficcata dentro la sua testa pelata. Per non parlare poi dei movimenti: sia lui che il suo “socio” Faustino erano dei maghi nell’accompagnare la lenza , imprimendole i movimenti giusti, manovrando la barca con misura e mestiere. Di norma i “professionisti” della pesca su lago fanno tutto da soli, usando piccole barche leggere, dei veri gusci di noce che manovrano con un solo remo, essendo l’altro braccio impegnato con la lenza.

 

Taluni ricorrono al motore di potenza fra 2 e 3,5 HP, ma è ovvio che, per quanto condotto al minimo, quest’ultimo provoca un fastidioso rumore specialmente nei fondali bassi. Un’alternativa ci sarebbe, a dire il vero: un motore elettrico, silenzioso, facile da gestire e con una velocità giusta. La tradizione però conta; e la tradizione suggerisce  che l’ideale consiste nell’ agire in due, uno in gamba nel manovrare i remi, l’altro con il tocco giusto per far andare la tirlindana. La lenza tradizionale è in rame, quella moderna – come si è detto – in nàilon. Il tipo classico, in rame cotto,  e si trova in due diametri: lo 0,30 per la pesca leggera a mezz’acqua, lo 0,50 per andare più a fondo, puntando al luccio. Un materiale flessibile ed elastico, preferibile a quello attorcigliato a treccia che risulta meno malleabile. Il nàilon, occorre ammetterlo, offre maggiori vantaggi, con un però: richiede una piombatura distribuita o raggruppata, per consentirne il corretto e rapido affondamento. Cosa che, con il filo di rame, avviene spontaneamente grazie al suo peso specifico. Il nailon non richiede una particolare manutenzione, ha un carico di rottura e di resistenza decisamente elevato, le lenze sono vendute già zavorrate e, cosa non secondaria,  costano meno. “La zavorra è il cuore di tutto!”, dice Giuanin, quando all’osteria, tra un mezzino e l’altro, molla il freno e sale in cattedra. “ Una volta si lavorava con il rame piombato alla fine, facendoci i muscoli nell’accompagnare il peso in acqua. Adesso, cari miei, si va avanti a filo di nailon  e allora non resta che applicare delle olivette di piombo lunghe di un paio di centimetri e di peso attorno  ai a due o tre grammi, distribuendole in modo regolare fino a raggiungere un peso di quasi mezzo chilo. Così, se zavorri bene, la lenza va giù che è un piacere e non corri il rischio che ti resti troppo in superficie,trascinandotela a pelo d’acqua, o di farla affondare fino a raschiare i sassi del fondo”.

 

Il “prof” Giuanin accompagna le parole con gesti decisi, caparbi quel tanto da sconsigliare il contraddittorio. La sua esperienza non ammette repliche. “ E’ molto importante anche la velocità con cui avanza la barca. Se si è in due la cosa migliore è procedere a remi, come abbiamo sempre fatto io e Faustino”, confida il vecchio pescatore.  “ Uno tiene in mano la tirlindana e l’altro rema facendo ogni tanto delle piccole pause. Occhio, però:  chi tiene la tirlindana non deve star lì come un cucù ma imprimere al filo dei piccoli, leggeri strappi per simulare una veloce fuga del pesciolino finto”. Questo genere di movimento, visto dalle parte dei predatori, equivale allo squillo di tromba della carica, scatenandone l’istinto di predatori.“Qui viene il bello. Avvertita la mangiata non perder tempo: uno strappo per ferrare il pesce e avvia lentamente il recupero. La barca non deve arrestare il suo movimento, capito? Se lo fai, se ti fermi, la preda ti frega, soprattutto se è di una certa dimensione. I pesci non sono fessi, e non ti saltano a bordo di spontanea volontà. La preda, se riesce ad avvicinarsi troppo, tenterà come ultima fuga di inabissarsi sotto la barca. Quando accade, sono cavoli amari: il rischio di perderla è alto perché, puoi esserne certo,  il filo andrà sicuramente ad impigliarsi in qualche sporgenza con tutte le conseguenze del caso”. Mai dimenticarsi il guadino: se non lo si trova a portata di mano, al momento giusto, tirare in secco la preda è un problema. Questa è la lezione di Giuanin. Applicandola per filo e per segno porterà alla tirlindana un tributo certo di prede, dai persici ai lucci, dai cavedani alle trote.

Marco Travaglini

 

(Foto: molagnacavedanera.it)

 

Uno scrigno di dolcezza: nuova apertura per Luciano Stillitano

/

PENSIERI SPARSI  di Didia Bargnani

Il genio creativo ed irrequieto di Luciano Stillitano, gran Maestro della pasticceria, in particolare quella torinese famosa per le paste mignon, è da poco approdato in corso Casale 96 a Torino.
Una  pasticceria coquette con dei richiami allo stile Liberty che ben si adatta alle dolci creazioni del Maestro pronte per entrare in scatole raffinate ed essere portate via o gustate con un buon caffè davanti al bancone dal quale si intravedono pasticcini mignon di ogni tipo, freschi e secchi, brioches e croissants, fatti con la sfoglia inversa, ancora caldi, burrosi e fragranti.
“ Per il mio nuovo locale- racconta Stillitano- non volevo qualcosa che richiamasse la modernità ed è così che ho pensato a questo piccolo negozio che in passato era stato una pasticceria; vorrei ripartire da qui per inglobare la tradizione al nuovo usando molto la manualità, tralasciando stampi e stampini. Non sarei con i piedi per terra se ignorassi le novità in pasticceria ma non posso assolutamente lasciar perdere una tradizione ricca di storia e contenuti come quella torinese, accogliamo dunque il nuovo ma facciamolo buono”.
Ormai , mi spiega il Maestro, è tutto molto standardizzato, si cerca di ottimizzare, di fare questo lavoro per sei ore al giorno, tutto ciò a scapito della qualità e della creatività.
“Oggi si diventa pasticceri su Instagram- continua Stillitano- o con qualche corso di breve durata, al momento non vedo eredi, solo tanti improvvisati, non c’è una pasticceria all’altezza della nostra tradizione torinese, vedo un appiattimento totale, non c’è personalità se non in pochissimi che conto sulle dita di una mano. “ Non è perfetto ma va bene lo stesso “, quando un pasticcere dice queste parole è la fine, significa che ha perso l’entusiasmo per il suo lavoro, io non sono così, quello che produco deve piacere al mio palato, se non mi piace significa che non è perfetto e non lo metto in vendita. L’errore è concepito ma non è ammesso, questa è la mia filosofia.”
Secondo il Maestro oggi la rivoluzione è la manualità e cita Cedric Grolet, il pasticcere più famoso di Francia, come un esempio di modernità e manualità.
“ Ho in programma di aprire altri due punti vendita- conclude Luciano Stillitano- per valorizzare la pasticceria torinese perché si sta rischiando di buttare via un patrimonio. Un esempio? La piccola pasticceria secca non è  considerata quanto meriterebbe”.
Intanto tra una chiacchiera e l’altra mi trovo ad osservare i pasticcini mignon, piccoli dolci capolavori in miniatura, le torte, quelle più classiche e quelle che strizzano l’occhio alla modernità, e ognuna di queste meraviglie sprigiona un profumo di buono, di burro, zucchero, un profumo d’altri tempi.

All’Osteria del Crocevia

/

All’osteria del Crocevia ci si trovava in compagnia. Soprattutto il sabato sera. Nel locale l’aria era densa come la nebbia di Milano. Solo che non era la fitta bruma che saliva dai Navigli ma il fumo dei sigari toscani e delle “nazionali” senza filtro. Un’aria malsana e spessa, da tagliare con il coltello. Sui tavoli infuriavano discussioni “ a molteplice tema” ( come diceva l’ex agente del dazio, Alfonso Merlone). Sport –  con ciclismo e calcio a far da padroni -, politica, vicende del paese s’intrecciavano in una baraonda dove sfiderei tutti voi a trovare il bandolo della matassa , tant’era intricata. E le partite a carte? Combattutissime, “tirate” allo spasimo tra segni e parole, “liscio e busso” e compiaciute manate sulle spalle tra i soci. Il “campionario umano”, come avrebbe detto il dottor Segù, era di prim’ordine.

Il più vecchio era il “Babbo”, un toscanaccio tutto nervi che aveva superato gli ottant’anni da un pezzo. Quando lo tiravano fuori dai gangheri urlava “Ti sbuccio!”, minacciando l’interlocutore  con un  coltellino che non serviva nemmeno a far schiudere il gheriglio di una noce dal tanto che era piccino. Tutta scena, ovviamente, perché  non sarebbe  mai stato capace di far male ad una mosca. Nemmeno quella volta che Dante Marelli, gli offri una Golia. L’ometto era golosissimo della liquirizia e quelle caramelline lo facevano impazzire. La scartò al volo e se la infilò in bocca …sputandola, disgustato, un attimo dopo. Nella carta della Golia il perfido Dante aveva avvolto una piccola pallina di cacca di capra. A prima vista sembrava proprio una caramella e la golosità aveva tradito l’anziano che diede fondo, in breve, al suo repertorio di parolacce e bestemmie, giocandosi le residue “chance” di poter accedere – se non proprio al paradiso – quantomeno al purgatorio. Una sera entrò tutto trafelato anche Quintino, con il volto e le mani “sgarbellate“, cioè graffiate.  Aveva lasciato da meno di un’ora l’osteria, salutando tutti, ubriaco da far paura, ed insieme a Berto Grada erano partiti alla volta di Oltrefiume. I due, traditi dal vino e dall’asfalto bagnato, erano finiti con la Vespa giù dritti per la scarpata della ferrovia, infilandosi tra i rovi sul greto del torrente. Berto, più per lo spavento che per la botta, era svenuto. E Quintino, dopo averlo cercato al buio, gridando il suo nome, spaventatosi per il silenzio dell’amico, era tornato all’osteria – barcollando – per chiedere aiuto. Erano una coppia di “originali“. Berto lavorava come muratore e a tempo perso dava una mano ad Alfonso che di mestiere faceva il becchino al cimitero di Baveno, in cima al viale dei Partigiani. Lavorava come una ruspa e capitava spesso che bisognava intimargli “l’alt” mentre scavava una fossa perché, se stava per lui, non era mai abbastanza profonda, con il rischio di rimanere lui stesso sepolto vivo se gli franava addosso l’enorme cumulo di terra. All’osteria lo prendevano in giro perché era tanto buono ma anche un pò tontolone. Mario il Milanese l’aveva preso di mira con i suoi scherzi. Quando Berto comandava un piatto di trippa in umido o di minestra di fagioli, lo faceva distrarre per allungargliela con un mestolo d’acqua tiepida. Il Berto continuava a mangiare finché nel piatto restava solo un brodo insipido e leggero come l’acqua. Per fortuna c’era Maria, cuoca dal cuore d’oro, a difenderlo quando s’esagerava. Brandendo il grosso mestolo che serviva per girare la polenta, minacciava i burloni gridando: “Basta adesso. Il gioco è bello se dura poco. Lasciate stare il Berto, altrimenti vi faccio assaggiare questo bastone sulla gobba e vi assicuro che sono di mano pesante”. Maria metteva d’accordo tutti. Aveva un certo stile, deciso e convincente. Ma, essendo d’animo buono, perdonava tutti. A volte capitava che si venisse accolti per una rapida visita alla cucina esterna dell’osteria. Era quello il suo vero “regno“, ricavato dall’antica stalla. Accedervi era un privilegio. Il pavimento era stato ribassato rispetto al resto della costruzione. Il grande camino veniva utilizzato per l’essiccazione delle castagne ed i ganci appesi al soffitto servivano per asciugare i salami, che dopo la macellazione venivano appesi per una decina di giorni  a “sudare”, sgocciolando il grasso. Nella cucina Maria aveva conservato diversi attrezzi che venivano utilizzati in passato: la cassetta per la conservazione della farina per la polenta o per quella di castagne; le terracotte, i tund, cioè i piatti e il paiolo di rame per la polenta; il querc, il coperchio che veniva  utilizzato per servire le portate , come nel caso delle frittate; il putagé, un fornello a braci dove si poteva fondere il lardo. Attorno al camino, vicino alla soglia in pietra c’erano le molle, il barnasc (la paletta per le braci), il frustino in legno di bosso utilizzato per mescolare la polenta. La semplicità e l’accoglienza di quell’ambiente ci ricordava i tempi della nostra gioventù, la sobrietà dell’alimentazione a base di  polenta, consumata tutti i giorni, e di  minestra, preparata la sera, il cui avanzo costituiva la colazione del mattino dopo. I ricordi erano come una bacchetta magica che faceva tornare d’incanto la serenità ed anche Mario il milanese, a quel punto, prendeva sottobraccio Berto, scusandosi in una maniera che il Grada accettava subito – scusate il gioco di parole –  di buon grado : offrendo pane, formaggio e vino buono.

Marco Travaglini

Antico “bonet” alle nocciole

/

E’ un dessert conosciuto soprattutto nella variante al cacao

Tipico dolce al cucchiaio della pasticceria piemontese, il “bonet” e’ un dessert conosciuto soprattutto nella variante al cacao, ricoperto di caramello goloso, delicato, particolarmente energetico. La versione piu’ antica dell’alta Langa, prevede l’utilizzo delle nocciole. Questa e’ la mia proposta. Delizioso!

***

Ingredienti:

 

½ litro di latte fresco intero

100 gr. di nocciole tostate

180 gr. di zucchero

1 cucchiaio di caffe’ ristretto

2 cucchiai di rum

50gr. di amaretti

4 uova e 2 tuorli

***

In uno stampo in alluminio caramellare 100gr. di zucchero con ½ bicchiere di acqua. Ridurre a farina le nocciole con lo zucchero rimanente. Ridurre in polvere gli amaretti, bollire il latte. Nel frullatore sbattere le uova e i tuorli, aggiungere  il caffe’, il rum, le nocciole, gli amaretti, versare il latte caldo a filo. Trasferire il composto nello stampo, cuocere a bagnomaria sul gas a fuoco bassissimo (l’acqua non deve mai bollire) per circa 1 ora. In alternative cuocere in forno a 180 gradi per 50 minuti circa. Lasciar raffreddare e conservare in frigo sino al momento di servire.

 

Paperita Patty

Alla scoperta della città sabauda fra luoghi nascosti e luoghi noti

/

Scopri – To Alla scoperta di Torino

.
Quando si visita Torino, una delle tappe fondamentali è sicuramente la nota piazza Statuto di Torino, una piazza neoclassica edificata nel 1946 che vede al centro la statua in onore dei progettisti del traforo del Frejus. In pochi però sanno che a pochi passi da quest’ultimo vi è il Rondò della Forca, un luogo in cui tra il 1835 e il 1853 avvenivano le esecuzioni dei condannati a morte, all’epoca non vi era nulla attorno se non alberi e fossi, questo per ospitare il maggior numero di persone possibile per vedere l’esecuzione che doveva essere pubblica in modo da mostrare ai cittadini come venivano puniti coloro che compivano omicidi o semplicemente accusati di cospirazione politica. Adiacente al Rondò della Forca viveva Piero Pantoni l’ultimo boia di Torino, oggi al posto del patibolo troviamo una statua dedicata a San Giuseppe Cafasso, considerato l’apostolo dei carcerati.
.
TRA I LUOGHI MENO CONOSCIUTI.
villaggio LeumannmUn altro luogo molto particolare ma meno noto è il quartiere “Cit Turin” che, in dialetto piemontese, significa “piccola Torino”; ne fanno parte le vie adiacenti all’inizio di Corso Francia, qui troviamo tantissime ville e palazzine in stile Liberty progettate da Pietro Fenoglio, fu il primo luogo costruito fuori dalle mura della città ed è considerato, ancora oggi, una delle zone più belle di Torino, dove vi è anche il rinomato mercato di Piazza Benefica.
Alle porte di Torino, più precisamente a Collegno troviamo il Villaggio Leumann, costruito a fine 800 per volere di Napoleone Leumann, un imprenditore che fece costruire un complesso residenziale molto particolare nei pressi del suo cotonificio, negli anni 70 l’azienda chiuse, ma ancora oggi le palazzine sono abitate e con numerosi lavori di restauro sono rimaste intatte come appena edificate. Numerosi sono gli eventi e le iniziative organizzate in questo piccolo villaggio ricco di negozi, case fiabesche e giardini, un posto da non perdere.Per coloro che amano riscoprire la storia vi è il rifugio antiaereo della Seconda Guerra Mondiale, un tempo posto sotto il Castello di Mirafiori, dove oggi ne rimangono solo i ruderi ma scendendo sottoterra il rifugio è rimasto intatto e permette di comprendere come si viveva la vita nel rifugio per sfuggire ai pericoli della guerra.
Sempre in zona Mirafiori vi è il Mausoleo della Bela Rosin, ovvero il Pantheon di Torino, in stile neoclassico, creato sulla base del Pantheon romano. Questo edificio fu costruito nel 1888 per volere dei figli di Rosa Vercellana la seconda moglie del primo Re d’Italia.
.
TRA I LUOGHI PIU’ CONOSCIUTI
Spostandoci poi al quadrilatero romano, una delle zone più frequentate dai giovani torinesi troviamo il mercato di Porta Palazzo, il Balòn ovvero il mercato delle pulci e i Musei Reali, il Santuario della Consolata, un capolavoro del Barocco piemontese, la Cattedrale di San Giovanni Battista definita “il Duomo di Torino”,  in stile rinascimentale che ospita la “Sacra Sindone*.
Poco distante sorge da duemila anni la Porta Palatina, definita spesso anche al plurale perché in origine le Porte Palatine erano quattro e servivano per proteggere la città, il nome deriva da Palatium, ovvero l’antica sede del senato che sorgeva nelle vicinanze. Torino essendo stata creata dai Romani urbanisticamente segue il modello classico dell’epoca con le mura di cinta, quattro porte, un centro da cui venivano tracciati due assi principali il cardo e il decumano e da lì si diramavano le vie.
Questi sono solo alcuni dei tanti luoghi noti e meno noti di Torino ma, con un pò di tempo a disposizione, sia i residenti che i visitatori possono scoprire sempre nuovi luoghi storici e caratteristici che la nostra città sabauda mette a disposizione.
NOEMI GARIANO

Profumo di mare con l’insalata di polpo mediterranea

/

 

Il profumo del mare nel piatto. Un piatto fresco e leggero dal gusto unico e saporito. L’insalata di polpo puo’ essere servita come antipasto o come secondo piatto accompagnato da pane abbrustolito leggermente strofinato con uno spicchio di aglio. Una ricetta semplicemente deliziosa.

***

Ingredienti

1 Polpo di medie dimensioni

100 gr. di olive verdi o nere

100 gr. di sedano

½ cipolla rossa di Tropea

10 pomodori Pachino

20 capperi dissalati

Olio evo, succo limone, sale, pepe q.b.

2 foglie di basilico e prezzemolo, 1 foglia alloro

***

Cuocere il polpo in pentola a pressione in acqua poco salata con l’aggiunta di una foglia di alloro per circa 15/20 minuti dall’inizio del fischio. Lasciar intiepidire. Lavare e pulire le verdure, affettarle e metterle in una ciotola con le olive, i capperi, il prezzemolo tritato e i pomodorini tagliati a meta’. Tagliare il polipo a tocchetti, condire con olio evo, poco sale, pepe macinato al momento e succo di limone, unire alle verdure, mescolare e lasciar insaporire. Servire accompagnato da fette di pane casereccio abbrustolito e strofinato con poco aglio.

Paperita Patty

Ritorno in Formazza

/

STORIE PIEMONTESI: a cura di CrPiemonte – Medium /   Il regionale 4792 delle ore 15,48, proveniente da Novara, è in arrivo sul binario numero 2. Termine corsa

di Marco Travaglini

Dall’altoparlante la voce gracchiante conferma che stiamo entrando nella stazione di Domodossola. Se non avessi il finestrino abbassato e non stessi qui, con la testa fuori e controvento, non si sentirebbe un granché. Anche perché il frastuono della vecchia locomotiva copre ogni altro suono. Che sia vecchia, nessun dubbio: basta dare un’ occhiata alle macchie di ruggine per capire che questa E.424 marchiata Breda è ormai prossima al pensionamento. Ciò nonostante ha fatto il suo dovere, coprendo i novanta chilometri a binario unico dalla città delle risaie al capoluogo ossolano un poco più di due ore, contenendo in una decina di minuti il ritardo sulla tabella di marcia.

Image for post

La stazione di Domodossola

Quasi un record, visti i tempi. Erano più di vent’anni che non tornavo a Domodossola viaggiando in treno e nel frattempo le vecchie macchine diesel erano state sostituite dalle motrici elettriche. Una botta di vita per la vecchia Novara-Domodossola anche se il viaggio attraverso la campagna novarese, la sponda orientale del lago d’Orta e la piana del Toce è stato accompagnato da un intero campionario di rumori, cigolii e sferragliamenti oltre al classico e tradizionale ta- tam, ta- tam, ta- tam. Potevo scegliere di viaggiare in auto ma non mi andava di guidare e volevo ripercorrere a ritroso la stessa strada che facevamo un tempo per raggiungere Novara quando bisognava recarsi in qualche ufficio pubblico, come il catasto, o all’Ospedale Maggiore.

Image for post

Una vecchia corriera

La corriera, in attesa sul piazzale della stazione, a pochi metri da quella grande “D” di Domodossola, non è certo un esempio di modernità ma in quattro e quattr’otto si è lasciata alle spalle Crevoladossola, Oira, Crodo e Baceno. Ansima un po’, sbarellando nelle curve, ma “tiene” bene la strada e l’autista , decano di questa tratta, non tocca più il bicchiere da una quindicina d’anni. Un tempo la sua guida era da brivido, complice l’abitudine di alzare il gomito e l’audacia nel pigiare il pedale dell’acceleratore. Mai un incidente, per carità, ma si arrivava sul pianoro sopra la salita delle Casse con lo stomaco in gola e la tremarella nelle gambe. Oggi invece, nonostante l’età, viaggia tranquillo. Passata S.Rocco di Premia, sulla sinistra, vedo la strada che conduce a Salecchio, il nido d’aquile dei walser, un tempo raggiungibile a fatica e con gran dispendio di sudore. Mi è stato detto che oggi una strada facilita molto la salita a quel che resta del bellissimo insediamento alpino dove ogni anno, la prima domenica di febbraio, si festeggia la Candelora. Da Rivasco al ponte sul Toce saliamo i nove tornanti delle Casse che precedono Fondovalle. Sul dolce falsopiano il motore della corriera tira il fiato e in pochi minuti, attraversate le frazioni di Chiesa e Valdo, si ferma al capolinea, davanti al vecchio municipio di Ponte.

Image for post

Ballo in costume walser

La casa dei miei, affittata solo d’estate, da metà luglio alla fine d’agosto, mi accoglie silenziosa. Raccoglie sotto un unico tetto , come tutte le antiche case rurali dei walser, l’abitazione, la stalla e il fienile. Il nonno e i suoi fratelli l’hanno costruita con maestria su tre piani. Sul seminterrato, in muratura di pietre, è posata la struttura lignea dell’abitazione con la stalla, un angolo dedicato al soggiorno, la cucina e un angusto bugigattolo dove ricoverare gli attrezzi. Al primo piano le due camere da letto — una grande e l’altra più piccola — e sopra il fienile e la stanzetta per la conservazione di segale, patate, formaggi, carne secca e mele. Il nonno era un giramondo e, curioso come pochi, aveva studiato le abitazioni valsesiane fino al punto di imprimerne alcuni dei caratteri architettonici alla sua. Da lì è venuta l’idea dell’ampio loggiato che la circonda, consentendo a fieno, segale e canapa di seccare all’aperto, evitando che la pioggia le bagnasse. Orientata con il fronte principale rivolto a sud, in ogni sua parte il legno e la pietra le danno un senso di solida unità e di equilibrio con i monti e i boschi che stanno attorno. Il nonno, del resto, ci teneva tanto alla sua “radice” vallesana e come i suoi antenati svizzeri e tedeschi amava testimoniare il fatto di essere felicemente ordinato. Nel letto di rovere ho dormito come un ghiro e dopo un giro a salutare i pochi, vecchi amici che mi rammentano gli anni della gioventù, mi incammino a ritroso nel tempo discutendo con Walter. Ormai in pensione, dopo una vita passata a controllare quadri elettrici e prese d’acqua per conto dell’Enel sui bacini di Morasco e dei Sabbioni, Walter non perde l’occasione di rievocare insieme gli anni felici della nostra gioventù. Complice una bottiglia di Gattinara che ho acquistato per celebrare l’occasione, si sciolgono i ricordi. In poco tempo torniamo agli anni di scuola, d’inverno.

Image for post

Benvenuti in Formazza

Rammenti l’inverno del 1959?”, dice Walter. Eccome, se lo rammento. Quell’inverno di neve ne era già venuta giù molta. Anche troppa. E non finiva mai. Asciutta e morbida, continuava a cadere. Una spessa e soffice coltre bianca si era depositata ovunque. Sul tetto della baita di Joseph, sul fienile di Marianna, sul sagrato della chiesa . Ogni cosa cambiava forma e aspetto, sotto la neve. “Per fortuna il raccolto della segale e delle patate è andato bene e la caccia autunnale ci ha riservato delle buone soddisfazioni”, diceva mastro Peter, schiacciando il tabacco nel fornello della pipa di radica che s’era comprato all’emporio di Briga. Era lui, con il suo aspetto severo di vecchio montanaro che sapeva come far rendere la terra a quell’altitudine, l’anima della comunità. Capace di buoni consigli e di sagge decisioni, mastro Peter stava per compiere ottant’anni ma ne dimostrava venti di meno. Alto, dal fisico asciutto, i capelli corti e radi ed un viso segnato da alcune profonde rughe, incuteva rispetto e un po’ di soggezione. La nostra piccola comunità walser viveva d’agricoltura di montagna, di allevamento e del lavoro che i componenti maschi più giovani prestavano nelle cave di serizzo o nei cantieri dell’Edison.

Image for post

Case walser a Salecchio

Noi si andava a piedi a scuola. Con il bello o il brutto tempo, raggiungevamo la scuola elementare di Ponte dove ci attendeva, dai primi d’ottobre alla metà di giugno, la maestra Rosamaria con le sue lezioni d’italiano e matematica, storia e geografia. E di tutto il resto, compreso le ore dedicate alla nostra lingua. La pronuncia era quella che era. Impacciata, claudicante e soprattutto troppo marcata da quell’inflessione francese che ne tradiva le origini valdostane prima ancora che dichiarasse il suo cognome: Jannod. In Formazza era stata mandata per sostituire la vecchia maestra Hilde Brunner, troppo anziana per tenere a bada la pluriclasse. Doveva essere un affidamento temporaneo. Almeno così le avevano detto al Provveditorato agli studi di Novara per “indorare la pillola” della cattedra assegnata all’estremo nord della provincia, a ridosso con il confine svizzero. Ed invece rimase lì con noi. Se all’inizio si riteneva fortunata per non avere ancora una famiglia tutta sua, Rosamaria — con il tempo che passava e con quell’incarico provvisorio che come tutte le cose provvisorie era ormai da considerarsi definitivo — una famiglia pensò di farsela . Sposò Piero Locker, un boscaiolo alto e biondo, appartenente ad una delle più antiche famiglie walser formazzine. La classe che gli era stata affidata risultava composta da ragazzini intelligenti, vivaci. Avevamo tutti una gran fretta d’imparare. Ascoltavamo la maestra in religioso silenzio, divorando ogni testo ci passasse tra le mani. Eravamo attratti dalla storia e, tra i vari episodi, uno in particolare ci incuriosiva: la vicenda di Annibale, il grande generale cartaginese. “Maestra, e gli elefanti?”. Iniziava Giosuè, detto “pel di carota” per i capelli fulvi ed il volto coperto di lentiggini.

Image for post

Case walser in Formazza

Voleva che Rosamaria parlasse di Annibale e della sua impresa più straordinaria: l’attraversamento delle alpi con il suo esercito composto da 50.000 fanti , 90.000 cavalieri e una quarantina di elefanti. Si, gli elefanti. Animali enormi dalla grande memoria, probabilmente scelti da Annibale con l’intento di farli restare nella memoria, appunto, consegnando alla storia un’impresa che pareva impossibile tanto era collocata oltre ogni ragionevole immaginazione a quell’epoca. Come se lui sapesse, e forse proprio per questo, che dopo la sua impresa qualsiasi altro esercito si fosse trovato sulle Alpi non avrebbe fatto lo stesso effetto. Tant’è che , qualche anno dopo il suo passaggio, la stessa via venne ripercorsa da suo fratello Asdrubale senza che nessuno ne porti il ricordo, nonostante avesse con se il doppio di elefanti e avesse subito molte meno perdite. Dopo di lui a tutti gli altri — Giulio Cesare, Carlo Magno, Napoleone, gli Alpini ed i Kaisershutzen — non restò che il ruolo di imitatori di un’idea. Ogni qualvolta s’accennava ad Annibale i ragazzi ascoltavano attentissimi, mostrando curiosità mista ad interesse. E la maestra non si faceva pregare.“ Il condottiero cartaginese, tra il 218 e il 216 avanti Cristo, marciando dalla Spagna, attraverso i Pirenei, la Provenza e le Alpi scese in Italia, dove sconfisse le legioni romane in tre grandi battaglie: quelle della Trebbia, del lago Trasimeno e — la più famosa — di Canne. Sconfiggendo le tribù montane, sfidando le difficoltà del terreno, intemperie e tempeste di neve, inerpicandosi su strettissimi tornanti e scendendo in gole impervie a filo degli strapiombi, Annibale ha compiuto una delle imprese militari più memorabili del mondo antico. Trovò persino un metodo geniale per spaccare le rocce che impedivano il passaggio: riscaldava la roccia e una volta che questa si raffreddava, la spezzava dopo averla ricoperta di aceto. Il prezzo fu altissimo .Non si contarono le perdite tra gli elefanti e gli uomini dell’esercito, nonostante ciò Annibale riuscì nel suo intento di ridiscendere i monti e affacciarsi sulla Pianura Padana”.

Image for post

La cascata del Toce

Che ricordi. Belli, lontani. Eravamo ragazzini e c’era l’entusiasmo di conoscere tutto, la curiosità delle domande che bruciavano le risposte. E la fame di futuro. Ed ora? Ora con Walter, in questa serata, tra un bicchiere e l’altro, si rievoca un po’ tutta l’infanzia. Intanto, lenta e silenziosa, fuori la neve sta cadendo. Gli parlo dell’incontro avuto poche ore prima con padre Giacomo, che mi ha procurato una forte emozione. Non ci vedevamo da una vita ma entrambi non abbiamo avuto esitazione alcuna nel riconoscerci quando ci siano trovati, uno davanti all’altro, di fronte all’entrata del negozio della signora Hilde, dove si può comprare il miglior Bettelmatt di tutta la valle. Un energico abbraccio e un paio di bicchieri di rosso davanti al banco da mescita di Liborio, hanno colmato in un attimo quasi quarant’anni. “Caro Marco, ne sono passate di stagioni, eh? Io ormai sono vecchio ma tu non sei tanto cambiato da quand’eri ragazzo. Sì, ora sei quasi calvo e hai messo su un po’ di pancetta, ma quella luce che ti brilla negli occhi è la stessa di quando venivi all’Oratorio a discutere con me di ogni cosa ti capitasse per la testa. Ricordi? Eri curioso, intelligente ma anche un gran testardo e non c’era verso di farti cambiare idea quando te ne infilavi una in testa e ci attaccavi anche il cuore”. Giacomo, pur essendo di vent’anni più anziano, è sì un prete ma è anche un amico. Uno dei più cari tra gli amici.

Image for post

La chiesetta di Riale

Mi vuol bene anche se le mie idee e le scelte che ho fatto in seguito non sono mai state le sue. Però, e di questo gli devo merito, non ha mai cambiato il suo atteggiamento nei miei confronti, rispettando anche ciò che non condivideva. E’ con lui che abbiamo imparato — io, Walter e tanti altri — a conoscere quel sentimento religioso che ha accompagnato, nel tempo, la vita quotidiana della nostra gente. “Ti ricordi, Walter? E’ lui che, insieme al suo sacrestano, il vallesano Berti, ci ha insegnato la formula di ringraziamento con la quale i walser di Formazza invocavano la protezione di Dio per le persone e i loro cari defunti, quel “Färgalts Gott tüsuk Maal, tresch gott un ärlesch Gott di Abkschtorbnuseela” che significava Ti ricompensi Dio, mille volte, consoli Dio e liberi Dio le anime dei tuoi morti”. Con lui si giocava a calcio nel prato di Valdo e s’andava sugli alpeggi dove, dopo il tramonto, il casaro e i pastori recitavano il Vangelo di San Giovanni affinché gli spiriti maligni non andassero a molestare gli animali. Padre Giacomo ci spiegava che dall’allevamento e dai prodotti derivati dal latte dipendeva buona parte dell’economia della valle e che le preghiere ( qualche volte accompagnate da veri e propri rituali di esorcismo) servivano a “scacciare il male” dalle stalle. Ricordo a Walter, che annuisce, quando — all’inizio di una estate — a Foppiano, nel giorno di San Giovanni, che cade il 24 giugno, assistemmo alla benedizione dei gigli rossi i cui petali erano stati messi ad ardere in un braciere insieme all’ulivo benedetto, affumicando la stalla del papà di Martino, allo scopo d’allontanare ogni influsso negativo.

Image for post

Merenda a Formazza

Quanti ricordi, E i fratelli Arnold e i loro cugini Berger? Da bambini accompagnavano al pascolo le mucche fin su nel pianoro di Riale e si divertivano con un gioco, ”Z Hêmmelfarä” che significava ”correre in Paradiso”, seguendo tutte le fasi che portavano dall’Inferno al Purgatorio e da lì al sommo dei cieli , e quindi alla vittoria, aiutandosi con un legnetto che veniva lanciato in aria. Con Giacomo abbiamo anche ricordato mia nonna, Helga. Mi portava spesso ai due santuari dedicati alla vergine Maria, ad Antillone e a Brendo, il suo preferito, dove si venerava Maria del monte Carmelo. Una volta si mise in testa di condurmi in pellegrinaggio, ovviamente a piedi. Era indecisa sulla meta: Sion, Reckingen o Einsiedeln? Mia madre Maria, sua figlia, sfruttando quell’indecisione riuscì a convincerla che non era il caso di farmi fare una sfacchinata del genere e così, pur contrariata e a malincuore, la nonna s’arrese. All’interno di casa, nell’angolo della Stube, tra le due finestre, teneva un grande crocifisso di legno e le statuette di San Teodulo e di San Nicola, i suoi ( e nostri) santi protettori. Mi fece un grande effetto quando mi toccò, a meno di dieci anni, fare la dolorosa scoperta del significato della piccola finestrella, sormontata da una croce, aperta sulla facciata della casa dei nonni.

Image for post

Nevicata

Quando nonna Helga , a causa di una brutta febbre, stava per morire, la finestrella — che era sempre stata chiusa — venne aperta affinché la sua anima potesse trovare il passaggio per uscire e andare in cielo, per essere poi richiusa subito dopo la morte, impedendole di rientrare. La “finestrella dell’anima”, la “Seelenbalgenn”, pensavo m’avesse rapito la nonna e io piangevo, piangevo disperato e non mi davo pace. Toccò proprio a Giacomo, a quell’epoca appena ordinato prete, trovare le parole giuste per consolarmi. E, con grande pazienza, vi riuscì. Per questo oggi, da ateo qual sono diventato, mi spiace avergli fatto un così grave torto. Lui, però, con quel sorriso aperto che il tempo non ha cambiato, mi ha confidato di non aver abbandonato la speranza in un mio ravvedimento. E così, tra una chiacchiera e l’altra, amico mio, abbiamo fatto scorrere le ore fino al vespro quando l’anziano prete mi ha salutato con un abbraccio ed è andato a dir messa. Sull’uscio, girandosi, mi ha rivolto un ultimo sguardo, dicendomi: “Oh, Marco. Mi raccomando. Non far passare ancora troppo tempo nel tornare qui a casa perché non posso garantirti che mi troverai ancora qui ad aspettarti. E chi ti confesserebbe, a quel punto, per darti assoluzione da tutti i tuoi peccati?”. Così mi ha detto ,con il suo sorriso. Poi, con un cenno della mano, mi ha salutato e, lentamente, se n’è andato verso la chiesa di Santa Caterina. Ma gli incontri non sono finiti qui. In questo mio peregrinare tra le vie ho incontrato anche Edith e Ingrid, le due sorelle Meier. Entrambe vedove, le ho trovate ancora in gamba, nonostante l’età: la prima ha novantasette anni e la seconda solo due di meno. Sarà il freddo dei lunghi inverni o l’aria buona che scende dalle vette a conservarle così arzille? Se io, tu e tanti altri come noi, cresciuti qui in valle, ci siamo nutriti a pane, formaggio e leggende, è grazie a loro. Le due Meier, originarie della valle di Goms, con il loro italiano indurito dalla pronuncia tedesca, nelle sere d’inverno quando tra una casa e l’altra c’era tanta, troppa neve e ci si doveva aprire dei varchi spalando di gran lena, invitavano amici e parenti nella loro grande casa e lì, con in mano una tazza di tisana alle erbe raccolte tra il lago Kastel e il Toggia, raccontavano delle storie incredibili. Rimaste vedove ancor giovani, avevano deciso di rimanere qui in Formazza, dove mandavano avanti la loro attività di sarte. Sia io che Walter ricordiamo bene quelle sere. Del resto le leggende hanno sempre avuto una grande importanza, occupando un posto di primo piano nella cultura walser perché nel racconto si mescolano i desideri, le convinzioni, le gioie e le paure insieme ai fatti della vita quotidiana e ai personaggi. Un nostro coetaneo, Aldo Svillar, che noi chiamavano “kartoffen” vuoi perché aveva un gran naso a patata, vuoi perché di quei tuberi faceva grandi scorpacciate, era sempre in prima fila, con la bocca aperta. Silvia, la figlia del sindaco, una bella morettina tutto pepe che aveva anch’essa più o meno la nostra età, gli dava delle botte terribili sotto il mento, facendogli mordere la lingua, dicendo al povero Aldo: “Chiudi quel forno, altrimenti la strega di Morasco ti mangia la lingua”. E noi giù a ridere. Ridevamo tutti, tranne il malcapitato, cioè lui.. Quando però le Meier iniziavano i racconti, non volava nemmeno una mosca. Le leggende erano ambientate tra i monti, in sperdute valli e isolati alpeggi dove la natura selvaggia era popolata da streghe, diavoli, folletti e nani. Dai Pubrina di Salecchio, uomini selvatici o esseri mostruosi che fossero, che portavano i bambini ( le cicogne non c’erano e sotto i cavoli non si trovavano neonati ) ma che al tempo stesso erano il terrore dei piccoli quando questi facevano i capricci, al pari dell’uomo nero, agli Zwärgji, eccentrici burloni che abitano i boschi, bassi di statura e coperti di stracci e foglie, sempre pronti a divertirsi alle spalle degli alpigiani, vittime dei loro dispetti. A differenza delle streghe che fanno malefici al bestiame o che mandano in malora il latte e il formaggio, gli Zwärgji avevano insegnato ai nostri avi come fare il bucato con la cenere o lavorare il latte. Forse per farsi perdonare gli scherzi, forse per evitare che pastori e i casari, stanchi di esser presi in giro, se ne andassero via, abbandonando gli alpeggi formazzini. Nei racconti di Edith e Ingrid le valanghe, le bufere di neve, i movimenti dei ghiacciai, il sibilare del vento erano ricondotti al mistero delle tante creature fantastiche che vivevano la montagna. Lo scricchiolio dei ghiacciai del Sidel o dei Camosci era interpretato come lamento delle anime. “Sì, perché Edith, alzando l’indice minaccioso, ci ammoniva sul fatto che i ghiacciai fossero il purgatorio dove i defunti scontavano i loro peccati”, dice Walter. “E noi zitti, con il cuore in gola e i brividi lungo la schiena. In fondo, lo capimmo più tardi, la morte, per chi viveva in condizioni così difficili, era una componente non così estranea o distante dalla vita di tutti i giorni”. Oltre alle vicende dei morti, alle loro inquietanti processioni e alle streghe dal brutto carattere, alle sorelle Meier piaceva raccontare la leggenda di un uomo della valle che, per sfuggire alle vessazioni di un signorotto, decise di passare il confine, emigrando in Alta Val Bedretto, a Ronco, dove fu bene accolto al punto da metter su famiglia. Da quell’avvenimento, dicevano le sorelle, discendeva il diritto che veniva riconosciuto alla gente di Ronco di andare a far legna sul territorio di Formazza, in nome di quell’antica discendenza che accomunava le due valli, comprovata anche da alcuni documenti.

Image for post

Val Formazza

Ma la leggenda più bella era quella della valle perduta. Te la ricordi, Marco?”, dice Walter. Eccome, se la ricordo. In ogni villaggio walzer sgorga una sorgente d’acqua proveniente dalla valle perduta, la nostra terra d’origine, dove tutto è iniziato. Dai padri ai figli, per generazioni, dalla notte dei tempi si parla di questo luogo meraviglioso. Un vero paradiso, verde d’erba e alberi, ricco di pascoli e boschi, nascosto tra ghiacciai e nevi eterne. Una leggenda che, per molti secoli, ha aiutato la nostra gente ad affrontare asprezze e difficoltà con il miraggio di poter raggiungere un giorno la straordinaria, fertile e mite “valle perduta”. Così, tra un sorso e una scheggia di formaggio stagionato, abbiamo tirato tardi. Fuori la nevicata si è fatta più intensa. E’ ormai buio e attorno alle luci fioche dei lampioni i fiocchi disegnano traiettorie leggere, sospinti dall’aria. Alcuni finiscono sui vetri della casa, disegnando arabeschi di gelo. Viene giù che è un piacere, secca e soffice. Ancora un paio di giorni e mi raggiungerà anche Carla. Nella vecchia casa dei nonni addobberemo l’abete che mi ha regalato Walter. A Natale e a fine anno sarà una festa. Si canterà Stille Nacht, in tedesco. Per chi non ha dimestichezza con la lingua dei vecchi padri, la tradurremo in italiano, nell’Astro del Ciel. Ci augureremo che l’anno nuovo sia migliore di quello che ci lascia. E le fiammelle compariranno sulle finestre, tremolanti. Come un tempo.

Crpiemonte

Il canale Medium ufficiale del Consiglio regionale del #Piemonte, dove raccogliamo notizie e approfondimenti. I video su http://www.crpiemonte.tv