LIFESTYLE- Pagina 269

"…E la Lippa roteava nell’aria”

LIPPA2Mai capitato di sentirvi dire, in varie forme dialettali, “…ma vai a giocare a lippa ! “, che era poi – spesso – un modo come un altro per esprimere una scarsa considerazione nei mezzi e nelle qualità del prossimo ?

Riordinando i ricordi dei giochi d’infanzia, da “praticare” all’aperto, nei prati ( dove non c’erano vetri da rompere e, di conseguenza, non c’erano nemmeno botte da prendere..), un posto di tutti rispetto va assegnato – per simpatia e particolarità – alla “Lippa”. Mai capitato di sentirvi dire, in varie forme dialettali, “..ma vai a giocare a lippa ! “, che era poi – spesso – un modo come un altro per esprimere una scarsa considerazione nei mezzi e nelle qualità del prossimo ? Un modo, a dire il vero, piuttosto improprio ed ingeneroso vista la discreta abilità che era richiesta ai praticanti della “lippa”, vera antesignana – secondo alcuni – del baseball. Ma, tralasciando l’aspetto storico sul quale ritorneremo dopo, vediamo in che cosa consiste il gioco. Si comincia dagli attrezzi, che sono due: il bastone e la “lippa” vera e propria, entrambi di legno, non di rado ricavati da un manico di scopa o, in mancanza, da qualsiasi ramo purché diritto ( era molto diffuso l’uso del nocciolo, flessibile, sinuoso e robusto ). La “lippa”, di solito lunga una spanna e mezza, aveva due punte che permettevano – colpendone una con il bastone – di alzarla e batterla al volo per “tirarla” il più lontano possibile. E la “lippa”, roteando nell’aria, tesseva la fitta trama del gioco. Il bastone – lungo più o meno un metro – aveva due funzioni: da una parte quella, già detta, di “battere” la lippa e dall’altra quella di fungere da unità di misura nella determinazione dei punti. Il gioco era aperto a tutti, da due ragazzi in su, e ci si accordava innanzitutto sulla scelta del campo, sulla direzione del tiro e sul numero dei punti necessari a vincere la partita.

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Prima di dare il via alla sfida bisognava “segnare” la base, cioè un cerchio di circa 150 centimetri di diametro, da tracciare “grattando” il terreno con il bastone, muovendosi su se stessi in senso rotatorio come in una sorta di “compasso vivente”. Sorteggiato l’ordine di battuta dei giocatori, la “lippa” poteva cominciare, ovviamente rispettando le regole che non erano poche.Vediamole, nella successione dei “gesti”. Il battitore si poneva dentro la base con lippa e bastone in mano, gli avversari si disponevano ad una distanza – ritenuta dagli stessi “giusta” – per poter valutare direzione e lunghezza del tiro. Il battitore, che disponeva di un solo tiro, chiedeva l’apertura del gioco pronunciando una parola convenzionale ( da noi diceva “lippa” ) e gli altri gli esprimevano il loro consenso rispondendo con un’altra parola ( nel caso che ricordo era “dàgla”, cioè dagliela.. intendendo la bastonata ), ma potevano anche rispondere diversamente, per ingannare il battitore e – secondo le regole – eliminarlo qualora questo avesse iniziato ugualmente il gioco. Tuttavia il battitore, a scanso di spiacevoli sorprese, sventava le insidie mettendosi al riparo con la formula liberatoria ed universale del ” Tutto vale! “. Sgombrato il gioco da preliminari e trabocchetti, avveniva il lancio della “lippa” che, colpendola a mezz’aria, si voleva mandare il più lontano possibile dalla base. Se sbagliava il tiro lo si dichiarava “cotto” e doveva lasciare il passo a chi seguiva. Se il tiro era valido, gli avversari tentavano di acchiappare al volo la “lippa” e se l’operazione aveva successo il battitore era “cotto”. Nel caso che la presa al volo falliva bisognava recuperare la “lippa” dal punto di caduta e rispedirla al battitore che doveva , a sua volta, ribatterla al volo e mandarla il più lontano possibile per “difendere” la base e poter avere ancora in mano gioco e battuta. Scontato che, se non riusciva, la cosa si faceva più complessa: se la “lippa” cadeva entro il perimetro della base o entro la misura di un bastone dalla medesima, il battitore era “cotto”; se cadeva oltre queste misure il battitore aveva diritto a tentare tre tiri alzando e battendo al volo la “lippa” dal punto in cui era caduta. I punti venivano calcolati in modo piuttosto singolare. Se il battitore andava a segno, proponeva lui stesso un numero di punti equivalente ( a sua valutazione ) a tante misure di bastone quante ne intercorrevano tra la base ed il punto di caduta della “lippa”. Gli avversari accettavano la proposta ? I punti venivano assegnati.

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Gli avversari però potevano fare una controproposta ( ovviamente inferiore.. ) : se il battitore l’accettava quella diventava legge, se la rifiutava si arrivava alla misurazione. Se la distanza risultava più vicina a quella proposta dal battitore i punti che aveva richiesto venivano raddoppiati, se viceversa era più giusta la controproposta il battitore restava con un palmo di naso e all’asciutto. Un bel regolamento, vero? In realtà il gioco della “lippa” offriva tre varianti: quella soltanto “battuta”, in cui si cercava di far arrivare la “lippa” in un certo punto o alla massima distanza – con delle gare molto semplici in cui ognuno giocava per se – , la versione della “lippa” in cui un giocatore la tirava e l’altro doveva afferrarla al volo ed infine la “lippa” tirata, afferrata e rilanciata, la più complessa ed anche la più bella, che abbiamo prima descritto. Ed è lei, per tornare al punto di partenza, la probabile antenata del baseball. Il gioco più famoso d’America – che in origine venne chiamato Town-ball, successivamente New York Game e dal 1839 con l’attuale Baseball – deriva dal Cricket portato in America ( come il Bowling… ) dai coloni inglesi. E se il “nobile Cricket ” discendesse dalla popolare “lippa”? Il cerchio sarebbe chiuso. E tutto torna, com’è successo per il Baseball. Dall’Europa si trasferì in America dove si rifece un nome per poi tornare nella terra d’origine. In Italia l’americano Max Ott ( forse una modifica anglofona di Massimo Ottino.. ), nel 1919, a Torino, organizzò la prima squadra italiana di Baseball. Una prova della “capacità migratoria” della lippa ? Di quella lippa che in Italia aveva molti nomi a seconda delle regioni ( dall’Aré Brusé fiorentino alla Bricca canavesana ) ed una comune radice antica ? Non saprei rispondere. So però che mentre mister Ott organizzava il Baseball tricolore con più o meno le stesse regole della “lippa”, i nostri bisnonni ed i nostri nonni ( allora ragazzini ) almeno qualche volta provavano la battuta al volo. E non è detto che non riuscissero a fare anche un bel po’ di punti.

Marco Travaglini

 

Conoscere i vini con Go Wine

Al Ristorante Sol Levante Fusion di Via Nizza 1 

Informiamo che Go Wine promuove in Torino, presso il Ristorante Sol Levante Fusion di Via Nizza 1 (sollevantetorino.it), a partire da fine gennaio, un nuovo corso di degustazione base dedicato alla conoscenza e alla degustazione del vino. Il corso si sviluppa in cinque serate e avrà inizio martedì 29 gennaio: si propone di sviluppare il rapporto tra vitigno-vite-territorio, con un messaggio di carattere divulgativo che possa fornire nozioni utili anche per riconoscere e valutare le diverse tipologie di vino. Nel corso di ogni appuntamento si potranno degustare 5 tipologie di vini a seconda del tema trattato: protagonisti delle serate vini bianchi, vini rossi, grandi rossi italiani (alla presenza di un produttore) e vini da meditazione. Il costo di partecipazione è di euro 150,00 e comprende, oltre al corso con tutte le lezioni e le degustazioni, l’iscrizione all’Associazione Go Wine valevole fino al 31 dicembre 2019, 6 bicchieri da degustazione mod. Carrè ed il volume “Cantine d’Italia”.

Di seguito il programma generale del corso

Prima serata: martedì 29 gennaio 2019 ore 20.30
INTRODUZIONE ALLA DEGUSTAZIONE 

Seconda serata: martedì 5 febbraio 2019 ore 20.30
IL RAPPORTO VITIGNO–VINO–TERRITORIO; VINI BIANCHI

Terza serata: martedì 12 febbraio 2019 ore 20.30
IL LAVORO IN VIGNA; VINI ROSSI 

Quarta serata: martedì 19 febbraio 2019 ore 20.30 
IL LAVORO IN CANTINA; GRANDI ROSSI ITALIANI; INCONTRO CON UN PRODUTTORE

Quinta serata: martedì 26 febbraio 2019 ore 20.30 
IL TURISMO DEL VINO; VINI DA MEDITAZIONE

Per informazioni e iscrizioni:
Associazione Go Wine – Ufficio Corsi – tel. 0173 364631 – fax 0173 361147
ufficio.corsi@gowinet.it – www.gowinet.it

Le appetitose linguine con fave e salsiccia

Un’idea per un primo piatto insolito e gustoso?

faveLinguine fave e salsiccia.

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Ingredienti per 4 persone:

320gr. di linguine o trenette

400gr. di fave fresche o surgelate

300gr. di salsiccia o salamella

Cipolla, sale,pepe, olio

1 ciuffetto di menta.

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Sbollentare le fave (conservare un mestolino di acqua di cottura), privarle della pellicina, lasciar raffreddare e frullarne meta’ con l’acqua di cottura, il ciuffo di menta, sale, pepe. Nel frattempo soffriggere un pezzetto di cipolla con un cucchiaio di olio, aggiungere la salsiccia ridotta a pezzettini, lasciar rosolare, unire il pure’ di fave e le fave intere rimaste. Cuocere la pasta al dente e spadellarla nel sugo. Servire con pecorino grattugiato fresco.

 

Paperita Patty

(Foto: il Torinese)

Piemonte, dove la passione per le vie ferrate è di casa

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Il Piemonte è casa di alcune tra le vette più suggestive della nostra penisola e negli ultimi 10 anni ha colmato anche il distacco con le regioni delle Alpi Orientali rispetto al numero e qualità delle vie ferrate presenti. Per gli appassionati di itinerari attrezzati, l’offerta del Piemonte è quanto mai completa e offre molte opportunità in tutte le province della nostra regione.

Abbiamo parlato con Sergio Vecchi, appassionato e fondatore del sito specializzato ferrate365.it che raccoglie oltre 350 relazioni di itinerari, sulla situazione delle vie ferrate nella nostra zona: “Rispetto ai primi anni in cui salivo vie ferrate, il Piemonte è ora una delle destinazioni d’obbligo per chi è appassionato di questo tipo di attività” ha dichiarato. “L’attenzione posta dai comuni montani piemontesi è aumentata e ne sono la prova le vie aperte negli ultimi 2-3 anni tra cui la bella salita allo Chaberton vicino Claviere, la Ferrata di Pont Canavese e la meno conosciuta Ferrata di Rocca Candelera”. Le vie ferrate piemontesi sono generalmente itinerari atletici e impegnativi che richiedono buona preparazione fisica e una discreta capacità tecnica di arrampicata. Sulle Alpi Marittime nel cuneense sono presenti 7 vie ferrate (tra cui la storica all’Oronaye sul confine), in provincia di Torino sono presenti 15 itinerari. Sul versante orientale della regione, Biella ha installato 5 itinerari mentre Vercelli e Verbania 4 cadauna. Il periodo consigliato per percorrere queste vie sono le mezze stagioni e l’estate per gli itinerari ad alta quota.

 

Uova ripiene all’antica

uovaFresche e saporite 

Ingredienti (per 4 persone)

 4 uova sode – 1 scatoletta di tonno sott’olio – 1 cucchiaio di capperi – 1 cucchiaio di maionese – Prezzemolo – Sale q.b. – Olive per decoro.

 

Tagliare a meta’ le uova, togliere il tuorlo e disporle su un piatto. Frullare per qualche secondo i tuorli, il tonno, i capperi, il prezzemolo ben lavato e  la maionese, aggiustare di sale. Riempire le uova con il composto e decorare con un’oliva e, a piacere, con  maionese in tubetto. Conservare al fresco.

E voila’, in poche mosse il piatto  e’ servito.

 

Paperita Patty

Toni “Fuoribordo” e lo spaventapasseri

Quando ho conosciuto Toni “Fuoribordo”? Sapete che non saprei cosa rispondervi? Praticamente lo conosco da sempre, fin dai tempi di quando eravamo ragazzini ma poi ci siamo persi di vista. Ricordo quando si andava alle elementari, a Strambino. Era il più alto di tutti. Magro, allampanato, sempre con i pantaloni corti, d’estate come in inverno. Il suo vero nome era Antonio. E di cognome faceva Brodino. Che ridere! Quante battute si sprecavano. Lui, a dire il vero, non se la prendeva più di tanto. Un’alzata di spalle, qualche smorfia e solo con quelli più insistenti muoveva la mano destra come per scacciar via quegli importuni che l’infastidivano, così come si fa con le mosche. Poi siamo cresciuti e le nostre vite presero strade diverse. Io a Ivrea e poi a Torino. Toni un po’ qua e un po’ là, tra canavese, biellese e i paesi del riso attorno a Vercelli. Ho saputo, un po’ di tempo fa, che si era messo con Marinetta e che non sono finiti bene. Sì, proprio la Marinetta, quella fuori di testa che stava nella cascina in contrada dei Pioppi. Un caratteraccio, quella! Già da ragazzina sembrava più un maschiaccio. Tirava la coda ai gatti, infilava le rane nella canonica di Don Germano, metteva le puntine da disegno sulle sedie della biblioteca comunale. Era tremenda. Crescendo, non era certo migliorata. Anzi, per quanto possibile, peggiorò. Per di più, quasi le mancasse un difetto per completare il quadro, aveva rubato i soldi raccolti per la fagiolata di carnevale dal pentolone della signora Paolini, la presidente del comitato dei festeggiamenti.

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Con il malloppo – oltre trecento mila lire – era andata in Liguria, spendendoli tutti in pranzi, bevute e sale da ballo. Offriva a destra e sinistra, mostrandosi generosa con quel denaro che non era suo. Anche Toni, grazie anche ad un’adolescenza piuttosto turbolenta, mostrò tutta la sua originalità. Vestiva in modo eccentrico, prediligendo colori sgargianti e fogge a dir poco improbabili. Cappelli alla borsalino, scarpe con le ghette e una incontrollabile passione per le barche a motore. Incontrollabile perché, se da piccolo la manifestava a parole, crescendo era passato a dimostrazioni ben più concrete e “materiali”: era finito più volte in gattabuia per furto di motoscafi sui laghi di Viverone e di Candia. Si sospettava che fosse anche coinvolto nella misteriosa sparizione di una barca a motore dalle rive del Sirio ma non c’erano prove sufficienti per dimostrare un suo coinvolgimento. Così Antonio Brodino diventò, grazie ai “meriti” acquisiti sul campo, Toni “Fuoribondo”, compiacendosi di quel suo soprannome. Lui e Marinetta si conobbero in una serata di tanghi e mazurke all’Imperial, un dancing all’aperto della riviera di Viverone. Tra musica e zanzare, birre e coregoni alla griglia, scattò la scintilla tra i due e sbocciò l’amore. Come travolti da un temporale d’estate, unirono le vite e le abitudini, trasformandosi in breve tempo in una sorta di Bonnie & Clide a cavallo tra la Serra, le risaie e i monti. Lei si specializzò in piccole truffe, lui aggiunse alle imbarcazioni anche delle motoseghe e qualche calesse. Di questi ultimi ne rubò un paio tra Torre Balfredo e San Bernardo, abbandonandoli in aperta campagna dopo aver realizzato di non poterli  rivendere e nemmeno ottenere dai legittimi proprietari  un seppur minimo riscatto. Fu il maresciallo Caramboli a porre fine alle imprese truffaldine dei due. Le indagini furono piuttosto lunghe e meticolose ma, grazie a una soffiata, i due furono pizzicati nei campi tra Maglione e Moncrivello dove avevano alleggerito di una mezza dozzina di oche un contadino della zona. In realtà Toni e Marinetta una possibilità di fuggire l’avevano avuta ma non si fidarono a percorrerla per colpa di uno spaventapasseri.

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Era notte inoltrata e una luna tonda e grossa illuminava la campagna, allungando le ombre degli alberi. I carabinieri – il maresciallo e gli appuntati Mastini e Castrovillari – li avevano quasi accerchiati e ai due malviventi era rimasta un’unica possibilità di farla franca, dileguandosi nel buio del sentiero dietro la cascina dove avevano “prelevato” i pennuti. Ma c’era quell’uomo grande e grosso, ritto come un palo e con le braccia larghe, che stava là davanti a loro, impedendone la fuga. Il passaggio era stretto e non potevano tornare indietro. Il riverbero della luna impediva loro di vederlo in volto ma intuivano che sotto quel cappellaccio calcato in testa quello li stava squadrando con un fare tutt’altro che benevolo. Toni gli gridò: “Facci passare, brutto demonio. Siamo armati e non sai cosa ti potrà accadere. Fatti da parte!”. Ma quello niente. Muto e ostinato se ne stava lì, con le braccia larghe, pronto a ghermirli. Marinetta era ammutolita dalla paura e Toni tentò un ultima volta di far spostare l’uomo, minacciandolo: “Ti sparo! Adesso ti scarico la pistola addosso!”. Ovviamente i due non avevano nessuna arma e mai ne avevano avute, essendo sì ladri e truffatori ma del tutto incapaci di far del male al prossimo. Di fronte all’immobilità caparbia e risoluta di quel tipo che non parlava, non si muoveva e stava lì davanti a loro, fuggirono in direzione opposta finendo così tra le braccia dei carabinieri. Processati e condannati per direttissima ad una pena nemmeno troppo severa, uscirono di galera un paio d’anni dopo. Marinetta mise la testa a posto, sposò Ubaldo Sgarroni, sacrestano di San Grato, e aiutò come perpetua il vecchio Don Germano, facendosi perdonare per gli scherzi delle rane di quand’era ragazzina. Toni trovò anch’esso un lavoro. Meccanico motorista all’imbarcadero di Viverone. Così poteva occuparsi dei fuoribordo senza per questo macchiarsi la fedina penale com’era accaduto nella sua vita precedente. In cuor suo rimase fedele a Marinetta e non ebbe altre storie. Anzi, a dire il vero, conobbe una signora, rimasta vedova. Abitava in una cascina di Borgomasino. Non se ne fece niente, però. Tra i campi  lì attorno c’erano diversi spaventapasseri. Troppi per Toni  che preferì abbandonare i possibili affetti, evitando nuovi e spiacevoli incontri.

 

 

Arte e Moda cambia concept

Diventa spazio dove l’arte si fonde e collabora con la moda, crea eventi e occasioni di confronto.  Intanto cresce l’esperienza nata con ‘Vestiti d’Artista’

 

Il 2019 porta grandi novità per la scuola Arte e Moda. Proseguendo nel cammino della collaborazione con eventi legati al teatro ed allo spettacolo oltre ad essere stata inoltre promotrice e punto di partenza per il progetto ‘Vestiti d’astista’ della stilista Cinzia Sassone, Arte e Moda si propone adesso di diventare un polo artistico per il territorio Casalese ed anche per quelli circostanti (Vercellese, Astigiano, Alessandrino, Lomellina per citarne alcuni), un punto di riferimento per arte, cultura ed ogni forma di creatività ed animazione. Anima del progetto e titolare di Arte e Moda è Cinzia Sassone, la quale ha deciso di mettere a frutto sul territorio di origine l’esperienza maturata negli anni passati a Milano e all’estero, sviluppando una nuova iniziativa in sinergia con chi cerca uno spazio per esprimersi.

L’appuntamento è per sabato 19 gennaio 2019, alle ore 16, a Casale Monferrato, in viale Morozzo di San Michele 5.

La sede cambierà immagine e oltre a mantenere la propria identità formativa, metterà a disposizione uno spazio polifunzionale, uno spazio – contenitore, con la volontà di ospitare altre esperienze artistiche affini per sensibilità e intenti in sintonia con le nuove tenenze delle metropoli in ambito culturale e creativo. Cinzia Sassone sarà affiancata da uno staff di collaboratori, tra cui l’artista Iris Devasini, con i quali in aggiunta alle iniziative formative e del nuovo spazio creativo proseguirà anche ‘Vestiti d’artista’ che con i suoi vari appuntamenti ha finora sempre raccolto un buon successo di partecipazione e di critica.

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Per informazioni e contatti : tel 0142590395

Facebook: arteemoda Casale Monferrato

mail arteemoda.casalemonferrato@gmail.com

Il genio del signor Anacleto

Il signor Anacleto abitava in pieno centro storico a Torino. Anni prima aveva visitato molti palazzi per poi imbattersi in quello che, a suo dire, l’aveva “affascinato dal primo istante. Palazzo Bertalazone di San Fermo, edificio di origine seicentesca  che nel ‘700 aveva ospitato la pinacoteca del conte d’Arache, si trova in via San Francesco d’ Assisi, a poca distanza da piazza Solferino e a due passi dalla centralissima via Garibaldi che collega piazza Castello con piazza Statuto, saldando le due realtà esoteriche della città della Mole, quella bianca e quella nera. Dietro al grande  portone si cela il cortile, dalle facciate ricoperte d’edera e vite californiana. A fianco, un altro cortile e l’ingresso delle scale che, con cinque rampe e ben 88 gradini, mettevano ogni giorno a dura prova le sue forze per salire e scendere dal proprio alloggio. Ma, come faceva notare lo stesso Anacleto ad amici e conoscenti, quel lieve disagio era per certi versi benefico: “E’ un buon allenamento per gambe e fiato. C’è chi butta i soldi frequentando palestre; io, invece, ho la fortuna di far ginnastica gratis”. Quell’aria di nobiltà un poco demodé era perfetta per un uomo di mezza età che vestiva con eleganza e distinzione, accompagnando il passo con un vecchio bastone dal pomello d’avorio. Non che gli servisse, intendiamoci, ma era così chic che non se ne separava mai. Ogni mattina, puntualmente, appena la suoneria della sveglia a carica manuale rompeva il silenzio con i suoi squillanti  drin-drin, si alzava e – dopo una rapida riassettata – preparava l’immancabile moka di caffè. Un ultimo sguardo nello specchio e, impugnando il suo bastone da passeggio, scendeva con flemmatico passo le scale per intraprendere la sua giornata in “ufficio”. In realtà, per Anacleto Pauperis, l’ufficio corrispondeva al solito tavolino del Caffè dei Portici, in via Pietro Micca. Era lì che, dopo una seconda tazzina di caffè e la lettura de La Stampa, cavava dalla tasca della giacca un piccolo taccuino e prendeva nota dei suoi impegni.

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Alle 9,30 il primo rendezvous era con il Conte De Bellis per il quale doveva svolgere il delicato incarico di redigere una copia di un atto di compravendita, modificando alcuni termini della transazione. Alle 10,45 l’avrebbe raggiunto Oscar Pautasso, committente di un passaporto nuovo di zecca necessario per l’espatrio, a nome di Eugenio Recalchini. L’ultimo appuntamento, poco prima della mezza e dell’immancabile pausa-pranzo ( coincidente con la fine delle audizioni con la clientela da parte del signor Anacleto ) l’aveva riservato all’avvenente signorina Fulminante che, tenendo fede al suo cognome, aveva fatto colpo sul Pauperis. Tutt’altro che insensibile al fascino femminile, il signor Anacleto aveva già predisposto il documento richiesto dalla bella donna. Si trattava di una copia del testamento di un suo vecchio zio appena defunto, rivista e corretta nell’occasione con una piccola, quasi impercettibile modifica del testo originario: al posto del nipote Gerlando l’unica erede dei beni del trapassato risultava ora Domitilla Fulminante. Con buona pace per tutti e un bell’amen alla memoria dello scomparso. Se ancora vi fossero dei dubbi, a scanso di spiacevoli equivoci, è bene svelare l’attività che occupava gran parte del tempo e dell’ingegno del signor Anacleto: quella del falsario. Stando alla definizione del vocabolario, falsàrio  – dal latino falsarius – era chi falsifica documenti, monete o altro. Nel caso del signor Anacleto si trattava, più che altro, di contraffazione di documenti perché, a onor del vero, con banconote e quadri occorreva un talento del quale il Pauperis pareva non disporre. Non che non ci avesse provato ma in risultati erano stati piuttosto modesti a tal punto da consigliarlo di lasciar perdere. Sui documenti, invece, aveva mostrato subito un estro e un’attitudine veramente fuori del comune. Già in tenera età, alle elementari, falsificava perfettamente calligrafia e firma della madre, producendo le necessarie autogiustificazioni che maestre e maestri prendevano per buone. Crescendo aveva perfezionato questa vocazione, sviluppando capacità veramente notevoli. Era entrato al cinema e nei teatri con tesserini che lo esentavano dal pagamento del biglietto; aveva schivato il servizio militare grazie ad un esonero dovuto alle “cagionevoli condizioni di salute” nonostante fosse sano come un pesce; si era persino intestato un piccolo appartamento, con la maggiore età, grazie a qualche leggera modifica in senso correttivo su di un atto redatto dal vicino di casa, Orazio Mellarmè. Il pover’uomo, in punto di morte, non avendo parenti e sapendo a malapena fare la propria firma, aveva chiesto ad Anacleto di scrivere sotto dettature le sue ultime volontà. Solo che l’unico bene – tre stanze più i servizi nel vecchio stabile torinese – non era stato destinato all’Opera Pia ma al nostro Pauperis che, quando si trattava di curare i propri affari, non temeva rivali. Ma l’attività di Anacleto non si limitava a questo genere d’imprese. Anche il ramo commerciale esercitò su di lui una forte, fortissima attrazione. Un’irresistibile fascino che gli sollecitò la fantasia, del quale  trovò conferma leggendo una frase su un vecchio libro: “La truffa è necessaria al buon mercante quanto la lucidatura al vasellame di scarsa qualità”. “Ah, sante parole!”, esclamò tra se e se Anacleto, fregandosi le mani. Così, con poca spesa e quel tanto d’ingegno necessario, accordatosi con un vecchio pasticciere in pensione, inventò una barretta di gelatina e  frutta secca macinata che ribattezzò con diversi nomi. Nell’uso comune, con l’espressione “frutta secca” si intendono di solito noci, mandorle, nocciole, arachidi e così via. Ed ecco allora le barrette di “Spagnolina”, “Nocina”, “Mandorletta” e “Castagnella”. L’anacardo, proposto dall’ex pasticciere che di nome faceva Arialdo e di cognome Maneggi, venne scartato poiché non persuase Anacleto, forse per la vaga somiglianza con il suo nome.

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Citando un proverbio che aveva letto su un bigliettino trovato nei biscotti della Fortuna in una rosticceria cinese che di tanto in tanto frequentava dalle parti della stazione di Porta Nuova (“Un uomo non diventa ricco senza truffare; un cavallo non diventa grasso senza rubare il fieno agli altri”), aggiunse che per completare l’opera occorreva garantirsi l’anonimato. Quindi, morale del discorso, niente anacardo e nemmeno quella “Maneggina” che tanto piaceva al povero Arialdo, mosso da un impeto di vanità. Ovviamente la qualità delle materie prime, comprate all’ingrosso per poca moneta, era alquanto scarsa ma l’origine del guadagno stava proprio lì, nel costo contenuto a fronte di un prezzo non esoso. Le barrette vennero prodotte in uno scantinato attrezzato alla belle e meglio mentre l’ingegnoso Anacleto pensò alla costituzione della società a responsabilità limitata. Ovviamente scelse di registrare alla Camera di Commercio quella con capitale minimo di un euro, formula agevolata e senza vincoli e requisiti di età.I soci risultavano loro due e il capitale sociale sottoscritto e interamente versato all’atto della costituzione ammontava ben a 150 euro: dieci suoi e 140 del Maneggi. Atto costitutivo, spese di apertura, Statuto furono redatti in quattro e quattr’otto da Anacleto che lasciò decidere la denominazione  – “ Delizie del Palato SrL” –  al suo braccio destro. Che, a ricompensa dell’onore attribuitogli, dovette corrispondere di tasca sua   anche i 168 euro di imposta di registro più le tasse camerali. In breve tempo la vecchia impastatrice, gli ormai anacronistici macchinari per spruzzare la gelatina, macinare la frutta secca e  confezionare i piccoli imballaggi – tra guasti vari e rotture meccaniche – consentirono di accumulare qualche migliaio di barrette. Il successo, a detta di Anacleto, era assicurato. “I prodotti che contengono gelatina si sciolgono in bocca, garantendo un rilascio ideale del loro sapore. Inoltre, la gelatina, non contiene colesterolo, zuccheri o grassi, è facile da digerire e non provoca reazioni allergiche”. Quindi, cosa poteva volere di più la clientela? E poco importava se la qualità era scarsa, la frutta secca ormai molto, ma molto “datata” e le condizioni igieniche del processo produttivo non proprio ideali.“Quello che non ammazza, ingrassa”, disse Anacleto, pensando soprattutto al loro guadagno. Non era il caso di farsi troppi scrupoli. La parte più delicata era quella promozionale ma anche in questo campo, nonostante l’apparente mitezza, il signor Anacleto era un vero e proprio mastino che conosceva tutte le tecniche, lecite e illecite, della nobile arte dell’inganno. “Gli imbroglioni hanno sempre saputo,da che mondo è mondo, che il loro mestiere non è quello di convincere gli scettici, ma di permettere ai creduloni di continuare a credere quello che vogliono credere. E noi faremo credere che le nostre barrette sono le migliori, le più buone e nutrienti mai comparse sul mercato”. Una lezione in piena regola che il povero Maneggi ascoltò a bocca aperta, annuendo.

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Con poca spesa, ovviamente a carico di Arialdo, fecero stampare dei volantini. Puntarono decisamente sul pubblico femminile, ipotizzando una maggior disponibilità del “sesso debole” a farsi “permeare” dalla campagna di lancio architettata da Anacleto. Il messaggio era inequivocabile: “ Cara signorina, ha mai provato la nostra spagnolina? E tu, bimbetta, vuoi gustare la gustosa mandorletta? E lei, signora bella? Le andrebbe un morso di castagnella? I prodotti in gelatina della Delizie del Palato sono di gran lunga i migliori sul mercato”. Pauperis sosteneva che non occorresse tanto studio per invogliare signore e signorine di ogni ceto a preferire i loro prodotti. “In tanti fanno i raffinati, proponendo messaggi pieni di allusioni, subdoli inviti, promesse strabilianti. Noi puntiamo su semplicità e immediatezza, senza tanti giri di parole”. Come spesso accadeva quando s’infervorava, sottolineando fisicamente l’importanza delle sue parole, mollava delle tremende pacche sulle spalle del socio che, con una smorfia, annuiva immediatamente temendo forse altre e più determinate “sottolineature”. Gli affari andarono bene nei primi due giorni di vendita sul piccolo banco affittato in un angolo di buon passaggio al mercato di Porta Palazzo. Le barrette si vendevano che era un piacere. La novità, il prezzo conveniente, il prodotto piacevole al gusto e gradito anche dai palati più esigenti fecero ben presto finire le scorte a disposizione. Un successo incredibile che i due soci festeggiarono con una lauta cena in una trattoria di Borgo Dora, innaffiando generosamente le varie portate con un dolcetto di Dogliani che avrebbe risvegliato anche un morto. Ovviamente il conto venne addebitato da Anacleto ad Arialdo Maneggi perché non usciva mai con del denaro in tasca. Il socio fece buon viso e pagò, guadagnandosi una sonora pacca sulla spalla che Pauperis accompagnò con poche parole: “A buon rendere, amico mio”. Nell’attesa di rifornire ancora il banco, disertarono nei giorni successivi il mercato. Anacleto era impegnato a reperire nuove materie prime che, come già aveva fatto, provenivano dagli scarti del mercato generale.Basso costo e massima resa” rappresentavano per il nostro Pauperis i migliori presupposti per garantire un margine di guadagno che fosse il più alto possibile. Anche la gelatina, utilizzata per addensare e conferire consistenza e solidità alle barrette di frutta secca, non era certo di gran qualità ma come lui stesso ripeteva “il miglior condimento del cibo è la fame”. E se proprio fame non era, era lo stesso. Si vendevano le barrette? Sì? Quindi, nessun problema.

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Arialdo, una di quelle mattine, si recò a Porta Palazzo e vide, nei pressi dell’angolo dove avevano montato il loro banchetto, una piccola folla vociante. Incuriositosi, s’avvicinò. Appena udì le prime parole ( “Dove sono quei maledetti avvelenatori? Dove sono finiti quelli delle barrette? Ne hanno già mandati tre all’ospedale e anche mia sorella è stata da cani”) si calò il berretto sugli occhi e, con noncuranza, si nascose dietro una delle tende del venditore di giacche e cappotti. I commenti variavano dal dolente all’inferocito e tutti lamentavano il fatto che quegli affari di gelatina avevano provocato tremendi dolori intestinali a chi li aveva assaggiati. Un signore ben vestito dichiarò di essere un medico e di aver fatto analizzare quella gelatina. Era risultata un collagene composto di scarti della macellazione suina e bovina. E anche la frutta secca non era certamente di prima qualità. “Qui si tratta di sofisticazione alimentare, cari miei”, sentenziò il medico. “Una frode alimentare, un’azione fraudolenta perpetrata ai danni dei consumatori, arrecando danni alla salute e al portafoglio” . Arialdo aveva sentito abbastanza e, tra l’impaurito e l’infuriato, si allontanò in fretta. Quel disgraziato di un Pauperis, chissà che sostanze aveva utilizzato allo scopo di migliorarne l’aspetto delle barrette, coprendone difetti e falsificandone la qualità che, evidentemente, doveva essere scadente per non dire pessima. Quando incontrò Anacleto lo affrontò con tutta l’ira che aveva in corpo. Paonazzo in viso e agitando minacciosamente i pugni, accusò il socio di tutte le nefandezze possibili e prima che quello potesse replicare gli urlò in faccia che la società era sciolta e che andasse a quel paese. Anacleto non si scompose e vedendo l’ex sodale andarsene via a passi lunghi e ben distesi, scrollò il capo e sul viso gli comparve la piega di un sogghigno. Non si sentiva in colpa per le avversità e gli insuccessi. Non dipendeva certo da lui la qualità dei prodotti. Semmai doveva pensarci il pasticciere a fare il suo mestiere, come diceva il proverbio. Lui era esperto nel fare affari non nell’impastare dolci o altri prodotti alimentari. Resosi conto che quell’avventura era finita, in fondo senza troppi danni – a parte il mal di pancia di qualche cliente e l’arrabbiatura feroce di quello che era ormai il suo ex socio – e con qualche guadagno, ripiegò sulla sua attività di sempre. Che dire? Per una persona così a modo e distinta, la lieve correzione della realtà era un’attività quasi meritoria. E pazienza se alcuni avevano dimostrato di non apprezzare le sue doti. Comunque, era meglio lasciar perdere il settore alimentare e tornare alle carte e ai documenti. Anacleto era più che convinto che gli artisti del falso sapessero unire crimine e bellezza in un connubio misterioso e intrigante. E tanto bastava a renderlo felice.

Finocchi gratinati, che bontà!

Il finocchio, verdura di stagione, ha proprietà digestive e pochissime calorie con un’inconfondibile aroma simile all’anice. Perfetto da abbinare a secondi di carne è dolce e profumato. 
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Ingredienti 

4 Finocchi 
30gr. di burro 
50gr. di parmigiano grattugiato 
1 spicchio di aglio 
Sale q.b 

Per la besciamella 

250ml. di latte 
30gr. di burro 
25gr. di farina 
Sale, noce moscata q.b. 
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Lavare e tagliare in otto spicchi i finocchi, cuocerli a vapore e saltarli in padella per pochi minuti con il burro e lo spicchio di aglio.  Preparare la besciamella. Sciogliere il burro in un pentolino, versare a pioggia la farina setacciata, mescolare bene per evitare grumi poi, versare il latte tiepido e cuocere sino a quando si addensa, salare e aggiungere la noce moscata grattugiata.  In una teglia da forno sistemare i finocchi in un unico strato, coprire con la besciamella e cospargere tutto con il parmigiano. Cuocere in forno a 200 gradi per circa 30 minuti. 
Servire caldo. 

Paperita Patty 

Dalla Norvegia riparte il 2019 di Bardonecchia

BARDONECCHIA LANCIA UNA NUOVA CAMPAGNA DI PROMOZIONE NEL GRANDE NORD

In ricordo dei grandi saltatori norvegesi, i fratelli Smith, che sul trampolino di Bardonecchia nel 1909 stabilirono il record mondiale di salto con gli sci

La Norvegia e l’Italia alpina, rappresentata nella presente circostanza dalla municipalità di Bardonecchia, pur essendo fisicamente e geograficamente distanti, sono indiscutibilmente unite da un analogo predominante contesto montano, da una grande vocazione per gli sport invernali, in particolare lo sci, ma soprattutto da importanti radici sportive comuni, in quanto il 31 gennaio 1892 il più antico trampolino per il salto con gli sci esistente al mondo fu inaugurato come salto naturale sulla collina di Holmenkollen a Oslo (in Norvegia), nel 1901 a Bardonecchia si tennero i primi Campionati Italiani di sci e nel 1909, sul primo trampolino di salto italiano costruito a Bardonecchia nel 1908,  Harald Smith saltò 43 metri, stabilendo il record mondiale, trattandosi del salto più lungo eseguito fino ad allora, e unendo per sempre il proprio nome e la propria nazionalità a quello di Bardonecchia, dandole grande lustro e ricevendone da essa altrettanto. ulla base di tali premesse il 28 dicembre scorso in Consiglio Comunale è stato approvato un patto di collaborazione tra la municipalità di Bardonecchia e la Federazione sciistica norvegese, SKIFORBUNDET, nella persona del Direttore della Sezione di Salto con gli Sci Clas Brede Bråten. Il patto, che ha trovato da subito sostegno e interesse in tre co-partners importanti: Colomion SPA, Consorzio Turismo Bardonecchia e Turismo Torino e Provincia, verrà firmato a Oslo, presso il prestigioso trampolino di HomenKollbakken il 10 gennaio 2019.  Seguiranno una cena di gala per la presentazione turistica della Località al cospetto del Direttore della sezione di salto con gli sci della Federazione norvegese, Clas Brede Bråten, dell’Ambasciatore italiano a Oslo, del Presidente della Camera di Commercio italo-norvegese, di Enit, di Visit Oslo e Oslo Turist Forenig, gli enti del turismo norvegese, e di tour operator e giornalisti sportivi e, dall’11 al 14 gennaio, la partecipazione con uno stand brandizzato rigorosamente in norvegese, all’importante fiera turistica scandinava Rejselivsmesse. biettivi: raggiungere il mercato individuale e organizzare un workshop per operatori sulle nostre montagne a marzo 2019. n rappresentanza del Comune il Sindaco, Francesco Avato, e il Consigliere con Delega al Turismo, Carola Scanavino; del Consorzio Turismo Bardonecchia il Presidente, Giorgio Montabone;  di Colomion Spa, il Direttore commerciale, Enrico Rossi 
In rappresentanza di Turismo Torino e Provincia il Responsabile del Turismo Montano e Sportivo, Alberto Surico n grande progetto di interscambio, dunque, reso possibile grazie alla preziosa e imprescindibile collaborazione e intermediazione della SKIFOBUNDET DI OSLO allo scopo di stabilire un vincolo duraturo di cooperazione solidale per favorire la conoscenza reciproca e l’istituzione di relazioni di collaborazione attraverso scambi, iniziative ed esperienze che abbiano come obiettivo quello di sensibilizzare rispetto alle comuni radici sportive, valorizzandole in ogni modo, e promuovere scambi sportivi e turistici per le motivazioni suddette. 

 

(cs)