|
L’appuntamento è dal 24 al 27 luglio a Balme con cibo, musica, tornei sportivi, attività, visite allo stabilimento produttivo e, ovviamente, birra a fiumi. |
|
A un anno dall’inaugurazione della Birreria, il Birrificio Pian della Mussa, uno dei più alti d’Italia (si trova a 1432 metri slm), torna a festeggiare celebrando la seconda edizione della Festa della birra di Montagna con quattro giorni di cibo, musica, tornei sportivi, tanta voglia di stare insieme e, ovviamente, birra a fiumi.
L’appuntamento è dal 24 al 27 luglio a Balme, paesino delle valli di Lanzo ai piedi del Pian della Mussa dove eccellenza, rispetto della natura, tecnologia e amore per il proprio lavoro si incontrano per produrre una birra biologica fatta con l’acqua di montagna, attingendo da una sorgente dedicata (caso unico in Italia) e utilizzandola senza che venga in alcun modo trattata. Qui la famiglia Brero, con Alessio, AD del Pian della Mussa e sua moglie Elisa, responsabile marketing e amministrazione, porta avanti il progetto iniziato diciassette anni fa quando Michele Brero decise di acquisire lo stabilimento del Pian della Mussa, per riscattare il fallimento e riportarlo all’antico splendore. Da allora, l’acqua di questi luoghi è tornata ad essere un’eccellenza produttiva, seguita dalla birra biologica e dal coraggioso progetto della birreria, inaugurata un anno fa come luogo di convivialità e condivisione.
E proprio la birreria sarà al centro di un programma che riempirà di momenti, di buon cibo e di ottima birra un lungo weekend estivo, da trascorrere al fresco abbracciati dalle montagne. Giovedì 24 si inizia alle 19 in birreria con la cena (prenotazione obbligatoria per chi vuole sedersi al tavolo), per poi scatenarsi con la musica dei Back to Vinyl, un dj set con vinili dedicato ai grandi classici degli anni Ottanta e Novanta. Si continua poi venerdì 25 con il doppio appuntamento gastronomico (pranzo e cena) in birreria tra degustazione di birre e proposte culinarie a tema. Durante la giornata si potranno prenotare in loco le visite guidate in azienda (al mattino dalle 10 alle 12 e al pomeriggio dalle 14 alle 18), per approfondire la conoscenza di una realtà davvero unica. Per il dolce (o per uno spuntino goloso) ci sarà anche il carrettino della Piccola Gelateria di Montagna L’Ape Drola, impresa locale di Cantoira, produttrice di miele e prodotti della terra delle Valli di Lanzo.
Durante la serata ci sarà anche la possibilità di partecipare a una camminata per la Val Servin (con un itinerario adatto a tutti i camminatori, di qualsiasi esperienza – durata 1 h / 1.30 h), con visita al museo delle guide alpine in notturna. Per gli amanti della birra più sedentari e meno esplorativi, concerto alle 20.30. Sabato 26 sempre disponibile l’opzione del pranzo e cena in birreria con prenotazione, oppure la proposta di Rock burger, Emporio Vegetale e Donburi House. Oltre alle visite guidate in azienda, dalle 10 alle 16 ci sarà un bel momento di festa e di gioco, con il Circo Wow che proporrà attività per il pubblico di tutte le età raccontando e facendo provare i giochi di una volta (accesso libero e gratuito). Alle 21 ancora musica con il concerto country e Rock & Roll dei Love Sick Music e poi dalle 23 dj set. Domenica 27 la Festa prosegue già dalla colazione, con la performance di voce e arpa di Cecilia harp live che si terrà alle 10.30 nel giardino della birreria. Si continua poi per tutto il giorno con la proposta gastronomica, le visite in azienda e con l’intrattenimento del Circo Wow, a cui si aggiunge dalle 11 alle 16 la possibilità per i più piccoli di fare una cavalcata in sella a un pony. Il concerto dei Beatwins, cover band dei Beatles, accompagnerà le attività del pomeriggio, per chiudere in bellezza quattro giorni di grande festa.
|
Tra arte e moda: la bellezza come atto quotidiano
Nel cuore della sua boutique, in corso Re Umberto 17 a Torino, Laura Maria Tronnolone non propone semplicemente abiti: propone visioni.
Pittrice raffinata e imprenditrice creativa, da più di 35 anni, ha dato vita ad un progetto che fonde due linguaggi spesso tenuti separati – quello della moda e quello dell’arte figurativa – in un’esperienza unica, sensibile e profondamente estetica. Le sue tele vivono tra le pareti del negozio, accanto ai capi selezionati o reinterpretati. L’una non è sfondo dell’altra, si guardano, si parlano, si completano. In questa intervista, Laura ci accompagna dentro il suo mondo fatto di pigmenti, stoffe e significati, restituendo un’idea di bellezza che non è solo visiva, ma anche interiore e quotidiana. Identità artistica
1. Come definirebbe la sua identità artistica?
La mia identità artistica affonda le radici in un dialogo costante tra l’interiorità e la materia viva del mondo. È nell’incontro sottile tra introspezione e sostanza che prende forma il mio gesto pittorico, come un respiro che si posa sulla tela. Attraverso la pittura a olio, indago le pieghe più silenziose dell’animo umano, traduco emozioni sospese nel tempo, frammenti impercettibili che sfuggono allo sguardo distratto ma che abitano profondamente l’invisibile. Ogni pennellata è un atto di ascolto, una carezza data al vuoto, alla fragilità, alla memoria che torna sotto forma di luce o di ombra. I miei quadri non gridano, ma sussurrano: raccontano silenzi che parlano più di mille parole, attese che si cristallizzano nei margini, tra ciò che è stato e ciò che ancora non c’è.

2. Quali temi o emozioni cerca di esplorare attraverso la pittura?
Attraverso la pittura cerco di esplorare un paesaggio emotivo intimo e stratificato, fatto di sospensioni, malinconie leggere, desideri inespressi e memorie che riaffiorano come nebbie sottili. Mi interessano soprattutto le emozioni incerte, quelle che abitano i confini — tra presenza e assenza, tra luce e ombra, tra ciò che è stato e ciò che forse non sarà mai. La fragilità umana, la vulnerabilità dei sentimenti, la bellezza imperfetta del quotidiano — sono tutti elementi che si intrecciano nel mio lavoro. Ogni tela è un piccolo teatro dell’intimità, un frammento di storia personale che diventa universale proprio perché sincero. Dipingere per me è un modo per abitare le emozioni, non solo rappresentarle — viverle attraverso il tempo lento della creazione.
3. Che ruolo hanno per lei la bellezza e l’estetica nel suo lavoro
artistico?
La bellezza, per me, è silenzio e verità. Non inseguo la perfezione, ma cerco l’equilibrio, tra ciò che si mostra e ciò che si intuisce. La vera bellezza è semplicemente la consapevolezza di essere presenti, qui ed ora. L’estetica non è ornamento. Più importante è il corpo che deve dialogare con la luce, in cui è lo spazio a piegarsi alla sensibilità di uno sguardo. Come nei quadri, ogni forma ha un respiro, ogni vuoto una possibilità. C’è eleganza nell’essenziale, potenza nella misura. Il superfluo distrae; la semplicità, quando è frutto di coscienza e stile, rivela ciò che conta davvero. La bellezza autentica non si impone; arriva leggera come un profumo che rimane sulla pelle anche quando è svanito, perché lo si ricorda.
4. Quali influenza hanno plasmato il suo stile pittorico? C’è un artista,
un movimento o un’esperienza decisiva?
La mia pittura nasce dall’incontro tra corpo e silenzio. Mi lascio guidare dal chiaroscuro, da quella luce caravaggesca che incide la carne come un bisturi e scolpisce il gesto in un tempo sospeso. Il rosso è la mia ferita sacra: filo conduttore, vincolo, passione, dolore. Lo uso come una scrittura emotiva, un segno vivo che attraversa i corpi e li lega. Amo il femminile come tensione, non come ornamento. Le mie donne non cercano lo sguardo: esistono, resistono, si stringono, si svestono, si liberano. In questo sento vicina Artemisia Gentileschi, la sua forza muta, la sua capacità di abitare la vulnerabilità.
5. Che rapporto ha con il colore, con la materia pittorica?
Il rosso è l’unico colore a cui concedo voce. Su una tela dove tutto tace in bianco e nero, lui grida — sottile, necessario. Non è mai decorazione, ma tensione. Il rosso compare come un atto deliberato, un’urgenza. Racconta ciò che il corpo non dice: il desiderio, la costrizione, l’intimità, la perdita. È dolore, ma anche libertà. In un mondo visivo che rinuncia al superfluo, il rosso è ciò che resta. La presenza che non si può ignorare. Nel mio lavoro, il rosso non colora: rivela. È il luogo dove la tensione estetica incontra la materia emotiva. È gesto pittorico e narrazione interiore. Il mio rosso non è solo un colore: è un linguaggio, un grido sommesso, una verità che non ha paura di mostrarsi.
![]()
Il dialogo tra arte e moda
6. Quando ha iniziato a sentire il desiderio di unire arte e moda?
È nato in modo istintivo, quasi necessario. Per me, la moda è sempre stata un’estensione dell’identità visiva, esattamente come la pittura. Entrambe raccontano chi siamo, attraverso forme, colori e abiti. Ho sentito il bisogno di unire queste due dimensioni intime della mia creatività, dando vita a un luogo in cui tessuto, bellezza e gesto artistico potessero dialogare armoniosamente. Così è nata la boutique: non un semplice negozio, ma il prolungamento naturale del mio atelier, uno spazio sensibile in cui ogni capo diventa opera, e ogni scelta estetica, un frammento del mio linguaggio personale.
7. Come si contaminano i due linguaggi nel suo progetto?
Non amo la parola “contaminano”. Preferisco pensare che arte e moda si intreccino, si rispecchino. Nella mia art boutique parlano con la stessa voce: attraverso il dettaglio, la manualità, la ricerca del bello. Ogni capo e ogni quadro condividono un’estetica intima, femminile e autentica. È un dialogo, non una fusione.
8. Cosa significa per lei indossare l’arte?
Indossare l’arte, per me, significa scegliere di abitare la bellezza con consapevolezza. Non è questione di apparire, ma di essere. L’arte, come l’abito, non serve a decorare una donna: serve a rivelarla. Quando una donna indossa qualcosa che parla la sua stessa lingua estetica non si traveste, si dichiara. Come diceva Chanel, “la moda passa, lo stile resta” — e lo stile, quando nasce dall’arte, diventa una seconda pelle. È un’estensione dell’anima, una pittura invisibile addosso. Ogni capo è un quadro da portare: cucito con silenzio e memoria.

9. In che modo le sue opere influenzano la scelta dei capi o dell’allestimento nella boutique?
Le mie opere non decorano semplicemente lo spazio: lo abitano. Sono loro a tracciare il ritmo emotivo della boutique, come stagioni interiori che guidano ogni scelta estetica. I colori delle tele — a volte bruciati come un autunno che non vuole finire, altre volte vividi come una primavera improvvisa — diventano la bussola con cui scelgo i tessuti, le sfumature, i dettagli. I quadri non sono spettatori silenziosi: dialogano con gli abiti, li completano. Ogni angolo della boutique è pensato per raccontare un'emozione precisa, per invitare chi entra a perdersi in un’atmosfera che non si guarda soltanto, ma si sente — sulla pelle, nel respiro, nel battito.
10. Ritiene che l’arte possa restituire profondità al mondo della moda? E la moda può rendere l’arte più accessibile?
L’arte e la moda sono due linguaggi della stessa urgenza espressiva. L’arte restituisce profondità alla moda perché le ricorda la sua anima: quella che vibra nei gesti deigrandi couturier. Penso a nomi come Alexander McQueen, Rei Kawakubo, Elsa Schiaparelli: ognuno ha scolpito emozioni nell’abito, trasformando il corpo in una
tela viva. Allo stesso tempo, la moda rende l’arte più vicina. Permette all’arte di uscire dai musei e camminare per strada, di diventare esperienza quotidiana
11. Come è nata l’idea di fondere boutique e galleria d’arte?
L’idea è nata in modo quasi inevitabile: sono una pittrice, e dipingere è sempre stato il mio modo di stare al mondo. Ma allo stesso tempo ho sempre amato il vestire come forma di espressione, come estensione quotidiana di ciò che sento e creo. A un certo punto, i due mondi hanno smesso di essere separati. Così è nata la mia art boutique: non come un progetto commerciale, ma come una necessità artistica. Un luogo dove l’arte si indossa e la moda si contempla. Dove chi entra possa non solo acquistare, ma attraversare un’esperienza sensibile.
12. Che tipo di esperienza vuole far vivere ai clienti che entrano nel suo
negozio?
Voglio che chi entra nella mia boutique senta subito di essere altrove — non in un semplice spazio commerciale, ma in un luogo dell’anima. Desidero offrire un’esperienza sensoriale e intima, dove ogni abito, ogni quadro, ogni dettaglio racconti qualcosa, risvegli l’anima. Voglio che le persone si fermino, si ascoltino, si lascino attraversare dalle emozioni, dalle vibrazioni. Che si sentano accolte, viste, ispirate. È un invito a vestirsi non solo per apparire, ma per abitarsi.
![]()
13. Cosa distingue la sua boutique da uno spazio espositivo tradizionale o da un negozio convenzionale?
La mia boutique non è una galleria tradizionale, né un negozio convenzionale — perché non voglio né la freddezza asettica delle prime, né la frenesia impersonale dei secondi. Qui il tempo rallenta, lo spazio si respira, e ogni cosa è pensata per accogliere. Non ci sono vetrine da attraversare in fretta né opere da guardare in silenzio con le mani dietro la schiena. C’è piuttosto un’atmosfera calda, intima, quasi domestica, dove l’arte e la moda si fondono in un linguaggio emotivo.
14. Quanto conta il rapporto diretto con il pubblico in questo progetto?
So che può sembrare una frase fatta, ma per me il rapporto con il pubblico è tutto. Questo progetto esiste proprio per creare connessioni vere, per accorciare le distanze tra chi crea e chi attraversa la creazione. Non mi interessa un pubblico che guarda da lontano o acquista distrattamente: desidero incontri reali, sguardi che si fermano, parole che lasciano tracce. Per me l’arte e la moda sono strumenti di relazione, e ogni visita, ogni scambio, è parte integrante del processo creativo. Senza quel contatto umano, tutto il resto perde senso.
15. C’è una narrazione estetica dietro ogni collezione o allestimento?
Sì, sempre. Ogni collezione e allestimento nasce da un’emozione precisa, da una storia interiore che prende forma tra tela e tessuto. Nulla è casuale: ogni dettaglio è parte di una narrazione sensibile, visiva e tattile.
![]()
16. Qual è il messaggio più profondo che vuole trasmettere con il
progetto?
L’arte non morirà mai e la moda — quella vera, che nasce dal sentire — continuerà a vivere, a trasformarsi, a resistere. Questo progetto è un atto d’amore verso ciò che dura: l’emozione, la bellezza e l’identità.
17. Che ruolo ha la creatività nella sua vita quotidiana?
La creatività è il mio respiro quotidiano, il filo invisibile che dà senso a tutto ciò che faccio. Non è solo un’attitudine o un talento, è ciò che sono, la mia essenza viva che si manifesta in ogni gesto, in ogni scelta. Per esempio quando dipingo, quando scelgo i tessuti o allestisco uno spazio, non sto semplicemente lavorando: sto dando voce a una parte di me che non può tacere. Ogni giorno è un’opportunità per creare, per reinventare, per scoprire nuove sfumature di me stessa e degli altri.
18. Secondo lei, oggi c’è bisogno di bellezza? E come si coltiva?
Dire che oggi ci sia “bisogno” di bellezza presupporrebbe che la bellezza sia sparita, e questo sarebbe un errore. La bellezza non è un concetto fisso, matematico, definito
una volta per tutte: è un flusso in continuo mutamento, una katharsis che si trasforma con il tempo, con le emozioni, con le persone. Non dobbiamo inseguire una bellezza immutabile, ma coltivare la capacità di riconoscerla e accoglierla in tutte le sue forme, anche quelle inaspettate o “imperfette”.
19. Qual è per lei il vero valore dell’arte visuale “fuori dai musei”?
Il vero valore dell’arte visuale “fuori dai musei” sta nella sua capacità di incontrare le persone nella vita reale, di uscire dall’astrattezza e freddezza delle sale espositive per diventare parte concreta del quotidiano. Quando l’arte si fa accessibile, si fa dialogo, si trasforma in esperienza condivisa, arricchisce chi la vive e chi la crea. Fuori dai musei, l’arte perde la sua aura intoccabile per diventare viva, pulsante, capace di trasformare gli spazi e le emozioni, di parlare a chiunque senza barriere. È lì che l’arte si fa davvero democratica e potente.
![]()
20. Come immagina l’evoluzione futura di questo progetto? C’è qualcosa che sogna ancora di realizzare?
Immagino questo progetto come un organismo vivo, in continua evoluzione, capace di aprirsi sempre a nuove forme di espressione e di relazione. Sogno di ampliare gli orizzonti, magari integrando performance, workshop o collaborazioni con altri artisti e couturier, per trasformare la art boutique in un vero laboratorio di emozioni condivise. Vorrei che diventasse un luogo di incontro e di scambio. E sogno anche che questo spazio diventi un esempio, un faro per chi, come me, crede nel magnifico connubio tra arte e moda — un invito a scoprire quanto possa essere potente e trasformativa questa unione.
“Ragioniere, buongiorno. Anche oggi, il solito?”. Così lo salutava ogni mattina, dal lunedì al sabato, il signor Alfredo. All’anagrafe Alfredo Tichetti, di professione bigliettaio addetto allo scalo della Navigazione Lago Maggiore, in servizio all’imbarcadero di Baveno.

E il “solito” non era una consumazione al bar ma semplicemente il biglietto del battello che da Baveno lo portava in giro per il lago. A volte verso Intra dove, dopo gli scali all’Isola Madre, a Pallanza e a Villa Taranto ( ma solo d’estate), aveva a disposizione un quarto d’ora scarso per imbarcarsi sul traghetto che faceva la spola con Laveno, sulla sponda lombarda del Verbano. A volte verso le isole Pescatori e Bella, Stresa, Santa Caterina del Sasso e la parte bassa del Maggiore, verso Angera e Arona. Il ragioniere era Teobaldo Lucciconi di anni sessantasei, celibe. Per quelli che lo conoscevano era semplicemente “il ragioniere”, tant’è che il suo nome non lo usava più nessuno e, se non fosse scritto sui registri del municipio, avrebbe potuto anche pensare di cancellarlo. Lucciconi era stato ragioniere contabile, impiegato alla filiale bavenese della Banca d’Intra al n. 5 di corso Giuseppe Garibaldi, a pochi passi dal piazzale dell’imbarcadero e dei moli d’attracco dei battelli e dei motoscafi. Aveva passato più di trent’anni dietro a quello sportello, intento a contare i soldi degli altri, a darne e riceverne. In tutto quel tempo gli sono passati davanti agli occhi i fatti privati e pubblici, le gioie e le tristezze di diverse generazioni. Altro che il confessionale del prete, su alla parrocchiale! Era in banca che ci si scambiava un saluto e si ricevevano confidenze, dovendo anche dare – se richiesto – qualche utile consiglio. Ma giunto al tempo della pensione, non ci pensò un minuto di troppo. Si levò le mezze maniche e, sempre con garbo (il che non guasta mai), salutò tutti e se ne andò senza rimorsi. Non che stesse male, anzi: aveva degli amici sinceri lì, e in fondo era stata la sua famiglia per tanto tempo. Vivendo da solo si era affezionato a quell’ambiente ma, come in tutte le cose, cercava di non vivere di ricordi e malinconie. Così aveva pensato che, dopo tanti anni passati tra casa e ufficio, ufficio e casa, era venuto il momento di prendere un poco d’aria fresca, guardandosi intorno. E sul lago di cose da vedere ce n’erano davvero tante. Così, a volte a piedi e altre utilizzando i mezzi pubblici (dal treno alla corriera passando, ovviamente, dal battello), iniziò a girare i paesi del lago su entrambe le sponde, la piemontese e la lombarda senza tralasciare la parte più a nord, in territorio elvetico, dedicandosi a frequentare le amicizie e a ripercorrere, con la memoria, le tante storie dei tipi originali con cui ha avuto a che fare. E vi possiamo assicurare che sono tanti che nemmeno vi immaginate. Ma soprattutto ebbe occasione e tempo per riscorire Baveno e le sue frazioni. ” Ma guarda tu”, pensava “E chi l’avrebbe mai detto che vivevo in un posto così bello e non ci avevo quasi mai fatto caso”. Era una delle sue riflessioni ricorrenti da quando era andato in pensione. Per tanti, troppi anni era stato “preso” dal lavoro e non alzava quasi mai lo sguardo sopra lo sportello. Arrivava in banca al mattino presto, portandosi da casa la “schisceta”. Eh, sì. Voi come la chiamate? Baracchino, pietanziera, gamelin, gavetta, gamella? Da noi quella pentolina di metallo a strati, con un coperchio ben chiuso per evitare perdite, indispensabile per scaldare su un termosifone un poco di pasta avanzata del giorno prima, una minestra di verdura o una fetta di carne, era la schisceta. Del resto da single, come si usa dire al giorno d’oggi, cosa andava a casa a fare? Non aveva nessuno ad aspettarlo o che cucinasse per lui e allora gli avanzi della sera prima erano più che sufficienti per mettere insieme un pasto economico da consumare sul posto di lavoro. Usciva di casa che era buio e ritornava a sera inoltrata perché spesso si fermava a dare una mano al direttore nel disbrigo dei conti e delle chiusure di cassa. Eh, un tempo non si guardava mica l’orologio. Prima il lavoro, poi il lavoro e poi ancora la famiglia. E lui che era praticamente tutta la sua famiglia quando andava a casa si fermava qualche minuto ad accarezzare il gatto della signora Maria, la vecchia lavandaia che abitava in cima a quel rione che chiamavano “il baeton”. Si faceva accarezzare perché gli dava sempre qualche pelle di salame, crosta di formaggio e cotiche avanzate. Il Tigre (si chiamava così per il pelo rosso striato di grigio e non certo per il carattere intraprendente visto che stava sempre sdraiato al sole, sullo zerbino di casa, a ronfare) manifestava la sua riconoscenza sfregandosi alle gambe con un sonoro ron-ron. Le giornate del ragioniere scorrevano così, senza troppe emozioni e senza andar di fretta. Poteva permetterselo, facendo una vita tanto regolare da far invidia a un orologiaio svizzero. Ogni giorno gli capitava di veder gente correre qua e là, sempre indaffarata, quasi avessero addosso tutti l’argento vivo. E lui? Niente. Si era guadagnato il diritto alla flemma. Gli capitava, come accade a tutti, qualche episodio dove la frenesia prendeva il sopravvento e bisognava darsi da fare ma erano, per fortuna, momenti piuttosto rari. Così, pur non mancando ai suoi doveri, cercava di tenere un passo che fosse, come dire, il più lento e ragionato possibile. E, bene o male, ci riusciva. Al Circolo Operaio bavenese ci andava soprattutto il lunedì mattina, giorno di mercato, dopo aver bighellonato tra le bancarelle. Gli piaceva quel brulicare di persone che chiacchieravano e contrattavano le merci esposte con un vociare che metteva allegria. Quando c’erano i turisti, dalla tarda primavera alla fine dell’estate, era una vera e propria babele di lingue. Sarà stato perché pativa la solitudine o perché gli piaceva iniziare una nuova settimana con un poco di movimento dopo l’ozio domenicale, ma far due passi al mercato era proprio divertente. Non che ci andasse per comprare qualcosa. Gli capitava raramente e solo per alcuni capi di vestiario. Per i generi alimentari andava in uno dei due piccoli supermercati.

Anzi, per non far torto a nessuno, stava ben attento a fare la spesa sia in uno che nell’altro. Così, pensava, nessuno ne avrà a male. Tanto più che al giorno d’oggi i prezzi sono più o meno uguali e anche la qualità non si discosta di molto. Ma, compere a parte, il mercato lo metteva di buon umore. Confessava che rimpiangeva quando era in centro, occupando la piazzetta tra le scuole elementari, il retro del municipio e pure la via principale che costeggiava la scalinata della chiesa. In seguito, per non intralciare il traffico e agevolare la viabilità, venne spostato sul viale del ponte che attraversava il torrente Selvaspessa tra Baveno e Oltrefiume, piò meno all’altezza del punto dove in passato c’era la vecchia passerella. Era sì più funzionale al traffico ma anche più decentrato e, quindi, un po’ più scomodo. Comunque, ora che era in pensione, quella passeggiata era piacevole e, terminato il giro verso le dieci e mezza, si avviava pigramente alla volta del Circolo. Passava sotto il ponte della ferrovia, svoltando a destra sul viale alberato e scendeva a fianco della stazione ferroviaria proprio davanti all’entrata dell’imponente Casa del Popolo. Fuori, nella bella stagione, c’era sempre qualcuno che si sfidava sui campi da bocce, mentre gli altri avventori si dividevano tra coloro che sbirciavano la partita, leggevano il giornale commentando i fatti del paese o si lasciavano prendere la mano dal turbinio delle carte da ramino o da scopa. E lui, il ragioniere, dopo aver chiesto un bicchiere di spuma o, più raramente, una cedrata, rispondeva di buon grado ai quesiti di natura finanziaria che gli venivano posti. Del resto, come gli aveva detto il cavalier Borloni dandogli una pacca sulla schiena, anche se a riposo “si è sempre ragionieri, no?”.
Marco Travaglini

La lettrice Alessandra Macario ci invia una foto dell’interno di Via Susa 33 a Torino.
‘Il cortile del Palazzo Ansaldi, situato in via Susa, è stato progettato dal Carrera all’inizio del ‘900 in un suggestivo ed elegante stile liberty. Sullo sfondo, la splendida Torre Westminster.’
Quanto conta l’estetica per i torinesi?
Scopri –To. Alla scoperta di Torino

Avete provato le crespelle ai formaggi?
Simbolo della cucina d’Oltralpe, le crespelle hanno origini antichissime, nate come alimento corroborante a base di latte e uova per sfamare i pellegrini francesi giunti a Roma. Oggi, squisite cialde dorate e sottili dal cuore morbido e filante; una ricetta golosa, sempre gradita a tutti. Un primo piatto che fa subito festa.
***
Ingredienti
100gr. di farina 00
2 uova intere
250ml. di latte intero
25gr. di burro
200gr. di formaggi a piacere
50gr. di grana grattugiato
Un pizzico di sale
***
Preparare l’impasto per le crespelle lavorando le uova con la farina e il sale, mescolare bene poi, aggiungere il latte e il burro fuso facendo attenzione che non si formino grumi. Lasciar riposare la pastella per mezz’ora. Preparare le crespelle utilizzando un pentolino. Con l’aiuto di un piccolo mestolo, distribuire la pastella su tutta la supeficie, lasciar cuocere sino a quando i bordi si increspano poi, girare la crespella con una spatola e continuare la cottura per mezzo minuto. Proseguire sino ad esaurimento della pastella. Distribuire su ogni crespella ottenuta i formaggi ridotti a dadini, arrotolare le crespelle e disporle in una pirofila da forno unta di burro. Spolverizzare con abbondante grana e infornare a 180 gradi per 20 minuti poi, per altri 5/10 minuti sotto il grill per la doratura. Servire subito.
Paperita Patty
SECONDA PARTE
Ognuno di noi, quindi, ha i suoi valori e la propria scala di valori. Nella fotografia che accompagna questo post i lettori de Il Torinese potranno scorrere un elenco di oltre un centinaio di valori. La lista non è esaustiva, ma potremmo aggiungerci altri valori non ricompresi e per qualcuno importanti.
In ogni caso l’elenco potrà essere utile per meglio comprendere alcuni valori che sono importanti per ogni lettore, e magari anche per stilare un elenco personale e un ordine di priorità e di importanza dei valori che per ognuno sono fondamentali.
Ma perché è così importante conoscere i valori che ci guidano? Beh, esattamente perché essi ci guidano, o così dovrebbe essere. L’importanza di pensare e agire in coerenza con ciò che per noi è importante è enorme. Soltanto quando la nostra esistenza segue i princìpi per noi essenziali possiamo dire stare davvero bene.
Se al contrario la nostra vita si svolge in modo difforme dai nostri valori guida, vuoi per ragioni esterne a noi e indipendenti da noi o per motivi che hanno più a che fare con un nostro disordine interiore, ecco che la nostra esistenza e i nostri comportamenti diventano confusi, contraddittori, incoerenti e fonte di disagio e sofferenza.
Il primo fondamentale passo quindi, è di essere consapevoli dell’importanza di avere e conoscere i nostri valori guida, ai quali appellarci per qualsiasi nostra decisione e azione. Quante volte abbiamo percepito un malessere interiore e abbiamo poi scoperto che esso derivava dal fatto che stavamo facendo qualcosa che andava, molto o poco, contro i nostri principi?
I nostri valori, poi, fanno ogni giorno i conti con i nostri bisogni (di sicurezza, di appartenenza, di stima, ecc.) e da questi sono condizionati. E’ da una armoniosa relazione tra valori e bisogni che ognuno di noi può o meno definire un percorso esistenziale che sia quanto più possibile sereno e proficuo.
Roberto Tentoni
Coach AICP e Counsellor formatore e supervisore CNCP.
www.tentoni.it
Autore della rubrica settimanale de Il Torinese “STARE BENE CON NOI STESSI”.
(Fine della seconda parte)
Potete trovare questi e altri argomenti dello stesso autore legati al benessere personale sulla Pagina Facebook Consapevolezza e Valore.
Omegna, torna San Vito 2025 ed è subito Festa!
Grandi novità per l’Edizione di agosto con un programma multitasking che si preannuncia ricco di opportunità e attrazioni. Gli organizzatori: “Obiettivo innovare restando fedeli alla tradizione”.
Torna ‘San Vito 2025’. Quest’anno il calendario segna l’edizione numero 122 per uno degli eventi più antichi del Piemonte e in Italia, nonché altrettanto partecipati in grado di richiamare flussi turistici da ogni parte d’Italia e dall’estero.
La kermesse, di certo la più nota e rinomata per chi ama i laghi d’Orta, Maggiore e di Mergozzo, straordinaria e unica porzione geografica piemontese apprezzata in tutta Europa, andrà in scena come di consueto a Omegna, in provincia di Verbania, terra natia del celebre scrittore e poeta Gianni Rodari, da Venerdì 22 Agosto a Lunedì 1° Settembre, tradizionale ricorrenza di San Vitino.
Moltissime le novità in programma, con il ritorno delle tradizioni più emozionanti quali l’eccezionale e coinvolgente spettacolo piromusicale protagonista con un doppio appuntamento la sera delle domeniche 24 e 31 agosto. E con loro, in settimana ad arricchire una scaletta di tutto rispetto, una scelta musicale rivolta a grandi e giovani con artisti di primo piano della scena contemporanea dai repertori conosciuti e capaci di accontentare ogni tipo di pubblico. Insieme ai celebri ‘Salotti Diderot’ per fare il punto a metà tra storia e attualità con firme importanti del panorama letterario locale e nazionale.
A dare il via ai festeggiamenti, la sera di Venerdì 22 Agosto, il grande concerto bandistico della ‘Nuova Filarmonica Omegnese’ giunta al 40° della sua fondazione, per proseguire la sera di Sabato 30 con la partecipatissima Processione di San Vito animata dal Parroco Don Gianmario Lanfranchini che reca in sé la secolare e suggestiva benedizione del Lago D’Orta e delle imbarcazioni: una tradizione che prosegue dal lontano 1611 e che vedrà come di consueto la partecipazione del Vescovo di Novara Franco Giulio Brambilla. Spazio anche alla musica classica con ‘I Concerti di Santa Marta’, tre appuntamenti serali in Collegiata.
Come sempre, spazio anche alle eccellenze agroalimentari delle diverse regioni italiane e ai mercatini artigianali e con oggetti di antiquariato e modernariato che animeranno con una proposta ricca, variegata e allettante il lungolago omegnese per l’intera durata dei festeggiamenti.
Mercoledì 27 sera, invece, ritorna presso il ‘Forum’ l’appuntamento con i cosiddetti ‘Fuochini’, ovvero i fuochi d’artificio a misura di bambino, che grande consenso riscuotono al pari dei grandi. Un’iniziativa che rientra nel cosiddetto programma ‘San Vito Bimbi’ rivolta ai più piccoli.
Motore e pilastro portante della manifestazione è il consolidato e altrettanto grandioso ‘Banco di Beneficenza’, allestito fronte lago e in grado di dispensare, unico nel suo genere in Italia, premi per un valore di decine di migliaia di euro suddivisi abitualmente fra autovetture, ciclomotori, elettrodomestici, beni di lusso, tecnologia e informatica. Senza dimenticare ‘La Cittadella del Gusto’, area destinata alle associazioni agroalimentari del territorio intente nella proposizione di specialità zonali.
In attesa dell’arrivo del programma completo delle proposte di ‘San Vito 2025’, per Matteo Pino, Presidente del ‘Comitato Festeggiamenti’, “Proseguiamo con vigore nel cammino di rilancio e rinnovo, pur nel rispetto e nella continuità della tradizione della nostra Festa. Il post Covid ha visto un importante e significativo investimento finalizzato al ritorno all’origine con la reintroduzione dei magnifici fuochi artificiali suddivisi nuovamente su due domeniche, per un totale di oltre 50mila presenze registrate solo in quelle specifiche giornate. L’obiettivo è incrementare la visibilità di un evento multipotenziale e multidisciplinare in grado di rappresentare un’alternativa valida di soggiorno turistico di fine agosto per amplissime e diverse fasce di pubblico”.
Mentre per Valentino Valentini, Presidente dell’Associazione ‘Un secolo di San Vito’, “L’appuntamento con la Festa patronale omegnese punta a diversificare il target massimizzando la capacità attrattiva del territorio. Una kermesse che parla agli amanti della musica, dell’arte, della buona cucina, della tradizione, della cultura, della fede, dell’intrattenimento tutti vissuti su una terrazza naturale affacciata su un lago di grande suggestione quale quello d’Orta, che in Omegna ha una delle sue punte più note e stimate. Con l’intento di rinnovarsi restando fedeli a sé stessi, in un’ottica di avvicinamento e coinvolgimento progressivo di un maggior numero di giovani chiamati a partecipare attivamente anche in prima persona, oltre che alla fruizione, alla costruzione della nostra grande kermesse”.
Maggiori informazioni sul sito www.sanvito-omegna.it.
Le ricette della tradizione: frittata di Luppolo
Raccogliere, in primavera, le parti tenere dei germogli di luppolo. Preparare un leggere soffritto di cipolla…
Leggi la ricetta su piemonteitalia.eu:
https://www.piemonteitalia.eu/it/enogastronomia/ricette/frittata-di-luppolo
Non tanto alto, uno sguardo furbo e due gote belle rosse,Faustino non possiede “quarti di nobiltà”. Anche di sangue blu, nelle sue vene, non c’era traccia. Ma il suo doppio cognome – Giulini-Nobiletti – con quel trattino nobiliare può trarre in inganno. Quel trattino non era altro che un aggiunta posticcia, frutto di un errore dell’impiegato dell’anagrafe che aveva registrato l’atto di nascita aggiungendo al cognome paterno anche quello materno, separando l’uno dall’altro con un tratto di penna. Così, negli atti ufficiali e col tempo, la svista si affermò come la più reale delle realtà, con buona pace di tutti e di Fausto Giulini-Nobiletti per primo. L’errore non poteva però esser definito tale al cospetto del signor Francazzali, impiegato comunale con trent’anni e più di onorato servizio sulle spalle. Di fronte alla segnalazione del refuso, senz’altro frutto di una svista, s’irrigidì come uno stoccafisso: “Qui di errori non se ne fanno e non se ne sono mai fatti, chiaro?”. Non ammettendo, Eugenio Francazzali, alcuna possibilità di replica, la cosa finì lì. Di tempo,da allora, ne è trascorso tanto, praticamente una vita intera, e a parte l’essere riconosciuto come uno dei più accaniti giocatori di scopa d’assi della zona, il buon Giulini-Nobiletti, da tempo in pensione, è noto anche come il più formidabile pescatore d’anguille che si sia mai visto all’opera sul lago Maggiore. La zona dove “praticava” si estendeva lungo quel tratto di costa della sponda piemontese del Verbano che va tra la foce del Toce e il “molino di Ripa”, a Baveno. Nella pesca all’anguilla era facilitato, per così dire, da un problema che da oltre vent’anni lo tormentava: l’insonnia. Dato che l’anguilla si pesca di notte, affondando la lenza nell’acqua scura come la pece, Faustino era avvantaggiato da quell’assenza di sonno nelle ore dedicate al riposo. Così, vigile e attento, per far passare le ore, pescava. A volte senza successo, tornando a casa a mani vuote, lamentandosi con quelli che incontrava. La “solfa” era sempre la stessa. “L’Anguilla è in calo, vacca boia. E’ un po’ di tempo che le cose vanno in malora. Tutte le anguille sono nate nel Mar dei Sargassi, l’unico posto dove si riproducono. Devono migrare, capito? Và di qui e và di là, l’anguilla. Un viaggio da Marco Polo. E, mondo ladro, adesso ci sono quelle dighe che regolano i livelli dell’acqua lungo il Ticino a rompergli le scatole, in particolare quella di Porto della Torre, tra Somma Lombardo e Varallo Pombia. Ecco, quella lì è diventata la linea del Piave per le anguille: da lì se pasà no! E se non si riproducono, io cosa pesco? Le scarpe vecchie e i barattoli arrugginiti?”.

Tra l’altro non è una pesca facile. Essendo l’anguilla un pesce potente e lottatore, occorre attrezzarsi a dovere. La canna? Con il cimino rigido, robusto e un mulinello in grado di ospitare una bobina di nylon di grosso spessore. La montatura dov’essere resistente, da combattimento: lenza dello 0,30 , amo del sette a gambo corto o del sei, forgiato storto, e un bel piombo a pera da 20 grammi. La ferrata non può essere incerta, balbettante. Non s’indugia, con l’anguilla: occorrono decisione e rapidità. Anche il recupero dovrà essere fatto nel modo più veloce possibile per evitare che l’anguilla riesca ad afferrarsi con la coda a qualche ostacolo sott’acqua, ancorandosi. A quel punto, ciao bambina: non la tiri fuori più neanche con il crick. Faustino é coscienzioso, attento, quasi uno svizzero. In quanto a precisione e professionalità pare la copia esatta del dottor Rossigni, quando visita con scrupolo i suoi pazienti. Faustino, la sua “visita”, la fa all’attrezzatura, ogni qualvolta – calate le prime ore della sera -parte per il lago. Oltre a canna, cassetta degli attrezzi ( ami,piombi, galleggianti, bave e così via), esche e guadino, non si scordava mai dell’ombrello. Sì, perché l’ombrello, come vedremo, è indispensabile. Quello che il buon Giulini-Nobiletti è solito usare l’ha acquistato da uno degli ultimi ombrellai della zona. Nella bottega di mastro Luciano il tempo si è fermato: vecchi mobili di legno con le vetrine piene di ombrelli artigianali di tutte le fogge. Erano amici e di lui Faustino parlava con entusiasmo. “ E’ lì, in quella bottega, che Luciano ripara ancora gli ombrelli, come faceva suo padre e prima di loro il nonno e lo zio. E’ uno come me, di quelli di una volta. Ormai quel mestiere, in giro per l’Italia,chi volete che lo faccia? Non lo fa quasi più nessuno ma lui resiste, tiene duro, altro che storie. Ho comprato due ombrelli fatti da lui, quello di tela pesante e con asta, manico e stecche in bambù e il puntale di ferro, e un altro di seta grezza. Una meraviglia! Il primo lo uso per ripararmi dalla pioggia, l’altro è il mio porta-anguille”. Il porta-anguille? Quando l’interlocutore sente questa storia per la prima volta, sgrana gli occhi. Ma cos’è? E lui, per tutta risposta, con quel suo sguardo malandrino, sfoderando uno dei suoi sorrisi più larghi, si mette a parlare della pesca con il “mazzetto” e con l’ombrello. Lo fa pacatamente, con pazienza, senza “mettersi in cattedra”. Dice che si pesca sotto riva, con la canna fissa di bambù. Senz’amo, perché non serve. Stupiti? Tutti, la prima volta che hanno udito il racconto. Eppure si pesca così, sostiene Faustino, usando una lenza speciale: uno di quei normalissimi cordini di canapa per l’imballaggio e un sottilissimo filo di ferro cotto, morbido e pieghevole, della lunghezza di un metro. Quest’ultimo serve a legare “a mazzetto” una manciata di lombrichi. Prima di iniziare la pesca, occorre disporre l’ombrello aperto e capovolto, con la punta fissata per bene nel terreno. L’interno di questa grande “scodella” va bagnato, così da renderne scivolose le pareti. Appena l’anguilla addenta il “mazzetto” si avvertono dei piccoli strappi che si alternano a tirate più decise e brevi pause. E’ l’anguilla che, con voracità, sta ingoiando l’esca. “ Qui non bisogna aver fretta”,spiega Faustino. “Occorre dar tempo, all’ingorda. I movimenti bruschi la insospettirebbero. La canna va alzata prima con lentezza e poi più in fretta , fino a portare la preda a pelo d’acqua. L’ultima fase, sempre senza strappi, è la prova del nove di abilità: si solleva l’anguilla per calarla nell’ombrello. Colta di sorpresa cercherà di riparare al suo errore e lo farà tentando di sputare l’esca. Ma ormai è tardi, per sua sfortuna: non potendo sputare tutto il groviglio di vermi, si accorgerà che questi istanti saranno fatali. Cadendo nell’ombrello non avrà scampo: dal fondo, viscida com’è, non potrà risalire. Se però ricade in terra, non resta che salutarla: sveltissima, al buio, riguadagnerà l’acqua”. Ride sornione, Faustino. E, visto che ormai il sole è in procinto di scomparire dietro al monte, con la canna e l’ombrello s’avvia verso il lago.
Marco Travaglini