LIFESTYLE- Pagina 39

La trappola del dover essere come gli altri ci vogliono

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Se per alcuni versi gli imperativi ricevuti nell’infanzia ci portano ad essere più efficienti e adattati, rispondendo quindi anche a esigenze sociali, in realtà in età adulta spesso non si rivelano così utili al buon andamento generale nella nostra vita, e soprattutto al nostro benessere esistenziale.

Perché se l’individuo non riesce ad esprimere al meglio la propria essenza, i propri veri valori, la sua effettiva realtà, le conseguenze anche sul piano sociale e collettivo finiranno con il non essere così positive… L’impatto delle prime relazioni sulla crescita del bambino è naturalmente molto forte.

E grande la potenza di certi messaggi e atteggiamenti degli adulti di riferimento. Per “adulti di riferimento” si intendono tutti gli adulti che assumono una certa importanza nella crescita del bambino, a partire da genitori, nonni, insegnanti, ecc.

Tutti noi costruiamo un nostro stile di vita, il nostro modo di stare al mondo. Di vivere, di sentire e manifestare le emozioni, di pensare e relazionarci. Vivendo a contatto con una certa cultura familiare, il bambino adegua le proprie manifestazioni espressive.

E i suoi comportamenti, per meglio sopravvivere e, senza accorgersene, finisce per adottare e rinforzare nel tempo modelli di vita che gli consentiranno di integrarsi nel suo ambiente con una certa tranquillità e sicurezza di sé. Da piccoli dobbiamo capire e conoscere il mondo intorno a noi.

Non abbiamo esperienza, ne’ elementi per comprendere la realtà e per saperci rapportare ad essa se non attraverso le persone che ci accudiscono. Ma da adulti dobbiamo uscire da certi cliché e schemi appresi, e concederci il permesso di essere noi stessi e di accettarci.

(Fine della seconda parte).

Potete trovare questi e altri argomenti sulla Pagina Facebook Consapevolezza e Valore.

Roberto Tentoni
Coach AICP e Counsellor formatore e supervisore CNCP.
www.tentoni.it

Autore della rubrica de Il Torinese “STARE BENE CON NOI STESSI”.

I torinesi e la moda intellettuale

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SCOPRITO   ALLA SCOPERTA DI TORINO

La moda italiana nacque a Torino nel 1911 quando per la prima volta una donna indossò un paio di pantaloni di un sarto francese, subito suscitò incredulità e stupore ma con il tempo le persone iniziarono a prenderla d’esempio creandone nuovi modelli. Poco per volta nacque a Torino l’industria dell’abbigliamento. Dagli anni Trenta agli anni Sessanta Torino fu il polo industriale principale italiano per la produzione del tessile. Solo dagli anni Novanta in poi Milano diventò capitale della moda italiana.
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I BRAND INDIPENDENTI CHE SALVAGUARDANO IL PIANETA

Secondo numerose ricerche i torinesi si ispirano molto alle mode del momento e numerosi sono i brand indipendenti che sono nati proprio in questa città. Tra di essi il brand “Nasco Unico” di Andrea Francardo, un laboratorio artigianale dove le clienti possono scegliere come realizzare il loro capo direttamente nel laboratorio evitando così sprechi di produzione.
Un altro marchio è “Amma” di Luisella Zeppa che produce borse eco-sostenibili, con materiali naturali e lavorate con cura e maestria da tantissime generazioni.
Per chi ama invece i gioielli vi è il marchio “Raduni Ovali” realizzati con pietre preziose, ognuno unico nel suo genere grazie alle attente rifiniture a mano.
Moltissime sono le scelte dei brand e dei negozi, spesso le piccole realtà sono poco conosciute rispetto ai grandi marchi ma possono essere un’ottima occasione per indossare capi unici e con una particolare attenzione verso l’ambiente.
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COSA INDOSSARE IN BASE ALLE OCCASIONI

I grandi marchi di moda influenzano ogni anno il mercato con tessuti e colori diversi, ma per ottenere esattamente il risultato che si vuole ottenere quando indossiamo un capo non dobbiamo solo basarci sulla moda ma anche su delle precise regole di psicologia!
Secondo la scienza infatti indossare degli abiti rossi accellera il battito cardiaco di chi li porta e anche del suo interlocutore, che potrà tradurre quella sensazione in “voglia di fuggire” o “eccitazione”, questo vale soprattutto se la persona che indossa l’indumento è donna. Quindi se ad un primo appuntamento vogliamo fare colpo vestirci di rosso potrebbe essere una buona idea.
Se invece abbiamo un’occasione più formale, ad esempio lavorativa, il colore ideale è spesso il blu perché abbassa il battito cardiaco, rilassa e fa si che l’interlocutore si fidi maggiormente di noi. I politici sono spesso vestiti di blu proprio per questo motivo, Donald Trump per esempio ha il completo blu, la cravatta rossa che indica grinta e lotta e la camicia bianca che suggerisce chiarezza.
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COSA INDOSSARE CON PARSIMONIA

Vi sono poi dei colori che potrebbero non aiutarci a raggiungere il risultato sperato come il nero che suscita l’idea dell’oscuro, velato, misterioso e al contempo lussuoso.
Il bianco stimola in noi l’idea della pulizia ecco perché è molto usato nei camici da lavoro, è però un colore che non suscita emozioni, non è quindi adatto quando vogliamo creare un legame con l’altra persona.

Si occupa di colori anche l’armocromia ma in un accezione puramente estetica e non scientifica, molto utile quando il nostro obiettivo è quello di valorizzarci esteticamente.

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NOEMI GARIANO

 

 

Presto che è tardi

Questa espressione, tipicamente piemontese, anticipava i tempi attuali dove tutto viaggia veloce, dove tutti hanno fretta, dove nel tempo occorrente a fare dieci cose ne vogliamo fare trenta.

Letteralmente “fai presto perché è già tardi”, è un’istigazione a non perdere tempo, ad accelerare i ritmi se no rischiamo di arrivare fuori tempo massimo; a fare cosa, spesso, non lo sa neppure chi la pronuncia.

Non è un problema solo torinese, anzi: provate ad andare a Milano e ve ne accorgerete. Se sotto la Madonnina occupate il lato sinistro della scala mobile, sicuramente vi arriverà qualcuno alle spalle rimproverandovi perché deve superarvi, dicendovi di spostarvi alla vostra destra. Normalmente chi va di fretta così, però, lo rincontrate ai tornelli di uscita della metro perché non trova il biglietto per uscire.

Ma sotto la Madonnina è tutto di fretta: una domenica mattina ero in metro, direzione fuori città, ed una mamma stava strattonando il bimbo di pochi anni perché era tardi, la mamma di lei li aspettava a pranzo. Vicino alle porte della vettura ci scambiammo uno sguardo e la signora, forse leggendo nei miei pensieri, mi disse “Dobbiamo andare da mia madre ed è già tardi” (erano le 11); mi venne spontaneo chiedere se abitasse lontano. Mi rispose “No, scendiamo alla prossima, poi sono 300 metri a piedi”.  Alla risposta capii che l’umanità merita di estinguersi. A meno che la signora dovesse preparare da zero la casseula, nel qual caso sarebbe stata fortemente in ritardo, mi domando quale fosse la sua concezione del tempo.

E non è l’unico caso, anche qui sotto la Mole, dove la gente ha fretta anche in auto, corre e sorpassa in curva sulle stradine di montagna per arrivare, quando va bene, cinque minuti prima di me, dopo aver rischiato la vita (problemi suoi) e aver messo a repentaglio la mia.

Quando con i miei collaboratori analizzo i tempi attuali, confrontandoli con 30-40 anni fa, mi rendo conto (e loro me lo confermano) che ora facciamo tutto in tempi ristretti, vogliamo fare più cose nello stesso tempo in cui, tempo addietro, ne facevamo la metà e, in generale non conosciamo più il significato di relax, di riposo, di quiete.

Qualcuno attribuisce allo stress, al logorio della vita moderna (come recitava uno spot pubblicitario di cinquant’anni fa) questa incapacità di gestire i ritmi ed i tempi, questa smania di fare sempre di più a scapito, com’è evidente, della qualità.

Se io non mi fermo mai a controllare i risultati ho ottime probabilità che quanto ho fatto sia difettoso, impreciso, raffazzonato.

Purtroppo, e le previsioni non tendono al bello, non sembra vi siano segni di ravvedimento o, quantomeno, di capire quale rischio corriamo con questa eterna rincorsa alla quantità. Quando si entra in questo meccanismo del “sempre di più”, “sempre più in fretta” si sviluppa una vera e propria dipendenza che ci porta a perdere il senso del tempo.

Da quanto non sentite un amico, un conoscente dire “ieri mi sono rilassato”, “ieri ho guardato tre film”, “ieri mi sono seduto in riva ad un torrente a fare nulla”? C’è sempre qualcosa da fare, e siccome lo facciamo in fretta, solo dopo ci accorgiamo che è da rifare, da rimediare. La casa è sempre da pulire (delle due una: o viviamo in un letamaio o abbiamo una casa di 300 mq e la colf è in sciopero), bisogna mettere ordine nel box o in cantina, devo preparare quei progetti per il giorno dopo in ufficio (ti pagano nei festivi?), la spesa domenicale, il pranzo con tizio o caio e potremmo aggiungerne quante ne volete.

Addirittura, stare in ozio almeno qualche ora di un giorno alla settimana sviluppa in noi il rimorso per aver sprecato tempo prezioso, per aver rinunciato a costruire qualcosa.

Io non parlerei di stress quanto piuttosto di ansia: mentre lo stress è la reazione ad un evento, ma può anche essere positivo, il c.d. “eustress” e darci il giusto stimolo, per esempio, prima di una gara, l’ansia è la reazione anticipatoria di un evento, non dipende dall’evento stesso ma dal nostro approccio ad esso, se ci sentiamo inadeguati, ecc.

Io dico sempre che, a preoccuparsi in anticipo, se poi non era nulla ci siamo preoccupati inutilmente; se, invece, era qualcosa che non abbiamo potuto prevenire, per cosa ci siamo preoccupati a fare?

Sergio Motta

“Vittoria Vintage”, il Second Hand di lusso a Torino

E’ una scommessa vinta quella di Vittoria Vintage che 14 anni fa, a Torino, ha aperto il suo negozio di articoli griffati di seconda mano, pezzi iconici a prezzi abbordabili.

All’epoca era una novità e lei è stata lungimirante perché il second hand funziona. Esattamente il 17 novembre cade l’anniversario dell’apertura di questo scrigno di autentici tesori, racchiusi in una manciata di metri quadrati nel blasonato quartiere a ridosso della Gran Madre.
Vittoria è diventata un volto noto che quotidianamente ci diletta con le storie su Instagram. Momenti piacevoli e istruttivi in cui -oltre a presentarci i capi del negozio decantandone qualità e attrattive- racconta anche aneddoti e retroscena del mondo della moda, ripercorre le biografie dei grandi stilisti. Potremmo definirle pillole di stile.
Abbiamo incontrato questa bella signora bionda charmant che si illumina di immenso mentre racconta con dirompente passione il suo mondo intriso di buon gusto e bellezza.
Lo stato di salute del second hand?
Come tutti i settori merceologici subisce battute d’arresto; anche noi viaggiamo di pari passo con la crisi…e oggi la sentiamo. Ma le nostre clienti trovano sempre qualcosa per tutte le tasche e possono togliersi qualche sfizio.  E’ importante il gusto con cui selezioniamo i capi da vendere. Non è facile e ho visto vari negozi chiudere.
Cosa c’è dietro l’angolo per questo settore?
Prevedo un grande ritorno al sartoriale, che costa meno di un brand, e la continua nascita di modiste-stiliste che creano le loro collezioni. Aumenteranno gli outlet che rivendono le grandi firme, i cui costi saliranno alle stelle. La giacca griffata dagli odierni 1900 euro tra qualche anno balzerà a 2500; sempre più inaccessibile. Saranno presi d’assalto i negozi vintage dove potersi permettere mise di qualità. Mi auguro che abbiano un’espansione tale da riempire una via, e che diventi un’abitudine quotidiana frequentarli.
Lei prima faceva tutt’altro, perché ha cambiato rotta?
Arrivo da studi e ambizioni artistiche, poi per 10 anni ho lavorato in banca. Qualcosa è scattato quando è morta una mia collega, con la quale due giorni prima facevo shopping e 48 ore dopo non c’era più. Mi si è aperta una finestra, ho capito che siamo niente e volevo fare qualcosa di mio e di maggior peso nella mia vita. Il mio capo diceva che ero un’abile oratrice e direi che il commercio richiede anche questa dote.
Perché proprio il second hand?
Sono sempre stata appassionata di moda, una spendacciona che dilapidava lo stipendio in scarpe, vestiti e borse. Questo non è un lavoro che puoi fare se non hai quell’inclinazione; una volta che compri, poi sai anche cosa vendi. Amavo indossare ed accostare capi di abbigliamento e accessori acquistati nei mercatini; quando li smettevo, scoprii che le mie amiche si ammazzavano per averli. E’ allora che iniziai a pensare a un negozio di questo tipo.
Il suo primo incontro con il lusso di seconda mano?
Fin da ragazza spendevo la paghetta in giornali di moda, compravo nei mercatini dell’usato, dal Balon a Londra e Parigi; in mezzo a montagne di abiti scovavo magari una giacca di Montanà, Valentino o Ferrè. Un po’ c’era la conoscenza, un po’ l’intuito e un po’ la fortuna; ma in verità è il pezzo che ti sceglie. Da allora quando qualcosa mi colpisce non lo lascio e raramente mi sbaglio.
Come descrive il suo negozio?
Per prima cosa non voglio che metta soggezione perché vendo pezzi di alta moda o ricercati. Ho pensato di dargli l’impronta di una cabina armadio, una stanza dove tutto è un po’ in calcolato disordine: una giacca appoggiata sulla sedia la sera prima, le décolleté che non sono state riposte nella scarpiera. Qui ci si sente a proprio agio e un po’ come a casa propria.
Come sono stati gli inizi?
Difficili: qualcuno mi dava solo sei mesi di vita, ed è scaturita anche l’invidia. Ma sono stata ripagata quasi subito da quelle che ancora oggi sono clienti affezionate. Ho aperto il negozio anche con tante cose belle che erano mie, e a volte mi sono pentita di averle vendute.
Come si è costruita una conoscenza così vasta e approfondita del mondo delle griffe?
Comprando, leggendo, viaggiando, studiando, e se dimentico qualcosa consulto i miei cataloghi di moda. Ho tutti i volumi dello scibile umano sui grandi nomi dell’haute couture e mi aggiorno costantemente. Molto l’ho imparato ascoltando le vendeuse preparate di una volta, le dame che mi spalancavano i loro armadi e le signore più grandi; a partire da mia mamma e mia zia, ex modella negli anni 70’.
Poi non mi sono mai vergognata di chiedere a persone più esperte. Ma se compri una borsa di Chanel, Prada, Gucci, Hermes o altri, poi sai anche riconoscerle.
Predilige qualche stilista in particolare?
Li amo tutti. Oltre ai più famosi e ricercati, strada facendo, mi sono interessata anche a quelli meno blasonati, che vantano grande qualità, ma non tutti li conoscono. Sono un’infinità e ognuno di loro merita un podio perché ha fatto qualcosa di meraviglioso.
Come si smascherano le contraffazioni?
Purtroppo il mondo del contraffatto viaggia così velocemente che devi essere più aggiornata di chi lo fa. Però c’è sempre quel particolare che ti lascia incerta e perplessa; allora, con un po’ di istinto, conoscenza e il tatto, si riesce a scansare un fosso. In verità tutti possono essere fregati; la volta che mi è successo sono andata direttamente nella boutique di riferimento e il dubbio mi è stato tolto. Mi capita di ricevere oggetti non idonei che cortesemente rifiuto. Preferisco tenere 4 pezzi vintage, tipo la borsa della nonna in coccodrillo, piuttosto che rischiare di averne una finta.
L’identikit di chi le lascia i capi da vendere.
L’esperienza in banca mi ha insegnato che gli argomenti difficili da trattare sono soldi, figli e le case, che i torinesi non aprono facilmente agli estranei. Fin dall’inizio sono stata avvantaggiata dalla conoscenza di signore che mi stimavano; allora come oggi mi invitano per un caffè e mi danno libero accesso alle loro cabine armadio da favola.
Ogni volta entro in una storia e alcune sono meravigliose: rimandano a cene galanti, incontri d’amore, capi custoditi fin dal giorno in cui hanno conosciuto il marito.
Riemergono anche aneddoti degli anni in cui le grandi firme sartoriali di casa nostra andavano alle sfilate parigine delle grandi Maison, poi tornavano a casa con i bozzetti e confezionavano i capi dalla grande allure.
Chi li acquista?
In linea di massima la clientela è medio alta, con una forbice di età piuttosto ampia; dalla ragazza 25enne alla signora 70enne. C’è chi se ne intende e chi cerca l’affare.
Che rapporto instaura con le clienti?
Innanzitutto le ascolto, e normalmente scatta la fiducia. Bisogna anche avere il coraggio di dire che magari quel tal vestito non è donante. Mai mettere il guadagno al primo posto. Voglio che le mie clienti si sentano bene e stiano davvero al meglio con i miei capi di abbigliamento.
Come è nata l’idea delle stories su Instagram?
Ho sempre pubblicato foto, come fosse una vetrina. Da circa 4 anni con i video online sicuramente ho ampliato il pubblico e dove non arriva la cliente nuova, in un certo senso, vado io da lei. Sono seguita anche da uomini che cercano regali per le compagne. La verità è che questi articoli dovrebbero vendersi da soli.
La sua formula è particolare, come ha trovato il tono giusto?
Mi piace raccontare la genesi dei capi che propongo. In definitiva vendo il superfluo e non è facile. Bisogna saper presentare e promuovere il pezzo usato, far capire alla persona che starebbe benissimo con quell’abito o quella borsa. E’ giusto che sappia la meraviglia che sta comprando: è un piccolo, unico, tassello della storia della moda che si ha la fortuna di portare a casa, a un prezzo decisamente inferiore a quello esorbitante in boutique. L’affare lo fa chi lo compra, non chi lo vende. Una frase che fa male è «ma come è possibile che costi così tanto una cosa usata..» senza considerare che da 10,000 euro del nuovo si passa ai 5000 del second hand.
E’ stato difficile presentarsi in video?
Io rifaccio le storie anche 5, 10, 15 volte, non è mai buona la prima. Da brava Vergine ascendente Gemelli – anche se come dico sempre, mi rappresenta meglio ascendente bionda- tendo ad essere una perfezionista e se inizio qualcosa lo porto avanti. La mia cifra è sempre autoironica, scherzo sui miei difetti quando indosso un capo.
I siti online che vendono griffe di seconda mano, per esempio Vestiaire Collective, vi danneggiano?
Non direi, anzi ci danno un aiuto, proprio perché a volte noi vendiamo un capo a un prezzo ancora inferiore a Vestiaire che è un enciclopedia a livello mondiale e una forbice di paragone. Comunque anche sui siti autorizzati bisogna sempre fare attenzione; se c’è il servizio di concierge si spende qualche euro in più, ma è una garanzia e se prendono loro una cantonata è sempre responsabilità fisica di qualcuno.
Consigli di acquisto?
Ormai possediamo di tutto e, come dice una mia cliente «abbiamo più vestiti che giorni di vita». Bisognerebbe trovare il coraggio di buttare quello che non è di buona fattura, tutto il fast fashion. E’ un investimento avere un maglione in cachemire di Loro Piana che non andrà mai alla fine, piuttosto che due maglioni sintetici che costano poco meno. Si può sempre andare incontro alle clienti. Io ritiro anche pezzi sartoriali non griffatissimi ma belli ed eccellenti.
Chi è Vittoria Vintage oggi?
All’inizio i miei sacchetti erano anonimi, poi quando ho capito che il mio negozio stava diventando di tendenza li ho personalizzati. Oggi è bello avere sotto l’albero un pacco regalo siglato “Vittoria Vintage”. E’ un marchio.

La catapultano su un’altra galassia, cosa porta con sé?
Tutta la famiglia compreso il cane, taccuino e biro, un cappotto, un bel paio di scarpe comode, e le borse una dentro l’altra tipo matrioska, dalla più grande alla più piccola.
La borsa più bella al mondo?
La Bagonghi di Roberta di Camerino.
LAURA GORIA

Giorgio Boldetti: una vita a colori

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PENSIERI SPARSI  di Didia Bargnani

Giorgio Boldetti si laurea in Economia e Commercio nel 1971 a Torino, 110 e lode con dignità di stampa, a quel tempo le aziende che cercavano giovani laureati erano molte e lui accetta un lavoro all‘Ufficio Statistica delle Pagine Gialle. In quel periodo è fidanzato con una ragazza, che sposerà dopo poco, la cui mamma ha una piccola camiceria, lei vorrebbe rendersi autonoma e chiede aiuto a Giorgio che di camicie, a quel tempo, ne sapeva ben poco ma aveva carattere da vendere ed una gran faccia tosta.
E così inizia l’avventura: nel 1972 partono da zero a produrre camicie nella loro camera a casa della famiglia di Giorgio il quale compra una macchina da cucire nel negozio della Necchi in via Roma facendo cambiali per 180.000 vecchie lire. Comprano un metro e mezzo di tessuto in tre colori e fanno qualche camicia da donna che Giorgio, quando esce dalla Seat alle 17.00 prova a vendere girando per negozi fino alla chiusura.  Le camicie piacciono molto e iniziano ad arrivare parecchi ordini tanto che Giorgio è costretto dopo tre anni a licenziarsi dalla Seat per poter seguire la parte commerciale di quella che ormai è diventata una piccola azienda, La Camargue ( chiamata così in ricordo di un weekend di passione) con sede in corso Galileo Ferraris 94, dove si trova tuttora.
La produzione aumenta sempre di più, Giorgio, ormai separato dalla moglie Maria Gabriella, continua l’impegno intrapreso con alcune lavoranti, si reca continuamente, cosa che fa ancora oggi, nelle tessiture di Como e Gallarate alla ricerca di tessuti pregiati.
Nel frattempo si sposa con Anna Zamboni, miss Italia 1969, dalla quale ha due figli, Giulio che oggi lavora con lui, e Giorgia, spesso modella per i capi prodotti da La Camargue.
La fortuna vuole che nel palazzo di corso Galileo Ferraris abiti un medico, il dr. Volterrani medico di famiglia e amico dell’avvocato Agnelli che a Natale è solito regalargli una camicia e così anche l’avvocato inizia ad indossare camicie firmate Boldetti.
Sono anni incredibili, pieni d’incontri, di lavoro, di avventure di ogni tipo – la vita di Giorgio Boldetti meriterebbe di essere raccontata in un libro – l’azienda cresce notevolmente, vengono serviti i negozi più chic di Torino, non si producono solo camicie ma anche abiti, pantaloni, giacche, cappotti.
Per Giorgio sono anche gli anni di una nuova separazione e dell’incontro con un nuovo amore Irina, modella russa, madre di suo figlio Vadim.
Il lavoro procede a gonfie vele, La Camargue s’ingrandisce e acquisisce nuovi locali.
Nel 2010  – racconta Boldetti- mio figlio Giulio inizia a lavorare con me e nasce Atelier Boldetti, una linea di camicie da uomo in cotone doppio ritorto, personalizzate con le cifre, le facciamo su misura, il cliente privato viene direttamente da noi e può scegliere tra migliaia di tessuti e fantasie.
La nostra produzione è ormai conosciuta ed apprezzata in tutto il mondo – mi spiega Boldetti, partecipiamo tutti gli anni al Salone della moda di Parigi “ Who’s next” che ci ha introdotto anche in Paesi lontani come Giappone, Stati Uniti, Sud America dove abbiamo numerosi clienti. Vendiamo molto in Francia, Svizzera, Spagna e in Italia siamo richiesti da boutique di nicchia. Se soddisfi la donna torinese, che in fatto di moda è la più difficile, soddisfi qualsiasi donna.
Oggi lavorano per Boldetti una cinquantina di persone, in laboratorio ci sono circa 50.000 metri di tessuti, sete, cotoni, viscose, jersey dai colori meravigliosi, Giorgio si emoziona quando li tocca , li accarezza con delicatezza e passione come accarezzasse i capelli di una bella donna, quanto tempo è passato dall’acquisto di quella Necchi comprata a rate…

Anche Torino nella classifica delle 50 migliori Steak House d’Italia

Pubblicata  dal network Braciami ancora: c’è il  locale torinese Bifro’ 

 

“I due Cippi” di Saturnia e la “Braseria”di Osio sono state premiate come le migliori Steak Kouse d’Italia. La Toscana, con 9 ristoranti, è la regione con più riconoscimenti. Nella top 50 anche Ischia e Panarea, presenti anche locali di Firenze, Milano, Torino, Napoli, Roma e Bologna.

“Braciami ancora” è il network di riferimento per gli amanti della miglior carne, con oltre 1 milione di follower sui social e pubblica la Top 50 delle migliori Steak House. Due di queste sono presenti in Piemonte, un adesione dal ricco patrimonio enogastronomico che può vantare molti ristoranti interessanti con menù incentrati sulla carne. Uno tra i migliori in assoluto si trova a Torino. Frutto di un’attenta selezione, questa classifica esalta un particolare settore dell’eccellenza gastronomica italiana, riconoscendo i locali che si distinguono per qualità, professionalità e competenza nel settore della carne. La classifica assegna ad ogni ristorante delle Fiamme di Merito. Una fiamma è destinata ai ristoranti di ottimo livello, due fiamme ai ristoranti considerati eccellenti e tre fiamme ai ristoranti ritenuti straordinari e unici nel loro genere.

Eccellenza, ricerca e qualità sono fari guida della propria mission. È ancora studio quotidiano di un mercato in costante evoluzione e filosofia attraverso il quale viene realizzato un menù dedicato alla carne. Ricerca di allevamenti virtuosi, servizio competente in sala, tecniche di cottura, qualità della cantina sono solo alcuni dei parametri che “Braciami ancora” ha seguito per stilare la classifica delle migliori 50 Steak House d’Italia.

“L’Italia si conferma una nazione dove da nord a sud il concept delle Steak House viene molto apprezzato. Il livello è molto alto e cresce costantemente. Il desiderio da parte degli italiani di mangiare carne di qualità è sempre più sentito, e questa classifica vuolerealizzare una mappa delle eccellenze in questo settore – racconta Michele Ruschioni, giornalista e fondatore di Braciami ancora – le tre Fiamme di Braciami ancora, Massimo riconoscimento della classifica, vanno a due ristoranti: ‘I due Cippi’ di Saturnia e ‘Braseria’ di Osio Sotto, in provincia di Bergamo. Questi due ristoranti hanno un menù di carne di altissimo livello e rappresentano il top del top, a livello nazionale e internazionale. Qui, il culto della brace, la cura del dettaglio, l’abilità della cottura della carne e la filosofia su cui poggiano il loro lavoro non ha eguali”.

Nove ristoranti che ottengono due Fiamme di Braciami ancora sono locali in cui il livello è molto alto e nel loro ambito possono essere definiti un punto di riferimento. Tra questi vi è il Bifro’, a Torino, che ha ottenuto anche il premio come Miglior Cantina 2025.

 

Mara Martellotta

 

Nasce ‘Ace Blu’ il cocktail delle ATP di Snodo delle OGR

Ispirato all’energia delle ATP Finals, ‘Ace Blu‘ è il cocktail creato da Astelia Fickat bartender di Snodo delle OGR, in omaggio alla vibrante città di Torino.

Questo drink celebra il tennis e il servizio d’eccellenza, unendo Gin Bombay, Blue Curacao, Luxardo Maraschino e Lime. Con il suo colore che richiama il blu dei campi, ‘Ace Blu’ è un vero ‘asso’ di sapori, pensato per conquistare il palato degli appassionati e dei visitatori.

 

 

“Bagna Caoda” a Bosconero

Eccoci arrivati al terzo appuntamento della rassegna enogastronomica “Sapori e tradizioni: viaggio nei gusti autentici del Canavese”. Infatti nella serata di sabato 16 (ore 20.30) e domenica 17 (ore 12.30) novembre a trionfare sarà la “Bagna Caoda”, vero piatto tipico del canavese e del Piemonte. Il tutto organizzato dalla Pro Loco di Bosconero(To). La tradizione culinaria del territorio è pronta a svelarsi in un incontro dedicato a uno dei suoi piatti tipici più iconici e amati. Un’esplosione di sapori che celebra la storia e l’autenticità di una terra che abbonda di cultura gastronomica: un piatto che rappresenta l’anima del territorio e la sua gente. Gli ospiti di sabato sera e domenica a pranzo avranno l’opportunità di scoprire il gusto autentico di questa prelibatezza che unisce tradizione e convivialità. La “Bagna Caoda”, un intingolo caldo a base di aglio, acciughe, olio e burro, rappresenta un rito di condivisione, una vera e propria festa dei sensi che coinvolge i partecipanti nella sua preparazione e degustazione. E’ un piatto che affonda le radici nel Monferrato, ma che oggi è amato in tutta la Regione. Tradizionalmente servita con verdure fresche, bollite o crude, sarà accompagnata dai vari vini locali. La “Bagna Caoda” è l’espressione di un pasto semplice, ma anche ricco di significato, la cui preparazione – che richiede tempo e cura – rappresenta il legame profondo con la terra e le tradizioni contadine. Il terzo incontro enogastronomico a Bosconero si propone come una vera esperienza sensoriale, pensata per accogliere sia gli appassionati di cucina sia chi desidera avvicinarsi per la prima volta a questo piatto piemontese e possiamo tranquillamente affermare che l’evento è rivolto a tutti. Il costo della degustazione è di 24 euro, 22 per i soci della Pro Loco. Maggiori informazioni e prenotazioni si possono avere al numero 3384106173.

Più di 130.000 visitatori alla Paulaner Oktoberfest Torino

Oltre 130.000 visitatori, circa 55.000 litri di birra, 47.000 piatti serviti e 16 giorni di festa con la tradizione bavarese sotto la Mole.  Carlo Pallavicini: «Il maltempo non ha scoraggiato torinesi e turisti. Ottima sinergia con il Luna Park e con le istituzioni cittadine. Non vediamo l’ora di tornare il prossimo anno».

 Spillato l’ultimo boccale di birra, Paulaner Oktoberfest Torino chiude la prima edizione con un bilancio più che positivo: oltre 130.000 i visitatori hanno partecipato ai 16 giorni di grande festa al Parco della Pellerina, sfidando le intemperie che hanno colpito la città nei giorni di evento.

Con più di 47.000 piatti serviti, tra cui 10.000 stinchi di maiale, 7.000 schnitzel, 4.000 primi piatti, 3.800 porzioni di gulasch di manzo, 2.000 würstel e 2.200 taglieri di salumi e formaggi, i partecipanti hanno potuto assaporare il meglio della cucina bavarese. Immancabili i tipici bretzel, con 21.000 porzioni, che contendono il record ai dolci, serviti in 20.000 porzioni. Ma la vera regina dell’Oktoberfest è stata la birra Paulaner circa 55.000 litri spillati durante la manifestazione. Il tutto rallegrato dalla musica del gruppo musicale bavarese, che al suono di ‘in alto i boccali’ ha trascinato tutto il pubblico in cori e brindisi collettivi.

«Grazie di cuore a Torino – commenta Carlo Pallavicini, della società organizzatrice Partners Eventi – per averci accolto con tanto entusiasmo e partecipazione. Un sincero ringraziamento va a tutte le istituzioni, alle autorità locali e ai nostri partner, ma anche ai ragazzi e alle ragazze che hanno contribuito al successo dell’evento, dimostrando professionalità e dedizione per tutti i 16 giorni di festa. Grazie allo staff di Paulaner Oktoberfest Torino, alle loro famiglie e amici, e agli organizzatori del Luna Park, con cui la collaborazione è stata davvero eccezionale».

Chiusa la prima edizione, si guarda già al futuro. «Se la città ci darà la sua fiducia – prosegue Carlo Pallavicini – saremo pronti a tornare il prossimo anno, con novità e nuove sinergie, per soddisfare e festeggiare ancora meglio con il nostro fantastico pubblico e tutto il territorio». Un saluto che guarda al futuro, con la promessa di un’esperienza ancora più coinvolgente per il prossimo Paulaner Oktoberfest Torino.

Per aggiornamenti e novità: www.oktoberfest.torino.it e i canali social ufficiali.