Se la guardi giocare e poi vai a vedere il museo delle belle arti, apprezzerai di più certi quadri”. E’ l’inizio degli anni cinquanta a Budapest quando l’operaio Lajos parla così al figlio Gábor, protagonista de “La squadra spezzata”, affascinante e amaro romanzo di Luigi Bolognini. Già il sottotitolo del libro svela di chi sta parlando (“L’Aranycsapat di Puskás e la rivoluzione ungherese del 1956”). La Honvéd, squadra dell’esercito magiaro (ai tempi dell’Impero austro-ungarico– “Honvéd /difensore della patria” – era la definizione che veniva data alle forze armate ungheresi) è stata una leggenda. Negli anni ‘40 e ’50, nelle file dei bianco-rossi, giocarono alcuni tra i migliori calciatori ungheresi:

Ferenc Puskás, József Bozsik, Zoltán Czibor e Sándor Kocsis, che formarono l’ossatura del mitico Aranycsapat ( la “squadra d’oro”), la nazionale ungherese che espresse il miglior calcio del mondo in quell’epoca. Macinando gol e spettacolo, acclamata ovunque, la “mitica” Ungheria regalò bellezza e orgoglio passando dai trionfi alle Olimpiadi del 1952 alle due storiche vittorie con l’Inghilterra dei “maestri” ( 6 a 3 a Wembley nel 1953 e 7 a 1 a Budapest l’anno dopo ). L’ Aranycsapat di Puskás era destinata a vincere, simbolo di un regime – quello comunista ungherese – che l’aveva eletta a simbolo. Fino alla sconfitta nella finale della Coppa Rimet del 1954, unica partita persa dai magiari su cinquanta incontri disputati tra il 1950 e il 1956. Vale la pena ricordare la prima parte, la più esaltante, della “serie magica”: tra il 14 maggio 1950 (sconfitta in Austria per 3-5) e il 4 luglio 1954 (caduta nella finale del Mondiale a opera dei tedeschi, 2-3), collezionò 29 vittorie e 3 pareggi su 32 partite, con 143 gol fatti e 33 subiti. Un gioco offensivo, spumeggiante, irresistibile.

Anche l’Italia ne
fece le spese. Domenica 17 maggio 1953, a Roma, venne inaugurato lo Stadio Olimpico. Gli azzurri venivano da una tradizione favorevole: da 28 anni gli ungheresi non vincevano sul suolo italiano. Finì con un netto 0-3 per i magiari in maglia rossa ( gol di Hidekguti e “doppietta” di Puskás). Per la prima volta la radio ungherese trasmise un incontro di calcio in diretta e al termine si udirono distintamente gli applausi a scena aperta dell’Olimpico. La storia di questa compagine leggendaria è raccontata magistralmente da Bolognini ne “La squadra spezzata “, riportando il gioco del calcio alla sua essenza, prima che diventasse (purtroppo!!) solo business e denaro. “Il calcio è l’arte di comprimere la storia universale in 90 minuti”, disse George Bernard Shaw. Ed è ciò che racconta questo
libro dove emerge anche la figura del sedicenne Gábor che, di fronte all’infrangersi del mito degli undici “eroi” dietro al pallone di cuoio, vide andare in frantumi anche i sogni suoi e quelli di un intero Paese. Senza le speranze suscitate dall’Aranycsapat di Puskás e compagni, restò solo una realtà dura, amara. La delusione mise in dubbio tutto quello in cui credevano lui e gli altri ungheresi. E quando, il 23 ottobre 1956, scoppiò la rivolta contro la dittatura comunista,il giovane Gábor
prese parte alla “rivoluzione”. Lottò per creare un socialismo nuovo, democratico, “dal volto umano”. Fino a quando i carri armati sovietici invasero Budapest , soffocando nel sangue il suo sogno, quello di Imre Nagy e di un intero popolo che si trovò a combattere nelle stesse strade descritte da Ferenc Molnár ne “I ragazzi della via Pál”. Nei giorni della rivolta contro l’oppressione sovietica , la Honvéd era all’estero in tournée con i migliori giocatori. Decisero di non tornare in patria, trovando fortuna e successo altrove, come Puskás nel Real Madrid. Il mito della “squadra d’oro”, forse la più grande di tutti i tempi, era caduto in pezzi. E non sarebbe mai più rinato.
Marco Travaglini
L’isola di Caprera fa parte dell’arcipelago di La Maddalena, a nord-est della Sardegna, al largo della costa Smeralda. L’isola, abitata da poche decine di persone (la maggior parte degli abitanti risiede nel borgo di Stagnali) è raggiungibile grazie ad un ponte che la collega all’Isola Maddalena, e fa parte integrante – da più di vent’anni – dell’area protetta dell’Arcipelago della Maddalena.
leggere a malapena l’incisione voluta dallo stesso eroe : “Qui giace la Marsala che portò Garibaldi in Palermo, nel 1860. Morta il 5 settembre del 1876 all’età di 30 anni”. Marsala era l’inseparabile cavalla bianca di Giuseppe Garibaldi. Aveva 14 anni quando gli venne regalata dal marchese Sebastiano Giacalone Angileri che, raggiunto Garibaldi e i suoi Mille sulla spiaggia di Marsala, tenendola per le briglie, disse: “Generale, questo è un dono per voi”. E così, in sella alla sua adorata cavalla, Garibaldi entrò a Palermo il 27 maggio 1860. E con lei affrontò l’intera campagna militare nel regno delle Due Sicilie, affezionandosi a tal punto da portarla con sé il 9 novembre 1860, quando salpò per Caprera. Sull’isola, la cavalla, rimase con Garibaldi fino alla sua morte, nel 1876, quando aveva ormai trent’anni, età avanzatissima per questi quadrupedi. Lo storico Giuseppe Marcenaro, nel suo
libro “Cimiteri. Storie di rimpianti e di follie”, citandone la storia, scrive che a Marsala – in via Cammareri Scurti -, una lapide collocata nel maggio del 2004 su iniziativa del Centro Internazionale di studi Risorgimentali Garibaldini, ricorda il giorno del “regalo”. Recita, l’epigrafe: “
DAL VENETO
Tahrir al-Sham, vivono oltre 400.000 civili in condizioni disperate. Ghouta est, circondata e attaccata dalle truppe del regime siriano, non è ancora sotto il completo controllo degli uomini del presidente Bashar al-Assad. Non molla neanche la Turchia che a nord continua la sua offensiva nel cantone di Afrin contro i curdi. A peggiorare la situazione sono giunte le notizie, ancora da verificare, relative all’uso di armi chimiche sugli insorti da parte dell’esercito siriano. Al di là della tragedia levantina, la lotta contro il terrorismo jihadista è destinata a continuare come guerra su scala globale, dall’Africa al Medio Oriente, dal Caucaso all’Estremo Oriente. Sconfitti nel Levante, i jihadisti cercano riscatto in terre più lontane da dove proseguire la lotta all’Occidente e ai governi locali. Come in Afghanistan, dove la situazione precipita di giorno in giorno e Kabul è sempre più assediata dagli estremisti islamici. Tra i capi della nuova generazione di combattenti c’è Hamza, il figlio più giovane di Osama Bin Laden che nelle foto d’archivio si vede seduto su un tappeto accanto al padre con il kalashnikov sulle ginocchia. Il suo compito è quello di portare avanti il progetto di espansione del terrorismo islamico nel mondo e, per questo motivo, è 
(amministrano insieme il Tempio) avevano preso tre giorni fa la drastica decisione di sbarrare il santuario in segno di protesta contro un provvedimento di legge all’esame del Parlamento che prevede l’esproprio di terreni appartenuti alle Chiese e contro la richiesta del sindaco di Gerusalemme di versare anni di tasse comunali, contravvenendo in questo modo ad accordi precedenti che esentano le comunità religiose dal pagamento delle imposte. Grande delusione tra i
pellegrini che in questi giorni non hanno potuto vedere la Tomba di Gesù, alcuni dei quali arrivati da molto lontano, dagli Stati Uniti e dall’Asia. La basilica fu fondata nel IV secolo nel luogo dove, secondo la tradizione cristiana, Sant’Elena, madre di Costantino, ha individuato i luoghi sacri della cristianità, la collina del Calvario, la Croce e la grotta del Sepolcro. La basilica è rimasta in piedi fino al 614, per essere poi distrutta dall’invasione dei persiani. Restaurata nel 630, non fu danneggiata dagli arabi che nel 638, comandati dal califfo Omar, conquistarono Gerusalemme, strappandola ai bizantini, ma fu rasa al suolo nel 1009 dal califfo
fatimide d’Egitto al-Hakim. Fu ricostruita dai califfi abbasidi di Baghdad e nel 1099 divenne proprietà dei cristiani d’Occidente che occuparono la Città Santa nella Prima crociata e decisero di edificare un’unica grande chiesa che riunisse i luoghi della passione, della morte e della resurrezione di Gesù. È grosso modo il Tempio che ammiriamo oggi. Alla fine del regno crociato nel 1187, Gerusalemme passò nelle mani della dinastia ayyubide del Cairo, in quelle dei Mamelucchi d’Egitto e infine degli Ottomani di Costantinopoli fino alla Prima guerra mondiale. Dalla metà del Settecento uno “Statu Quo”, decreto reale emanato dalla Sublime Porta, regola i rapporti, sovente molto tesi, tra le comunità cristiane che gestiscono il Santo Sepolcro, diviso in tre settori, assegnati ai francescani, ai greci e agli armeni. Nel 1808 la copertura dell’Anàstasis, l’edicola che racchiude la tomba di Cristo, fu distrutta da un incendio e sostituita da una nuova cupola. Le relazioni tra i cristiani di Gerusalemme erano spesso burrascose e anche violente. Si litigava anche
per il possesso di cappelle, altari e oggetti sacri e le autorità faticavano a imporre l’ordine tra le varie comunità. Alla fine del Cinquecento, per riportare calma e serenità in città, il sultano ottomano Murad III decise di affidare le chiavi del portone della basilica agli esponenti di due famiglie musulmane, i Nusseibeh e gli Yudeh, che vediamo ancora oggi al lavoro, con l’incarico di evitare zuffe e colluttazioni.
CRONACHE ITALIANE
dell’energia, in gran parte dalla Russia, i turchi non hanno alcuna intenzione di restare indietro nella corsa alle risorse naturali, anche a costo di usare la forza, come sta avvenendo a est di Cipro. Tutti gli altri Stati interessati alle ricchezze sottomarine stanno però facendo di tutto per escludere la Turchia dalla partita in corso. Ankara, che da tempo preferisce mostrare i muscoli al posto delle vie diplomatiche, non ci sta e ha subito risposto inviando navi militari al largo di Cipro per bloccare la piattaforma dell’Eni-Saipem mentre stava navigando verso una zona di trivellazione su concessione del governo cipriota. Cipro non fa certo paura alla Turchia che deve però stare in guardia poiché il governo di Nicosia collabora strettamente con gli israeliani, non solo nelle esplorazioni sottomarine, ma anche nel campo della difesa e dell’intelligence. La vicenda ha fatto salire gli attriti tra l’Unione Europea e la Turchia le cui relazioni sono già burrascose per tanti altri motivi. La nave è rimasta ferma per dieci giorni a una cinquantina di chilometri dal luogo delle esplorazioni di idrocarburi, a sud-est dell’isola di Cipro che è divisa tra la parte sud greca e la parte nord turca, non riconosciuta dalla comunità internazionale. Il nord dell’isola fu invaso dai turchi nel luglio 1974 dopo il golpe a Nicosia del regime dei colonnelli di Atene per unire Cipro alla Grecia. Per difendere la propria minoranza etnica la Turchia occupò militarmente l’isola. Ankara si oppone a trivellazioni unilaterali perchè minaccerebbero i diritti dei turco-ciprioti sulle risorse naturali e quindi, secondo Erdogan, il governo cipriota si sta comportando come se fosse “l’unico proprietario dell’isola”. In realtà, il nuovo giacimento scoperto si trova nelle acque cipriote, come peraltro stabilito dalla comunità internazionale, ma quel braccio di mare è invece rivendicato dal governo turco. Nel cosiddetto “Bacino del Levante” l’Europa e Israele sono da tempo al lavoro senza badare troppo alle pretese di Ankara. La corsa al gas è cominciata otto anni fa quando la compagnia di Houston, Noble Energy, scoprì un grande giacimento di gas, il “Leviathan” con 450 miliardi di metri cubi di gas a un centinaio di chilometri dalla costa nord di Israele, seguito dal più piccolo “Aphrodite” nelle acque cipriote. La notizia provocò l’immediata reazione del Libano secondo cui il giacimento rientra anche nei suoi confini marittimi e oggi il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, minaccia perfino di colpire con i missili le piattaforme petrolifere di Tel Aviv.
DAL VENETO