Rubriche- Pagina 45

“L’orto fascista” Romanzo / 6

ERNESTO MASINA

L’Orto Fascista

Romanzo

PIETRO MACCHIONE EDITORE

 

In copertina:
Breno, Piazza Generale Ronchi, già Piazza del Mercato, fotografia d’epoca.

 

XVIII

Pensò a lungo come affrontare quella che poteva considerare, visto quello che era accaduto, la… “donna dei suoi sogni”. Davanti allo specchio dell’anta dell’armadio in camera, e in assenza di Bernd, mimò una serie di approcci. Ma tutti gli sembrarono puerili e ridicoli. In fin dei conti lui era un uomo d’armi e da duro doveva comportarsi. L’avrebbe affrontata proponendole un incontro nella sua camera e che andasse come andasse. Presa questa decisione uscì baldanzosamente dalla stanza andando quasi a scontrarsi con Benedetta che nella stanza stava per entra- re. Provvidenza divina! Ancora caricato dalla decisione presa, le disse sussurrando, ma con fermezza: “Vuoi fare, come dite, sesso con io?” Lei, tutta rossa, lo guardò meravigliata negli occhi: “Sì” sussurrò, pentendosi subito per l’eccessiva disponibilità dimostrata, lusingata dalla richiesta dell’uomo. “Quando?” disse lui. “Forse domani sera?” chiese lei, appagata dal fatto che le fosse stata data la possibilità di scegliere. “Molto bene” disse lui. “Ore 21 e metà, se per te bene”. Senza attendere risposta Franz girò sui tacchi e si allontanò verso le scale. – E’ fatta – pensò. – Speriamo bene! –

XIX

La mattina seguente Benedetta non andò, come tutti i giovedì, a lavorare in albergo. Un giorno alla settimana la sostituiva Ornella, la figlia minore dei proprietari. Si alzò comunque molto presto, dopo una notte agitata. Aveva sognato, quando era riuscita a prendere sonno, situazioni strane ed allucinanti. – Che sia la mia coscienza che si rivolta per la decisione che ho preso? – pensò e, subito dopo, – Come troverò il corag- gio alla prossima confessione di raccontare le mie colpe? – Ma ciò che le stava capitando era troppo intrigante per lasciarsi invischiare in preoccupazioni e tentennamenti. In fin dei conti aveva sopportato, a volte con vera sofferenza, anni ed anni di castità rifiutando tutte le occasioni che le si erano presentate. – Il buon Dio capirà – concluse. – A suo tempo penserò come affrontare il confessore… – Per prima cosa si lavò i capelli, cercando, mentre lenta- mente si asciugavano, di dare loro una piega passabile. Aveva ancora in casa il vecchio strumento che sua mam- ma usava per arricciarli quando lei era ancora bambina. Una specie di forbice che al posto delle lame aveva due pezzi di ferro tondeggianti. Scaldati sul fuoco, intorno a loro venivano avvolte ciocche di capelli. I ferri venivano poi girati sino a raggiungerne la radice. L’importante era riuscire a raggiungere la giusta temperatura. Se era troppo bassa non serviva a nulla, se troppo alta poteva strinare i capelli cambiandone il colore. Quando fu soddisfatta della piega presa ed aver assestato qualche sforbiciata alle ciocche ribelli, prese dall’armadio i tre vestiti che possedeva e li stese sul letto. Solo uno non presentava i segni dell’età e qualche lisatura. Quindi solo quello avrebbe potuto indossare per l’incontro. Per fortuna l’abito, di un lieve colore celeste, era anche quello che le stava meglio e più si adattava alla sua carnagione rosea. Il grosso problema fu quello della biancheria intima. Era tutta in uno stato pietoso. L’unica soluzione sarebbe stata quella di acquistarne della nuova ma, a parte che in quei giorni era in grosse ristrettezze finanziarie avvicinandosi il giorno del pagamento dell’affitto, andare dalla merciaia per acquistare biancheria intima significava ammettere che ne aveva bisogno per presentarsi ad un uomo. Proprio con quella pettegola dell’Antonietta che l’avrebbe raccontato a mezzo paese, pensò.
– Sotto il vestito non metterò niente – si disse. – Così non ci saranno intralci e i preamboli si consumeranno più velocemente. –
Infatti quello che più temeva era il momento in cui si sarebbe presentata al tedesco, che, magari, la avrebbe attesa con la luce accesa.
Nei dodici anni che aveva passato con l’Angiolino non si era mai fatta vedere, in piena luce, del tutto nuda. Quando il suo sposo, e succedeva spesso, non usciva per andare al bar, voleva dire che aveva voglia di fare all’amore. E allora, senza dire neppure una parola, dopo aver rigovernato la cucina, andava in camera da letto, si metteva sotto le lenzuola in posizione di attesa. L’Angiolino, come quasi tutti gli uomini, d’altra parte, non si preoccupava se e quanto piacere procurasse alla moglie e se questa simulasse o meno un orgasmo. Come un fatto prettamente naturale, scaricava, con un grugnito anima- lesco, il suo desiderio. Un frettoloso bacio della buona notte e si girava dall’altra parte. Dopo pochi minuti si addormentava russando.

Benedetta non aveva mai preteso o cercato qualche soluzione che la appagasse in qualche modo e non la facesse sentire un semplice oggetto. Non ci aveva neanche mai pensato. Le era stato insegnato che le donne esistevano per servire, appagare i mariti e dar loro dei figli. “Rice- vere” il marito e lasciare che soddisfacesse le proprie voglie faceva parte dei suo compiti.
Per tutta la giornata non uscì di casa. Continuava a fare lavoretti inutili mentre il nervosismo le montava addosso. Cercava di non pensare alla sera ma ricadeva sempre sullo stesso pensiero. Forse, anche per rilassarsi avrebbe potuto recitare un rosario. Ma non poteva chiedere alla Madonna che facesse andare bene il compiersi di un peccato. Le sembrava un controsenso. Dopo aver cenato con un pezzo di pane e un po’ di for- maggio – non aveva assolutamente appetito – si sciacquò più volte la bocca. – Mi bacerà? – si chiese pensando anche se non fosse il caso di lavarla con acqua e sapone. Poi decise che, uscendo di casa per andare all’appunta- mento, avrebbe masticato un paio di foglie della pianta di menta che aveva sul davanzale, per essere sicura di avere un alito fresco. Sorrise tra sé: questa era veramente una buona idea. Quando il campanile suonò i rintocchi delle 21 e 15, e stava per iniziare il coprifuoco, uscì di casa avvolgendosi intorno alla testa e alle spalle uno scialle nero, per cercare di nascondersi ad eventuali occhi indiscreti e per ripararsi da una pioggerellina gelida che aveva cominciato a cadere. Non tremava ma non riusciva a governare bene le proprie membra, tanto era il nervosismo che l’aveva presa. Aveva deciso di non passare per la strada principale per raggiungere l’albergo. Aveva preso la stradina che costeggiava il retro della villa De Michelis, poi a sinistra verso il lavatoio. Salì i cinque scalini che portavano alla piazza ma non la attraversò. Girò davanti alla casa dei fratelli Silestrini, passò davanti alla latteria e quindi, raggiunta la casa dei Romelli, sempre costeggiando il lato sud della piazza, dopo pochi passi entrò nel portone che portava al retro dell’albergo Fumo verso i campi da bocce.
Da qui tutto fu più semplice. La strada all’interno del- l’albergo la conosceva a memoria, tante erano le volte che ne aveva percorso scale e corridoi. Il buio non le creava alcun impedimento.
Iniziò a salire le scale quando il campanile suonò la mezza. Giunta al primo pianerottolo fu presa da un at- tacco di panico. Non riusciva quasi più a respirare e sudava abbondantemente. Si sedette sugli scalini cercando di riacquistare la calma. Piano piano ci riuscì, ma ancora non era sicura che le gambe la reggessero. Con lo scialle umido si asciugò il sudore dal viso. Annusò le ascelle per accertarsi che queste non mandassero odore. Si tolse le scarpe per compiere la stessa ispezione. Quindi riprese la salita a piedi nudi. I muscoli delle gambe, sep- pure un po’ contratti, adesso rispondevano bene.

 

XX

Il Russì aveva prelevato due candelotti avvolti nella tela cerata dal gabbiotto degli attrezzi dell’Orto Fascista senza accorgersi della presenza del terzo che era uscito dall’involucro. Li aveva nascosti sotto il tabarro e si era avviato verso la Piazza Mercato con molta circospezione. Improvvisa- mente da una porticina era sbucata una donna con la testa e le spalle avvolte in un lungo scialle. Per non ess re visto si nascose nell’ombra di un portone. – Qualcuna che va a vegliare qualche malato – aveva pensato. La sera era fredda e quella pioggerellina gli dava fastidio e qualche preoccupazione. Temeva che le micce soffrisse- ro l’umidità e potessero non bruciare bene. Continuò verso la piazza e si fermò nella zona d’ombra del lavatoio. Avrebbe atteso che tutte le ante delle fine- stre che davano sulla piazza venissero chiuse. Luce non ne sarebbe filtrata, essendo tutte mascherate per rispettare l’oscuramento.

XXI

Franz occupava l’ultima stanza a destra del corridoio che si affacciava sulla piazza. Il corridoio le sembrò interminabile, ma si accorse che ad ogni passo diventava più sicura di sé, come se camminare la ricaricasse. La porta della stanza era socchiusa e la luce che proveniva, probabilmente dalla abat-jour del comodino, illuminava una striscia del corridoio, quasi fosse un raggio di quel “fanal” nella traduzione di “Lili Marleen”, la struggente canzone d’amore e di guerra che in quel tempo era sulla bocca di tutti. Quel ricordo fece pensare a Benedetta che forse il suo non sarebbe stato un gesto pretta- mente fisico ma quasi un atto di carità verso quell’uomo da tanto, troppo tempo lontano da casa, a una età nella quale gli affetti, la tenerezza e la presenza dei famigliari, e soprattutto di una donna, assumono una grande importanza. Sentì che quello che stava per fare non era del tutto male e che rifiutarsi avrebbe voluto dire negare a Franz conforto ed aiuto.

XXII

Ripassò il piano che si era preparato. Sistemati i due candelotti di dinamite sotto la parte posteriore della vetturetta, avrebbe dato fuoco alle micce e sarebbe corso, il più velocemente possibile, nell’androne che portava al fienile dove l’Isaia, il macellaio, teneva le bestie di notte prima di macellarle all’alba. Nel fienile avrebbe passato la notte in quanto era troppo rischioso cercare di raggiungere la propria baita fuori paese. La mattina avrebbe deciso il da farsi.

(Continua…)

 

“Cronaca di un amore non corrisposto”

LIBRI / A Sestri Levante viene presentato il libro del giornalista torinese Carlo Buonerba

 

Sestri Levante, la città dei due mari, affacciata sulle due meravigliose baie “delle Favole” e del “Silenzio” è stata scelta dal giornalista e scrittore Carlo Buonerba per la presentazione del suo romanzo dal titolo “Cronaca di un amore non corrisposto ( Rossini Editore ), in programma giovedì 29 luglio prossimo, alle 18.30, in piazza Ex Lavoratori F.I.T. 5, Condurrà l’incontro il giornalista e critico cinematografico Matteo Fantozzi e vi interverrà, oltre l’autore, anche lo psicologo e psicoterapeuta Giovanni Rossi, attivo nella professione a Nizza.
“Cronaca di un amore non corrisposto” rappresenta una narrazione autobiografica condotta in prima persona dal protagonista Federico Spes, ingegnere nelle comunicazioni e insegnante, da alcuni anni, in un liceo nella provincia di Milano. L’opera non vuol essere un romanzo di formazione, ma la cronaca di un amore e, in comune con questo genere letterario, di cui abbiamo esempi anche in autori stranieri come Gabriel Garcia Marquez (Cronaca di una morte annunciata), presenta la forma di narrazione storica degli eventi, qui scritti sotto forma di diario.
In realtà però in questo libro la cronaca si arricchisce di dimensioni nuove, non soltanto perché a scriverla è un collaudato e esperto giornalista, ma perché riguarda il sentimento amoroso e, di fronte a questo, il lettore non può rimanere indifferente.
La forma diaristica del libro assume anche tratti intimistici e il protagonista, alter ego dell’autore, dimostra una forte risolutezza nello scrivere i passaggi di un sentimento amoroso, che contraddistingue il suo rapporto con Raffaella e che non verrà corrisposto. Un amore, insomma, impossibile, che non lo condurrà, tuttavia, ad arrendersi, ma a proseguire nella sua missione.
Il sentimento amoroso guida il protagonista, gli fornisce quella energia vitale capace di accettare nuove sfide, anche in un periodo difficile come quello pandemico ( il romanzo inizia ad essere composto nel 2019 e termina nell’aprile del 2020). La scrittura, come per altri autori, anche per il protagonista e per il nostro scrittore, diventa uno strumento per destare l’attenzione dell’amata e per riflettere sulla nascita di un sentimento, quello amoroso, su cui tanti pensatori, in epoche diverse, si sono interrogati.
Il protagonista Federico Spes pare a tratti dimostrarci che il confine tra il sentimento amicale e quello amoroso tra un uomo e una donna può diventare labile e che nella società contemporanea i rapporti interpersonali non risultano sempre facilitati dalle modernissime tecnologie. La messaggistica, come quella WhatsApp, a differenza delle telefonate e dei colloqui dal vivo, può ingenerare a volte equivoci, sia in campo professionale sia quello privato, e in questa società che il sociologo Bauman aveva definito sempre “più liquida”, anche le espressioni più semplici e gentili possono venire fraintese.
Tuttavia l’eredità che lascia un amore non corrisposto rimane presente non solo nell’arricchimento che un simile sentimento può apportare nel protagonista, ma anche nell’insegnamento che gli fornisce, spronandolo a non abbandonare mai il cammino, anche quando questo risulta irto e difficoltoso, perché non si può raggiungere l’alba senza passare prima lungo i sentieri della notte.

Mara Martellotta

No vax e libertà: prima il bene della Nazione

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni

Vengo letteralmente aggredito dai no Vax e dai loro accoliti perchè difendo le ragioni della vaccinazione di massa e il green – pass.

Solo così ritorneremo a godere delle nostre libertà che la pandemia ha ridotto e in alcuni casi annullato.

E’  una sensazione molto particolare  quella che provo:  mi suona strano essere accusato di intolleranza;  per uno come me che si è sempre battuto per la libertà e la tolleranza  ed ha subito l’intolleranza e la ghettizzazione proprio perchè libero , sembra quasi impossibile dover  leggere certe parole offensive e false. Ma la pandemia altera la  testa di molti, quei molti il cui comportamento irresponsabile porta alle restrizioni contro le quali gli stessi fanatici  scendono follemente in piazza, creando pericolosi assembramenti. E’  spesso gente piuttosto  ignorante che non sa nulla di storia e delle vaccinazioni che hanno salvato l’umanità. Basterebbe anche solo aver letto Manzoni che descrive la peste, ma questa gente non ha mai studiato nulla .Sono istintivi ,quasi  selvaggi ,  decisamente asociali, gente  che dovrebbe vivere in una selva  e non una comunità civile. L’art. 32 della Costituzione, a parere dei più illustri costituzionalisti, consente un trattamento sanitario forzato per ragioni di tutela della salute pubblica. Di fronte alla pandemia ci vogliono autodisciplina e civismo, due cose che sovente non ci sono. Il bene della Nazione , ricorderei alla destra , deve sempre prevalere La Nazione, la Patria, non il paese. Oggi la destra ha dimenticato il dovere di essere patrioti. I liberali veri hanno innato il senso dello Stato che il liberalismo risorgimentale ha creato cento sessant’anni fa. Sono anarchici senza saperlo . Il liberale Popper diceva che gli intolleranti non vanno tollerati. I fanatici che mettono a repentaglio la propria vita e quella degli altri non sono tollerabili in una libera democrazia in cui vale il rispetto dei diritti , ma anche quello dei doveri.  La libertà è responsabilità, altrimenti è licenza libertina ed anarcoide.
Io mi sono sottoposto a decine  di vaccinazioni quando ero bambino e durante i miei numerosi viaggi all’estero che lo imponevano in modo tassativo.
Oggi siamo in guerra contro un virus che ha fatto milioni di morti e mi sento come un soldato con le stellette richiamato in trincea a combattere con la penna per convincere alla responsabilità  e per  rintuzzare le bestialità che leggo. La pandemia ci ha resi peggiori , molto peggiori . Oltre un anno fa richiamavo il detto di Hobbes tratto da Plauto  Homo homini lupus. Ci stiamo  purtroppo arrivando. Stanno seminando la discordia sociale, seminando la paura del tutto fuori luogo di poter perdere la libertà. La vita e la libertà sono a volte due opzioni antitetiche che l’uomo si trova costretto a fare. “Libertà va cercando ch’e’ si’cara come sa chi per lei vita rifiuta“, come scrive Dante. La vita senza libertà non è meritevole di essere vissuta .In alcune occasioni storiche è richiesto agli uomini non banali il sacrificio della vita per la libertà. Così sono nati gli eroi. Ma in questo contesto, pur molto  drammatico, non ci sono possibilità di  scelta di questo tipo che apparirebbero ridicole  perché la  scelta è  oggi una sola : salvare la vita e la libertà, non dando retta alle Cassandre che per motivi di abietto interesse elettorale creano  panico sui vaccini, avvalendosi dei social in modo irresponsabile. Io non credo che un uomo come Draghi possa attentare alle libertà costituzionali . L’ho temuto  più volte con il governo giallo – rosso precedente , ma oggi l’unico reale pericolo contro cui concentrare ogni sforzo è combattere il virus, salvando vite umane .

L’isola del libro

Rubrica settimanale a cura di Laura Goria

Fabio Genovesi “Il calamaro gigante” -Feltrinelli- euro 14,00

E’ dai tempi delle elementari che Fabio Genovesi covava l’idea di scrivere questo libro: da quando la maestra chiese di disegnare l’animale preferito e lui tratteggiò un calamaro gigante, suscitando l’ilarità dei compagni che lanciarono oggetti vari di cancelleria contro di lui e il suo disegno.
Aneddoto divertente che prelude a 141 pagine dedicate all’animale che contiene inchiostro nero e lucido, molto più che un fantastico parto della fantasia dello scrittore toscano.
Genovesi imbastisce la sua vera storia e quella delle persone che nei secoli hanno creduto nella sua esistenza, l’hanno cercato o incontrato di persona.
Il romanzo è anche un inno al mare, che è al centro del mondo, occupa i tre quarti del pianeta che chiamiamo terra, ma che sarebbe più onesto chiamare mare.
Di lui «..non sappiamo nulla» è l’incipit del libro che smaschera subito la nostra ignoranza; perché anche se pensiamo di conoscerlo, in realtà ne vediamo solo la superficie. La verità è che più della metà del mare ha fondali profondi oltre 3000 metri… e forse conosciamo meglio la superficie di Venere che non le immense meraviglie subacquee.
Genovesi ci incanta con le storie di antiche navi; come l ‘Alecton che un secolo e mezzo fa avvistò una cosa immensa come l’orizzonte, anzi «… è proprio l’orizzonte intero. Smisurata e scura, affiora e sparisce, affiora e sparisce».
Il capitano Bouyer e i 66 uomini dell’equipaggio, che erano anche militari, si avvicinarono alla misteriosa “cosa” e la presero a cannonate. Ma lei sparì, per poi spuntare di nuovo e infine avvolgere la nave.
«E’ molle, immensa, e forse ingoierà la nave come ha ingoiato le palle di cannone, le fucilate e ora gli arpioni, che le passano attraverso, ci spariscono dentro e chissà dove finiscono».
Il resto sono pagine che testimoniano avvistamenti di polpi giganti, ritrovamenti affascinanti di reperti preistorici. Storie di pescatori ed esploratori, pericoli scampati dai marinai di tutte le epoche, avvistamenti di simil-calamari lunghi anche 17 metri, da una parte all’altra del mondo, da Terranova alla Nuova Zelanda.
Un libro destinato ad affascinare non solo chi ama il mare, perché passando per un autobiografismo leggero, veleggia verso piccole dosi di leggenda, diventa metafora dell’avventura, dell’invenzione, dell’attrazione per il nuovo e l’inspiegabile.

Melissa Da Costa “I quaderni botanici di Madame Lucie” – Rizzoli- euro 18,00

Questo è il secondo romanzo della scrittrice francese, che nella vita è anche addetta alla comunicazione in ambito energetico e climatico.
Protagonista è la 30enne Amande Luzin, distrutta dalla morte improvvisa dell’amato marito Benjamin -col quale aveva vissuto 4 anni di profondo amore- e dalla traumatica perdita -all’inizio dell’ottavo mese di gravidanza- della bambina che aspettavano e che avrebbe dovuto chiamarsi Manon.
Due lutti devastanti che spingono Amande a rifugiarsi lontana da tutto e da tutti in una casa sperduta nella campagna dell’Auvergne.

Si chiude al buio e rifugge luce e qualsiasi contatto umano; perché solo così, in questa sorta di rifugio, a poco a poco inizia ad elaborare il lutto che ha schiantato la sua anima e la sua vita.
Poi qualcosa accade ed ha del prodigioso.
Nella casa che era di Lucie -anziana signora morta qualche anno prima, ereditata e affittata dalla figlia- Amande trova i calendari in cui la padrona di casa aveva accuratamene annotato tempi e metodi per rendere rigoglioso il giardino ….e molto altro.
Madame Hugues, con calligrafia arrotondata ed elegante, aveva riempito 10 anni di calendari e della sua vita. Appunti e indicazioni semplici, come l’arare il terreno, quando e cosa seminare, e anche alcune ricette per preparare torte e marmellate.

Madame Lucie conosceva tutto dei ritmi della natura, della terra e della luna che la governa silenziosamente e il suo lascito finirà per avere una sorta di potere terapeutico su Amande e il suo strazio.
Immersa in un dolore senza fondo, nel più assoluto silenzio e isolamento, Amande aspetta, impara, legge le indicazioni della precedente inquilina e inizia a seguirle.

A poco a poco – tra immersione nella natura, ricordi di Ben e della loro magnifica storia, timidi contatti con i suoceri e accettazione della gravidanza della cognata- Amande impara a convivere con la perdita e, a piccoli passi e piccole semine, riesce ad assorbire il devastante dolore, e si riapre alla vita.

Un bellissimo racconto dell’anima che tocca corde profonde in ognuno di noi…e ci svela come coltivare la terra offra col tempo l’appiglio per riparare le ferite inferte dalla vita e dal destino.

 

Aldo Cazzullo “Le italiane” – Solferino- euro 18,00

Lo scrittore, inviato ed editorialista del “Corriere della sera”, in questo libro ci racconta l’italico paese salvato dalle donne e compone una carrellata di nomi eccellenti che hanno segnato pagine importanti della storia del nostro paese. Stato che è ancora maschilista sullo sfondo di un’Europa che invece alle donne ha offerto incarichi al vertice: la Merkel a capo del governo tedesco, Ursula von der Leyen presidente della Commissione europea e Christine Lagarde della Banca Centrale
In Italia siamo lontani da queste mete, ma ciò non toglie che anche noi abbiamo avuto e abbiamo tutt’ora le nostre eccellenze.
Convinto che siano le donne a custodire l’identità italiana, Cazzullo ripercorre le vite di donne di spicco. A partire dalle centenarie Rita Levi Montalcini e Franca Valeri, Franca Ciampi e Marida Recchi; donne di cui riassume esistenze e gesta. Ma è affascinato anche dalla sorprendente longevità di nonnine straniere che hanno spento 122 candeline come la francese Jeanne Calment, o119 come l’americana Sarah Knauss….primati ai quali nessun uomo si è ancora mai avvicinato.

Poi scorrono le imprese di giovani coraggiose e dalla tempra d’acciaio, come Bebe Vio mai arresasi all’infermità; le olimpioniche tra cui Valentina Vezzali e Federica Pellegrini; e ancora il fenomeno Chiara Ferragni che -piaccia o meno- si è inventata un lavoro che non c’era diventando una sorta di idolo dalla vita fiabesca a cui si ispirano frotte di followers.
Non dimentica le attrici: da Monica Bellucci a Laura Morante e Vittoria Puccini, passando per Stefania Sandrelli ed altre icone che ha conosciuto e intervistato. Racconta anche le cantanti, le donne di potere e sante ed eroine in ordine sparso.
Tra le pagine più interessanti, quelle dedicate a donne che si sono mosse brillantemente nel mondo della cultura, con intelligenza e lungimiranza.
Da Inge Feltrinelli, la cui vita incredibile ha attraversato la tragedia della morte violenta del marito, ma le ha anche messo lungo la strada incontri unici. Con geni come Gabriel García Márquez, con leader come Fidel Castro e l’affascinante presidente americano John F.Kennedy che fotografò dopo essersi imbucata a una festa.
La scommessa editoriale vinta da un’altra donna fenomenale, la siciliana Elvira Sellerio. E gli aneddoti fanno luce anche sulle vite di scrittrici, tra le quali, Dacia Maraini e Fernanda Pivano che tradusse e fece conoscere in Italia i massimi scrittori della Beat Generation e fu amica di Ernest Hemingway.

Camilla Läckberg “Il gioco della notte” -Einaudi- euro 14,00

Al centro dell’ultimo libro della giallista svedese, sempre in cima alle classifiche, questa volta ci sono 4 adolescenti parecchio problematici e …pericolosi.
La storia è ambientata durante una festa di Capodanno a Stoccolma, nel quartiere più lussuoso della città che vanta ville magnifiche.
Un ambiente dorato nel quale sono cresciuti Liv, Max, Martina e Anton, che stanno festeggiando a casa di Max; mentre nella villa accanto i loro genitori si lasciano andare ad alcol ed eccessi vari.
Quello che immortala qui la scrittrice è un mondo di ricchi privilegi, ma anche noia, sballo, desiderio di emozioni forti e brivido. E dietro i lustrini e i discorsi vuoti si apre il baratro della decadenza morale di una classe sociale che brilla quanto ad apparenza, ma dietro le quinte nasconde l’incapacità di relazione autentiche.

E’ con un fine scandaglio psicologico che la Läckberg imbastisce una trama in continuo crescendo di suspence.
Max è il leader del gruppo, figlio di un ricco banchiere, è fidanzato con la popolare e desiderata Martina, bella, bionda, e popolare sui social.
Poi c’è Anton che vive all’ombra di Max, ed è innamorato di Liv, che a sua volta è l’appendice della più brillante Martina.
Hanno tutta la vita davanti, ma ognuno di loro cova qualche segreto dietro le apparenze; uno è il più terribile di tutti, quello che ha profondamente danneggiato Liv.

La serata festaiola inizia con giochi banali per ammazzare il tempo, alcol, scommesse e qualche cattiveria. Poi dopo numerosi shottini il gioco “Obbligo o verità” fa virare l’atmosfera. Tutto cambia quando Liv lascia andare gli argini e racconta agli amici il buco nero della sua vita.
E’ l’inizio di una sorta di resa di conti in cui questi giovani, cresciuti nel lusso materiale, ma nel deserto affettivo, svelano i tristi retroscena delle loro vite.
Emerge, potente e corrosivo, tutto il loro odio per quei genitori vuoti e disattenti che si beano delle loro aziende, delle macchine, dei viaggi e spettegolano su quelli che ritengono dei falliti.
In realtà tra questi adulti ci sono familiari violenti o complici della violenza, altri alcolizzati, altri ancora
dediti a tradimenti coniugali, e poi bancarotte e debiti abissali. E da queste rivelazioni scatta l’idea di un finale che lascio a voi scoprire.

“L’orto fascista” Romanzo / 5

ERNESTO MASINA

L’Orto Fascista

Romanzo

PIETRO MACCHIONE EDITORE

 

In copertina:
Breno, Piazza Generale Ronchi, già Piazza del Mercato, fotografia d’epoca.

 

XIV

Aveva parlato ai bambini e loro avevano accettato con entusiasmo. Il gioco e l’avventura li intrigava. Avevano eseguito le indicazioni del farmacista e si erano incontrati con il Russì. Preso il pacchetto di concime, lo avevano appoggiato in fondo al sacco da montagna e lo avevano ricoperto con delle foglie di fico e, sopra, quattro o cinque porcini che avevano raccolto.
Presa la strada per il paese, scesa la via S. Antonio, supera- to il “crusal”, erano giunti in piazza Mercato. Poi, giù verso il fiume, erano arrivati al gabbiotto dell’Orto Fascista.
Ernesto, che era diventato un po’ il sostituto della maestra nella conduzione dei lavori e aveva la chiave del lucchetto, aprì la porticina.
Estrassero il pacchetto di concime dallo zaino e stavano per riporlo nel gabbiotto quando furono bloccati da quattro braccia robuste e ricoperte da una camicia nera. I proprietari delle braccia si impossessarono del pacchetto e tenendo ciascuno con una mano il collo di uno dei ragazzini, li costrinsero a seguirli sino alla Casa del Fa- scio, ove aveva sede il comando della Brigata Muti.
Qui i due ragazzi vennero legati strettamente ciascuno ad una sedia, in attesa che qualcuno cominciasse l’interrogatorio.
Furono preparati pinze per strappare le unghie, ferri da arroventare per marchiare chissà dove i ragazzi, spilloni per poter continuare le torture.
Di fronte a Ernesto e Mario, pure lui legato strettamente ad una sedia, vi era il Temperini, un Temperini tutto tremante ed ansimante.
Era sicuro che i suoi compagni di prigionia, sotto tortura, avrebbero spifferato tutto ai fascisti e lui sarebbe finito in un bel casino. Avrebbero sicuramente iniziato a torturarlo per conoscere il nome dei suoi complici, e lui sapeva di essere un vigliacco e di non sopportare il dolore. Li avrebbe denunciati e sarebbe passato alla storia co- me un traditore. Purtroppo, per chissà quanto tempo, qualcuno avrebbe ricordato la storia di quel fetente di farmacista che aveva, con le sue pretese da rivoluzionario, incasinato il paese e con la sua vigliaccheria mandato al patibolo almeno due dei più onesti e valorosi paesani.

Si guardò ancora in giro per illudersi di avere una possibilità di fuga. Le due finestrelle che illuminavano a sten- to la piccola stanza erano ad almeno tre metri dal pavimento. La porta era in pesante legno con una serratura a quattro mandate. Improvvisamente vi fu un forte rumore, come se qualcuno picchiasse violentemente contro la porta, e il farmacista pensò che stessero arrivando i suoi aguzzini. Il bussare continuò sempre più violento sino a quando, finalmente, il Temperini si svegliò dall’incubo, bagnato completamente di sudore.
Si alzò dal lettino, che era stato messo nel retro della farmacia per le notti di turno, si mise la vestaglia e si diresse verso il portoncino d’ingresso con le gambe che mal lo sostenevano. Aveva la bocca amara e la testa che gli doleva. Riusciva a tenere a malapena gli occhi aperti: quasi fosse reduce da una notte di grandi bevute. Aprì lo spioncino e per poco non gli venne una sincope: al di là della porta un viso arcinoto, quello dell’Hauptmann Reserve Franz. Questi guardò il viso terreo del farmacista con una strana espressione, poi tentò di sorridere e indicò al Temperini il gonfiore che aveva sotto la guancia destra. “Come dite voi? Scesso? Io molto dolore, non dormire. Possibile cachet? Scusare per disturbo. Grazie”. Aveva parlato tutto d’un fiato come se avesse preparato il discorso in anticipo scegliendo con cura tra le poche parole di italiano che conosceva.
Il farmacista non si scostava dalla porta, non riusciva proprio a comandare le gambe. Non sapeva come fare. Poi raccolse tutte le sue forze, fece un mezzo sorriso al tedesco, andò al banco, aprì un cassetto, prese una manciata di cachets e li mise in un sacchettino di carta. Ritornò alla porta e, attraverso lo spioncino, passò il sacchetto al tedesco.
“Gratis” disse con un altro mezzo sorriso, richiuse lo spioncino e andò a sedersi sulla sedia più vicina. Non aveva mai conosciuto il terrore ma adesso sapeva cosa fosse: si sentiva vuoto dentro, senza capacità di ragiona- mento né di difesa, incapace di muovere gambe e braccia mentre una paura angosciante lo avvolgeva tutto e lo faceva tremare e sudare.
Ma come avevano potuto pensare, lui ed il Russì, di coinvolgere in un fatto tanto grave dei bambini! Usarli, mettendoli in pericolo per raggiungere i loro scopi. Di una sola cosa ora era sicuro: mai e poi mai i bambini sarebbero stati coinvolti, anche a costo di abbandonare l’idea o di litigare con il suo amico.

 

XV

Un milite della Muti aveva iniziato a frequentare alla sera il bar Monte Grappa. Abitualmente si sedeva ad un tavolino, ordinava da bere e cercava di attaccare discorso con qualcuno degli avventori. Quasi sempre con scarso successo. I clienti non riuscivano a capire questa assidua presenza in un luogo a lui ostile e temevano che il milite avesse avuto ordine di tenere le orecchie bene aperte e cercare di carpire qualche
notizia compromettente. Una sera, dopo aver bevuto più del solito, e forse per cercare di attirare un po’ di attenzione, chiese al proprietario se tra i clienti fosse presente il Russì. Ricevuta risposta negativa soggiunse: “E fa bene a non farsi vedere troppo in giro. Lo teniamo sotto controllo e se lo becchiamo ad aiutare quegli stronzi di partigiani lo facciamo fuori”.
Il gelo cadde nel locale. Tutti avevano, o avevano avuto, rapporti col Russì. Tutti lo stimavano. Conoscendone il carattere e le idee politiche erano quasi sicuri che lui, se ne avesse avuta occasione, avrebbe aiutato chi stava lottando contro i tedeschi ed il Regime fascista. Il Russì fu immediatamente avvisato e se si spaventò non lo diede a vedere. Pregò chi gli aveva portato la notizia, un amico fidato, di avvisare il farmacista che aveva urgente bisogno di parlargli e di farsi trovare, se poteva, verso le 16 dal tabaccaio. Doveva assolutamente sembrare un incontro occasionale.
Dopo il sogno, il Temperini aveva preteso dal Russì, e questi aveva accettato subito, che i due ragazzi non sarebbero stati coinvolti. In effetti, anche lui ci aveva già pensato ed era giunto alla conclusione che se fosse successo qualche cosa al Mario e all’Ernesto, si sarebbero sentiti dei vermi e sarebbero stati emarginati da tutti gli abitanti del paese.
– Come ho fatto a pensare una cosa così folle? – si era detto. Al farmacista aveva promesso che si sarebbe interessato personalmente del trasporto dell’esplosivo in paese appena avesse trovato un luogo sicuro dove nasconderlo. Quando si incontrarono, anche il Temperini sapeva già quanto era stato detto dal milite.
“Non posso più farlo io” aveva detto il Russì senza preamboli. “Se mi stanno alla calcagna mi beccano subito. Purtroppo, caro amico, ci sono poche alternative. Deve farlo lei. Vedrà che organizzeremo in modo che non ci siano pericoli. Ci pensi e mi faccia sapere se accetta.” E se ne andò.

 

XVI

Il piano sembrava ben pensato. Martin Bascià aveva accettato di diventare uno dei protagonisti nella preparazione dell’attentato. Una mattina, all’alba, aveva raggiunto l’Orto Fascista e, accertatosi che nessuno lo vedesse, si era avvicinato alla piccola costruzione ove erano riposti gli attrezzi e aveva allentato le viti che sostenevano le pia- strine del catenaccio in modo che potessero essere rimosse a mani nude. Attaccato l’asino al carretto, aveva carica- to sul pianale una sedia rotta, una poltrona sfondata e qualche altro oggetto, tanto per far scena. Era quindi partito verso Pescarzo sulla strada che passava davanti alla chiesa di S. Maurizio. Pochi metri prima di trovarsi all’al-ezza della chiesa aveva fermato l’asino e si era chinato vicino alla ruota di sinistra del carretto, come a verificare se vi fossero problemi. In effetti aveva rimosso il forcellone che teneva la ruota ancorata al mozzo. Incitò l’asino e riprese la marcia ma, come aveva previsto, dopo pochi metri la ruota si staccò dal mozzo ed il carretto si inclinò sino a toccare terra con il fondo della sponda sinistra. Martin si mise ad urlare, fu una vera e propria sceneggiata. Imprecava e bestemmiava contro la mala sorte. Alle sue imprecazioni arrivarono di corsa tre uomini che, ben celati dagli alberi del vicino bosco, non aspettavano che quel segnale per fingere di arrivare in luogo solo per caso. Discusse con loro per qualche minuto, si caricò la ruota sulle spalle, prese un martello, salì i tre scalini antistanti il portico della chiesa, appoggiò la ruota sul lastricato e con il martello fece finta di ridare forma al cerchio che ricopriva il telaio in legno. Martellò, si fermò per riposarsi, parlò con i soccorritori che intanto stavano vuotando il pianale del carretto, diede altre due martellate e quindi sparì dietro il muretto del portico, sollevò il piastrellone che gli era stato indicato, si mise tre candelotti di dinamite sotto la giacca – uno in più può sempre servire, ce ne sono tanti! – rimise a posto il piastrellone, diede altri due inutili colpi al cerchio di ferro e scese gli scalini ritornando al mezzo. I tre aiutanti sollevarono la sponda del carretto e Martino rimise a posto la ruota ed il mollettone che la teneva ancorata al mozzo. Si rivolse ai tre uomini che lo avevano aiutato, prese dalla tasca il portafoglio, mimò di volerli pagare e loro rifiutarono; allora prese da un sacchetto che teneva legato ad una delle stanghe tre bottiglie di vino e le diede ai soc- corritori. Grandi sorrisi, ringraziamenti e pacche sulle spalle, i tre se ne andarono. Neppure loro si erano accorti di quello che aveva fatto Martin Bascià sotto il portico della chiesa. Rimasero perplessi e curiosi sulle ragioni della stranissima richiesta ricevuta.
– Quel Martin Bascià è veramente un po’ matto – pensa- rono e forse lo dissero tra loro. Lui, fischiettando, riprese il suo andare. Quando arrivò alle porte del paese si imbatté nel Temperini. Grandi saluti, il farmacista offrì una sigaretta, appese la giacca da cacciatore sul carro, si appoggiarono alla sponda e iniziarono a chiacchierare. Mentre parlavano Martino si aggirava intorno al carro simulando di mettere a posto le cose che trasportava, spostò anche la giacca del farmaci- sta facendola cadere, volutamente, a terra. Si chinò prontamente a raccoglierla. Mentre si trovava piegato mise i tre candelotti nella tasca posteriore della giacca, quella nella quale il cacciatore abitualmente ripone la selvaggina catturata, sfruttando il fatto che metà visuale era coperta dal carro, un quarto dal Temperini e l’altro qua to dalla sua schiena. Si scusò con il farmacista togliendo con leggeri colpi di mano quel poco di polvere che la giacca aveva raccolto dal terreno e quindi la porse al proprietario. Si salutarono con grande effusione e con gran- di sorrisi da parte di Martin che, ovviamente, era molto soddisfatto per come erano andate le cose.

Il farmacista invece aveva la bocca secca ed amarognola, un forte senso di nausea gli saliva dallo stomaco, le gambe, si accorse, non lo sorreggevano bene. Si incamminò verso la farmacia. Ad ogni angolo di strada si guardava in giro con fare circospetto temendo di vedere una coppia di tedeschi o una squadraccia della Muti a sbarrargli la strada. Giunto nei pressi della chiesa, ormai a poche centinaia di metri dalla farmacia, udì il rombo della vetturetta tedesca arrivargli alle spalle. Credette di svenire, ma appoggiandosi al muro che rasentava, riuscì a mantenersi in equilibrio. La vettura lo superò ma dopo qualche metro si fermò bruscamente. Dalla portiera destra scese l’Haupmann Reserve che gli andò incontro. Ormai stava succedendo l’irreparabile, si vedeva già ben- dato vicino al muro ove sarebbe stato fucilato. Invece sul viso del tedesco si aprì un grande sorriso.
“Caro dottore!” disse con la sua voce potente. “Grazie per suoi medicinali. Finita subito tortura di dolore. Io guarito. Grazie. Io spero di poter ricambiare” e battendo i tacchi e sollevando il braccio disteso urlò “Heil Hitler!” Senza attendere risposta – ma il Temperini non sarebbe riuscito a proferire parola mancandogli l’aria – si girò e risalì sulla macchina che si allontanò velocemente. “Tortura, ricambiare…” queste parole rimasero a lungo nella mente del farmacista. Con profondo raccapriccio il Temperini si rese conto di essersela fatta addosso. Non entrò in farmacia ma salì direttamente alla propria abita- zione. Prese della biancheria pulita dal cassettone della camera, un paio di pantaloni dall’armadio e delle pantofole. Si chiuse in bagno, si tolse con attenzione i pantaloni per non sporcarsi ulteriormente. Sfilò le mutande e le gettò direttamente nel gabinetto. Si vergognava con sé stesso per quanto era accaduto ma, in fondo in fondo, era anche sod- disfatto: aveva compiuto il primo atto eroico della sua vita. Pensando però che non era finita e che la seconda parte della missione sarebbe stata più pericolosa, gli venne un forte conato di vomito e cominciò a sudare freddo. Come era stata bella la sua vita da farmacista riverito e rispettato da tutti. Perché mai si era messo in testa, lui così accomodante con tutti, che non aveva mai avuto un litigio, ma neppure una vera discussione con nessuno, di fare il rivoluzionario? Pensava di sentirsi rinfrancato dalla presenza di quei tre candelotti di dinamite in tasca, forte, pronto a dare una svolta alla vita della valle, una lezione ai tedeschi invasori, una prova di forza che sarebbe pas- sata alla storia ed invece si sentiva incapace anche di comandare al proprio corpo.
Quella sera stessa avrebbe portato a termine il suo compito e poi che andasse come a Dio sarebbe piaciuto. Lui la sua parte l’aveva fatta ed era, forse la più pericolosa. Finì di lavarsi, fece a pezzi i pantaloni con la forbice che si trovava sulla specchiera e li gettò nello scarico. Non avrebbe saputo spiegare l’accaduto senza vergognarsi e senza dover dare spiegazioni.
Rivestitosi si recò al bar. Aveva bisogno di bere qualcosa di forte anche se al suo stomaco non avrebbe giovato. Nell’attraversare piazza S. Antonio ed entrando nel bar gli sembrò che gli sguardi che attirava fossero di ammi-razione ed i saluti che riceveva più ossequiosi e riverenti del solito. Che in giro si sapesse già dell’atto coraggioso compiuto e di quanto altro ancora doveva coraggiosa- mente affrontare.

Questo gli permise, anche se sapeva che in effetti doveva essere solo una sua illusione, di sentirsi rinfrancato. Ma se tutto fosse andato come programmato, allora sì, sarebbe passato alla storia tra i brenesi illustri. E allora gli sguardi di ammirazione, gli ossequi e le scappellate ci sarebbero state davvero.
Passò tutto il pomeriggio al bar, dormicchiando, chiacchierando con qualche avventore, facendo un solitario dietro l’altro e affidando la riuscita o meno del gioco a una risposta di come sarebbe andata a termine la sua missione. Quando il solitario riusciva, attraversava momenti di allegria, il successivo non riusciva e ricadeva nella paura, e così via.
Quando vide, attraverso i vetri del bar, che si stava abbassando la serranda della farmacia, rincasò. Si sedette a tavola e senza scambiare parola con la figlia e con la cameriera, mangiò la minestrina che gli servivano, un pezzo di formaggio e una pera che proveniva dal suo “brolo”. Finì il suo bicchiere di vino, si alzò, comunicò alle due donne “Io esco” e se ne andò.
Dall’istante in cui si era infilato la giacca con i tre candelotti nella tasca posteriore a quando era rientrato in far- macia, dopo aver lasciato l’esplosivo nel gabbiotto del- l’Orto Fascista, il Temperini non si ricordava nulla. Ave- va agito come un automa. Non ricordava di aver attraversato la piazza mercato, di aver incontrato qualcuno lungo il suo percorso, di aver messo i candelotti nel gabbiotto, di essere ritornato sui suoi passi. Niente. Aveva annullato quei momenti della sua vita come se non li avesse vissuti. Forse, in effetti il suo corpo aveva camminato, portato i candelotti, rimosso le viti della porticina del piccolo ripa- ro degli attrezzi, depositato i candelotti, richiuso la porticina, risistemate le viti, ripercorso la strada, rientrato in farmacia mentre la sua mente, anestetizzata dal terrore, si era rifiutata di partecipare e di registrare quanto avveniva. In fin dei conti meglio così. Non aveva sofferto.

 

XVII

Era stata una lunga giornata passata in mezzo ai boschi, sotto la pioggia, alla ricerca di un deposito di armi segnalato da una lettera anonima. C’erano ancora degli italiani che professavano lo spionaggio, vigliacca- mente, senza esporsi ma per facilitare l’egemonia delle forze occupanti, nonostante queste apparissero sempre più spietate. Quale sarebbe stato il futuro dell’Italia traditrice se le forze armate tedesche avessero avuto, insperatamente, il sopravvento finale nella guerra in corso?
Quella di serva del nazismo? Questo si chiedevano. Tuttavia nulla era stato trovato, anche se le ricerche, effettuate insieme a diversi membri della Brigata Muti, erano state meticolose e il posto controllato fosse sicura- mente quello indicato dalla segnalazione.
Invece i tedeschi erano rientrati all’albergo che li ospitava stanchi, bagnati e delusi. Qualcuno aveva anche sospettato che la lettera fosse stata uno scherzo e questa possibilità li aveva notevolmente innervositi. Franz, il Comandante, e Bernd, dopo essersi scaldati con un fornellino che funzionava con pastiglie Meta, una tazza di quella brodaglia che si continuava a chiamare caffè solo per abitudine, si erano spogliati e avevano steso le loro divise su una corda tesa tra i due letti. Chissà perché quando due uomini si trovano soli in una stanza seminudi, tra di loro si creano una certa intimità e una predisposizione a lasciarsi andare alle confidenze. Quando Bernd confidò al suo Comandante che era riuscito a conoscere una ragazza italiana che si era invaghita di lui – che in effetti era un gran bel ragazzo con uno smagliante sorriso a 32 denti bianchissimi – Franz prese al volo l’occasione per accennare ai suoi progetti.

Lo fece con estrema cautela, ma Bernd si appassionò immediatamente all’argomento. Anche lui provava un gran- de affetto verso il suo capo, affetto e riconoscenza per come era trattato. Anticipandolo, si dichiarò più che disponibile, qualora ve ne fosse l’occasione, a lasciare libera la stanza anche per una notte intera.
“Un posto per dormire da qualche parte in albergo lo trovo sempre. E lei sa che io posso dormire anche per terra” disse infervorandosi tutto. Franz, allora, spiegò quali erano i suoi progetti, raccontando le avances che aveva fatto a Benedetta, che le aveva accettate dimostrandosi ben disposta ad un incontro che, sicuramente, non sarebbe stato solamente romantico. La cosa si sarebbe potuta concretizzare al più presto, continuò il Comandante, ma era da scartare il fatto che Bernd occupasse un qualche luogo dell’albergo. Avrebbe sicuramente destato la curiosità di chi ne fosse venuto a conoscenza. “Non rimane che la macchina” disse Franz, “se non hai nulla in contrario”. “Assolutamente no!” rispose Bernd. “Ma desidero, Her Komandant, che questa mia partecipazione sia un atto di dovuta riconoscenza per il trattamento che Ella mi ha sempre riservato” continuò trattenendo, a stento, il desiderio improvviso che gli era venuto di abbracciare il suo capo. Si vede che anche i duri soldati tedeschi sono capaci, a volte, di dimostrare un briciolo di tenerezza. Quella notte Franz sognò sua moglie nelle sembianze di Benedetta, nuda, tra le sue braccia che gli sorrideva e gli diceva “Ti amo” mentre prendeva tra le mani il suo membro eretto. Alla mattina, con estremo imbarazzo, trovò le lenzuola ancora umide e sporche del suo liquido seminale. Dapprima ne fu inorridito – cosa avrebbe pensato Benedetta vedendo le macchie nel rifare il letto? – Ma poi gli venne da sorridere con nostalgia. Una cosa del genere non gli era più successa dai tempi della sua gioventù. E a Benedetta poteva quasi sembrare un richiamo d’amore e, comunque, la prova della sua ancora intatta virilità.

 

(continua…)

 

 

 

Quel “Mal d’Africa” compagno di strada di Angelo Ferrari

LIBRI / Nel Giardino di “Casa Lajolo” a Piossasco, incontro con il giornalista dell’AGI che presenta il suo ultimo libro

Domenica, 25 luglio

Piossasco (Torino)

“C’è un pezzo di mondo che, da tempo, bussa alle nostre porte. Guerre, oppressione politica, cambiamento climatico, voglia di riscatto sociale, spingono milioni di esseri umani a lasciare la propria terra in cerca di opportunità negate. E, quasi sempre, trovano un muro a respingerli”. Il muro dell’indifferenza. E un pezzo di  mondo (neppure troppo piccolo, anzi) che si chiama Africa. E che ben conosce, in tutti i suoi aspetti e risvolti – ambientali e sociali, umani e politici, culturali e simbolici, negativi e positivi – Angelo Ferrari, giornalista dell’AGI (Agenzia Giornalistica Italia), per la quale da anni si occupa proprio di problematiche relative, in generale, al Sud del mondo e all’Africa in particolare, dove ha seguito le più grandi tragedie del Continente: dalla guerra del Rwanda a quella della Somalia, fino ai conflitti nella Repubblica democratica del Congo e in Sierra Leone. Realtà drammatiche, spesso ignorate o rimosse in tutta la loro pesante e terribile complessità. Dove gli aiuti invocati ed urlati al mondo non arrivano mai o in misura assolutamente inefficiente. E, ancor peggio, politicamente ed economicamente sfruttate dalle “parti” più ricche della Terra e da tempi che si ripetono uguali nei secoli. Di questo e del suo ultimo libro “Mal d’Africa”( pubblicato nel 2020 da Rosenberg & Sellier) parlerà Ferrari, domenica 25 luglio (ore 17), in un incontro che si terrà nel giardino di “Casa Lajolo” a Piossasco, in via San Vito, 23. Moderato da Sante Altizio, l’incontro rientra nel programma di “Bellezza tra le righe”, la rassegna firmata da “Fondazione Casa Lajolo” e “Fondazione Cosso” con il contributo della Regione Piemonte, nata “per guardare al domani con uno spirito nuovo”. La volontà è quella di condurre il pubblico in luoghi di rara bellezza, ovvero i giardini di due dimore storiche della provincia di Torino, “Casa Lajolo” a Piossasco, e il “Castello di Miradolo” a San Secondo di Pinerolo: qui, nella pace che si respira poco prima della sera, andranno in scena, fino al 17 ottobre, conversazioni con alcuni personaggi pubblici protagonisti del presente. E tale è, certamente, anche Angelo Ferrari, esperto e trascinante cantore del “pianeta Africa”, tornato a essere terra di conquista. “Dopo i conflitti – si legge nel libro – scatenati nel secolo scorso per accaparrarsi le risorse naturali del continente, ora è ‘guerra’ commerciale, ma soprattutto militare, di tutti contro tutti. L’Occidente ha deciso che è giunto il momento di arginare l’influenza cinese che ormai ha le mani su tutto il continente, nessun paese escluso. Le forze militari straniere si stanno posizionando nel Corno D’Africa, in particolare in un fazzoletto di terra: Gibuti. Le guerre economiche in Africa non si combattono solamente attraverso accordi commerciali, è diventato indispensabile, per vincere la battaglia, ‘mettere gli scarponi sul terreno’”. Quello compiuto da Angelo Ferrari e raccontato in “Mal d’Africa” è un percorso lucido e analitico sulla situazione politica ed economica odierna del Continente, che lo scrittore ripercorre, anche narrativamente, attraverso i passi dei grandi viaggiatori del passato, lungo i suoi corsi d’acqua più imponenti, attorno ai laghi prosciugati dallo sfruttamento umano e dai cambiamenti climatici e nei gironi infernali delle miniere più preziose al mondo. Un viaggio già in precedenza sperimentato da Ferrari in altri libri sull’argomento, fra cui “Hakuna Matata, la globalizzazione galoppa mentre l’Africa muore” (2002), “Africa Gialla, l’invasione economica cinese del continente africano” (2008), “Le nebbie del Congo” (2011) e “Il mondo di Jordy”, il viaggio di un reporter e un ragazzo di strada nel cuore dell’Africa (2014).

Ingresso alla dimora storica comprensivo di visita guidata 8 euro. Conversazioni e incontri comprese nel biglietto di ingresso. Biglietto ridotto 6 euro per under 25. Gratuito under 10 e “Abbonamento Musei”. Prenotazione: tel. 333/3270586 o info@casalajolo.it

g. m.

Chi è Silvia Merlo, AD del Gruppo Merlo e Presidente Saipem

Rubrica a cura di Progesia Management Lab

La Merlo S.p.A. è un’industria metalmeccanica di Cervasca (CN) che conta circa 1.500 dipendenti e ha una rete di distribuzione composta da 6 filiali ed oltre 600 concessionari che le consentono un posizionamento internazionale. L’Amministratore Delegato di questa azienda leader che opera nel settore dei sollevatori telescopici, autobetoniere auto caricanti, sistemi e tecnologie per la movimentazione e il sollevamento, è Silvia Merlo che ricopre cariche anche nei Consigli di Amministrazione di altre società appartenenti al Gruppo. Laureata in Economia Aziendale, è stata componente del Consiglio di Amministrazione di Erg S.p.A. oltre che membro del Consiglio di Amministrazione, del Comitato Controllo Rischi e Sostenibilità, del Comitato per le Operazioni con Parti Correlate e Presidente del Comitato Remunerazione di Sanlorenzo S.p.A e a fine aprile è stata nominata Presidente di Saipem, il colosso petrolifero tra i più importanti fornitori di servizi a livello mondiale del settore della costruzione e manutenzione delle infrastrutture al servizio dell’industria energetica, con una operatività nei cinque continenti.

Infaticabile e competente, ha inoltre ricoperto incarichi di consigliere di amministrazione e di membro di comitati interni in diverse altre società tra cui Leonardo S.p.A., BNL Banca Nazionale del Lavoro S.p.A., GEDI Gruppo Editoriale S.p.A. e Banca CRS Cassa di Risparmio di Savigliano S.p.A. Per il Gruppo Merlo, e dunque per lei, al centro di tutto c’è la persona. Per questo l’azienda si impegna a rispettare l’ambiente e a rendere più sicuro e confortevole il lavoro degli operatori. Non stupisce quindi che nel 2014 Silvia Merlo sia stata insignita della Mela d’Oro nell’ambito del premio Donne ad Alta quota della Fondazione Marisa Bellisario per la sezione imprenditoria e che nel 2017 abbia ricevuto il Premio Amelia Earhart su iniziativa dello Zonta Club Alba-Langhe e Roero.

Con Intesa Sanpaolo avete sottoscritto una collaborazione a sostegno della filiera per fronteggiare la crisi causata dal Covid-19. Un’azione importante per i clienti e i fornitori?

“All’inizio di questa pandemia, anche memori delle precedenti crisi, è stata nostra cura mettere in sicurezza e portare valore aggiunto alla filiera per cui i clienti e i fornitori hanno potuto avere accesso ad una convenzione che abbiamo sottoscritto noi come gruppo e che ha permesso loro di godere di una serie di benefit. Utilizzando un canale semplificato con interlocutori dedicati e con un iter ragionato prima, chi ne ha avuto bisogno ha potuto accedere ad una serie di fondi che probabilmente avrebbe fatto difficoltà ad ottenere. Noi per loro abbiamo dettato i tempi di risposta della banca, che sono stati di circa 5 giorni, abbiamo concordato un tasso predefinito e abbiamo strutturato a priori l’iter procedurale. Tutto ciò ha portato dei grandi benefici e ci risulta che la filiera abbia usufruito di più di 140 milioni di erogazioni per cui sicuramente un aiuto lo abbiamo dato. Parlo al plurale perché Intesa Sanpaolo è stato un partner attento, rapido nella risposta e flessibile”.

Siete un gruppo con una visione di lungo termine. Parlando di sostenibilità, quale ruolo svolgeranno le energie rinnovabili nel nostro futuro?

“Tutto ciò che è sostenibile ci vede impegnati e attenti e anche se questo è il tema del momento noi, non seguendo le mode ma essendo dei precursori, nel 2013 abbiamo esposto il nostro primo sollevatore telescopico ibrido al quale abbiamo iniziato a lavorare già nel 2009. Nel 2020 abbiamo presentato nella nostra gamma il primo sollevatore telescopico full electric. Siamo interessati al tema della sostenibilità sia nel prodotto sia nei processi di produzione e per noi il concetto di energy saving è fondamentale perché la sostenibilità passa anche per il non spreco e per l’ottimizzazione delle energie e dei materiali”.

Da sempre il Gruppo Merlo mette al centro la persona. Con quali attività avete maggiormente sostenuto i vostri dipendenti?

“Sosteniamo e facciamo un’azione quasi di push verso i nostri collaboratori. Esiste un’associazione coordinata dagli stessi dipendenti che sostiene e promuove tutta una serie di iniziative, che vanno dalle gite alla formazione, passando per l’attenzione ai giovani. Sono iniziative legate al tempo libero, ma sono fondamentali per creare aggregazione e sentirsi parte di un gruppo, un requisito per noi fondamentale. Da sempre a Natale organizziamo una festa per i figli dei dipendenti: svuotiamo un capannone e lo riempiamo di giostre di grandi dimensioni come ottovolanti e trenini. Realizziamo molte iniziative, alcune anche legate al welfare, ma soprattutto ogni giorno diamo attenzione alle persone cercando di farle sentire non dei numeri, ma ognuno importante per la crescita della società. Perché ciascuno di loro non è un ruolo, ma un individuo con le proprie peculiarità”.

Rientrano in quest’ottica anche il Centro Formazione e Ricerca Merlo e il Master Universitario di secondo livello che organizzate con il Politecnico di Torino?

“Collaboriamo da molto tempo con il Politecnico di Torino, ma sono particolarmente affezionata a quest’ultimo progetto che riguarda la formazione di alto apprendistato di 12 ingegneri neolaureati che sono stati selezionati e assunti per essere formati attraverso un master organizzato in collaborazione con la Regione Piemonte e il Politecnico. Il master è durato 2 anni e la docenza è stata sia del Politecnico sia nostra.   Il primo corso si è tenuto in parte a Cuneo e in buona parte a Torino e, quando non seguivano le lezioni, i ragazzi con il loro tutor erano all’interno dell’organizzazione aziendale. Abbiamo inserito 12 ingegneri in 12 aree differenti del gruppo e, terminato l’apprendistato di alto apprendimento, sono stati tutti assunti. Il risultato è stato così soddisfacente che anche quest’anno abbiamo deciso di assumere ulteriori 12 ingegneri con la stessa formula, e lo abbiamo fatto a prescindere dal Covid-19 per lungimiranza, perché crediamo che questi studenti saranno dei pilastri importanti per l’azienda di domani. Abbiamo la volontà di guardare avanti e vogliamo dare un segnale forte sia dentro che fuori dal gruppo: vogliamo puntare sul futuro e sulle giovani generazioni. La nostra è un’azienda che parla di innovazione e che ha insita quella curiosità che è tipica dei giovani, ma anche dei non giovani. Mio padre, ad esempio, è un ragazzino di 85 anni ed è una persona estremamente innovativa e curiosa”.

Donna per lei significa?

“Non mi sono mai posta la questione uomo-donna, ma mi sono chiesta dove fossero le competenze, a prescindere dal genere. Io ho avuto il privilegio di poter fare un certo percorso, anche se non è stato facile. Ha iniziato ad essere meno dura quando ho deciso di andare diritta verso la meta senza farmi problemi sul fatto che fossi donna. È stato complicato, ma credo che sia importante avere un’attitudine più legata alla direzione e alla meta e meno alla differenza tra maschile e femminile. Sarò contenta quando smetterò di parlare ad una platea di sole donne. Se ce la raccontiamo tra di noi, a cosa serve? Soprattutto se a prendere le decisioni sono gli uomini”.

IL FOCUS DI PROGESIA

Il Gruppo Merlo è un importante gruppo industriale a conduzione familiare, leader italiano delle macchine operatrici, con un forte spirito internazionale e al tempo stesso con un forte legame con il territorio dove sorge l’azienda.

Al centro del progetto c’è l’essere umano e l’impegno del Gruppo a rispettare l’ambiente e rendere più funzionale, sicuro e confortevole il lavoro di chi utilizza macchine operatrici a marchio Merlo e di chi, ogni giorno in azienda, si dedica al costante miglioramento dell’efficienza e delle performance dei prodotti.

L’AD del gruppo, Silvia Merlo, sottolinea che la Merlo è un’azienda di famiglia a tutti gli effetti e che ci lavorano tutti quotidianamente all’interno; proprio per questo il riconoscimento ottenuto nel 2014 con l’iscrizione nel Registro delle Imprese Storiche è per tutti loro motivo di grande orgoglio; l’attività dell’azienda inizia nel 1911 con Giuseppe Merlo (nonno di Silvia) che apre un’officina per la lavorazione del ferro di soli 250 metri quadrati e quindi nel 2011 la Merlo Spa entra ufficialmente nella ristretta cerchia di aziende centenarie che hanno fatto la storia d’Italia e della provincia di Cuneo.

Oggi nella sede di San Defendente di Cervasca lavorano circa 1500 persone e nei loro confronti l’azienda attua numerose politiche di welfare, gestite da un apposito ente interno, nella convinzione che dipendenti e i collaboratori siano parte fondamentale di un’impresa e con il loro lavoro quotidiano contribuiscano a concretizzare i valori imprenditoriali.

Spiega Silvia Merlo: “la nostra scelta di welfare non è dettata dalla necessità di avere ritorni di indice, ma è legata ad una decisione della mia famiglia che sente molto forte la responsabilità di essere un’azienda del territorio e che vuole contribuire attivamente e concretamente al benessere dei nostri 1500 dipendenti e delle loro famiglie. Perché, nonostante la forte vocazione internazionale che ci contraddistingue, siamo ancora oggi un’azienda a misura d’uomo e di donna”.

Questo modello di welfare aziendale, evoluto e personalizzato, permette al Gruppo Merlo di rafforzare la propria immagine come datore di lavoro (employer branding) e al tempo stesso di fidelizzare i collaboratori aumentando il loro benessere e il senso di appartenenza. In questo modo si coniuga il welfare aziendale con la responsabilità sociale d’impresa e con l’incentivazione della forza lavoro, facendo sentire i collaboratori parte integrante dell’azienda in cui lavorano.

 

Coordinamento e Focus: Carole Allamandi
Intervista: Barbara Odetto

Torino tra architettura e pittura: Guarino Guarini

Torino tra architettura e pittura

1 Guarino Guarini (1624-1683)
2 Filippo Juvarra (1678-1736)
3 Alessandro Antonelli (1798-1888)
4 Pietro Fenoglio (1865-1927)
5 Giacomo Balla (1871-1958)
6 Felice Casorati (1883-1963)
7 I Sei di Torino
8 Alighiero Boetti (1940-1994)
9 Giuseppe Penone (1947-)
10 Mario Merz (1925-2003)

1) Guarino Guarini

Ne ho discusso poco tempo fa con i miei studenti, di quanto l’abitudine ci possa rendere indifferenti alle preziosità che ci circondano. Che si tratti di parchi o architetture, passeggiate lungo il fiume o piazze monumentali, le “cose belle” che sono alla nostra portata, che sono “sempre lì” a disposizione, ad un certo punto perdono –ai nostri occhi abituati- il loro fascino. Che fare allora? In classe non siamo addivenuti ad una soluzione, ma ci siamo ripromessi di camminare quanto più possibile con lo sguardo attento, magari provando a ricordare che cosa ci aveva originariamente colpito di certi luoghi, un tempo sorprendenti.

È più semplice di quel che sembra passeggiare per Torino senza accorgersi della preziosità dei suoi palazzi o della geometria perfetta delle vie del centro: Torino è “sempre lì”, sempre la stessa e ormai rischiamo –noi torinesi- di essere assuefatti al suo fascino malinconico, tanto da notare piuttosto una nuova vetrina o scoprire la chiusura di un negozio a cui eravamo affezionati e non osservare invece i decori aggettanti che inquadrano una precisa attività commerciale. Torino è una città esteticamente complessa, abbracciata dalle Alpi in lontananza, colorata dalle tinte degli alberi dei parchi e della collina, segnata da grandi architetture del passato e del presente. Nel capoluogo convivono in sorprendente armonia capolavori barocchi, edifici liberty e più recenti strutture, nate per la maggior parte negli anni Novanta, grazie soprattutto all’importante avvenimento dei XX Giochi Olimpici svoltisi proprio nella “nostra” città, per quest’ultima categoria ritengo opportuno ricordare la zona dell’ex Villaggio Olimpico, che sorge sull’area occupata fino al 2001 dai Mercati Generali.
È bene specificare che, oltre alle tipologie architettoniche più prestigiose, a Torino vi sono diversi edifici storici risalenti all’epoca lontana dell’antica Augusta Taurinorum, tra le costruzioni più datate vi sono Le Porte Palatine, attualmente inserite all’interno del Parco Archeologico, che racchiude e preserva molti altri reperti romani.

È però nel Seicento che iniziano gli elaborati interventi urbanistici che danno effettivamente lustro alla città; i numerosi lavori di ampliamento, di restauro e di costruzione di nuovi palazzi e quartieri si devono in prevalenza agli esponenti della famiglia Savoia, primi fra tutti Emanuele Filiberto (1528-1580) e Carlo Emanuele I (1580-1630). Ma andiamo in ordine e vediamo di percorrere brevemente quali sono stati gli avvenimenti più importanti a livello urbanistico e chi erano le personalità a cui era stata affidata la soprintendenza dei lavori. Nel 1563 Torino è capitale del ducato sabaudo, è dunque opportuno che l’estetica della città rispecchi l’importante funzione politica: a tal proposito Emanuele Filiberto avvia un primo sviluppo edilizio. Carlo Emanuele I prosegue poi con i lavori di modifica urbanistica e affida il progetto di ampliamento verso sud-est all’architetto civile Ascanio Vitozzi (1539-1615). Egli decide di mantenere per le nuove aree la trama a scacchiera, così da riprendere la primigenia struttura romana. Al Vitozzi si deve l’edificazione di Piazza Castello (1615), il primo tronco dell’attuale via Roma (all’epoca Via Nuova) e l’inizio della costruzione dei portici nelle strade principali. L’architetto si rifà al gusto francese, tanto apprezzato in quegli anni, e conferisce alla città un carattere omogeneo, attraverso la costruzione delle facciate dei palazzi che si susseguono uniformi e la scansione spaziale dei portici. All’architetto Vitozzi succede l’abile Carlo di Castellamonte (1560-1683), il quale continua l’opera di modernizzazione della città sabauda, egli realizza quindi Piazza San Carlo, che doveva unire l’antico nucleo storico con la parte nuova appena edificata, inoltre si adopera per completare la Via Nuova.

 

Va tuttavia sottolineata la geniale visione progettuale di Castellamonte, egli infatti, attraverso la costruzione di Piazza San Carlo, arriva all’uniformità del prospetto della piazza, in asse con la Via Nuova, grazie al doppio porticato aperto sui lunghi lati e alla ripetizione delle facciate degli edifici. Anche lui guarda al modello francese, per l’appunto la conformazione razionale di Piazza San Carlo ricorda la Piazza Reale di Parigi: un enorme spazio quadrato scandito da portici simmetrici le cui unità edilizie sono a malapena distinguibili. Nella seconda metà del Seicento Carlo Emanuele II ordina un ulteriore ampliamento verso il Po: tale progetto vede il Castello come vero e proprio fulcro del potere politico, attorno ad esso si sviluppano nuovi quartieri e nuove abitazioni. Nel 1658 viene edificato Palazzo Reale, altro edificio a testimonianza della presenza monarchica dei Savoia sul territorio.
Molte personalità illustri si adoperarono per rendere Torino elegante e regale, ma tra i tanti nomi spicca sicuramente quello di Guarino Guarini (1624-1683), padre dell’ordine dei Teatini, insigne matematico e studioso di filosofia; viaggia molto e lavora in diversi cantieri in città quali Modena, Messina e Parigi, inoltre soggiorna a Roma, dove ha modo di confrontarsi con i lavori artistici dei maestri barocchi, soffermandosi soprattutto sulle opere di Bernini e di Borromini; dagli autori seicenteschi assimila il rigore costruttivo, la fantasia delle articolazioni strutturali e il gusto del colore nella scelta dei materiali.

Nel 1666 l’architetto giunge a Torino, invitato dal padre generale dei Teatini a dirigere i lavori di rinnovamento della chiesa di San Lorenzo. In tale struttura, più che in altri edifici, è evidente che la geometria utilizzata da Guarini nei suoi progetti, pur basandosi su proporzioni matematiche, riesce a dare vita a un’architettura fantastica, grazie all’impiego di moduli incrociati di archi e all’introduzione di pilastri riccamente decorati privi di funzione portante. La chiesa ha una pianta geometricamente complessa, si tratta infatti di un ottagono; gli otto lati della struttura interna sono ricurvi verso il centro e costituiscono altrettanti ampi archi poggianti su sedici colonne in marmo rosso, oltre i quali si aprono nicchie con statue incorniciate da pilastri bianchi. Guarini, nella realizzazione delle cupole dell’asse longitudinale e del presbiterio, supera la concezione della cupola classica; la cupola dell’asse longitudinale è costituita da costoloni che formano una stella a otto punte e un ottagono su cui poi si innalza la lanterna. Tra i costoloni non vi è superficie muraria, ma ampie finestre ovali e tante altre più piccole, aperte con lo scopo di ottenere stupefacenti giochi di luce; all’osservatore la cupola appare leggerissima, egli guarda verso l’alto e punta gli occhi verso l’infinito celeste.
Nel 1668 Carlo Emanuele II vuole che Guarino diriga il cantiere della Cappella della Santissima Sindone, dedicata appunto all’inestimabile reliquia posseduta dai Savoia. L’architetto per prima cosa rivoluziona il precedente progetto di Carlo di Castellamonte, decisamente più tradizionale, e crea all’esterno il motivo delle sei grandi finestre del tamburo, evidenziato dal profilo ondulato del cornicione; al disopra inserisce l’originale motivo a “zig-zag” dei costoloni della cupola, che termina con la lanterna conica. L’interno della cupola è tutto giocato sulla successione decrescente di forme esagonali a stella, che conferiscono alla struttura un accentuato scorcio prospettico e accentuano l’effetto illusionistico in altezza.
Le cupole sono il tratto tipico della genialità e delle idee innovative del Guarini: in tali architetture il ritmo si fa serrato di segmenti curvilinei che si inscrivono in uno spazio vuoto, è come se tali strutture stessero sorprendentemente in equilibrio. “È l’istante in cui il calcolo matematico coincide con il percorso della fantasia che tende a Dio, l’istante in cui la logica coincide con la fede, l’istante in cui Dio si manifesta nel pensiero e nell’opera dell’uomo” (Argan, “Storia dell’Arte Italiana”, Rizzoli, 1981).
Il nome di Guarini è anche collegato ad un altro importante edificio torinese. In Palazzo Carignano, edificato tra il 1679 e il 1681, si riscontrano elementi del barocco romano. In tale edificio è evidente il richiamo al Borromini, prima di tutto nel motivo convesso del corpo centrale che si flette ai lati in concavità, mentre due grandi blocchi rettilinei concludono la facciata. L’andamento mosso, che rispecchia la disposizione interna del salone ovale e della scalinata, è ulteriormente sottolineato dall’uso uniforme del mattone rosso, con cui sono realizzati anche gli ornati, le inquadrature delle finestre e le accentuazioni delle lesene.

Guarini è sicuramente molto legato alla poetica borrominiana, più che all’insegnamento del Bernini, ma è opportuno ricordare che suo grandissimo merito è quello di essere stato in grado di sintetizzare le due lezioni, congiungendo le due antitetiche concezioni etico-religiose.
Proprio su quest’ultima affermazione vorrei soffermarmi prima di concludere. Guarini non è celebre solo per i suoi progetti architettonici, ma è degno di nota proprio per aver reso dialoganti tra loro le due opposte correnti di pensiero che si diffondono, apparentemente in antitesi, per tutto il Seicento.
Alla fine del Cinquecento la nascita del pensiero scientifico mette in discussione l’autorità degli antichi, le certezze dell’uomo rinascimentale risultano insufficienti e superate e gli studiosi si schierano in due differenti fazioni: chi sostiene la ragione, a discapito dei sensi, chi, al contrario, sostiene la necessità di far intervenire l’esperienza nel confermare o smentire la realtà. Tutto il Seicento oscilla tra queste posizioni, tra la teoria astratta di tipo matematico e quella a sostegno dell’esperienza, delle sensazioni emotive e dell’importanza dell’inconscio. La particolarità dell’architetto teatino è il sostenere che le due versioni si trovino in rapporto dialettico, egli è convinto infatti che la razionalità matematica non neghi l’esperienza, ma al contrario ne richieda l’intervento. Teoria e prassi operativa sono due momenti successivi ed inscindibili di un unico processo: il costruire.
Ma ora terminiamo. “Parlare” di tali argomenti è a mio parere “limitativo”, l’arte e l’architettura vanno vissute, viste, guardate, assimilate. Le lezioni dei grandi sono da apprendere sul campo, con i polpastrelli che tastano i materiali e percepiscono la differenza tra il marmo, l’intonaco e il cemento, con il collo che “scrocchia” a furia di tenere il capo rivolto all’insù. È questo che dico sempre ai miei studenti: non smettete mai di stupirvi.

Alessia Cagnotto