LIFESTYLE- Pagina 37

Il biscotto Parlapa’

Il biscottificio artigianale piemontese Briccodolce festeggia i vent’anni di attività  lanciando il primo biscotto che sembra un gianduiotto, il Parlapà

 

Tradizione, famiglia, cura e artigianalità sono gli ingredienti che,negli anni, hanno costruito la storia del biscottificio artigianale piemontese Briccodolce. Una storia tutta al femminile, portata  avanti da quattro donne per tre diverse generazioni, che si sono tramandate una dopo l’altra la tradizione dei biscotti piemontesi fatti in casa a mano e che oggi festeggiano i venti anni di attività imprenditoriale con il lancio di un nuovo biscotto, al 100 per cento torinese, il Parlapà.

La più  piccola della famiglia Briccodolce è Giulia Montanaro. Briccodolce è  sempre stato nella  sua vita, da quando piccina preparava i biscotti insieme a nonna Rosina.

Quel profumo, quelle mani in pasta, l’attesa dei biscotti nel forno per la merenda o la colazione del giorno successivo è  oggi diventato un lavoro, grazie alla lungimiranza e alla passione di Ivana e Vittorina, figlie di Rosina, che hanno deciso di trasformare le ricette di famiglia in un lavoro imprenditoriale di successo.

È questo il gruppo di donne che porta avanti l’azienda di famiglia Briccodolce, con laboratorio artigianale  a Borgaretto, in provincia di Torino, dove si sfornano ogni giorno decine di diverse tipologie di biscotti, fatti secondo le tradizioni e con le migliori materie prime, accanto a una piccola boutique del biscotto torinese, in zona Crocetta, in corso De Gasperi 20, condotta con la  cura e l’attenzione e di un tempo da Ivana, per tutti “la signora dei biscotti”.

“L’azienda nasce nel 2004 a Borgaretto, vicino a  casa di mamma Rosina che è  la  custode delle nostre ricette – affermano Ivana e Vittorina – ma l’ispirazione dei nostri biscotti nasce al Briccodolce, “il bricco” per tutte noi, il luogo dove abbiamo la casa di campagna di famiglia a San Sebastiano Po, e dove da sempre ci divertiamo a fare i biscotti. Un giorno ci siamo guardate e abbiamo deciso che avremmo voluto vivere sempre così,  preparando i biscotti in un luogo che amiamo”.

Quella di Ivana e Vittorina e del loro biscottificio è  una storia di caparbietà e tenacia, una sfida portata avanti da vent’anni con successo. “Nostro padre ci disse che non potevamo usare il Bricco per questa attività perché quella era la nostra casa del cuore, il posto dove si stava in famiglia. Però abbiamo voluto omaggiarlochiamando così il nostro biscottificio. Siamo state testarde e l’abbiamo fatto contro il parere di tutti. Abbiamo imparato l’arte della pasticceria con i migliori pasticceri”.

Ovetti, cuoricini, pannocchiette, frollini della nonna,  girandole al cacao, biscutin, una dolcissima gamma di tante referenze cui oggi va ad aggiungersi l’ultima creazione della famiglia Briccodolce, il Parlapà, il primo biscotto che sembra un gianduiotto.

L’idea è  nata da una chiacchierata tra Vittorina e Marco Colognesi, titolare di Prontoservice, prematuramente scomparso nel 2020. “Era il periodo del Covid, eravamo al telefono e ci è venuto in mente di inventare un biscotto diverso che si sciogliesse in bocca, come se fosse una crema. Un biscotto che sembrasse un cioccolatino – racconta Vittorina – da lì l’idea della forma a gianduiotto, che ci piaceva molto. Poi ci sono stati anni di tentativi, fino a trovare la ricetta perfetta, che oggi lanciamo in omaggio al nostro amico Marco”.

Parlapà in dialetto significa “non parlare” ed è  la tipica espressione di meraviglia e stupore.

” Volevamo che fosse il commento di chi per la prima volta assaggiava il nostro biscotto – spiegano Ivana e Vittorina – ma anche la nostra espressione di fronte alla strada fatta in questiventi anni”.

Il nuovissimo biscotto Parlapà  verrà venduto in eleganti confezioni cilindriche color carta da zucchero, colorate con un dettaglio che rimanda ai coloratissimi portici cittadini, per sottolineare il legame con la città.

Un packaging pensato come regalo, un po’ come le biscottiere di una volta”.

MARA MARTELLOTTA

Di motori non ne capisce niente…

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Armando Belletti, per ragioni di lavoro, si trovò costretto a vivere in città per buona parte della settimana.

Non che Pavia fosse una gran metropoli ma era ben altra cosa dalla quieta e sonnecchiosa Borgolavezzaro.

Smog, traffico, ritmi caotici e stressanti lo inducevano quanto prima a fuggir via lontano da quel trambusto. Con la sua utilitaria, sbrigati gli impegni, s’avviava verso la periferia e, in breve, si trovava in aperta campagna. La Lomellina con i suoi campi geometrici, le risaie, i prati, le boschine, l’aria finalmente pulita e l’unico rumore – oltre al ronfare del motore dell’auto – non era tale ma un delicato e allegro cinguettare degli uccelli.Armando rallentava la corsa e si godeva la vista di quell’ambiente naturale salvaguardato da eccessi edilizi, punteggiato da cascine e campanili, immaginando cosa l’aspettava a tavola: il risotto, il salame d’oca di Mortara, le cipolle di Breme, gli asparagi di Cilavegna e, come dolce, le offelle di Parona. Questi pensieri gli mettevano quasi commozione. “Cavolo, quando torno al mio paese mi pare di rinascere. Qui sì che la vita ha i tempi giusti. Stare in città sarà anche necessario ma mi pesa troppo”. Un giorno, imboccata una strada non asfaltata che tagliava in due una collinetta, l’auto si mise a fare le bizze. Il motore tossiva, ingolfato. Perdeva colpi e si fermò. Armando, pronunciando termini sui quali – per rispetto del lettore – si ritiene più utile sorvolare –   provò a rimetterla in moto, girando con foga la chiave d’accensione. Ma non c’era nulla da fare. Il motorino – grrr, grrr – girava   vuoto. L’auto restava lì, immobile, senza dar segni di vita, nel bel mezzo della stradina di campagna. Belletti scese, sollevò il cofano, guardò perplesso e sconsolato il motore senza avere la minima idea di dove mettere le mani. Mentre rimuginava sull’incidente che gli era capitato, avvertì un rumore alle sue spalle. Si girò e vide   un bellissimo ed elegante cavallo dal manto lucido e nero. L’animale lo guardava e si mise a girare attorno al veicolo. S’avvicinò e, con sguardo indagatore, scrutando il motore disse , con voce grave :“ Un bel guaio, sa? Per me è partito lo spinterogeno”. Armando, attonito e ammutolito lo guardò incredulo mentre l’animale, trotterellando se ne andò via per la sua strada. Di lì a pochi minuti sopraggiunse un contadino, con un forcone in spalla. Si conoscevano. Bernardo Trefossi era noto nei dintorni per la sua eccentricità. Vide il Belletti stranito, con la bocca aperta, e chiese cosa mai gli fosse capitato. Armando, balbettando, raccontò l’episodio del cavallo e il contadino, incuriosito, domandò: “ Mi dica. Il cavallo era forse nero?”. Alla risposta affermativa del Belletti, il contadino, battendogli la mano sulla spalle, lo rassicurò: “Mi dia retta. Non creda ad una parola di quanto le ha detto quel cavallo. Di motori non ne capisce niente”.

E se ne andò, fischiettando per la sua strada. Quando Armando, chiamato il soccorso stradale, riuscì ad arrivare a Borgolavezzaro era omai sera inoltrata. Ancora scosso per l’avventura del pomeriggio, raccontò il fatto agli amici del Bar “Al cervo d’oro”. Nessuno lo contraddisse ma Vittorio Scalmanati, detto “incudine”, fabbro di mestiere, all’insaputa del vicesindaco e guardando gli altri avventori,   si portò l’indice alla tempia. Dalla smorfia e dal gesto tutti intesero ciò che andava inteso: il Belletti era un po’ “tocco” ma non era il caso di contraddirlo. In fondo, come diceva lui stesso, “cavolo, quelli lì un po’ balordi non fanno poi del male a nessuno”. Appunto!

Marco Travaglini

Il mestiere del mental coach a Torino

Scopri – To  ALLA SCOPERTA DI TORINO 

Il mental coach è un “allenatore della mente” ovvero colui che ci aiuta a sviluppare gli aspetti mentali utili a perseguire risultati.
Tra i più conosciuti troviamo la torinese Nicoletta Romanazzi specializzata nello sport, supporta atleti, top performer, imprenditori e professionisti. Ha seguito atleti come Luigi Busà medaglia d’oro nel Karate, Alice Betto del triathlon, Marcel Jacobs e tantissimi altri atleti e calciatori di serie A tra cui Mattia Perin della Juventus.
Mattia, in numerose interviste, dichiara quanto per lui, il supporto di Nicoletta è fondamentale soprattutto perché essendo il secondo portiere della sua squadra non è facile per un ragazzo molto competitivo rimanere spesso in panchina, ma con lei, lavorando sulla psiche, è riuscito sempre a dare il massimo negli allenamenti come se dovesse giocare in ogni partita e questo l’ha portato a migliorare sempre di più e a non darsi mai per vinto fino a scendere in campo con ottimi risultati nelle partite giocate con la sua squadra, come di recente con la conquista della Coppa Italia 2024. Mattia dice di essersi dato finalmente il permesso, a volte, di eccettare eventuali errori ed a farne tesoro cosa che prima da solo non riusciva a fare ed ora vive una vita migliore sportiva e personale.
Nel 2023 Nicoletta Romanazzi ha fondato una scuola di coaching, inoltre collabora con Radio Dj con il podcast “Click sviluppa il tuo potenziale” e ha scritto due libri su come gestire le proprie emozioni “Entra in gioco con la testa” E “la sfida delle emozioni”.

LE INSIDIE DEL MESTIERE

Il mestiere del mental coach non ha un albo e questo porta a volte ad avere numerosi professionisti che poi si rivelano non tali, bisogna dunque prestare molta attenzione su chi affidarsi.
Tanti coloro che non comprendono la differenza tra il mental coach e lo psicologo. Il primo parte dal presente e cerca di andare a dare al cliente degli strumenti per poter arrivare a raggiungere i risultati, mentre il secondo, lo psicologo, tende a partire da un’analisi del passato per andare ad aiutare il paziente nella comprensione delle sue problematiche attuali e gestisce anche le problematiche gravi.
Si diventa mental coach con dei percorsi specifici, in passato ci si basava molto sulla programmazione neurolinguistica adesso meno, tante teorie sono state smentite e gli aggiornamenti sono sempre in corso grazie alle nuove scoperte neuroscientifiche.

COSA SI IMPARA DI PRECISO

Il mental coach può essere specializzato anche in diversi settori, quello lavorativo, quello di vita personale e quello sportivo la cui base di studio è molto simile. Il coach che aiuta i clienti sul lavoro concorre sia con le aziende che con i singoli a raggiungere gli obiettivi prefissati seguendo un percorso con tappe intermedie e con specifiche date di scadenza da mantenere per riuscire ad arrivare fino al raggiungimento dello scopo. Il coach di vita personale, definito “life coach”, aiuta le persone che hanno problematiche legate all’autostima o alla coppia. Moltissime sono infatti le persone che si sottovalutano e parlano in modo inadeguato di sé, così facendo non riescono a fare una buona impressione al loro interlocutore e su loro stessi e rischiano di cadere molto in fretta.
Parlare in modo adeguato di noi stessi significa evitare frasi come “scusa il disturbo, ti rubo solo un attimo, sono un disastro…” e molte altre che infondano idee decisamente negative su di noi al nostro interlocutore.
Vi è infine il coach sportivo che aiuta gli atleti a performare sempre meglio, una delle tecniche molto conosciute è quella di far immaginare al cliente la sua partita come se la stesse già vivendola in modo da sentirsi poi più sicuro sul campo, perché il nostro cervello tende ad avere paura dell’ignoto, ma se noi lo rendiamo noto tutto diventa più agevole. Dorian Yates grande campione americano di bodybuilding confermava di usate proprio questo sistema, la sera immaginava le ripetizioni che avrebbe dovuto eseguire il giorno dopo in palestra sempre con pesi maggiori e così poco per volta abituava il suo cervello a resistere a quei pesi.
Quello del mental coach è quindi una professione molto importante per qualunque persona perché aiuta a crescere in ogni ambito e quando siamo abbastanza forti mentalmente possiamo riuscire a raggiungere obiettivi sempre più performanti.

NOEMI GARIANO

L’incapacità al potere

Chi ha vissuto negli anni ’70 ricorderà lo slogan “la fantasia al potere”: non sarà stato il massimo, non sarebbe stata la strategia vincente ma governare con la fantasia avrebbe dimostrato pur sempre un’idea su come governare.

Dalla seconda Repubblica in poi, quindi da circa 30 anni a questa parte, si assiste invece ad un fenomeno generalizzato di totale incapacità e inettitudine dei governatori, a tutti i livelli, nella “res publica”.

Gli italiani in particolare hanno un’idea della politica piuttosto complessa e contorta, come di un qualcosa dove ci siano più intrallazzi che scelte trasparenti, più giochi di potere che adempimenti al mandato conferito dagli elettori.

In effetti, negli ultimi anni si assiste ad una pletora di perfetti incapaci prestati alla politica, di persone che non hanno idea della differenza tra delibera e determina, tra Parlamento e Governo, che promettono ai potenziali elettori ogni genere di favore (“ti aiuterò ad avere i permessi” per un’attività per la quale i permessi non occorrono, per esempio) dimenticando, tra l’altro, che il voto di scambio (“se mi voti, ti faccio avere…”) è un reato.

In aggiunta, persone che non sanno coniugare un verbo, che credono che usare il congiuntivo provochi la congiuntivite, che dovrebbero almeno nelle fasi iniziali saper redigere un’interrogazione, un’ordinanza o un disegno di legge si candidano alla guida di un’amministrazione, dal Comune alla Regione, al Parlamento senza sapere cosa li aspetti né, ancor peggio, senza conoscere oneri e limiti del proprio mandato.

L’eliminazione del Reddito di cittadinanza, poi, ha ulteriormente aggravato le cose perché, sebbene sia durato poco, ha abituato le persone a guadagnare facendo nulla, e molti pensano che anche con un incarico politico sia lo stesso; premesso che, perlomeno nei Comuni fino a 5000 abitanti, un consigliere non percepisce emolumenti ma solo un gettone di presenza di 18 euro lordi per ogni seduta consiliare, ovviamente se partecipa alle sedute del Consiglio comunale (circa una seduta ogni due mesi), si spiega così perché, invece di informarsi a priori, i novelli Cavour comincino dopo i primi mesi di entusiasmo a disertare le sedute consiliari fino a disinteressarsi del tutto dei loro doveri.

La disaffezione dalla politica ha ormai almeno 50 anni, all’incirca da quando lotte femministe, manifestazioni contro la guerra in Vietnam e manifestazioni studentesche riuscivano a raccogliere decine di migliaia di manifestanti in ogni città, che marciavano a tutela dei loro interessi o per qualcosa in cui credevano; schifati dalle vicende di Tangentopoli, della sempre maggior corruzione (tangentopoli non ha eliminato la corruzione, ha solo alzato i prezzi), dalla mancanza di devozione alla politica, gli italiani si trovano ora a considerare l’incarico politico, la mansione elettiva, come un lavoro qualsiasi, non troppo impegnativo, “tanto poi imparerò stando lì” o, peggio, “cosa ci vuole?”.

La moltiplicazione di liste in ogni tornata elettorale è la dimostrazione di quanto sto scrivendo: si candida un candidato perché è figlio di tizio o coniuge di qualcun’altro, lo si elegge perché ha distribuito molti volantini o ha incantato con i suoi discorsi ma l’analfabetismo funzionale da cui sempre più persone sono affette non ci fa comprendere nulla del suo programma elettorale, della sua capacità reale, della sua onestà intellettuale.

Arriviamo così, ogni volta, ad una crescente insoddisfazione perché il candidato eletto ha pensato solo ai propri interessi, perché si è dimostrato inaffidabile, perché è stato denunciato, perché è passato con quelli che non avrei mai votato, perché l’hanno sorpreso a compiere gesti inenarrabili o perché, nei territori dove ha promesso miracoli, torna solo dopo 5 anni per chiedere nuovamente il voto.

E’ evidente che occorra riavvicinare gli italiani alla politica, nell’accezione originale del termine, cioè la cura della polis, la città stato greca e far entrare nella cultura comune il concetto che se ognuno ruba, indirettamente, un centesimo al giorno, ogni giorno spariranno illecitamente 600 mila euro; se la somma non preoccupa presa singolarmente, sul totale dei cittadini raggiunge somme ragguardevoli.

Se ognuno pensa al proprio tornaconto “tanto, cosa vuoi che sia” o “tanto lo fanno tutti” non ci solleveremo mai da questa paludemorale ed economica.

Copiamo spesso gli Stati Uniti sotto tanti aspetti: perché non li copiamo anche sotto quello morale? Se negli Usa sanno che il vicino si droga o ha rubato lo vedono come uno che si può redimere; ma se sanno che il vicino evade le tasse lo denunciano senza problemi perché l’evasione realmente danneggia ognuno di noi e l’intero Paese (che siamo sempre noi).

“Vota Antonio, vota Antonio” non era solo lo slogan di Totò.

Sergio Motta

I FerragnEX si affidano a Chiusano Immobiliare per vendere Villa Matilda

La notizia ha cominciato a rimbalzare meno di 24 ore fa: i Ferragnez, o come dice Selvaggia Lucarelli, i FerragnEX, hanno messo in vendita la villa sul lago di Como che avevano acquistato meno di un anno fa.

Villa Matilda si trova a Torno e fu acquistata dalla coppia per 5 milioni di euro. A gestire la compravendita è la Chiusano & C, un’eccellenza tutta torinese che opera nel settore immobiliare dal 1989. Da qualche anno, il fondatore Andrea Chiusano, è affiancato dai figli Matteo e Carola molto attivi sui social, che spesso fanno sognare gli utenti mostrando su Tik Tok abitazioni da sogno.

Impossibile carpire l’entità della trattativa che è riservata.

Non resta che attendere notizie sulla vendita o magari sognare con foto e video a disposizione sui social.

Lori Barozzino 

 

Alberto Marchetti compra i Nocciolini di Chivasso Fontana

Dal gelato ai Nocciolini. Alberto Marchetti, stimato maestro gelatiere torinese, ha deciso di allargare i suoi interessi ad una delle più conosciute ed apprezzate specialità piemontesi, i Nocciolini di Chivasso.

Marchetti ha infatti acquistato la Dolciaria Fontana, storica azienda di Chivasso, in provincia di Torino, ambasciatrice di un’eccellenza del gusto piemontese, gli iconici Nocciolini.

I Nocciolini sono il topping perfetto per il mio gelato” dichiara Marchetti, la cui prima e vera passione resta il gelato. L’acquisizione dell’azienda Fontana, rivela però anche lo spirito imprenditoriale del maestro gelatiere che spiega: “Sono sempre stato affascinato dalle cose buone. Sin da piccolo ho amato i Nocciolini di Chivasso ed entrare oggi a far parte della loro storia mi riempie di orgoglio.

Nocciole, zucchero e albume. Sono questi i tre semplici ingredienti e nel loro giusto dosaggio è contenuto il segreto dei Nocciolini di Chivasso la cui invenzione, narra la storia, risalga al lontano 1810.

Rigorosamente confezionati a mano, i Nocciolini di Chivasso nascono seguendo un’antica ricetta: le nocciole, sgusciate e tostate al punto giusto, vengono impastate con zucchero e albume. Il tutto, portato a densità colante, viene inserito in una macchina che distribuisce su fogli di carta, piccoli bottoncini pronti ad essere infornati. Una volta raffreddate, le delizie vengono impacchettate nell’inconfondibile confezione rosa che porta impressa l’immagine del Duomo di Chivasso.

Tradizione, genuinità, rispetto delle cose fatte ‘come una volta’ sono principi che ho sempre cercato di portare in tutto ciò che faccio: nel mio gelato e ora in questa nuova avventura – ha concluso Alberto Marchetti – ”.

Alessandro Sartore

Al Lingotto i sapori dell’Emilia

Dispensa Emilia scommette su Torino e inaugura un nuovo ristorante nel centro commerciale Lingotto, all’interno del celebre centro polifunzionale progettato da Renzo Piano per riqualificare il primo storico stabilimento FIAT. L’apertura del ristorante di Dispensa Emilia a Torino crea 14 nuovi posti di lavoro. Il locale, con ingresso in via Ermanno Fenoglietti 15, sarà inaugurato giovedì 23 maggio alle 11.
Forte del grande successo ottenuto nel centro commerciale Shopville Le Gru di Grugliasco in poco più di un anno, dove Dispensa Emilia è presente con ben due ristoranti a coprire tutto il bacino della galleria, il brand modenese si avvicina anche al cuore del capoluogo piemontese. E la crescita del marchio sul territorio non si ferma qui: entro giugno è annunciata anche un’altra nuova apertura in città, all’interno dell’Urban District “To Dream” di corso Romania.
“La nostra strategia, confermata anche dal successo della recente doppia apertura a Padova, è quella di sviluppare e consolidare la presenza del brand su uno specifico territorio con aperture ravvicinate – commenta Alessandro Medi, Amministratore Delegato di Dispensa Emilia –. Siamo rimasti piacevolmente colpiti dal successo avuto allo Shopville Le Gru, che ci ha suggerito di aprire subito un secondo ristorante sul lato opposto della galleria, ancorché più contenuto come sedute e menù, per soddisfare l’afflusso significativo soprattutto in pausa pranzo. Al Lingotto, primo tassello dell’avvicinamento al centro di Torino, siamo convinti di poter raccontare una nuova esperienza di gusto alla clientela del centro grazie al nostro format trasversale ed innovativo, che unisce la bontà e la varietà delle specialità emiliane preparate come a casa alla rapidità e alla praticità del servizio Per questo Dispensa Emilia viene abitualmente scelta sia per il pranzo che per la cena, sia per un break di lavoro che per un’uscita tra amici o in famiglia”.
La filosofia del brand modenese, che da vent’anni è portavoce del mood informale e amichevole tipico dell’accoglienza emiliana, abbina alla qualità e al gusto anche la varietà del menù proposto. Protagonisti della tavola di Dispensa Emilia, al Lingotto come in tutti i 42 ristoranti in Italia, sono le celebri tigelle, i salumi e “il” gnocco fritto, insieme ai primi piatti della tradizione emiliana, dalla pasta fresca a quella ripiena, ed alle ricchissime insalate, gustose e proposte con tre tigelle. L’offerta dei primi prevede strozzapreti, gramigna, tagliatelle, ma anche gli imperdibili tortellini, i tortelloni di zucca, quelli di ricotta e spinaci e le iconiche lasagne, oggi disponibili anche vegetariane. Sempre cucinati freschi al momento e conditi a scelta con tutto il gusto del saporito ragù alla bolognese, o della delicata crema al parmigiano, dello sfizioso grana con aceto balsamico oppure del semplice burro con salvia.

ACCOGLIENZA ALL’EMILIANA NEL CUORE DI TORINO
Il nuovo ristorante Dispensa Emilia di Torino Lingotto è dotato di una sala da 140 metri quadri nella galleria del centro commerciale  Lingotto, e dispone di circa 80 posti a sedere.
Aperto tutti i giorni dalle 11 alle 22.30 e il sabato fino alle 23, crea 14 nuovi posti di lavoro sul territorio. La formula di servizio proposta è quella del “fast casual” che ha reso Dispensa Emilia un brand unico nel suo genere: gli ordini si possono effettuare in cassa o tramite l’app, con la comodità e la convenienza di un concept fast, ma il servizio al tavolo e la qualità dei piatti preparati al momento sono quelli tipici di un ristorante. È anche possibile usufruire del servizio di delivery, agli stessi orari del ristorante, per far arrivare le bontà della Dispensa direttamente a casa. Appena preparate e con tutto il gusto della vera Emilia.

Missione gentilezza

Una scuola in Irlanda, durante le vacanze invernali, assegna incarichi di cortesia al posto degli compiti usuali

Per tre anni consecutivi la scuola irlandese Gaelscoil Mhichíl  Choileáin” di Clonakilty ha assegnato, durante le vacanze di Natale, una nuova versione di compiti, più concreti e tangibili; il fatto ha destato l’attenzione e la curiosità del mondo civile, dei media e dei social per la loro originalità ma soprattutto per la valenza istruttiva, stiamo parlando di veri e propri incarichi di gentilezza.

Oltre a migliorare l’umore dei genitori, globalmente atterriti dai normali compiti affidati nel periodo natalizio a causa dell’impegno e il tempo da dovergli destinare, questa missione, che vede i bambini ingaggiati in azioni altruiste  cariche di generosità, è una maniera inedita di imparare una lezione positiva e profonda attraverso gesti autentici.

Senza nulla togliere allo studio, alla lettura e a tutte le attività formative classiche necessarie per lo sviluppo e l’apprendimento di ogni bambino, dedicare una azione gentile ad un parente, ad un amico e alla comunità in generale,  con un programma preciso che prevede un piano organizzato per ogni giorno della settimana, è indubbiamente una straordinaria iniziativa che dà la possibilità agli alunni di questa scuola di entrare in confidenza con una realtà sana e responsabile che costituirà un modello per le loro vite future, un esempio che la teoria pura non riesce sempre a trasmettere.

Nella fitta agenda di gesti premurosi, un giorno a settimana è dedicato a se stessi, al compimento di una azione, compito o manifestazione benevola nei propri confronti; questo regalo personale può essere interpretato, seppur nella sua auspicabile normalità, come un fatto eccezionale perché nella concezione collettiva la buona azione è soprattutto rivolta agli altri, cosa sacrosanta e indubitabile, tuttavia fare qualcosa di buono per la nostra persona, per il nostro benessere emotivo e fisico è un atto di generosità fondamentale che migliora la relazione con noi stessi e con il mondo circostante. Prendersi cura di sé stessi, in sostanza, favorisce la buona predisposizione verso l’altro perché la serenità che ne deriva e l’appagamento che produce incoraggiano la gentilezza e l’apertura verso l’esterno.

Ogni buona azione deve essere annotata in un Diario di gentilezza, una sorta di report di cavalleresco, che sarà presentato a scuola a fine vacanza e condiviso con gli altri pari.

Sarebbe bello se questa pratica innovativa e insolita fosse in uso anche nel nostro paese, alleggerirebbe gli studenti dai compiti durante le vacanze, farebbe gioire i genitori a cui potrebbero essere dedicate delle cortesie, ma soprattutto rappresenterebbe un apprendistato che consentirebbe di praticare la gentilezza come esercizio quotidiano con l’auspicio che diventi una costante comportamentale nel futuro.

 

Maria La Barbera