Magnifica Torino / La terrazza sul fiume Po
Andreino è un tipo piuttosto strano. Non tanto per l’aspetto fisico – mingherlino, calvo, con due gambette corte e secche come manici di scopa – quanto per il carattere, diciamo chiuso, che dimostra di avere. Andreino è un burbero solitario. Uno di quelli che dormono con il sedere scoperto , sempre di cattivo umore. Vive da solo, lavora da solo ( è un artigiano del ferro che non conta le ore e si tira “piat cumè ‘n dés ghèi”, piatto come una moneta da dieci centesimi, vale a dire stanco morto ), mangia da solo davanti alla tv accesa, va a cercar funghi da solo e non pesca mai dove ci sono altri. Ha le sue idee fisse sulla salute ( “l’infragiùur, se t’al cùrat, al dura sèt dì, se t’al cùrat mìa, al pòl durà anca na ‘smana”, che – tradotto –significa che il raffreddore, se lo curi, dura sette giorni, se non lo curi può durare anche una settimana).
A dimostrazione della scarsa considerazione che ha, in genere, dei dottori. L’unico per cui ha rispetto è il dottor Rossini. Da quella volta che gli curò una fastidiosissima sciatalgia, per Andreino è “un gatto”, il migliore, l’unico vero medico in circolazione. Se lo dice lui che si vanta di aver consumato più scarpe che lenzuola, dichiarando la buona salute e una certa avversione per quei signori che avevano contratto il giuramento di Ippocrate, c’é da credergli. Il problema è che il dottor Mauro Rossini, quelle rare volte che lo ha incontrato nella veste di paziente nel suo studio medico, non è quasi mai riuscito a spiegargli le cure che servivano poiché Andreino lo interrompeva, annuendo vigorosamente e ripetendo come un mantra: “ho capito…certo…chiaro… grazie, grazie, dottore”. Un comportamento a dir poco imbarazzante, con tutti i rischi che poteva generare, tra i quali l’incomprensione. Tant’è che un giorno, recatosi dal medico perché sofferente da tempo di stitichezza e senza che nessun tipo di cura gli avesse fatto effetto, mentre il dottore stava illustrando diagnosi e rimedio, si alzò di scatto, lo ringraziò con tutto il cuore e si precipitò nella farmacia davanti al municipio. “Si ricorda la posologia?”, chiese il farmacista, consegnandogli le supposte di glicerina. Lui disse di sì e, a scanso di equivoci, se ne fece dare due scatole. Passati una decina di giorni si presentò dal suo medico che gli domandò come stesse e se le supposte avessero fatto il loro dovere. Andreino, tenendo gli occhi bassi, temendo di fare una critica all’uomo che tanto stimava, rispose: “Caro dottore, per andar di corpo ci sono andato e son più libero ma mi è venuto un gran mal di stomaco. Quelle supposte “in pròpi gram”, sono cattive. Ogni volta che ne mettevo in bocca una e la masticavo mi veniva da vomitare”. Cos’era mai stato, direte voi? Ha poi solo sbagliato la parte, in fondo. Invece di farsele salire, le supposte le fece scendere. Comunque , l’effetto per esserci stato c’è stato. Alla spiegazione del medico, una volta tanto, prestò ascolto e compreso l’errore, si affannò con le scuse e i buoni proponimenti. Da quel giorno Andreino sta ancora da solo come un eremita ma ha imparato, se non ad ascoltare chi gli parla per il suo bene ( è più forte di lui..) almeno a leggere i bugiardini delle medicine. Così, per evitare fastidi e un po’ , come gli disse Giuanin, battendogli una gran pacca sulle spalle, per “tègn da cùunt la candéla che la prucisìon l’è lunga”. Un modo come un altro per dire al burbero ometto di aver cura di sé. Con il dubbio che le parole gli entrino da un orecchio per uscire immediatamente dall’altro.
Non avrei mai pensato, pur essendo dotato di buona fantasia, di subire con tanta forza il fascino del volo. Per di più su una mongolfiera per galleggiare nel cielo che sovrasta il lago Maggiore. Ero emozionato come un bambino. Il giorno prima della partenza avevamo controllato le previsioni meteorologiche. La mongolfiera non può staccarsi da terra in presenza di pioggia, temporali, vento troppo forte o gran caldo. Ma il tempo volgeva al bello. Il mio amico, pilota esperto, studiò i venti in quota e le loro direzioni per sfruttarne le correnti. Non vi dico che sensazione che provai quando ci staccammo da terra e iniziò l’ascensione. Il rumore del bruciatore, una fiammata e quasi non ci rendemmo conto di essere già in volo. In meno di un quarto d’ora l’altimetro segnava 3600 piedi. Stavamo viaggiando a poco più di mille metri d’altezza. La magia di volare era indescrivibile. Il panorama era completo, vario, mobile. Il lago pareva una creatura viva. La nostra ombra, in basso, sfiorava l’acqua e le terre che la circondano. Da quassù le cose mutavano forma: i profili dei monti, il reticolo delle strade, le strutture di case e piazze, i corsi d’acqua, i battelli, la ferrovia. Era davvero un altro punto di vista, una visione diversa del mondo. Ero eccitato. Come su una mappa in rilievo vedevamo i laghi d’Orta e di Mergozzo, il lungo fondovalle ossolano, la corona delle alpi Pennine e Lepontine. Ma erano i colori del lago, le increspature dell’acqua mossa dalla brezza di superficie, a provocare una vera e propria vertigine. Navigavamo nell’aria con traiettorie che lasciavano tracce impercettibili e sotto di noi non c’era angolo che non contribuisse a comporre la grande suggestione del paesaggio. Anche il tempo volava ed era giunto in momento di tornare con i piedi per terra e nel cuore la gioia intensa per questo memorabile viaggio.
Marco Travaglini
Mousse di tomini e ricotta alla menta
Preparare un trito di aglio e menta molto fine. Amalgamare i formaggi con il trito e aggiungere sale e pepe….
Leggi la ricetta su piemonteitalia.eu:
https://www.piemonteitalia.eu/it/enogastronomia/ricette/mousse-di-tomini-e-ricotta-alla-menta
IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni



Fuga dalle città
Se confrontiamo i residenti di Torino di dieci anni fa con quelli attuali, salta subito all’occhio come la popolazione sia diminuita notevolmente a causa dell’emigrazione verso i Comuni della provincia (o della Città metropolitana).
Nel 1951, all’inizio dell’immigrazione dal sud Italia, Torino aveva719.000 residenti, per giungere nel 1974 alla cifra di 1.203.000 residenti. Da allora tale numero è andato via via calando per arrivare alla fine del 1° decennio di questo secolo a poco più di 910 mila, scendendo ancora fino alla cifra di 840 mila dell’inizio di quest’anno.
Va notato che Milano, a contrario, pur avendo subito un calo nel periodo post boom economico questo non è stato così marcato e, anzi, per i prossimi 15 anni è previsto un aumento dei residenti.
Considerando che l’immigrazione da altri Paesi si attesta soprattutto nelle grandi città per ovvie ragioni di occupazione, scuola, ecc. è evidente che questa emorragia di popolazione abbia cause ben precise che non solo non sono risolte, ma non accennano a migliorare.
In un’intervista formulata a cittadini migrati da Torino verso la valle di Susa, il Canavese, la valle di Lanzo e l’astigiano, è emerso come la molla che li ha spinti a migrare sia stato soprattutto il costo degli appartamenti, spesso insostenibile per le famiglie monoreddito o numerose.
Un secondo motivo è sicuramente legato alla percezione di insicurezza che il nostro capoluogo ha come triste primato: minigang anche nelle zone auliche della città, clochard talvolta fastidiosi e desertificazione delle attività commerciali rendono sgradevole girare, specie nelle ore notturne, particolarmente per le donne, per chi sia solo o per i più giovani e gli anziani.
La scarsa pulizia delle strade e la difficoltà di trovare un parcheggio sono soltanto due degli altri motivi che hanno spinto i torinesi a migrare.
Per contro, è ovvio, chi ha deciso di migrare si trova a dover affrontare problemi di altro tipo: difficoltà di trasporto, specie da Canavese e valle di Lanzo, insufficiente offerta sanitaria perché gli ospedali sono pochi e sottodimensionati, traffico intenso specie su alcune direttrici.
Se da un lato è opportuno, anzi necessario, farsi due conti razionalmente e capire cosa andiamo a guadagnare a fronte di ciò che peggiorerà, dall’altro gli Enti locali devono valutare bene il fenomeno e capire come evitare disagi, anche gravi, caricando troppo un ospedale e svuotandone altri, intasando successivamente alcune strade.
I Comuni, come Torino, i cui investimenti in sicurezza, pulizia etrasporti non conseguono gli obiettivi desiderati, devono aver ben presente che meno spenderanno meno introiteranno, perché molti cittadini migreranno in altri Comuni riducendo sempre più il gettito fiscale.
L’incapacità gestionale di alcune Amministrazioni locali ha come unico risultato il peggioramento ulteriore del bilancio comunale, con il rischio di arrivare al default; basta, infatti, un evento imprevisto e il commissariamento è alle porte.
Basterebbe intervistare i propri cittadini, analizzare il trend degli ultimi 20 anni e capire non solo cosa sia successo e cosa stia succedendo, ma anche come intervenire finché si è in tempo.
Oppure? Continuare a svuotare la città.
Sergio MOTTA
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Spaghetti di Baviera
Quanti di noi, recandosi all’estero per lavoro o in vacanza, assaggiano i cibi e le bevande tipiche, magari ottenuti da cibi e sostanze a noi sconosciute?
Vi sono due scuole di pensiero al riguardo: una sostiene che sia corretto, e culturalmente preferibile, assaggiare i cibi tipici, come pure sforzarsi di imparare almeno i saluti nella lingua locale (o, perlomeno, parlata in loco) per apprendere la cultura del Paese che ci ospita; una seconda scuola ritiene che se non sappiamo cosa contengano i piatti locali, come siano cucinati e come abbinarli sia meglio cercare di procurarsi i piatti che conosciamo.
Inutile dire che io abbraccio sine conditio la prima filosofia: in Marocco ho assaggiato il cammello, in Turchia i panzerotti di montone conditi con kefir, in Romania a colazione la ciorbă de legume, una minestra di verdure condita con panna acida, e in Albania, sempre nella prima colazione in un mengjezore, ho mangiato testina di vitello marinata con riso pilaf accompagnati da vino rosso, nella Repubblica Dominicana ho mangiato presso una famiglia indigena nel parco nazionale del Este e così via nei vari Paesi del mondo in cui sono stato.
Personalmente, poiché ritengo che se viaggio per piacere e, dunque, ho scelto io di farlo, è perché voglio conoscere i luoghi, la cultura locale e, con essa, la cucina, la musica, i balli, gli abiti, la religione e molto altro.
Se poi ci si vanta di aver viaggiato nei Caraibi senza essere mai usciti dal villaggio, dove ci hanno scaricati col bus proveniente dall’aeroporto, allora forse è meglio non raccontare nulla delle vacanze; se, invece, si resta nel villaggio il tempo necessario a dormire ma si vuole conoscere tutto (o quasi) del posto in cui ci si trova, allora ecco che si potranno cercare i ristoranti locali, ci si documenterà prima di partire, chiederemo all’agenzia di viaggio o sul web e poi si deciderà con cognizione di causa.
Non è detto che i cibi che assaggeremo, la musica che ascolteremo o i profumi che sentiremo ci entusiasmino, ma almeno potremo parlare dopo aver provato, avendo sperimentato anziché farsi condizionare dai pregiudizi.
Anni fa, in un viaggio per i mercatini di Natale a Innsbruck, due mie vicine di autobus stavano decidendo dove andare a pranzo una volta giunte a destinazione; fortuna (loro) volle che proprio dove il bus ci scaricò ci fosse un ristorante che serviva cannelloni di magro, lasagne alla bolognese e altre specialità italiane; io ed i miei amici preferimmo un chiosco dove ordinammo brezeln salati, wurstel e crauti, birra per concludere con una fetta di apfelstrudel.
Terminato il viaggio risalimmo sul bus e, curioso di conoscere l’esperienza delle mie vicine, chiesi loro come fosse andato il pranzo: candidamente, una di loro rispose che avevano trovato un ristorante italiano (e già lo sapevo…) dove avevano ordinato cannelloni di magro ma che non erano rimaste soddisfatte perché poco gustosi e, forse, neppure freschissimi; aggiunsero che non avevano niente a che vedere con quelli che mangiavano a Torino.
Per educazione non dissi cosa pensavo.
Lo stesso vale per quanti vengono nel nostro Paese e ordinano chele di granchio fritte accompagnate da cappuccino oppure spaghetti alla carbonara bevendo latte. Forse non hanno osato chiedere consigli, forse non sanno abbinare correttamente cibi e bevande, fatto sta che perdono alcuni aspetti importanti della cultura di un Paese, il nostro nel caso specifico.
Un amico, spesso in Senegal, raccontava che quel Paese era uno dei pochi in Africa dove si cucinava, perché gli altri si limitavano a cuocere i cibi; non sono in grado di avvalorare o confutare questa sua tesi, ma avendo mangiato spesso a casa di nigeriani, etiopi, somali o senegalesi posso dire che sicuramente hanno nei confronti della cucina un approccio diverso rispetto al nostro. Forse mangiano per vivere, mentre noi viviamo per mangiare. La compagna finlandese di un mio amico potrebbe vivere a minestrina e hamburger ogni giorno senza sentire la necessità di variare.
Quello che, però, rovina alcuni di noi è l’attaccamento morboso per le nostre tradizioni, forse sarebbe meglio chiamarle abitudini, al punto di ritenerle le migliori, le uniche accettabili e degne di essere mantenute, senza pensare che i popoli che hanno conquistato il nostro Paese si sono convertiti alla nostra cucina tradizionale e non il contrario, che le influenze arabe, catalane, francesi, tedesche, greche e slave hanno lasciato nella nostra cultura culinaria solo tracce perché gli invasori hanno mutuato le tradizioni presenti facendole loro.
Dunque, perché non provare ciò che i Paesi offrono a tavola? Potremmo scoprire che anche i cibi più insoliti rispecchiano i nostri gusti o, addirittura, che li preferiamo. Spero di andare presto in Vietnam; un amico che vi è stato ha assaggiato le tarantole femmina, preferibili ai maschi per la presenza delle uova gustosissime. Se avesse ragione? Se non resterò soddisfatto non ripeterò l’esperienza.
Sergio Motta
Estate al Giardino Botanico Rea
Cultura, natura e comunità nel cuore della Val Sangone |
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Il Giardino Botanico Rea di Trana – bene regionale e punto di riferimento per la biodiversità vegetale in Piemonte – si prepara a un’estate di iniziative culturali e divulgative pensate per valorizzare il patrimonio naturale e sociale che custodisce da decenni.
Trana, agosto 2025 – Con oltre 2000 specie, varietà e cultivar provenienti dal Piemonte, dall’Italia e da ogni parte del mondo, il Giardino Rea non è solo uno spazio verde: è un archivio vivo di studio, conservazione e conoscenza del mondo della biodiversità. E in un momento storico in cui il rapporto tra uomo e natura va ripensato alle radici, questo luogo diventa anche un presidio culturale, ambientale e identitario per l’intera comunità della Val Sangone. In quest’ottica, la Regione Piemonte e il Comune di Trana, in collaborazione con numerose associazioni locali, propongono un ricco calendario di eventi estivi che accompagneranno il pubblico fino all’inizio dell’autunno. Si tratta di attività pensate per tutti – adulti, famiglie, bambini, appassionati e semplici visitatori – con l’obiettivo di far conoscere, attraversare e “abitare” il Giardino come spazio pubblico di cultura, bellezza e relazione. Tra gli appuntamenti principali:
Da segnalare: Sabato 6 settembre Mattino:
Per il proseguimento delle attività, ci si trasferirà in centro a Trana e in particolare:
Domenica 7 settembre Mattino:
Nella Scoppapietra, “Come oro”, Golem Edizioni Marco Sartori, “I soldati del Sapiente”, secondo vol. Del ciclo fantasy “La saga oscura”. o Luisella Ceretta “Tempo scaduto”, Bertoni editore
L’intero programma, realizzato in collaborazione e con il coordinamento di Agenzia Mosaico, è inserito nel circuito Abbonamento Musei Torino Piemonte, a conferma della rilevanza culturale dell’iniziativa anche a livello regionale. |
I locali storici del Piemonte: Caffè Bruno di Cuneo
Questo locale, che si trova nel centro di Cuneo, venne ideato da una famiglia svizzera, la famiglia Raiter.
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