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I fratelli Garrone tra eroismo e umanità. La mostra a Vercelli

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni

Quando, dopo la laurea, i miei rapporti con Alessandro Galante Garrone mio  indimenticabile docente di Storia del Risorgimento e per tanti anni mia stella polare,  divennero meno formali -anche se la nostra frequentazione risaliva al 1968 quando nacque il Centro Pannunzio e alla comune amicizia con Mario Soldati e con Leo Valiani-ci capitò a cena  al “Cambio“, in occasione del conferimento a Spadolini nel  1982  del Premio “Pannunzio” di cui Galante Garrone tesse’ le lodi, di parlare di un argomento molto speciale.

Il Maestro, rivolgendosi all’ex allievo, in modo sorprendente, mi disse più o meno queste parole : io colsi in  te un amore per il Risorgimento che in un giovane d’oggi appare inspiegabile ed è molto raro  e che fa quasi pensare a quello dei miei due zii, i fratelli Garrone. Io lo ritenni un grande complimento  che ascoltò anche Spadolini e quando parlai il 20 settembre dello scorso anno a Palazzo Carignano (dove tanti anni fa presentammo insieme “Fiori rossi al Martinetto” di Valdo Fusi) per i centocinquant’anni della Breccia di Porta Pia, parlai di innamorati del Risorgimento rivolgendomi al pubblico presente. Non ritenni di ricordare quell’episodio lontano, ma quella espressione veniva dal ricordo di uno straordinario evento: il presidente del Consiglio repubblicano che dopo aver parlato al museo del Risorgimento, si siede al tavolo del ristorante al posto dove era solito pranzare Cavour  per ricevere il Premio Pannunzio appena istituito da Mario Soldati e da chi scrive.
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Ma quelle parole di Sandro (così volle che lo chiamassi e fu per me un grande onore) mi sono tornate alla mente quando sua figlia, la storica dell’arte Giovanna Galante Garrone, mi invitò a visitare la mostra inaugurata a Vercelli a metà giugno “DA UNA VITA ALL’ALTRA. I fratelli Garrone: eredità di affetti e di ideali dal fronte della Grande Guerra”, che rimarrà aperta fino al 31 ottobre al Museo Leone. Solo in questi giorni sono stato a visitare la bella mostra  realizzata dal Museo Leone – vero fiore all’occhiello della cultura non solo vercellese -, che si è rivelata molto curata nell’allestimento e va dato atto dell’ottimo lavoro dei due curatori   Chiara Maraghini Garrone (che tra l’altro che ha catalogato il ricco fondo di lettere dei due fratelli)e Luca Brusotto direttore del Museo.  Essa rientra in un progetto di più ampio respiro: “ I fratelli Garrone e il loro epistolario: testimonianza di un percorso di libertà e giustizia“, sostenuto dalla Struttura di missione per la valorizzazione degli anniversari nazionali e della dimensione partecipativa delle nuove generazioni della Presidenza del  Consiglio dei Ministri. Non si può descrivere la mostra storico fotografica dedicata a questi due giovani patrioti, che sull’onda degli ideali risorgimentali partirono volontari nella Grande Guerra che sentirono come quarta guerra per l’ indipendenza e che si immolarono   Insieme il 14 dicembre  del 1917 durante la battaglia del Col della Berretta  che  segnava la ripresa dell’Esercito italiano dopo Caporetto. Giuseppe ( Pinotto) ed Eugenio( Neno )  Garrone  furono due personaggi davvero straordinari che si possono considerare come gli ultimi giovani del Risorgimento italiano che si compirà con Trento e Trieste italiane.Ottennero la Medaglia d’oro al Valor Militare alla memoria con  motivazioni che vanno ben oltre le parole spesso retoriche usate nel linguaggio militare.
Giuseppe, nato il 10 novembre 1886  era un giovane magistrato, Eugenio ,nato il 19 ottobre 1888, era un funzionario del Ministero della Pubblica Istruzione .Erano molto diversi tra loro, il primo legato ad un atteggiamento molto razionale, il secondo emotivamente romantico.
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Le loro vite vengono ricostruite attraverso la mostra che espone le splendide fotografie che i due volontari scattarono al fronte. La loro famiglia  vercellese era imbevuta di forti ideali patriottici che erano vivi in quasi tutte le famiglie piemontesi che avevano vissuto da vicino il Risorgimento. Io ebbi due zii partiti volontari e caduti già nel 1915 e mio nonno, amico di Cesare Battisti e di Damiano Chiesa, che parti’  anche lui per un fronte ,quello albanese, in cui si moriva più di malaria che a causa dei combattimenti ,mi parlava spesso della Grande Guerra. L’interventismo non fu solo quello di Gabriele D’Annunzio e dell’ex socialista Mussolini ,ma ebbe anche un volto risorgimentale e democratico e liberale  con Salvemini, Calamandrei, Parri, Bissolati, Omodeo ed altri. Un altro mio congiunto, il deputato liberale Marcello Soleri , giolittiano e quindi  non favorevole all’intervento in guerra, indosso ‘ la divisa di alpino e parti’ per il fronte dove venne ferito e decorato di Medaglia d’Argento. Mentre visitavo la mostra mi tornavano in mente i miei ricordi famigliari che sicuramente  sono la causa prima che mi portò sempre a sentirmi patriota  anche se non sono  confrontabili con quelli delle famiglie Garrone e Galante .Ricordo che una delle mie prime letture già al liceo fu “Difesa del Risorgimento“ di Adolfo Omodeo , un vademecum ideale che mi ha accompagnato nella mia vita di studioso. La prima a farmi conoscere da vicino – al di là di mio nonno – i due “ dioscuri” fu Virginia Galante Garrone che ripubblico ‘ nel 1974 da Garzanti “ Giuseppe ed Eugenio Garrone, lettere e diari di guerra” con un ampio saggio del fratello Sandro. Nel catalogo risalta un lucido saggio del magistrato e storico Paolo Borgna ,il biografo di Sandro Galante Garrone che, prima di dedicarsi all’insegnamento universitario ,fu anche lui magistrato. Borgna affronta un tema scottante . Il patriottismo che portò i due fratelli a manifestare per l’intervento nel maggio 1915 e a decidere di partire per il fronte ,dove avrebbe condotto i due giovani se fossero sopravvissuti alla guerra? Il fascismo cercò di annetterseli e il busto di Pinotto inaugurato nel 1936  dal Guardasigilli fascista  Solmi nel Palazzo di Giustizia di Roma fu un omaggio ad un magistrato eroico ,ma anche un tentativo di strumentalizzarne il ricordo.
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Cosa avrebbero fatto i fratelli Garrone di fronte alla ostilità violenta  dei socialisti nei confronti dei reduci negli anni del dopoguerra italiano quando si giunse quasi alla guerra civile tra fascisti e socialisti? Cosa avrebbero fatto di fronte alla Marcia su Roma a cui si opposero anche uomini come Carlo Delcroix? Cosa avrebbero fatto di fronte al delitto Matteotti? E’ legittimo pensare secondo Borgna – e io concordo con lui – che il delitto Matteotti avrebbe rappresentato un campanello d’allarme decisivo anche se un uomo come Benedetto Croce dovette attendere il 1925 per una scelta antifascista decisa con il manifesto degli intellettuali di risposta a quello di Gentile. Furono anni travagliati e confusi che portarono molti a sottovalutare Mussolini. Ernesto Rossi, ad esempio, che si fece anni di galera per antifascismo, fu collaboratore del “ Popolo d’Italia” il quotidiano diretto dal futuro duce. Borgna si spinge ad immaginare i due  fratelli  dopo l’8 settembre 1943 , a “dirigere la lotta contro il tedesco invasore“. E anche qui convengo con lui ,anche se ritengo difficile pensarli sulle posizioni che caratterizzarono i nipoti Sandro e Carlo, i quali furono impegnati in “ Giustizia e libertà”. Molto opportunamente Borgna evidenzia come sarebbe errato appropriarsi dell’eredità dei due fratelli in senso diametralmente opposto a quello del ministro fascista Solmi .
Ipotizzare cosa avrebbero fatto  sarebbe un’operazione storicamente scorretta. Ma credo che non sarebbero rimasti nella zona grigia . Tra l’altro molti resistenti scelsero di andare in montagna per fedeltà al giuramento prestato come il maggiore degli Alpini Enrico Martini Mauri che aveva combattuto eroicamente ad El Alamein. In questa lunga riflessione non ho accennato all’aspetto umano dei due fratelli ,alla nobiltà dei loro sentimenti, al loro attaccamento alla famiglia ,al fatto che Pinotto muore tra le braccia dell’altro fratello che lo veglia tutta la notte. Un episodio che fa pensare agli eroi antichi. Andrebbe anche sottolineato il loro modo umanamente molto significativo di trattare i propri soldati condividendone le sofferenze e i disagi ,un qualcosa di diametralmente opposto al rigorismo cieco di Cadorna. L’atrocità della guerra di posizione li  aveva resi consapevoli della violenza estrema di un conflitto mondiale che stravolse la storia .Eugenio scrisse nel 1917 ai genitori :” Perché si devono odiare a tal punto gli uomini. Perché ?” Una domanda che ci porta a pensare che il nefasto mito guerrafondaio del fascismo avrebbe trovato i due fratelli schierati dall’altra parte perché la loro idea di Nazione ,per dirla con Chabod, era nutrita di una profonda umanità che si coglie in tutte le  loro lettere. Io li immagino giovanissimi lettori del “Cuore“ di De Amicis che contribuì a formare intere generazioni di giovani  che si ritrovarono nelle trincee della Grande Guerra.

Le verità nascoste

LIBRI / Con i diciotto racconti che formano “Le verità nascoste” (Aletti editore,2021) Wilma Minotti Cerini – poetessa, scrittrice e saggista – offre ai lettori un’altra interessante prova del suo talento.

Le storie narrate hanno sempre un fondo di verità, prendendo spunto da fatti reali e dalle esperienze d vita dell’autrice come “La valigia pronta”, “La venditrice di sogni impossibili”, “Somiglianze casuali?” o “La barbona dei mazzolini di fiori”. Alcuni sono molti aspri e drammatici come “L’orco e Siri” dove ci si basa sui viaggi della vergogna di chi sfrutta le ragazzine costrette a prostituirsi in Thailandia mentre altri sono più lievi, con una carica d’ironia in grado di strappare sorrisi come ne “L’eredità” e “La ribollita”. Una lunga trama di vicende si snoda tra una storia e l’altra per finire con una sorta di redenzione finale nell’ultimo capitolo intitolato “L’albero della Croce”. Nata a Milano nel 1940, Wilma Minotti Cerini vive attualmente a Pallanza, sulla sponda piemontese del lago Maggiore e vanta molte pubblicazioni di sillogi poetiche, saggistica ( “Caro Gozzano”), teatrali (“Una questione di dosaggio”) e di narrativa come i romanzi “Rajana” e  “Ci vediamo al Jamaica”. Quest’ultimo, in particolare, è un omaggio a un pezzo di storia della cultura italiana degli anni Sessanta. Noto come caffè degli artisti, poiché prossimo a Brera, il Jamaica di fu il punto d’incontro di esperienze intellettuali e umane, dove si ritrovavano personaggi già molto noti nel mondo dell’avanguardia artistica, letteraria e cinematografica del “bel Paese”.

Marco Travaglini

“L’Italia che è in mezzo al mare L’Italia dimenticata e l’Italia da dimenticare…”

MUSIC TALES, LA RUBRICA MUSICALE

 

L’Italia che è in mezzo al mare

L’Italia dimenticata e l’Italia da dimenticare

L’Italia metà giardino e metà galera

Viva l’Italia

L’Italia tutta intera”

1979, avevo sette anni.

 

Un brano che quest’anno compie 40 anni, e continua a essere un piccolo compendio di quello che succedeva nel Paese in quegli anni. Il racconto lucido e spietato di uno dei cantautori più importanti della Storia musicale italiana, tra Resistenza e Piazza Fontana.

Ecco cosa dice De Gregori, l’autore di questa pietra miliare della musica: “Ogni volta che canto quella canzone sento che ogni parola di quel testo continua ad avere un peso. ‘L’Italia che resiste’, ad esempio; e solo le anime semplici potevano pensare che c’entrasse qualcosa con lo slogan giustizialista ‘resistere resistere resistere’. ‘L’Italia che si dispera e l’Italia che s’innamora’. L’Italia che ogni tanto s’innamora delle persone sbagliate, da Mussolini a Berlusconi. Ma il mio amore per l’Italia, e per gli italiani, non è in discussione”.

Come è attuale questo brano, dopo 40 compleanni; come pesano sulla schiena certe parole appese a bocche a volte sbagliate.

Quanto è bella questa Italia, cosi desiderabile, spesso cosi invivibile, ma cosi bella da inebriare ed incantare ogni cuore, ogni occhio.

Sempreverde questo brano , ascoltatelo a cuore aperto, vi farà amare ed odiare un paese strepitoso.

Gli italiani perdono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio.”

Chiara De Carlo

Francesco De Gregori – Viva l’Italia (Still/Pseudo Video) – YouTube

 

 

Ecco a voi gli eventi della settimana!

Occhio! Gli effetti collaterali del Covid sull’apparato oculare

Il punto di vista / Le interviste di Maria La Barbera

Il dottor Cornelio Paolo Feira ci spiega come proteggere i nostri occhi da fastidiose congiuntiviti e prevenire patologie più serie.

 

E’ vero, siamo stanchi di sentir parlare di pandemia, ora vogliamo senz’altro goderci l’estate, le vacanze e un po’ di serenità dopo mesi di chiusure e preoccupazioni, vogliamo voltare pagina, parlare d’altro, leggere buone novelle e cercare di dimenticare. Tuttavia alcune conseguenze di questo virus , che speriamo ci lasci presto, si sono manifestate e continuano a farlo, non perché siano direttamente legate ad esso ma, al contrario, come conseguenza di alcune misure che sono state adottate, naturalmente per tutelare la nostra salute, che hanno procurato tuttavia diversi effetti collaterali. Una attenzione maggiore e qualche semplice, ma determinante, accorgimento possono risultare utili a proteggere una parte essenziale del nostro corpo, la nostra finestra sul mondo, la bussola che ci permette di orientarci, vedere, guardare, percepire, scrutare, distinguere, osservare, contemplare e non solo: i nostri occhi.
Il dottor Cornelio Paolo Feira, oculista a Torino, ci racconta cosa è accaduto ( e tuttora accade) al nostro apparato visivo a causa dei dispositivi di protezione utilizzati durante questi mesi di lockdown e come i globi oculari si siano dovuti adattare a nuove e spesso stressanti abitudini.

3 domande al dottor Cornelio Paolo Feira

Dottor Feira quali sono gli effetti prodotti dall’utilizzo prolungato delle mascherine?
L’apparato oculare non è stato interessato direttamente dal virus, non ci sono evidenze che confermino che ci sia un legame di trasmissione infettivo lineare, quello che è accaduto invece è di tipo collaterale. L’utilizzo prolungato della mascherina infatti, uno schermo protettivo che produce un micro ambiente caldo-umido favorevole per batteri, virus e miceti, può essere la causa di congiuntiviti e cheratocongiuntiviti dovute al flusso d’aria della respirazione che si dirige verso le palpebre e gli occhi. Inoltre i punti di contatto della mascherina con il viso possono essere causa di herpes e dermatiti; si dovrebbe cambiare la mascherina ogni 2 o 3 ore, ma comunque non si risolverebbe del tutto il problema.

Quali sono gli altri inconvenienti che questa pandemia sta procurando al nostro sistema visivo?
Lavoro e didattica a distanza hanno causato un’impennata delle ore di applicazione ai dispositivi digitali con conseguente aumento dell’esposizione alla luce blu-viola dannosa per la retina e per il cristallino. Trascorrere ore davanti ad uno schermo per lavorare o seguire lezioni e studiare può creare, secondo diversi studi scientifici, lesioni alla vista a causa dell’alta capacità di penetrazione oculare che questo tipo di luce artificiale a led possiede .
L’utilizzo prolungato di cellulari, tablet e computer che costringe , inoltre, ad una continua messa a fuoco tra lo schermo e l’ambiente esterno, può causare effetti deleteri anche sul ciclo sonno-veglia con conseguenti fenomeni di insonnia.

Quali accorgimenti possiamo adottare per evitare spiacevoli conseguenze di salute legate ai nostri occhi e migliorare la vita del nostro apparato oculare?

Sicuramente fare delle pause durante le nostre sessioni di studio e di lavoro davanti allo schermo e limitare le nostre attività sui dispositivi digitali. Ogni 20/30 minuti bisognerebbe alzarsi e farne 5 di pausa proiettando lo sguardo verso grandi distanze, il nostro occhio è infatti strutturato per una visione da lontano. Un altro consiglio importante è di utilizzare lenti, sia correttive che neutre, con trattamento per la luce blu mentre per curare infiammazione e secchezza si possono utilizzare delle lacrime artificiali in collirio ( in gran parte a base di acido ialuronico). Ovviamente sarebbe meglio essere sotto controllo di uno specialista che può consigliare il rimedio più adatto ad ogni caso specifico.
In generale comunque bisognerebbe evitare di utilizzare luci a led ed adoperare il meno possibile i dispositivi tecnologici avvalendosi magari di schermi protettivi; infine sarebbe ottimale leggere, studiare o lavorare utilizzando supporti cartacei . Non dimentichiamoci che gli occhi sono una parte del nostro corpo molto importante, la nostra guida e il nostro varco sul mondo, trattiamoli bene, non trascuriamoli!

 

“L’orto fascista” Romanzo / 2

 

L’AUTORE DICE DI SE’  Sono un vecchietto che a 76 anni, stanco di leggere romanzi con una infinità di personaggi difficili da ricordare (ed un inizio di arteriosclerosi non aiuta), trame complicate e finali scontati, ha deciso di tentare di scrivere il libro che gli sarebbe piaciuto leggere.
E’ nato così “L’orto fascista” che non è nè vuole essere un romanzo storico o politico. E’ una tragicommedia (più commedia che a volte sfiora la pochade) che si svolge in un piccolo paese della Valcamonica nel 1943 all’atto dell’invasione tedesca in Italia. Il romanzo è stato accolto benevolmente dalla critica. Alcuni mi hanno paragonato a Piero Chiara (con mio immenso piacere in quanto da ragazzo ebbi occasione di frequentare lo scrittore varesino e di stimarlo), altri (con minor piacere) al “miglior” Andrea Vitali. I giornalisti del quotidiano “La Stampa” hanno collocato il mio scritto nel sito “Lo Scaffale” ove vengono ospitati solo i libri che non dovrebbero mancare in ogni biblioteca privata.
Spinto dall’entusiasmo ho scritto e pubblicato “Gilberto Lunardon detto il Limena” e quindi “L’oro di Breno” che sono altrettanto piaciuti.
Quest’anno, per festeggiare i miei 84 anni, ho pubblicato il giallo “Il sosia.” Non avendo nessuna esperienza in questa tipologia di romanzi temevo un fiasco. Quindi è stata con grande meraviglia l’aver ricevuto tante mail da persone, anche sconosciute, che si congratulavano con me e che mi esortavano a continuare. Ho altri due romanzi nel cassetto ed ho intenzione di editarli il prossimi Marzo e Ottobre. Infatti a Ottobre uscito “Don Arlocchi e il mistero della statua di Minerva”.

Ernesto Masina

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In copertina:
Breno, Piazza Generale Ronchi, già Piazza del Mercato, fotografia d’epoca.

 

ERNESTO MASINA

L’Orto Fascista

Romanzo

PIETRO MACCHIONE EDITORE

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III

Don Pompeo Cappelletti era detto don Pompetta Cappelleo a causa della strana configurazione del suo corpo, largo in modo abnorme all’altezza delle anche e dei glutei e che andava restringendosi vistosamente nella parte alta del tronco, finendo in due spalline strette strette che sorreggevano una testa oblunga: proprio la forma di quelle pompette che una volta si usavano per fare gli enteroclismi. A coprire la scarsa capigliatura sempre un basco alla francese. Era stato Cappellano Militare nella guerra ’15-’18 e si diceva avesse, non si sa con quale incarico, partecipato anche alla guerra di Spagna, ovvia- mente dalla parte dei franchisti. Era un grande sostenitore del Fascismo e non perdeva occasione per esprimere la sua enorme ammirazione per il Duce e per le sue grandi opere. Durante le sfilate in occasione delle giornate ufficiali, naturalmente istituite dal Regime, sfoggiava sulla tonaca alcuni nastrini militari colorati e qualche medaglia assegnatagli non si sa perché. Teneva ottimi rapporti con le autorità fasciste. Due volte al mese si recava a Brescia, con la scusa di andare in Arcivescovado, diceva, o a trovare qualche parrocchiano ricoverato nel locale ospedale, oppure ad acquistare qual- che articolo che non si trovava nei negozi della valle. Per raggiungere il capoluogo prendeva il trenino che partiva qualche minuto dopo il termine della messa delle sette, oppure trovava un passaggio su qualche auto di servizio o di proprietà di qualche privilegiato che, per meriti politici o perché svolgeva comunque attività che interessavano il Partito, era esentato dal divieto di uso persona- le delle vetture a benzina.

Giunto a Brescia sbrigava il più velocemente possibile la visita in Arcivescovado, augurandosi di non trovare mai il Vescovo che aveva fama di sinistrorso e che, con quello sguardo profondo, durante gli incontri lo guardava sempre negli occhi mettendolo in imbarazzo. Si dedicava quindi alle poche commissioni, trascurava le visite in ospedale e poi, guardandosi in giro con circospezione, sperando di non essere seguito e di non incontrare qual- che persona che lo conoscesse, si recava in una stretta via che partiva da piazza Tebaldo Brusati e suonava al n°10. Quando gli veniva aperto gettava un ultimo sguardo sia a destra che a sinistra e poi si precipitava all’interno.
Era la sede dell’OVRA, la polizia politica del Regime, che si interessava di controllare, interrogare – sempre più spesso con la tortura – tutti quelli che sembravano critici o contrari al Regime. Gli uffici erano stati ricavati in un appartamento requisito a una coppia di antifascisti che erano stati inviati, per redimersi, al confine in un paese sperduto tra le valli dell’appennino calabrese. Per mancanza di fondi il mobilio non era stato sostituito e quindi l’ufficio del Commissario era situato nel salotto di casa con tanto di poltrone e divano.
Gli appartenenti all’OVRA ritenevano che quella sede non fosse conosciuta se non a loro – chi vi era portato veniva preventivamente bendato – ma a Brescia, come succede in tutte le piccole città del nord di curiosi e di pettegoli, tutti sapevano.

Qui don Pompeo veniva fatto accomodare in un salottino e dopo poco veniva raggiunto dal Commissario Capo. Bevuto un caffè i due si mettevano a chiacchierare come due vecchi amici, ma ben presto il discorso si limitava ad un soliloquio del prete. Raccontava tutte le notizie raccolte a Breno e in altri paesi della valle. Solo notizie, ovvia- mente, che potevano interessare alla Polizia Politica.
Il Parroco era un abile confessore. Se chi si presentava per ottenere l’assoluzione era donna dai 40 ai 60 anni – mai fidarsi delle giovani moderne che prendevano i sacramenti e, soprattutto, le autorità ecclesiastiche troppo sotto gamba – riusciva sempre a intrufolarsi nei suoi pensieri e a sviscerarne i più reconditi segreti. E se si parlava di peccati riguardanti il sesso, don Pompeo voleva sapere, con dovizia di particolari, come si erano consumati. I movimenti, le posizioni, la condivisione o meno alle eventuali strane richieste del marito, e se, magari con l’aiuto del preservativo o del coitus interruptus, erano state violate le leggi stabilite dalla chiesa. Giustificando tutto ciò con il fatto che la gravità del peccato era in proporzione al godimento ricevuto e che un orgasmo femminile non era cosa buona. Al Parroco questi racconti davano lo stesso malsano godimento che avrebbe ricevuto – fervido come era di immaginazione – guardando un film porno. Se capitavano in una giornata tre confessioni di questo genere, don Pompeo usciva dal confessionale spossato ma evidentemente appagato.
Uguale malizia il prete usava nel raccogliere notizie dal o dalla penitente riguardo la vita privata, la sua, quella del coniuge e, qualche volta, dei vicini. Ricordando che se si fornivano notizie di atti contrari al Fascismo – al partito che aveva voluto un concordato così… cristiano – si faceva solo il volere di Cristo. E quanti o quante ci cadevano!
Don Pompeo manteneva anche ottimi rapporti con i parroci dei paesi vicini, con i quali spesso si incontra- va per uno scambio di vedute, non spirituali, certo, ma… politiche.
– Alla prossima visita all’OVRA dovrò far cenno anche di quel don Sprezzali, Parroco di Bienno, che mi sembra troppo impegnato con Cristo e poco col Duce – pensava spesso, anche se non era mai riuscito, in fin dei conti un residuo di carità cristiana tentava di sopravvivere ancora nel suo animo, a denunciarlo.
Finito il colloquio con il Commissario, questi chiamava un dipendente che, ad un suo cenno di assenso, lasciava la sede diretto al vicino casino. Nel frattempo il prete veniva fatto accomodare in una stanzetta arredata con un comodo letto, due belle poltrone e un lavandino. Lì si spogliava dagli abiti talari che nascondeva in un armadio ed attendeva la ricompensa ai suoi servigi. Poco dopo, infatti, una prostituta (“molto florida, mi raccomando” aveva richiesto la prima volta) proveniente dal vicino postribolo bussava alla porta pronta a sottomettersi ai suoi desideri. Nel frattempo lui aveva ripassato il contenuto di qualche confessione e, tutto eccitato, si era predisposto a sfruttare nel modo migliore l’occasione.

 

IV

La farmacia Temperini si affacciava sulla piazza S. Ago- stino al termine della via Roma che era in ripida sali-
ta. Sembrava fosse stato scelto il posto giusto perché chi era perfettamente sano potesse raggiungerla senza affanno, ma chi aveva problemi di salute, arrivato alla farmacia, se li trovasse raddoppiati e bisognoso di ulteriori cure: per la gioia del farmacista.
Entrando si era avvolti dagli odori degli ingredienti dei vari prodotti galenici, quelli preparati direttamente dal farmacista, che un tempo andavano per la maggiore, essendo la produzione industriale dei medicinali ancora limitata. Anice, liquirizia dai buoni odori dolciastri, ma anche valeriana, aconito, malva, stramonio ed altre erbe officinali. Nel retro si sentiva in continuazione il picchiettare di un pestello in un mortaio, ove un inserviente lavorava i componenti per preparare decotti, pillole e cachet secondo le ricette del medico condotto o del tito- lare della premiata farmacia. Ricette vecchie di lustri che mai venivano modificate in quanto nessuno si prendeva la responsabilità di farlo, anche perché effettivamente spesso le condizioni di salute di chi li ingurgitava miglio- ravano. Probabilmente più per l’effetto placebo che per le proprietà delle formulazioni.
La farmacia era condotta dalla figlia del proprietario, Ida, con l’aiuto al banco di un certo Angiolino che non aveva le rotelle che giravano tutte al modo giusto se non quando si trattava di fare i conti ed incassare. Era il figlio della Sofia, la balia che aveva nutrito Ida quando la madre, pochi giorni dopo il parto, era morta di febbre terziaria. Prima di trovare la balia, Ida aveva sofferto la fame rifiutando il latte di mucca e l’acqua zuccherata che le veniva- no offerte in cambio del latte materno. Ma quando era stata rintracciata la balia, che aveva da poco partorito l’Angiolino, si era rifatta abbondantemente e Sofia aveva lasciato fare perché era molto interessata ai soldi promessi in caso avesse fatto crescere in modo rigoglioso la piccola orfanella. Si diceva che l’Angiolino non fosse del tutto normale perché durante i primi mesi di vita non aveva ricevuto sufficiente nutrimento in quanto, quando la mamma gli offriva le tette, queste ormai erano pratica- mente vuote. Il farmacista probabilmente aveva accettato questa ipotesi ed aveva preso a lavorare con sé l’Angiolino come segno di riparazione. Il commesso, che si interessa- va più che altro della cassa, prima di dare il resto aveva preso l’abitudine di chiedere con fare mellifluo, chiunque fosse il cliente, uomo, donna, vecchio o giovane:
“Vuole mica una bella scatola di preservativi?”
Alle lagnanze dei clienti, il Temperini, spesso, si riteneva per burla, rispondeva che il suo commesso era impotente e che con quella proposta voleva che i clienti facesse- ro in tutta tranquillità quello che a lui non riusciva: quindi la sua era una affettuosa cortesia. La Ida ormai non faceva più caso alle stranezze del fratello di latte ed alle lamentele dei clienti. Era sempre triste e immusonita: precisa e disponibile nella gestione della farmacia ma altrettanto scostante.  Anni addietro aveva perso la testa per un operaio della Ferriera Tassara e forse ci aveva anche fatto all’amore. Scoperta dal padre le era stata vietata la frequentazione del povero operaio, con la minaccia di essere diseredata. Dapprima aveva resistito alle imposizioni del padre, ma poi, quando il moroso (per intervento del farmacista?) era stato licenziato con uno strano pretesto ed aveva dovuto emigrare in Francia in cerca di lavoro, aveva per forza accettato la nuova situazione ma aveva iniziato ad odiare in silenzio il genitore.
Il Temperini difficilmente rimaneva in farmacia dopo l’apertura. O se ne andava a caccia, se era stagione e la giornata non prometteva pioggia, oppure si trasferiva al bar Monte Grappa che si trovava proprio di fronte alla farmacia, dove passava ore ed ore.
Alto, magro elegante, con un paio di baffetti sempre curatissimi, il farmacista portava occhiali con lenti scure che aggiungevano al fascino naturale un qualcosa di misterioso. E’ inutile dire che piaceva alle donne, soprat- tutto alle contadine e alle mogli dei numerosi pastori alle quali non faceva mancare la sua presenza quando queste rimanevano a casa sole, essendo i mariti agli alpeggi con le mucche, o, come ora, al fronte. Anche se in paese si parlava molto delle sue avventure, nessuno aveva prove concrete, perché per le sue attività amatorie si recava nelle cascine fuori paese, dove aveva più facilità di suc- cesso. E poi a lui piacevano queste donne franche, di car- ne abbondante e di pretese limitate. Accoppiamenti classici, senza l’obbligo di preliminari laboriosi e finali romantici, che lo appagavano pienamente. “Una botta e via”, come usava dire il Temperini che, invero, ben difficilmente accennava alle sue conquiste.
Ci aveva provato una volta anche con la maestra signora Lucia, che però gli aveva fatto capire chiaramente che apprezzava le avances ma che non sapeva che farsene di una persona che nulla di concreto avrebbe potuto lasciar- le. Il farmacista si era ritirato in buon ordine con un mazzo di fiori e tante scuse.

V

Il bar Monte Grappa era il luogo di ritrovo di tutti gli sfaccendati del paese, dei negozianti che avevano chi potesse sostituirli in negozio o dei professionisti che potevano gestire il loro tempo a piacimento. Vigevano due regole ferree: era vietato parlare di politica e non si poteva giocare a carte a soldi. I pettegolezzi e le abbondanti libagioni erano quindi gli unici sfoghi dei clienti. Il proprietario, detto Burtulì squarta fasöö, per la sua tirchieria e per la precisione che metteva in tutto ciò che faceva, per mantenersi la clientela riusciva sempre a inventarsi qualcosa. In quel periodo aveva messo a punto tornei di briscola. Con pazienza certosina predisponeva 15-20 mazzi di carte con identica sequela in modo che tutti i partecipanti al torneo avessero le stesse chances. Anche se non si poteva giocare a soldi, veniva fissata una cifra di iscrizione e al termine del torneo venivano premiate le prime tre coppie. A volte con una dozzina di uova, a volte con un salame o una piccola forma di for- maggio. Cose preziose in periodo di autarchia dove combinare il pranzo con la cena non era per nulla facile. La cosa faceva impazzire gli accaniti giocatori che si iscrive- vano ai tornei, versando le iscrizioni anche dieci giorni prima dell’inizio pur di non perderle. I risultati poi, tra buone bevute, si discutevano a lungo con prese in giro per i perdenti e promesse di rivincita.

Il Temperini era un grande affabulatore ed era richiestissimo dai frequentatori del bar per le storie che sapeva inventare, soprattutto se erano particolarmente, come si diceva allora, sboccate. E il farmacista condiva sempre questi racconti con fatti veri che si riferivano, non esplicitamente ma in modo alquanto comprensibile, a qualcuno del paese che aveva qualche problema fisico nel senso sessuale e che si era rivolto a lui per qualche cura: alla faccia del segreto professionale. Altre volte iniziava barzellette che centellinava magari in diverse visite al bar, rendendo spasmodica l’attesa per il finale. Ai nuovi venuti non risparmiava mai la storiella dell’omino verde che lui recitava con gran bravura.
Si trattava di un problema di un suo cliente che lui aveva contribuito a curare. Il poveretto aveva avuto una strana situazione di incontinenza. Appena addormentato sogna- va che un omino verde gli si posava sulla parte inferiore della pancia ed incominciava a gridare “Piscia! Piscia!” e lui alla mattina si svegliava con il pigiama ed il letto intrisi della sua urina. Il Temperini, interpellato, aveva preparato un intruglio di erbe calmanti che avrebbero reso il sonno più tranquillo e risolto il problema. Niente affatto. Quello aveva continuato a sognare l’omino urlante e a svegliarsi alla mattina bagnato sino al collo. Lui gli aveva aumentato la dose ma, non ottenendo risultati, aveva sentenziato: “A mali estremi, estremi rimedi!”
Gli aveva detto: “Se noi riusciamo a interrompere, alme- no per una volta, che l’omino l’abbia vinta vedrai che tutto finirà. Però, secondo me, bisogna intervenire fisica- mente. Sarà un po’ doloroso ma sono certo ce la farai!” Aveva allora spiegato al cliente che alla sera, prima di andare a letto, avrebbe dovuto prendere il solito sedativo e poi un pezzo di corda con il quale legare strettamente il pene, e di conseguenza il canale urinario, onde rende- re impossibile il passaggio del liquido. L’aveva quindi congedato regalandogli un potente antidolorifico e dandogli appuntamento per la mattina successiva. Quando si ritrovarono il cliente gli disse:
“Dottore, io ho fatto come mi ha detto lei. Ho preso il calmante, le pillole contro il dolore e poi mi sono legato l’uccello il più strettamente possibile. Un dolore bestia, dottore. Un dolore bestia! Però sono riuscito ad addormentarmi e subito è venuto quel disgraziato. Si è messo a urlare ‘Piscia! piscia!’ e io l’ho lasciato urlare. Poi mi sono toccato: era tutto asciutto, non usciva veramente niente! Lui continuava a urlare ed io a rimanere asciutto”. “Allora ce l’abbiamo fatta” gridò il dottore tutto contento. “Mi lasci finire, dottore. Lui urlava ed allora io gli ho detto: ‘Guarda che non posso pisciare perché me lo sono legato. Guarda!’ Lui si è sporto a guardare verso il basso e, visto il mio uccello tutto infiocchettato, si è arrabbiato come una bestia. Prima di andarsene, mi ha urlato ‘Ma va’ a cagare!’. Dottore, io questa mattina mi sono svegliato pieno di merda sino al collo!”

(continua…)

 

 

 

La scritta Tito e l’amicizia italo-slovena

Il commento di Pier Franco Quaglieni

Sul versante che guarda verso l’Italia del Monte Sabotino (legato alla storia della Grande Guerra e alle battaglie dell’Isonzo e del Carso ), oggi in territorio sloveno, continua a campeggiare la scritta TITO lunga 100 metri con lettere di 25 metri.

 

Un residuo della vecchia Jugoslavia a cui venne tolto l’aggettivo possessivo e “affettivo“ il “nostro“. Una forma di propaganda tipica dei regimi totalitari e autoritari come dimostrano, ad esempio, le scritte Duce,  Dux, Mussolini ecc. nell’Italia fascista. Il culto della personalità e’ tipico infatti di quei regimi e Tito fu un dittatore in piena regola. Sanguinario con gli Italiani di Istria e Dalmazia infoibati dai suoi partigiani , ma anche sanguinario con gli stessi slavi e altre popolazioni presenti in Jugoslavia durante il suo lungo periodo di governo in cui ebbe un potere dispotico ed assoluto. Un anno fa l’incontro tra il presidente italiano e il presidente sloveno sembrava aver posto fine alle residue ostilità ed aver soprattutto aperto una strada di amicizia e collaborazione che sotterrasse finalmente il passato. La presenza del presidente sloveno alla foiba triestina di Basovizza stava a dimostrare una presa di coscienza storica del dramma delle foibe. La Slovenia e’ nata dalla decomposizione violenta della Jugoslavia titina dopo una lunga e terribile guerra civile. Si può pensare ragionevolmente che i nostalgici di Tito siano oggi un ‘esigua minoranza, ma una certa ostilità verso gli Italiani che ebbe origine già con la dominazione austriaca di quelle terre, rimane. L’avevo colto io nel 2007 quando guidai un pellegrinaggio laico da Fiume a Trieste nel ricordo dei 15mila infoibati. Il permanere di quella immensa scritta Tito c’è da chiedersi che significato abbia oggi. Un cimelio del passato regime rimasto a testimoniare una qualche nostalgia e nel contempo un implicito pregiudizio antitaliano? Il nome di Tito resta un elemento divisivo che rende difficile guardare avanti, come sarebbe auspicabile, all’Europa unita come superamento di tutti gli odi novecenteschi che hanno reso la storia un mattatoio. Tito rappresento’ un’ideologia che mescolo’ insieme comunismo e nazionalismo, creando una miscela esplosiva. Il fatto che si sia distaccato da Stalin non cancella le sue gravi colpe storiche anche ciò fece comodo alle potenze occidentali. Quella scritta cubitale rivolta verso l’Italia non è certo un segno di superamento delle ferite legate al dramma del confine orientale italiano. Sarebbe bene rimuoverla. In Italia giustamente nessuno tollererebbe nulla di simile che riguardasse Mussolini.

L’isola del libro

Rubrica settimanale a cura di Laura Goria

Caterina Soffici “Quello che possiedi” -Feltrinelli- euro 17,00

Quanti e quali segreti sono racchiusi tra le mura della splendida villa nobiliare che dalla sommità di un poggio domina la vista di Firenze? ,E’ la sontuosa Villa del Grifo, 4000 mq con 500 anni di storia blasonata.

Qui ha trascorso la sua lunga vita l’algida contessa Clotilde Brunori Princi; da giovane di una bellezza eccezionale «…magnifici occhi d’oro, screziati di pagliuzze che cambiavano colore a seconda dell’ora del giorno, della stagione e dell’umore…».
Ora ha 82 anni, si oppone con tenacia alla malattia che la sta consumando, ed è sempre, comunque, impeccabile ed elegante, eccentrica e snob.
E’ lei l’anima della casa e domina sottilmente la sua unica figlia Olivia che, a quasi 50 anni, vive in un lussuoso appartamento della villa, sopra quello dell’anziana madre, alla quale resta poco da vivere.

I rapporti tra loro sono sempre stati tesi. La loro conflittualità ha veleggiato tra “non detti” e buone maniere, ma distanza siderale.
Ora sono adulte e l’ostilità è meno esplicita che nell’adolescenza di Olivia, ma continuano a scrutarsi e giudicarsi, senza mai parlarsi veramente per capirsi più a fondo.
In più, Clotilde non sopporta Giacomo, il genero rampante a arrampicatore che si è assestato in un comodo tran tran matrimoniale, dove è riuscito a ritagliarsi agevolmente ampi spazi di manovre libertine.
Olivia invece sta affondando nelle sabbie mobili della crisi di mezza età: i due figli sono ormai lontani e conducono le loro vite, il marito è spesso assente e lei combatte l’infelicità inseguendo una perfetta forma fisica, è vegetariana e corre per stemperare il malumore.
Su tutto aleggia un segreto terribile e scopriamo che la perfetta e bellissima vita esteriore di Clotilde è stata parecchio più difficile di quanto emerga in superficie.
Clotilde, fin da giovane e poi da sposata, era solita sparire per giorni a bordo della sua amata lancia Aurelia. Nessuno sapeva dove andasse e cosa facesse, ma la cosa ormai era stata accettata.
Ora, anziana e malata, una mattina di autunno scompare gettando nel panico la casa, e il lettore incomincia a conoscere la storia vera. Quella nascosta dietro l’impenetrabilità di questa ricca e nobile famiglia, abituata a feste sontuose, matrimoni di facciata, convenzioni…solitudine e vuoto cosmico.

Un magnifico romanzo in cui Caterina Soffici non smentisce la sua abilità nel tracciare storie di grande spessore e pathos.

 

Questa può essere l’occasione per rileggere anche il precedente romanzo dell’autrice, “Nessuno può fermarmi” -Feltrinelli- euro 16,00, del 2017.

Intrigante storia che narra come il giovane studente di filosofia, Bartolomeo, ritrova una lettera destinata alla nonna, in cui il nonno Bart viene ufficialmente dichiarato « Disperso, presunto annegato». E’ l’inizio della sua ricerca sulla vera sorte dell’antenato (del quale porta il nome), che in famiglia si diceva fosse morto al fronte.

La nonna non può svelargli nulla perché è morta da poco, mentre suo padre non l’ha mai conosciuto e la cosa non sembra interessarlo più di tanto.
Bartolomeo arriva a conoscere l’affascinante anziana signora inglese Florence che era stata amica dei suoi nonni, nel quartiere degli immigrati italiani a Londra, Little Italy. Dal suo racconto emergono appigli importanti che rimandano alla tragedia del 2 luglio 1940 -realmente accaduta- quando un siluro tedesco causò il naufragio della nave Arandora Star.
Aveva a bordo moltissimi internati italiani, civili innocenti deportati dopo la dichiarazione di guerra di Mussolini all’Inghilterra, e vittime della xenofobia e del sospetto. Una tragedia in cui il mare inghiottì per sempre 446 passeggeri. Una morte orribile, ma ci furono anche alcuni superstiti che sopravvissero alle acque gelide, aggrappati a brandelli di relitti della nave.

Per molto tempo dopo il mare scaraventò a terra i corpi degli affogati, a centinaia, sulle coste dell’Irlanda del Nord e della Scozia; dove la pietà degli abitanti del luogo recuperò i cadaveri senza nome, dando loro almeno una sepoltura.
Bartolomeo riesce a rintracciare uno dei sopravvissuti. Un burbero anziano che forse aveva afferrato le mani del nonno nelle acque di ghiaccio, prima che la morte per assideramento lo inghiottisse per sempre.

Un romanzo in cui l’autrice tocca più temi; come la memoria, l’amicizia, l’emigrazione, la speranza, la guerra, il lutto…..in un crescendo che vi avvilupperà alle pagine tenendovi sulla corda fino alla fine.

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Bernhard Schlink “Donna sulle scale” – Neri Pozza- euro 18,00
Schlink è uno dei maggiori scrittori tedeschi contemporanei. E’ nato a Bielefeld nel 1944, e nel corso della sua vita è stato anche giudice presso la Corte Costituzionale della Renania Settentrionale Vestfalia fino al 2006, anno in cui è diventato professore universitario di Filosofia del diritto. Al suo attivo ha numerosi romanzi e racconti.
“Donna sulle scale” è ambientato tra Germania e Australia, e ruota intorno al quadro che ritrae una donna bionda e nuda, che scende lentamente delle scale: pallida, eterea, inafferrabile, bellissima ed enigmatica,
Dopo anni in cui se ne erano perse le tracce, ora il dipinto ricompare all’Art Gallery del Teatro dell’Opera di Sidney. E dietro c’è una storia intrigante.

La modella è Irene, e intorno a lei gravitano le vicende e i destini di tre uomini, incantati dal suo fascino. Sono il marito Gundlach, manager ricco e di successo, che ha incaricato il pittore Karl Schwind di ritrarre la moglie, senza aver previsto che l’artista se ne sarebbe innamorato perdutamente.
La gelosia spinge Gundlach a danneggiare ripetutamente il dipinto, che il pittore tenta ogni volta di restaurare. Ed ecco che la terza vittima dell’incanto di Irene è il giovane avvocato che ha l’incarico di stilare un contratto tra i due litiganti.

Irene è forte, autonoma, contesa tra il marito che vorrebbe esibirla come un trofeo e l’artista a cui fa da Musa ispiratrice; una sorta di merce di scambio tra i due contendenti. Poi arriva l’avvocato che se ne innamora in modo infantile e sprovveduto.
La storia si avvolge intorno al possesso, alla perdita, al disinganno e alla decisione della protagonista di inseguire la libertà, lasciandosi indietro tutti i contendenti. Scompare e con lei anche la tela.
La ritroviamo molti anni dopo, diventata una sorta di Robinson Crusoe al femminile, che vive in una baia solitaria sulla costa a nord di Sidney, dividendo le sue stagioni tra due ripari assai precari sulla spiaggia.
Si fa chiamare Irene Adler, ormai è un’anziana debole che ha dedicato la sua vita ad accogliere ed aiutare ragazzi sbandati ed ora, quando può e le forze glielo consentono, assiste la povera gente del luogo.
Il finale di partita con i suoi 3 contendenti si svolge in quell’anfratto di vita costiera, con un epilogo che scoprirete voi stessi.
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Andrea Maia “Torino la città e gli scrittori” -Graphot Editrice- euro 15,00

Questo è un libro che potete portarvi dietro come prezioso vademecum per scoprire quanta storia e cultura trasudino palazzi, caffè, vie e scorci vari di Torino, che sono stati testimoni del passaggio di personaggi di spicco.
L’autore è stato docente di Italiano e Latino in un importante liceo cittadino ed era solito portare i suoi studenti a fare visite di tipo letterario. Dunque una grande passione per Torino e la cultura.
Ora, 10 anni dopo il precedente “Torino strade e pagine”, ci guida lungo 8 nuovi percorsi letterari nel capoluogo subalpino, scanditi da varie tappe tra strade, palazzi, autori e scritti. E riannoda i fili che hanno legato non solo scrittori, ma anche altri intellettuali e artisti di peso, alla città nella quale hanno transitato, oppure vissuto per periodi più o meno lunghi.
Ed ecco una sorta di guida e un’antologia, in prosa e versi, di scrittori che alla città hanno dedicato intere pagine delle loro opere. Torino vissuta e raccontata attraverso poesie, confessioni, lettere e scritti vari di autori di epoche e paesi diversi, a partire dal 700 fino ad oggi.
Una piacevole e dotta carrellata tra le vie torinesi che inizia con il primo percorso dedicato alle rime di Francesco Pastonchi, poeta, professore e torinese d’elezione che rende omaggio alla storica via Po.
Seguono –tra gli altri- Jean –Jacques Rousseau che arriva 16enne a Torino; Mozart; quello di un’antenata di Oriana Fallaci che lei racconta nel suo romanzo postumo “Un cappello pieno di ciliegie”; e Gramsci che dalla Sardegna giunse in città nel 1911 per studiare all’Università.

I percorsi che seguono sono altrettanto dotti e affascinanti per chi vuole approfondire tappe che rimandano ad autori italiani dal 700 al 900 e includono nomi della levatura di Silvio Pellico, Edmondo De Amicis.
Per arrivare all’oggi, con le pagine che Giuseppe Culicchia ha dedicato al Caffè Torino in Piazza San Carlo, e passando anche per Via Biancamano e l’avventura editoriale dell’Einaudi che lì fu fondata.

Tra gli altri percorsi, ci sono scrittrici e scrittori del 900, con pagine della Guglielminetti, Guido Gozzano, Montale, Calvino, Natalia Ginzburg e altri autori.
Poi poesia, teatro e politica nel secondo Ottocento. La città visitata e rappresentata da scrittori italiani come Tommaseo, Mameli, Tommasi di Lampedusa; e da stranieri, tra i quali De Maistre e il russo Dobroljubov.
Seguono tappe dedicate agli ospiti dal 600 all’800, con Manzoni, Melville, Twain e Dumas padre; per arrivare a percorsi che rimandano a teatro, critica e poesia dialettale e finire con un iter sulle orme di Vittorio Alfieri e Massimo D’Azeglio.
Insomma un modo colto e accattivante per scoprire anche dati inediti o poco noti che ammantano Torino di un fascino in più. Pagine che vi fanno da guida nella storia, nei locali, nei palazzi nelle strade e nelle grandi e famose vite che hanno transitato in città.

Lo stendardo di Giove

LIBRI / EMANUELE RIZZARDI CI RACCONTA LA STORIA DI ROMA E DEGLI ULTIMI PAGANI

Un testo profondo e drammatico che illustra le complesse dinamiche della caduta dell’Impero Romano, delle grandi invasioni barbariche, ma soprattutto della fine del mondo pagano a vantaggio dell’unica religione cristiana

Lo storico e bizantinista Emanuele Rizzardi ha pubblicato nel 2021 la sua nuova opera letteraria.

Il giovane scrittore legnanese, già ospite su queste pagine per le sue pubblicazioni meno recenti, “L’ultimo Paleologo” e “L’usurpatore”, vive nella cittadina lombarda di Legnano e propone romanzi storici non brevi, in contesti poco conosciuti.

Partiamo subito con le domande:

Nei tuoi precedenti testi ti sei occupato di terre lontane: Anatolia, Georgia, Grecia. Oggi ci proponi un’ambientazione tutta italiana, come mai?

Perché proprio in Italia assistiamo alle gesta, alle parole e ai pensieri degli ultimi pagani di Roma, ormai in piena decadenza e vicini alla scomparsa totale a causa delle persecuzioni dell’imperatore Teodosio e all’imporsi del Cristianesimo, la religione che tutti noi conosciamo, ma che per una parte dell’Occidente era solamente un culto monoteista orientale, alieno, estraneo alle radice e alle tradizioni dei padri e della patria. E proprio in nome della difesa delle loro idee, gli ultimi pagani tentarono un’ultima, vivace resistenza che culmina con la battaglia del fiume Frigido. Una storia drammatica e già segnata, intrisa di mistica e spiritualità, che è affasciante proprio per questi aspetti.

Un Impero Romano quindi molto lontano dai fasti di Augusto o Traiano; chi sono i suoi protagonisti? Hai deciso di inserirli nella tua Opera?

Naturalmente, ogni mio romanzo fino ad ora è basato sulla realtà e su quanto fatto da personaggi realmente esistiti.

Il cuore di quella che noi chiamiamo, un po’ ingenuamente “rivolta dei pagani”, ha tre protagonisti principali.

Il magister Arbogaste, comandante supremo delle legioni, che costituisce la massima autorità militare di tutto l’impero e ha il compito di difenderlo dai barbari di Germania ma anche, secondo il suo punto di vista, dalla crescente influenza del cristianesimo e della corte orientale di Costantinopoli.

Flavio Eugenio, l’imperatore che si contrappone a Teodosio e che viene supportato dai pagani. Si tratta di un uomo mite e di fede cristiana, ma di posizioni tolleranti e di buona famiglia… e proprio per questo costituisce una figura assolutamente straordinaria; un cristiano nominato in Occidente imperatore da un gruppo di pagani, per sfidare un imperatore in Oriente, a sua volta cristiano.

Infine, Nicomaco Flaviano, ricchissimo e potentissimo senatore pagano che ha previsto la caduta del cristianesimo attraverso gli oracoli…

Una lettura alla portata di tutti, ma che invita a riflettere. Quale messaggio vuoi lanciare con questo tuo testo?

L’epoca tardoantica è un vero e proprio vivaio di eventi che toccano i giorni nostri: le grandi migrazioni, i conflitti religiosi, la corruzione, il ruolo delle istituzioni, l’eterna lotta delle periferie contro il potere centrale, i movimenti separatisti… insomma, c’è proprio tutto. Con questo libro voglio lasciare aperti importanti spunti di riflessione, tra un momento di intrattenimento e l’altro.

Di certo, il messaggio più palese e l’eterno cambiamento delle cose e il fatto che tutti noi, in un tempo remoto, siamo stati qualcos’altro.

Che luoghi andiamo ad esplorare con questa narrazione? I lettori troveranno città e villaggi a loro noti?

Per la maggior parte direi che è così. Se escludiamo alcune zone delle moderne Germania e Francia, l’ambientazione è tutta italiana e le città di oggi sono le stesse del 394, grossomodo.

Milano, Roma, Ravenna, Aquileia, Torino, Vercelli, Trento, ma anche luoghi meno noti per i fatti storici del tempo come Altino, Como, Lecco, Bergamo, Castelseprio e tanti altri.

Per conoscerti, oltre a leggere i tuoi testi, come possiamo fare? Vuoi condividere qualcuno dei tuoi contatti?

La pagina del libro è su Facebook e Instagram per chi vuole essere in contatto con me: https://www.facebook.com/UltimoPaleologo

https://www.instagram.com/ultimopaleologoemanuelerizz/

Questa intervista è concessa per esclusiva autorizzazione di Associazione Culturale Byzantion a cura di L. S.

“L’orto fascista”, romanzo a puntate di Ernesto Masina

Inizia oggi sul “Torinese” la pubblicazione a puntate del romanzo “L’orto fascista” di Ernesto Masina

 

L’AUTORE DICE DI SE’  Sono un vecchietto che a 76 anni, stanco di leggere romanzi con una infinità di personaggi difficili da ricordare (ed un inizio di arteriosclerosi non aiuta), trame complicate e finali scontati, ha deciso di tentare di scrivere il libro che gli sarebbe piaciuto leggere.
E’ nato così “L’orto fascista” che non è nè vuole essere un romanzo storico o politico. E’ una tragicommedia (più commedia che a volte sfiora la pochade) che si svolge in un piccolo paese della Valcamonica nel 1943 all’atto dell’invasione tedesca in Italia.
Il romanzo è stato accolto benevolmente dalla critica. Alcuni mi hanno paragonato a Piero Chiara (con mio immenso piacere in quanto da ragazzo ebbi occasione di frequentare lo scrittore varesino e di stimarlo), altri (con minor piacere) al “miglior” Andrea Vitali. I giornalisti del quotidiano “La Stampa” hanno collocato il mio scritto nel sito “Lo Scaffale” ove vengono ospitati solo i libri che non dovrebbero mancare in ogni biblioteca privata.
Spinto dall’entusiasmo ho scritto e pubblicato “Gilberto Lunardon detto il Limena” e quindi “L’oro di Breno” che sono altrettanto piaciuti.
Quest’anno, per festeggiare i miei 84 anni, ho pubblicato il giallo “Il sosia.” Non avendo nessuna esperienza in questa tipologia di romanzi temevo un fiasco. Quindi è stata con grande meraviglia l’aver ricevuto tante mail da persone, anche sconosciute, che si congratulavano con me e che mi esortavano a continuare. Ho altri due romanzi nel cassetto ed ho intenzione di editarli il prossimi Marzo e Ottobre. Infatti a Ottobre uscito “Don Arlocchi e il mistero della statua di Minerva”.

Ernesto Masina

***

 

A mia moglie Letizia
che da 52 anni mi sopporta, ma che credo sarebbe ben lieta di avermi al suo fianco
per altrettanto tempo.

 

Questo romanzo è pura opera di fantasia. I luoghi citati appartengo- no solo alla geografia dell’invenzione letteraria. Nomi, personaggi, fatti e avvenimenti sono invenzioni dell’autore e hanno soltanto lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con eventi, luoghi e persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale.

 

In copertina:
Breno, Piazza Generale Ronchi, già Piazza del Mercato, fotografia d’epoca.

 

ERNESTO MASINA

L’Orto Fascista

Romanzo

PIETRO MACCHIONE EDITORE

 

I

Il Federale aveva attraversato tutto il corso principale, ergendosi a bordo della sua vettura scoperta con la boria di un conquistatore e sventolando in alto la mano destra in un prolungato saluto romano. Rispondeva con sussiegosa cordialità ai tanti “Eia! Eia! Alalà!” delle camicie nere schierate ai lati della strada, alle quali si univa, più per convenienza o curiosità che per convinzione,
qualche residente. Con la mente unicamente rivolta a Roma e al “suo” Duce, era giunto, circondato da un nugolo di camicie nere, a inaugurare il locale Orto di Guerra, detto anche Orto Fascista.
Dopo aver lanciato nel 1925 la Battaglia del Grano, Mussolini, vista la situazione economica dell’Italia, da sempre dipendente dall’estero nel settore agro-alimenta- re, aveva indetto la campagna dell’Orto di Guerra, invitando tutti i comuni d’Italia ad affidare alla popolazione la coltivazione delle aree pubbliche. Si era in piena guerra, tra il 1941 ed il 1942.
L’invito, che era sentito come un obbligo dagli ammini stratori locali, timorosi di essere giudicati dei sovversivi se non si fossero adeguati in tempo agli “alti insegna- menti del Duce degli italiani”, in Valle Camonica non era stato accettato con grande entusiasmo. Persino a Breno, considerato il paese della valle più vicino al Duce e agli ideali fascisti, tanto da annoverare tra i suoi concittadini più illustri persino un docente di Mi-stica Fascista all’Università di Milano, la creazione del- l’Orto era stata continuamente rinviata.
Alla fine il Segretario della locale sezione del Partito Nazionale Fascista aveva costretto il Podestà a prendere una decisione: altrimenti avrebbe informato il Segretario Provinciale dell’ostruzionismo del primo cittadino al volere del Duce.E fu così destinato a diventare Orto Fascista un piccolo appezzamento di terreno, pieno di sassi ed erbacce, situa- to in fondo al paese, giù verso il fiume, requisito a un contadino, tale Bettino Brichetti, notoriamente antifascista. Dopo che le squadracce in camicia nera gli propinarono tre abbondanti bevute di olio di ricino nello spa- zio di due mesi, egli abbandonò il paese rifugiandosi, così si diceva, presso un parente nella pacifica Svizzera. Giunto all’Orto Fascista, il Federale di Brescia scese dalla vettura, che aveva percorso gli ultimi cento metri della strada sballonzolandolo a causa del pessimo stato dell’acciottolato. Ad imitare il Duce – tutti i gerarchi cercavano di farlo – appoggiate le mani ai fianchi, petto in fuori, pancia in dentro, aveva, con voce tonante, iniziato ad arringare la folla sostenendo “l’importanza vitale di queste istituzioni che in tempo di guerra e in attesa dell’immancabile vittoria finale, assicuravano all’Italia combattente cibo sicuro, e ai giovani, con la coltivazione del campo, la partecipazione al raggiungimento del traguardo fascista che voleva l’Italia autosufficiente in tutto”.
In effetti il campo non misurava più di 30 metri per lato, era infestato da erbaccia ostinata, pungente e primordiale e pareva chiaro che la qualità del terreno non avrebbe potuto generare che qualche stentato tubero.

Mentre parlava, il Federale si accorse che, nel tentativo di mascherare una poco maschia pancetta e trattenendola il più possibile, i suoi pantaloni, non più sostenuti dalle abituali rotondità, stavano scivolando verso il basso. Si affrettò così a concludere il discorso e, dopo aver urlato con la completa estensione delle sue corde vocali “DUCE” ed aver ricevuto in risposta un altrettanto roboante “A NOI!!!!”, si era chinato rapidamente verso un cuscino nero, portato da un Figlio della Lupa, ovviamente in divisa. Dal cuscino, sul quale era ricamato in oro un fascio littorio, aveva prelevato un paio di luccicanti forbici ed aveva tagliato, tra gli applausi, un simbolico nastro tricolore che due avanguardiste, in camicia e calze bianche, basco e gonnellina nera, tenevano teso all’altezza di un varco nella siepe che delimitava il campo. Il Podestà, che era stato sino a quel momento in disparte in doveroso silenzio, si avvicinò al Federale, gli strinse, con devozione e quasi genuflettendosi, la mano e passò quindi a presentare alcune dame intervenute alla cerimonia, alle quali il Federale, battendo romanamente i tacchi dei lucidissimi stivali, fece un cavalleresco baciamano. Fra le signore spiccava per statura e bellezza la moglie del Podestà, signora Lucia, maestra presso le locali scuole, che era stata nominata “Custode dell’Orto Fascista”.
Fu quindi la volta dei notabili: il Pretore Battipede, il Direttore del locale ospedale, prof. Parola, l’avvocato Vi- tali, squadrista della prima ora, il medico condotto, dott. Pasqualicchio, il Maresciallo dei Reali Carabinieri ed il Prevosto, mons. Cappelletti che, dopo l’ossequio, chiese al Federale l’autorizzazione alla benedizione del campo “ove, con l’aiuto di Dio, per maggior gloria del Duce, senza esborso di alcun talento, giovani mani avrebbero dal terre- no tratto frutti in abbondanza”.
Dopo il pranzo presso il miglior ristorante del paese, ribattezzato per l’occasione Ristorante Impero, il Federale se ne era ritornato a Brescia, portando con sé il ricordo dell’affascinante moglie del Podestà. Da quel giorno i suoi pensieri più ricorrenti erano ispirati dal Duce e dalla sublime visione della signora Lucia.
Archiviata la cerimonia, venne abbandonato, almeno per il momento, anche ogni progetto di coltivazione dell’Orto Fascista. Le notizie che arrivavano sull’andamento della guerra, pur se efficacemente censurate, facevano intravede- re la debolezza dell’Italia e creavano qualche imbarazzo all’amministrazione fascista. Ma, passata l’estate ed avvicinandosi l’apertura delle scuole, la signora Lucia, o meglio la maestra signora Lucia, come tutti la chiamavano, si ricordò di essere stata nominata “Custode dell’Orto Fascista”. Bisognava che all’inizio dell’anno scolastico si prov-vedesse alla nomina di squadre di bambini, della quarta e della quinta classe, perché si dedicassero alla nuova incombenza procedendo alla semina di qualche ortaggio o di patate, piante adatte al povero terreno.

II

La signora maestra era diventata moglie del Podestà, il rag. Benvenuto Bertoli, ai tempi impiegato di buon livello della direzione della Banca di Valle Camonica, perché, stufatasi di “correre la cavallina”, aveva pensato bene di accasarsi con l’ultimo dei suoi amanti.
Aveva fatto la moglie fedele per qualche tempo ma, quan- do il marito le confidò le sue mire politiche, pensò di potergli dare una mano circuendo qualche pezzo grosso del fascismo locale.
Le grazie non le mancavano, l’esperienza nemmeno. Il marito, facendo finta di nulla vedere e nulla sentire, non la ostacolava certo. Il gioco le piaceva, appetiti sessuali ne aveva, trascurata sempre più dal coniuge che, finito il lavoro in banca, si dedicava anima e cuore al Partito. Cominciò quindi a darsi da fare. A 37 anni era, probabilmente, all’apice della sua bellezza. Un paio di gambe lunghe e ben tornite sorreggevano due chiappe sode che formavano un gran bel sedere. I fianchi, un po’ larghi, terminavano in una vita snella e priva di qualsiasi traccia di grasso. Il seno, alto e pieno, non era particolarmente grande ma prominente, i capezzoli piccoli sembravano, come direbbe il poeta, due ciliegie mature. Il viso, modellato da lunghi capelli neri sempre ben pettinati, era dominato da un paio di occhi verdi che, secondo la luce del giorno, sfumavano verso l’oro. Un gran bel pezzo di donna, insomma. La prima occasione si era presentata l’anno successivo al matrimonio, quando la maestra era stata mandata, insieme a due colleghe, ad accompagnare le classi quarta e quinta a Pisogne, all’inaugurazione del nuovo pontile sul lago d’Iseo, chiara opera in stile fascista con i pali di sostegno della passerella trasformati in fasci littori. Vi partecipavano tutte le autorità della valle ed era stata assicurata anche la presenza del Segretario Provinciale del partito “se non occupato in altri importanti incarichi”. Il Segretario, tale Manucelli Abramo, era un reduce della guerra di Spagna, ove si era messo in vista per la collabo- razione e per il servilismo che aveva dimostrato nei riguardi dei franchisti e si era specializzato nell’interrogatorio dei “rossi” che cadevano nelle loro mani. Non lo faceva con cattiveria, ma con la furbizia caratteristica dei contadini lombardi, e riusciva a far dire agli avversari cose che non avrebbero confessato nemmeno tra dolorose torture.
Ben altra storia aveva vissuto in Africa. Pochi giorni dopo essere arrivato in Libia aveva contratto l’ameba, una brutta infezione che dava febbri abbastanza brevi ma violentissime, precedute da brividi, tremori e spasmi muscolari che lasciavano, al loro scomparire, una spossatezza totale e dolori alle articolazioni. Dopo il primo attacco era stato immediatamente rimpatriato e la sua avventura in terra d’Africa definitivamente chiusa.Il Manucelli era soprannominato “longa manus”, sia per- ché curava gli interessi lombardi di alcuni pezzi grossi del fascismo trasferiti a Roma al seguito del Capo, sia perché, appena possibile, cercava di palpeggiare le parti morbide di qualsiasi donna gli capitasse a tiro. Egli, che già soffriva di complessi per il nome che i geni- tori gli avevano appioppato, più difficile da portare ora che le leggi razziali stavano per essere promulgate, in effetti non aveva mai combinato molto con le donne, ma lasciava che la leggenda sul suo conto proliferasse. Era sempre in caccia e attentissimo a cogliere qualsiasi occasione propizia. La maestra e le sue colleghe erano arrivate a Pisogne con il trenino che percorreva la Val Camonica e arrivava sino a Brescia, in divisa regolamentare: camicia e calze lunghe e bianche, gonna e scarpe nere, basco nero sulle ventitré, molto civettuolo. Lucia era veramente uno splendore e attirava lo sguardo compiaciuto di molti presenti, uomini e donne. Le colleghe decisero che sarebbe salita lei sul palco delle autorità in rappresentanza della loro scuola. Nonostante non ne avesse assolutamente voglia, dovette accettare per l’insistenza delle altre maestre.
Nel frattempo era arrivato il Manucelli, a bordo della so- lita vettura decapottabile, tra gli urlacci dei camerati che inneggiavano al Duce e al suo devoto Segretario della provincia di Brescia. Ancora sull’auto, rimanendo in pie- di sul predellino che gli permetteva di non mostrare la statura assai bassa, il Manucelli sfoderò ampi saluti ro- mani verso il palco, alla sua destra, alla sua sinistra e, non si sa per quale ragione, anche verso il lago. La cosa non sfuggì al solito gruppetto di elementi contrari al Regime che, pur rischiando la consueta purga a base di olio di ri- cino, sghignazzarono rumorosamente.

Il Segretario, nel tentativo di manifestare giovinezza e forza fisica, raggiunse il palco saltellando da uno all’altro dei pochi scalini che vi salivano. Ancora una volta si rivolse ai presenti accettando gli applausi e salutando romanamente. Il palco si era riempito delle autorità e dei rappresentanti delle varie associazioni e scuole che, strattonandosi senza alcun riguardo, cercavano di portarsi in prima fila vicino al Manucelli. In tutto questo trambusto Lucia, che avrebbe preferito rimanere defilata, si trovò spinta a fianco del Segretario che la guardò intensamente, spogliandola con lo sguardo e rimanendone assolutamente soddisfatto. L’ingegnere Domeneghini, progettista del pontile e Direttore dei lavori, nonché, guarda caso, Podestà del paese, si avvicinò al microfono e, cercando di non dare le spalle al Segretario Provinciale, iniziò a parlare dando il benvenuto alle autorità, ai capi delle rappresentanze e a tutti i presenti, passando, poi, ad illustrare la nuova opera voluta dal Fascismo e dal suo Duce per il miglioramento della navigazione sul Lago di Iseo.
Appena il Domeneghini iniziò a parlare, Lucia sentì una mano palpeggiare la sua chiappa sinistra, scendere velocemente verso la parte interna della coscia per ritornare poi da dove era partita prendendone decisamente posses- so. Il primo istinto fu di rifilare un gran ceffone al cafo- ne che si era permesso tali avances, ma, immediatamente, si rese conto che il palpeggiatore non era altri che il Segretario Provinciale e che tra lei e la folla non c’era che qualche metro. Avrebbe quindi provocato uno scandalo e una sicura ritorsione nei suoi confronti e in quelli di suo marito. E poi… tutto sommato, quella strizzatina non le dispiaceva per nulla. Per fortuna il Domeneghini non si addentrò nei partico- lari tecnici che avevano permesso la realizzazione dell’ope- ra, cosa che, pedantemente, cercava di infilare sempre nella presentazione delle costruzioni realizzate su suoi pro- getti. Progetti che, riteneva, comprendessero sempre solu- zioni ardite ed innovative.
Si limitò a spiegare come la parte mobile del pontile si sarebbe comportata in situazioni di secca del lago o, al contrario, di aumento dell’altezza della superficie dell’ac- qua, e terminò inneggiando al Partito Fascista e al suo Duce “ispirato direttamente da Dio per rendere l’Italia grande e forte tra le nazioni civili!”.
Poi il solito “DUCE!” con l’immancabile risposta della folla “A NOI!”. Dopo il Domeneghini fu il Segretario Provinciale a prendere la parola. Il discorso, nella sua ovvietà, fu brevissi- mo, come se il Manucelli avesse altro per la testa, e chi pensò questo certamente non sbagliava. “Camerati, siamo qui riuniti per ringraziare ancora una volta il nostro Duce supremo che, nonostante i grandi problemi che lo assillano, ha desiderato che venisse compiuta questa opera per il miglioramento della vita del suo popolo. Come figli grati facciamo voti perché, col soste- gno della nostra riconoscenza, possa avere la forza di continuare a guidarci verso l’immancabile vittoria finale”.
Scroscio di applausi. “Duce a noi! Eia! Eia! Alalà!” Dopo la benedizione della nuova opera da parte del Parroco di Pisogne, l’assemblea si sciolse e il Manucelli chiamò a sé un gruppo di suoi seguaci con i quali discusse animatamente per diversi minuti, dando a ciascuno un compito da portare a termine. Ci si trasferì quindi in municipio ove, nella sala consilia- re, era stato predisposto un ricevimento al quale parteciparono praticamente tutti quelli che erano stati sistema- ti sul palco delle autorità.
Lucia si staccò dal gruppo cercando di raggiungere le sue colleghe e i bambini, ma fu dissuasa dal farlo, presa let- teralmente per un braccio da un milite fascista che, senza fornire alcuna spiegazione, la accompagnò in municipio. Erano già le 17: Lucia era sulle spine perché lei e le sue colleghe dovevano prendere il trenino della linea Brescia- Edolo, detto il Gamba-de-legn a causa della sua lentez- za, che partiva da Pisogne per Breno alle 17.25.

Va be’ che uno dei vanti del fascismo era la puntualità dei treni, ma ciò si riferiva alle linee primarie (che erano poi la Milano-Firenze-Roma-Napoli e la Torino-Milano- Venezia) mentre nelle secondarie, che ricoprivano la maggior parte della rete, regnava il caos più assoluto.
Immaginatevi una linea morta come la Brescia-Edolo, che collegava paesini sperduti della Valle Camonica nella quale la maggior parte degli abitanti non era in grado di leggere neppure un orario ferroviario. Il Gamba de legn viaggiava a vista e forse il macchinista era uno di quelli che ignorava gli orari e non aveva così gran fretta di raggiungere la meta. Abitualmente, comunque, portava ritardi di varie decine di minuti che potevano dilatarsi sino ad oltre un’ora, indipendentemente dalle situazioni atmosferiche. Entrata nella sala consiliare, Lucia si trovò ben presto vicino il Manucelli che con assoluta gentilezza e, quasi, deferenza volle sapere chi fosse, perché si trovasse a Pisogne… ecc. ecc.
Lucia diede tutte le risposte tenendo pudicamente il capo piegato verso il basso, e poi, spiegando che doveva aiuta- re le sue colleghe a sistemare gli scolari sul vagone del treno loro riservato per ritornare a Breno, si scusò e chiese il permesso di ritirarsi. Il Manucelli, con un sorriso ambiguo sulle labbra, si dimostrò comprensivo e, dopo aver tenuto molto più del necessario per un saluto la mano di Lucia, con un galante inchino ed un batter di tacchi gliela baciò rumorosamente, rimanendo poi lunga- mente a guardarla mentre si allontanava.
La storia, quella con la S maiuscola, non riuscì mai ad accertare se in effetti il motore del “Gamba de legn” quella sera si mise a fare le bizze motu proprio, o se qual- cuno gli diede un aiuto. Fatto sta che quella sera il treni- no, arrivato a Pisogne, non volle in alcun modo riprendere la strada verso Breno.
Non esisteva altro mezzo capace di trasportare i 42 bam- bini e le tre insegnanti sino al paese di origine, ma anche se si fosse riusciti a rintracciare una decina di automobili tra Pisogne ed i paesi vicini, sarebbe stato impensabile, in periodo di autarchia, usare un così cospicuo quantitativo di benzina per effettuare il viaggio. Si decise, quindi, di rimandare la partenza della scolaresca sino a quando il treno non fosse stato messo in condizione di ripartire.
A Pisogne esisteva una bella Colonia Elioterapica del- l’Opera Nazionale Fascista – anche se la stessa era stata costruita con la manovalanza degli alpini e con i contri- buti raccolti dall’Associazione Nazionale Alpini della Valle Camonica. Fu quindi presa la decisione di riaprir- ne un’ala e di mettere a disposizione due camerate con 42 lettini più due letti destinati alle sorveglianti.
All’indomani scolaresca ed insegnanti avrebbero fatto ritorno alle loro case. Dalla Stazione dei Reali Carabinieri di Pisogne fu inviato un fonogramma ai colleghi di Breno affinché le famiglie fossero avvisate e tutti dormissero una notte tranquilla.
Già, due letti per adulti. Ma le maestre erano tre! Nessun problema: una avrebbe dormito in albergo. Caso strano, anche questa volta fu scelta Lucia e, caso ancora più stra- no, nell’albergo destinato ad ospitare Lucia aveva la stanza anche il Segretario Provinciale.
I bambini furono rifocillati alla bell’e meglio. D’altra parte pochi avevano appetito, eccitati come erano dalla novità che li faceva sentire in vacanza.
Lucia, che era stata nominata dal Direttore responsabile della comitiva, ancora una volta non voleva lasciare bambini e colleghe ma non poté desistere, data l’insistenza delle due maestre e dato che il Segretario, che ben conosceva suo marito, le aveva fatto pervenire un invito ufficia- le alla cena che si teneva nel ristorante dell’albergo ove le era stata riservata la stanza.
Al suo arrivo in albergo, Lucia non riuscì neppure a sali- re nella camera a lei destinata per darsi una rinfrescata, perché la cena stava per essere servita e tutti i commensali erano già seduti a tavola. Entrando nella sala del rist rante si accorse che un solo posto era ancora libero, ovvia- mente a lei destinato: quello alla destra del Manucelli. Quindi vi si sedette, accolta da un gran sorriso del Segretario, un sorriso strano, quasi da conquistatore, al quale seguì una frase che la lasciò alquanto perplessa: “Uno splendido fiore dovrebbe essere circondato da miglior compagnia. Spero non mancherà tempo perché possa ricevere gli omaggi dovuti!”

 

La cena si trascinò tra insulsi discorsi e numerosi brindi- si, naturalmente al Duce, all’opera quel giorno inaugura- ta, al suo progettista… ecc. ecc. Mentre stavano servendo il caffè, o meglio, il surrogato del caffè – un miscuglio di estratto di cicoria e di altre erbe di prato – il Manucelli sussurrò a Lucia:
“Io devo risolvere qualche piccolo problema, ma quando arriverò alla mia camera, la 122 – e qui depositò nella mano di Lucia la chiave della stanza – spero, anzi sono sicuro, di trovarci il fiore più bello che mai abbia incontrato”. Lucia arrossì violentemente, e salutando con un inchino tutti i presenti, lasciò la sala del ristorante.
Prima di salire le scale dovette fermarsi a sedere su una poltrona che si trovava ai piedi della scala, perché le gambe non la reggevano. Doveva calmarsi, ragionare più freddamente possibile per decidere se ignorare la propo- sta – l’ordine? – del Manucelli o se assecondare il suo desi- derio. Di mezzo ci poteva anche essere il futuro politico del marito e poi, se avesse deciso di incontrare il Ma nucelli, sarebbero state corna quelle fatte a un coniuge che gradiva qualsiasi sua collaborazione per ingraziarsi le alte sfere? Doveva sentirsi un’eroina, perché si immolava per il bene del marito, o una poco di buono perché, in fin dei conti, l’invito ricevuto la intrigava? Ci pensò su per una decina di minuti e poi decise di giocarsi l’avven- tura. Con le gambe che ancora le tremavano salì le scale e si diresse alla camera 122. Intanto il Manucelli stava discutendo con i suoi accoliti del programma del giorno seguente, ma non si sentiva molto bene. Aveva qualche brevissimo brivido di freddo ed un certo nervosismo interno, ma ritenne che i primi potessero attribuirsi al cibo pesante e abbondante che ave- va ingurgitato, e il secondo all’avventura che stava per vi- vere. Lasciò anche lui la sala da pranzo ma stava ancora meno bene e faticò a salire le scale.
Quando aprì la porta della sua stanza e intravide, nel buio, la sagoma di Lucia, dimenticò qualsiasi malessere e si sentì rinascere. Rimase un attimo al buio, quasi incre- dulo di quale fortuna gli fosse capitata, ma poi accese decisamente la luce ed ammirò con vivo piacere quanto aveva davanti. Non sapeva bene come iniziare l’abbordag- gio, ma decise di essere gentile e, se possibile, spiritoso. “Vado un attimo in bagno ma quando ritorno spero di poter vedere qualcosa di più di questo bel fiore”.
Anche Lucia non sapeva bene come comportarsi. Tanto per cominciare, si sbottonò il vestito e lo lasciò cadere a terra, rimanendo in guêpière e calze di seta e si rimise ferma, quasi sull’attenti, in mezzo alla stanza, dando le spalle alla porta del bagno come a lasciare qualsiasi inizia- tiva al suo prossimo amante.
Il Manucelli intanto, in bagno, si stava lavando i denti ma, improvvisamente, fu scosso da brividi violenti e da un tre- more che non riusciva a controllare. Capì subito che una violenta febbre lo stava assalendo e gli venne impellente il desiderio di stendersi per non cadere. Spalancò la porta e crollò sul letto quasi privo di conoscenza.
Lucia non si mosse per qualche secondo, non riuscendo a comprendere quale gioco amoroso il suo partner volesse praticare. Non aveva la forza di girarsi. Sentiva il letto scricchiolare sotto gli spasmi del Manucelli e un suono quasi di nacchere che, ben presto se ne rese conto, era pro- vocato dallo sbattere dei denti dell’uomo. Alla fine si voltò e vide il Segretario Provinciale, terreo in volto, ballonzola- re sul materasso, il viso contratto in un ghigno che dimo- strava grande sofferenza.

Lucia non sapeva cosa fare. Gli si accostò, istintivamen- te gli mise una mano sulla fronte e quasi si scottò. Il Manucelli doveva avere la febbre a quaranta! Che fare? Corse in bagno, bagnò una salviettina da bidet e la pose sulla fronte del malato che rispose con un mugolio di piacere e riconoscenza. Ben presto la salviettina divenne calda e lei la rimosse, corse in bagno, la mise sotto il rubinetto dell’acqua fredda, la strizzò e ritornò in camera riposizionandola sulla fronte.
Il tremore stava esaurendosi, probabilmente perché la temperatura aveva raggiunto una certa stabilità. Trovò in bagno un’altra salvietta e una bacinella. La riempì, vi immerse la salviettina ed andò a sedersi sul letto di fianco al Manucelli. Cominciò a cambiare sistematicamente ogni dieci minuti le pezzuole sulla fronte del malato, il quale sembrava essersi assopito e solo ogni tanto allungava una mano per accarezzare la coscia di Lucia, quasi volesse accertarsi della sua presenza.
Così passò la notte. Alle sei la donna, in punta di piedi per non svegliare il Segretario che sembrava caduto in un sonno ristoratore, lasciò la stanza, uscì dall’albergo e si incamminò verso la Colonia Elioterapica. Alle otto il Manucelli si svegliò. Si sentiva come se lo avessero bastonato in tutto il corpo ed era debole come non si era sentito mai.
Con estrema fatica si alzò, andò in bagno e si fece, con mano malferma, la barba. Si pettinò e scese al bar dell’albergo per prendere un caffè. Al bar erano già presenti buona parte dei suo scagnozzi che avevano saputo dall’albergatore che il loro capo si era portato in camera la bella maestra di Breno, con la quale aveva passato la notte.
All’apparire del Manucelli stavano per applaudirlo per la nuova avventura, ma rimasero bloccati nel vederlo invecchiato di 10 anni, bianco in volto, con un paio di occhiaie violacee e quasi incapace di restare diritto. Che femmina doveva essere quella maestra signora Lucia per essere riuscita a ridurre il leggendario Segretario Provinciale in quelle condizioni!

(continua)