LIFESTYLE- Pagina 9

Navette gratuite da Susa per la Festa delle Alpi al Colle del Moncenisio

 

30 e 31 agosto

La Città metropolitana di Torino promuove la mobilità sostenibile e l’accessibilità all’evento transfrontaliero “Festa delle Alpi“, mettendo a disposizione un servizio navetta gratuito per raggiungere il Colle del Moncenisio.
Sabato 30 e domenica 31 agosto, il Colle del Moncenisio ospiterà la Festa delle Alpi-Fête des Alpes, un evento che celebra il dialogo e la cooperazione tra le comunità transfrontaliere di Italia e Francia.
In linea con il Piano Urbano per la Mobilità Sostenibile (PUMS), la Città metropolitana di Torino ha organizzato un servizio di bus navetta gratuito sia per trasportare gli artisti impegnati nell’animazione della festa, sia per facilitare la partecipazione dei cittadini e ridurre l’impatto ambientale sul territorio.
Le navette riservate ai cittadini, con una capienza di circa 50 posti, partiranno dalla stazione di Susa (Piazza della Repubblica) e arriveranno al Colle del Moncenisio (Plan des Fontainettes), e viceversa.
Ecco gli orari dettagliati del servizio:
Sabato 30 agosto
– Andata: 3 corse con partenze da Susa (Piazza della Repubblica) alle 12:30, 14:30 e 16:30.
– Ritorno: partenze dal Colle del Moncenisio (Plan des Fontainettes) alle 13:30, 15:30 e 19:00.
Domenica 31 agosto
– Andata: 4 corse con partenze da Susa (Piazza della Repubblica) alle 9:00, 11:00, 14:00 e 16:00.
– Ritorno: partenze dal Colle del Moncenisio (Plan des Fontainettes) alle 10:00, 12:00, 15:00 e 17:00.
Informazioni
Città di Susa – Ufficio Segreteria: e-mail segreteria@comune.susa.to.it; tel. 0122/648303;
Ufficio Turistico di Susa: e-mail info.susa@turismotorino.org ; tel 0122/622447

Virologo sarai tu!

In preparazione di questo articolo ho postato su un social il seguente quesito: “Il virus HIV non si trasmette attraverso le zanzare perché… ecc ecc; ma il West Nilus?”

Un quesito che qualsiasi persona con un QI di almeno 25 interpreterebbe come una domanda a risposta libera, con possibili risposte tipo “il West Nilus invece si” oppure “si, perché sono due virus differenti”.

Apriti cielo: tutte le risposte, nessuna esclusa, sono state insulti alla mia persona perché “basta leggere un qualsiasi libro di virologia per saperlo” oppure “perché non ti documenti invece di scrivere ca**ate”?

Al di là del fatto che alcuni di loro li conosco personalmente e almeno uno di loro farebbe meglio a tacere visto che uno di loro è stato bocciato ad un esame di medicina per aver confuso il clostridio del tetano con quello del botulino, il vero problema è la presunzione di onniscienza che aleggia su molte, troppe persone. Sicuramente pur fingendo di sapere tutto di medicina sono ignoranti come caprette tibetane (e chiedo scusa ai caprini per averli paragonati a loro) sulla maggior parte delle altre materie ed è evidente come la nostra società abbia perso anni e soldi a produrre una generazione di perfetti deficienti, nell’accezione originale del termine, cioè portatori di deficit.

Il problema non è che abbiano insultato me, perché la figuraccia l’hanno fatta loro, quanto piuttosto il fatto che queste persone forse, ma spero di no per l’umanità, occupano posti di rilievo dove l’umanità, l’empatia, la comprensione e immedesimarsi nell’altro sono, o dovrebbero essere, una dote sine qua non.

Forse sono seguaci del Marchese del Grillo che soleva dire “Io sono io, e voi non siete un c…” ; insegno da 27 anni e la prima cosa che ho imparato è che se vuoi comprensione devi comprendere, se vuoi attenzione devi darla; offendere chi, a prima vista, sembra non conoscere una cosa che per loro è basilare fa si che, nemmeno molto avanti nel tempo, saranno sottoposti alla gogna di essere loro dall’altra parte, a fare figuracce quando un qualsiasi professionista, appena più intelligente e professionale di loro, se li mangerà in un boccone. Di sicuro nella vita troverai sempre qualcuno che ne sa più di te, perché non si smette mai di imparare.

Credersi i migliori in assoluto non soltanto porta a fare figuracce quando trovi uno più esperto di te in un altro campo, ma crea una enorme frustrazione in chi dopo anni si accorge di non essere nessuno.

Il “Miles gloriosus” di Plauto, “La volpe e l’uva” di Esopo e “La maschera da tragedia” di Fedro sono ottimi insegnamenti per ridimensionare l’ego ipertrofico di alcuni leoni da tastiera, sempre che conoscano i classici latini e, soprattutto, che sappiano che i latini non sono dei lati piccoli.

Sergio Motta

Se il peperone diventa strumento musicale

Dalla maxi peperonata, alla grande scritta della città, fino al “suono del peperone” con Via Valobra che si anima – tutte le novità per l’edizione 2025 in programma dal 29 agosto al 7 settembre 2025.

Il Peperone di Carmagnola torna protagonista con un’edizione ricchissima di eventi, sapori e spettacolo. La 76esima edizione della Fiera Nazionale del Peperone, in programma dal 29 agosto al 7 settembre 2025, promette un’esperienza indimenticabile e ricca di novità per grandi e piccini tra le vie e le piazze del centro storico di Carmagnola (TO).

 

Dieci giorni di eventi gratuiti e novità per un evento culturale e gastronomico che promette delizie per tutti i gusti. Per poter degustare al meglio l’eccellenza agricola del territorio verrà preparata una maxi peperonata per 1.000 persone durante il Peperone Day, offrendo ai visitatori un’esperienza gastronomica collettiva e scenografica mai vista prima. Delizie non solo per il palato, per stupire i visitatori sarà realizzata una maxi scritta “Carmagnola” fatta di peperoni, un’installazione visiva simbolo dell’edizione 2025 che renderà omaggio al territorio e regalerà uno dei set fotografici più iconici della manifestazione.

Quasi tutti possono affermare di conoscere il gusto e il profumo del peperone, ma il suono? Una speciale installazione renderà il peperone uno strumento musicale. Speciali sensori trasformeranno il tocco del peperone in un particolare suono, creando così una tastiera che spazia dagli archi alla batteria elettronica. Un’installazione tutta da provare.

Ma le novità non finiscono qui, con il gradito ritorno nel circuito ufficiale anche Via Valobra che si animerà con Giochi Antichi – una ludoteca itinerante di giochi costruiti a mano da veri artigiani con materiali di riciclo nel rispetto della natura. Seguita da un’esposizione e vendita di piante e fiori e la Vetrina delle Associazioni del territorio che si raccontano alla città. Per finire il Comics Street, un momento dedicato agli appassionati di manga, anime, videogiochi, film e fumetti, che potranno trovare stand dedicati.

Appuntamento da venerdì 29 agosto a domenica 7 settembre 2025 a Carmagnola, con la 76esima edizione della Fiera Nazionale del Peperone ad ingresso gratuito. Un viaggio saporito e divertente alla scoperta del mondo del peperone, promossa dal Comune di Carmagnola e prodotta da SGP Grandi Eventi.

 

Per non perdervi neanche un momento di questa fantastica edizione, visitate il sito www.fieradelpeperone.it, dove troverete tutte le informazioni utili per raggiungere Carmagnola, vivere al meglio la Fiera e acquistare i biglietti per il Foro Festival.

Dantès e il medaglione misterioso

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Affacciata sul Canale della Manica, in Normandia, Étretat è una delle meraviglie della costa di Alabastro, che si estende tra Dieppe e Le Havre, formata da alte scogliere di gesso e verdi vallate. Il pittoresco villaggio incastonato fra le due scogliere più suggestive della costa, la falesia d’Amont e quella d’Aval, ha ospitato personaggi celebri come Guy de Maupassant, Delacroix, Corot, Courbet e Monet e sembra uscire direttamente da un quadro impressionista. Per descriverla è utile ripetere le parole di Victor Hugo: “Ciò che ho visto a Étretat è meraviglioso. […] L’immensa falesia cade a picco sul mare, il suo grande arco naturale è ancora intatto, guardandovi attraverso se ne scorge un altro, ovunque si trovano grandi capitelli lavorati rozzamente dall’oceano.

La più bella architettura che ci sia”. Proprio a Étretat viveva un piccolo cane yorkshire terrier di nome Dantès. Nonostante le sue dimensioni ridotte aveva un cuore grande e uno spirito avventuroso che lo portava a esplorare ogni angolo della sua amata costa. Ogni mattina Dantès si svegliava all’alba annusando l’aria fresca del mare che soffiava attraverso la finestra della sua padrona, la signora Claire Leblanc. Claire, pronipote dello scrittore Maurice Leblanc, creatore delle avventure di Arsenio Lupin, il ladro gentiluomo, era una donna minuta e gentile con una passione per la pittura tant’è che spesso si sedeva sulla spiaggia per catturare le meraviglie della natura riproponendole sulla tela con delicati colori. Viveva accanto alla villetta, ora trasformata in museo, ereditata dal celebre prozio al numero 15 di rue Guy de Maupassant dove Leblanc per 25 anni scrisse e in parte ambientò le avventure rocambolesche del personaggio al quale dedicò ben 17 romanzi, 39 racconti e 5 pièce teatrali tra il 1907 e il 1935. Dantès adorava accompagnare la sua padrona, correndo felice tra i gabbiani e scavando piccole buche nella sabbia dove riusciva a trovarne lungo la spiaggia di ciottoli. Un giorno, mentre Claire era intenta a dipingere il maestoso arco di pietra che Guy de Maupassant descrisse come la proboscide di un elefante che emerge dal mare a pochi metri dall’Aiguille de la Falaise d’Aval, detta l’Ago, alta 55 metri, isolata e lontana dalla scogliera, il piccolo Dantès decise di avventurarsi poco più in là, attratto dalla sensazione di scovare qualcosa di misterioso.

Scoprì un sentiero poco battuto che si arrampicava sulle falesie, e guidato dal suo spirito curioso, decise di seguirlo. Il sentiero lo portò in cima in cima alla falesia dove il panorama mozzava il fiato: le onde dell’oceano si infrangevano contro le rocce, e il cielo era punteggiato di nuvole bianche. Ma mentre Dantès si godeva la vista si accorse che il sentiero proseguiva sempre più stretto e ripido fino all’imbocco di una piccola grotta nascosta tra il muschio e l’erba alta. Incuriosito si avvicinò e, con un piccolo guaito, entrò nella grotta. All’interno, scoprì un tesoro inaspettato: un vecchio baule di legno, coperto di sabbia e alghe. Annusandolo con curiosità, Dantès lo ispezionò e, dopo un po’, riuscì a sollevare il coperchio con le sue piccole zampe. Dentro al baule c’erano molti oggetti scintillanti: monete d’oro, gioielli e strani artefatti. Ma ciò che colpì di più il piccolo yorkshire fu un antico medaglione, ornato con un’immagine di un cane che assomigliava a lui. Era come se il destino avesse voluto che Dantès trovasse quel tesoro. Era riuscito a scoprire il mistero dell’Aiguille Creuse, forse il romanzo più famoso di Leblanc e a individuare il nascondiglio di uno dei tesori più clamorosi con perle, rubini, zaffiri e diamanti dei re di Francia? Deciso a comunicare la scoperta alla sua padrona, Dantès prese tra i denti il medaglione e tornò indietro, correndo a perdifiato lungo il sentiero. Quando raggiunse Claire la trovò intenta a dipingere. Con un guaito entusiasta il piccolo cane saltò accanto a lei, mostrandole il medaglione scintillante. Claire si chinò, sorpresa e affascinata. “Dantès, dove hai trovato questa meraviglia?” chiese, accarezzandolo affettuosamente. Lo yorkshire terrier scodinzolò, felice di condividere la sua avventura e ripercorse il sentiero con la sua padrona. Insieme decisero di riportare il medaglione e gli altri tesori al villaggio, dove avrebbero potuto scoprire la loro storia. Con l’aiuto degli abitanti del posto e le ricerche di madame Catherine Lapoint, la bibliotecaria appassionata di storie e leggende, si scoprì che quegli oggetti appartenevano a un vecchio marinaio che aveva vissuto nel villaggio secoli prima, e che il medaglione era un simbolo di protezione per il suo fedele compagno a quattro zampe. Non era stato svelato il mistero della falesia cava e del tesoro dei Re del quale narrava Leblanc nella più celebre delle avventure di Arsenio Lupin ma era pur sempre una scoperta molto importante. Da quel giorno Dantès non fu considerato soltanto un cane avventuroso, ma anche un piccolo eroe del villaggio. Le persone lo ammiravano e lo ringraziavano per aver riportato alla luce una parte della loro storia. E mentre Claire continuava a dipingere la bellezza delle falesie, Dantès restava al suo fianco, pronto per nuove avventure, con il cuore pieno di gioia e il medaglione scintillante legato al suo collare.

Marco Travaglini

Elisabetta di Baviera e l’ombrellaio di Sovazza

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Argante Dorini aveva dimostrato la sua abilità fin da giovane, dotato com’era di una manualità fine e di un ragguardevole ingegno. Da Sovazza, dov’era nato e dove viveva con la moglie e i due figli quando non era in cammino sulle strade di mezz’Europa, aveva interpretato con passione l’arte del lusciàt, dell’ombrellaio ambulante. Mestiere duro ma senza alternative che Argante condivideva con l’amico Filippo Filippi, un tipo segaligno di Carpugnino. Insieme, macinando chilometri su strade polverose o in mezzo al fango, lontano da casa, s’arrangiarono a raccogliere il loro magro guadagno riparando ombrelli e parasole. Rimanevano mesi e mesi lontani da casa, risparmiando il risparmiabile per sostenere le famiglie, ricorrendo il più delle volte per cibo e alloggio a soluzioni di fortuna. Spesso non riuscivano a mettere insieme il pranzo con la cena e dormivano dove capitava.

 

Quante volte si erano appisolati, stanchi morti, sotto il cielo stellato nella buona stagione o in qualche fienile quando tirava vento o scrosciava la pioggia. Eppure, mai una lamentela perché la loro vita era così: prendere o lasciare. Il figlio Fulgenzio apprese a sua volta il mestiere, girovagando per le pianure piemontesi e lombarde per sfuggire alla miseria. Il lavoro l’aveva “rubato” a tal punto da diventare uno dei migliori nell’arte di vendere e riparare ombrelli. Accompagnato da Nino, il fratello più piccolo, giravano come dei nomadi gridando a gran voce “donne, donne, à ghè l’ombrelè!”, portando a tracolla la barsèla, la cassetta nella quale erano riposti  tutti i ferri del mestiere del lusciàt: dai ragozz, le stecche degli ombrelli, a lusùra, flignànza, tacugnànza e tacòn, ramé, cioè forbici,  rocchetti di refe, pezze varie, bastoni di legno. Con quell’armamentario erano in grado di cucire, limare, intagliare il legno, incollare e sagomare stoffe. Se c’era da riparare un ombrello lo accomodavano, racimolando qualche soldo; se invece si trattava di confezionarne uno nuovo, era festa grande. Girovagavano per le vie guardando porte e finestre, in attesa del cenno di chi era disposto ad affidar loro un parapioggia tartassato dai troppi acquazzoni, contorto dal vento o vittima della voracità delle tarme.

Ogni lavoro era buono e non si rifiutava mai, mettendosi subito alacremente al lavoro, e in silenzio. Stessa vita riservò all’unico figlio maschio, Mario. Per arrotondare il magro guadagno accompagnavano il mestiere con la costruzione e la vendita di altri manufatti in legno e in fil di ferro come gabbie, trappole per topi, insalatiere, setacci. Anche Mario, diventato uomo, si avvalse di un apprendista, Giacomino Dentici, un ragazzino di dieci anni, sveglio come un passero e rapido come una saetta. Come da tradizione il giorno di Capodanno, sulla piazza di Carpugnino, si incontravano a parlare d’affari e preparare la nuova annata degli ombrellai. In quell’occasione le famiglie più povere affidavano i loro figli piccoli agli artigiani ambulanti, nella speranza che avrebbero imparato un mestiere, sconfiggendo povertà e indigenza. “Al prumm dal lungon a Carpignin, a truà l’ Casér senza an bergnin”, che tradotto equivaleva a “il primo dell’anno a Carpugnino, a cercar padrone, senza un soldino”, come recita un’epigrafe che fa mostra di sé ancor oggi  nella piazza del piccolo paese del Vergante. Reclutata così la manodopera, gli ombrellai si mettevano in cammino alla ricerca dei guadagni necessari a garantire un futuro migliore. Bisogna dire che l’apprendista entrava quasi a pieno titolo nella famiglia dell’ombrellaio che provvedeva a lui in tutto e per tutto. Per fortuna i tempi erano cambiati e non s’andava più a piedi, consumando scarpe e sudore, ma in bicicletta. E che biciclette! Due Maino purosangue, modello anni venti con il doppio carter e senza una macchia di ruggine nonostante fossero di seconda mano. Mario le aveva ottenute da un ciclista in cambio di una serie di lavori, tra i quali un paio d’ombrelli nuovi di zecca. In fondo non erano proprio a buon mercato ma la comodità di pedalare lesti e di non scarpinare più dall’alba al tramonto n’era valsa la pena. Così Mario e Giacomino lavorarono a lungo, lontano da casa e dai propri cari, accompagnandosi nel tragitto con i canti in quella particolare lingua che si parlava tra lusciàt: il tarùsc. Tra di loro, per tradizione e abitudine, comunicavano in quel gergo difficile, quasi del tutto incomprensibile, dalla pronuncia piuttosto secca e dura. Facilitati dalla stessa provenienza territoriale, cioè dai paesi dell’alto Vergante, gli ombrellai potevano intendersi con rapidità e segretezza, scambiandosi notizie e commenti nella certezza di non essere capiti. L’idioma era un misto di dialetto e parole di altre lingue, dallo spagnolo al francese al tedesco, rielaborate con arguzia e duttilità. Così, tanto per fare due esempi, l’avvocato era un “denciòn” e il cuoco un “brusapignat”.

“Al lusciàt caravaita a gria i lusc”, dicevano gli anziani. L’ombrellaio ambulante ripara gli ombrelli perché la ghéna, la fame, era tanta e ci si poteva considerare brisòld (ricchi) solo quando si riusciva a mettere su la prima bottega con un banchetto e l’insegna di due cupole d’ombrello a spicchi bianchi e rossi e la scritta “luscia, el lusciat piòla” che, più o meno, si poteva tradurre in piove, l’ombrellaio si prende una sbornia. Infatti, quando il cielo diventava scuro, la terra cambiava odore e l’acqua iniziava a scrosciare, fosse temporale estivo o pioggia autunnale, si brindava alla fortuna perché con la pioggia si lavorava di più. Quando tornava a casa Mario raccontava le avventure della sua vita randagia. Era orgoglioso di quel lavoro dove la fatica e i sacrifici erano ricompensati dalla passione per un mestiere che richiedeva non solo molta abilità ma anche una buona dose di creatività. Soprattutto quando l’ombrello andava costruito nuovo di zecca e venivano usate le sagome per tagliare le stoffe. Qui la differenza di censo balzava all’occhio immediatamente: i benestanti e i nobili sceglievano la seta, per gli altri tutt’al più c’era il cotone. Il racconto più straordinario risaliva all’epoca in cui suo nonno confezionò un paio d’ombrelli per la principessa Elisabetta Amalia Eugenia di Wittelsbach, bavarese di nascita, diventata imperatrice d’Austria, regina apostolica d’Ungheria e regina di Boemia e Croazia, oltre che consorte di Francesco Giuseppe d’Austria. Celebre ovunque in Europa con il nome di Principessa Sissi (anche se dalle sue parti di esse ne usavano una sola). Argante Dorini non era tanto dell’idea di riverire la nobildonna, non foss’altro perché il fratello di suo padre, lo zio Luigi,aveva combattuto contro gli austriaci con il grado di tenente dell’esercito franco-piemontese durante la seconda guerra di indipendenza italiana, perdendo la vita nella battaglia di Solferino, il 24 giugno del 1859. Una pallottola aveva centrato in pieno petto Luigi Dorini proprio durante le ultime scaramucce di quella che fu una delle più grandi battaglie dell’Ottocento, con più di duecentomila soldati in campo. Il papà di Mario, antiaustriaco pure lui, teneva in tasca una vignetta dove un soldato asburgico era raffigurato come un maiale. E diceva sempre che “il Cecco Beppe al ma stà sui ball”.

 

Ma si sa, il lavoro è lavoro, e quando una delle dame di corte della Principessa prese contatto con lui mentre si trovava a Madonna di Campiglio nel 1889 chiedendogli di confezionarle un ombrello, non disse di no. Argante, nonostante la giovanissima età, era già uomo di poche parole e di buon senso,  e sosteneva che dove c’erano tanti ricchi e tanti nobili  c’era anche “tanta grana” e qualche corona in saccoccia non faceva certo male. Per questo si era sobbarcato quel viaggio lunghissimo verso est, in cerca di fortuna. A quel tempo la perla delle Dolomiti di Brenta era una delle mete predilette dall’aristocrazia europea e anche l’imperatrice Elisabetta aveva deciso di trascorrervi un periodo di villeggiatura, risiedendo all’Hotel des Alpes. Presa in carico l’ordinazione si dedicò alla fattura del parasole per la moglie di “quel crucco del Cecco Beppe”, mettendoci tutta la sua arte. Si trattò di un lavoro laborioso che consegnò alla dama nel tempo di due settimane, senza trascurare altri incarichi. La Principessa Sissi fu talmente soddisfatta che, esattamente due anni dopo, mentre soggiornava a Cap Martin, in Costa Azzurra, venuta a conoscenza dalla stessa dama del suo seguito della presenza di quell’italiano (“der italiener”) così abile a costruire ombrelli, ne commissionò un altro. Anche quella volta il nonno di Mario diede il meglio di se per soddisfare la vanitosa Elisabetta che, ossessionata dal culto della propria bellezza, teneva molto anche ad abiti e accessori. Secondo le cronache le occorrevano quasi tre ore per vestirsi, poiché gli abiti le venivano quasi sempre cuciti addosso per far risaltare al massimo la snellezza del corpo. E l’ombrello era un oggetto di complemento molto importante. L’Imperatrice d’Austria amava fare lunghe camminate e il lusciàt Argante, a tempo di record, le offrì un modello slanciato che poteva essere utilizzato anche come bastone da passeggio. Lungo 77 centimetri (Sissi era alta un metro e settantadue), manico e puntale in legno invecchiato, calotta in taffetas color ruggine con passamanerie e fodera avorio. Un vero gioiello! Un raro bijoux! La principessa Sissi, per la seconda volta, apprezzò l’arte di Argante e, oltre a una generosa ricompensa, gli fece avere un attestato in cui lo si indicava come “fornitore ufficiale della Casa d’Asburgo”. Non gli avrebbe aperto le porte di Schönbrunn ma era comunque un atto di stima importante. In fondo, pur essendo antiaustriaco, non gli dispiacque quell’onorificenza e quando il 10 settembre del 1898 l’Imperatrice, sempre vestita di nero dopo il suicidio del figlio Rodolfo, celando il viso dietro l’ombrellino, perse la vita a Ginevra pugnalata al petto dall’anarchico italiano Luigi Lucheni, il nonno di Mario portò a lungo il nastro nero sul braccio in segno di lutto. E s’arrabbiò quando il suo coscritto Valerio Rabaini, detto Bakunin, vedendo quel nastro, gli diede una bella pacca sulle spalle, sentenziando: “Bravo,Argante. Sei anche tu dei nostri, a quanto vedo. Avremmo preferito un capo di Stato, ma l’Imperatrice d’Austria, in mancanza di meglio, è andata bene lo stesso”.

 

Sinceramente addolorato guardò storto il Rabaini che si guadagnò pure un calcio nel sedere e una scarica di improperi che non è il caso di riportare. Questa storia si è tramandata e ai Dorini capitò spesso di raccontarla ai ragazzi che però ascoltano svogliati, a volte per dovere, presi come sono dal loro mondo. I bambini invece, soprattutto le femmine, sono curiosi e fanno tante domande. Beata ingenuità: chiedono perché il nonno di Mario non sposò “la Sissi”, domandano se non le piacesse, se la trovava brutta o non si erano capiti per colpa della lingua. Chissà, forse è stato tutto colpa del destino che ha voluto far andare le cose così. Anche se, persino nell’ultimo istante della sua vita, l’affascinante Elisabetta, portò con sé l’opera d’arte confezionata dall’italiener Argante, ombrellaio ambulante di Sovazza.

Marco Travaglini

L’amaro gusto dell’acqua

Era sempre la stessa storia. Ogni volta che un gerarca veniva sul lago, in visita alle isole Borromee,  a Stresa o in un’altra località nelle vicinanze, Gino e Lucio finivano ammanettati nella rimessa delle barche, proprio  sotto la passeggiata del  lungolago di Baveno.

Le disposizioni, del resto, erano chiare: tutti coloro sui quali si nutriva anche solo il sospetto d’essere dei  sovversivi andavano controllati e, se necessario, messi a tacere. I due, pur avendo schivato il confino non potevano evitare quella restrizione della loro libertà. E quindi, giù sotto, in riva al lago, al riparo da sguardi indiscreti. Incatenati ai grandi anelli di ferro dove venivano assicurate le cime da ormeggio delle imbarcazioni, non erano in condizione di nuocere. “Anche se si lamentassero, là sotto, nessuno potrà udirli”, sentenziò il maresciallo Rustici. Fascista antemarcia, il graduato dei carabinieri evadeva così la spinosa “pratica” di “quelle due teste calde”. “Oh, Carmelo – disse, rivolgendosi al carabiniere scelto Esposito -; ma ti pare che dovevano proprio capitare tra i piedi a noi questi rompiballe?”. Carmelo, buono come un pezzo di pane, annuì per far piacere al suo superiore ma in cuor suo non li avrebbe costretti a star lì, quasi a mollo nel lago, in quell’antro umido e inospitale. Già l’ultima volta, per un  soffio, non c’era scappato il morto. I due –  ai quali era stato aggregato anche Olimpo Bronzelli – erano finiti ammanettati agli anelli d’ormeggio perché era stata annunciata la visita di un pezzo grosso all’hotel Beau Rivage. L’Hotel era proprio lì, dall’altra parte della strada che attraversava il paese. Olimpo, scalpellino nella cava di granito rosa, era finito ai ferri perché reo di aver canticchiato in un’osteria un motivetto che il Podestà aveva giudicato offensivo nei confronti del regime e del Regno. In realtà, il povero tagliapietre – un po’ brillo – aveva improvvisato un’innocua e vecchia tiritera che più o meno suonava così: “Viva il Re, viva la regina e viva la capra della Bettina”, animale reso famoso dall’eccellente e copiosa produzione di latte. Uno scioglilingua che però era stato mal interpretato e così, ai soliti due reprobi si aggiunse pure il terzo. Il problema derivò dal maltempo. Una forte perturbazione stava imperversando tra il lago e le alture del Mottarone e, in poco tempo, le onde s’ingrossarono trasformandosi in schiumosi cavalloni che s’infrangevano sulla massicciata ricavata dalla passeggiata del lungolago. Immaginarsi che inferno anche là sotto, per i tre prigionieri. A tratti le onde li sommergevano per poi ritirarsi, lasciandoli infreddoliti e in balia di altri, gelidi, schiaffi d’acqua. Tutti e tre furono costretti, loro malgrado, a bere quell’acqua dal cattivo sapore. Soprattutto Lucio che, una volta liberato, giurò di non toccar più una goccia di quel liquido tremendo, limitandosi – pur nelle restrizioni dell’epoca – a sorseggiare soltanto vino, compreso quello aspro e ruvido, che legava in bocca, spillato dalla botte dell’osteria della Miniera, su in  Tranquilla.

Marco Travaglini