DALLA SICILIA
Ha compiuto 80 anni ma rientra nel proprio posto di lavoro il funzionario della Motorizzazione civile di Messina, Eduardo Saija, che è stato riassunto con sentenza della Corte d’appello di Messina, in applicazione della “Legge Carnevale”. L’uomo era dirigente alla Motorizzazione civile di Messina, ma nel 1993 era stato sospeso a causa di un procedimento penale per presunti reati legati alla sua attività lavorativa. 25 anni dopo arriva la sentenza della Corte d’appello penale di Messina del 20 febbraio 2009: assolto per insussistenza del fatto.
DALLA TOSCANA
Il nome Bettelmatt, oggi associato ad uno dei più famosi e rinomati formaggi d’alpe, deriva da un termine vallesano-Walser risalente al Medioevo che significa, letteralmente, “pascolo della questua”, traendo origine da un’antica tradizione religiosa
lasciti a favore dei poveri, con la distribuzione ( quasi sempre a Natale o Pasqua ) di forme di formaggio. Grazie alla devozione e al senso di pietà dei vecchi Walser, i formaggi dei pascoli migliori venivano riservati alla questua per i poveri. Gli alpeggi da cui provenivano questi formaggi venivano spesso indicate come “alpi della questua” (“Bettelalp”) e corrispondevano sempre ai pascoli più ricchi delle vallate. Il motivo? Più il pascolo era ricco e più la generosità del donatore sarebbe stata premiata nell’altra vita. In altri casi l’usanza della questua era legata ad ex-voto, per “liberarsi” da pericoli e calamità naturali. Nella Turtmanntal , valle del Canton Vallese che si apre sulla sinistra della valle del Rodano, un tempo abitata dai Walser, ai
piedi dell’imponente mole del Weisshorn, il 14 agosto – vigilia dell’Assunta – i poveri , saliti dal fondovalle, giravano con la gerla i diciassette alpeggi, ricevendo in ciascuno una piccola parte di formaggio. Ma gli esempi sono tanti, come recitano i più antichi documenti conservati negli archivi ecclesiastici e delle varie comunità.Il Bettelmatt, formaggio a pasta compatta di colore che va dal giallo all’oro, con la ruvida crosta di color marrone più o meno scuro, porta con se anche questa storia legata all’elemosina pubblica. Così questa delizia, prodotta da latte crudo intero di una mungitura di mucche di razza bruna, tra luglio e settembre, esclusivamente nei sette alpeggi della Valle Antigorio Formazza ( Bettelmatt, Kastel, Val Toggia, Vannino, Poiala, Forno e Sangiatto ) può essere definito anche un prodotto solidale che affonda le radici in quello che era un generoso esempio di carità e di sostegno agli “ultimi”.
DALLA PUGLIA
Quinto, da tempo, chiede insistentemente di accompagnarlo fino a Luino, sulla sponda lombarda del lago Maggiore per vedere “ i posti di Piero Chiara”. Dopo aver vestito i panni di attore per caso e rapinatore per finta sul set del film La Banca di Monate, interamente girato a Omegna, sul lago d’Orta, l’infatuazione per lo scrittore della “sponda magra” del Verbano è diventata quasi un’ossessione
imbavagli, fino al ponte sul Ticino rimase più silenzioso di una mummia. Guardava fuori dal finestrino, sgranando gli occhi come i bambini: ogni paese, ogni lungolago s’intuiva come apparissero ai suoi occhi come delle straordinarie scoperte. Francamente non è che, oltrepassate Gravellona Toce e Feriolo, Baveno e Stresa il paesaggio fosse così vario e mutevole. Posti belli, da cartolina, per carità; niente da dire ma abbastanza noti per non dire scontati, agli occhi di chi viveva lì o nei dintorni. Eppure era evidente che a lui si presentavano come una tal novità da disegnargli sul viso imbambolato un largo sorriso. Del resto, in vita sua aveva viaggiato ben poco, a parte il gran camminare su e giù per le sale d’alberghi e ristoranti, obbligato dal suo lavoro di cameriere. Passati sulla sponda orientale del Maggiore, in terra lombarda, sembrò riprendere vita, riconoscendo i luoghi della prosa di Chiara. Così, fino a Luino, dove parcheggiammo l’auto nel grande spiazzo sterrato sul lungolago. Da lì, a piedi, in un attimo la
nostra meta venne raggiunta: il “mitico” Caffè Clerici.
o meno lo stesso e non si faticava ad immaginare come lo scrittore avesse organizzato il suo “ufficio” tra i tavolini della sala. Era il suo, immaginario, “buco della serratura” dal quale poteva sbirciare e indagare la poliedrica umanità luinese. Quella che poi, consapevole o meno, gli aveva offerto la materia prima per confezionare le sue storie. E il molo, quello dove arrivavano le raffiche e si potevano distinguere tutti i sentori che il vento, scendendo dalla Svizzera, raccoglieva lungo le valli della sponda piemontese ? Era proprio quello che stava lì, davanti a noi. A fianco dell’imbarcadero, dopo lo “spazio di rispetto” che apparteneva alla Società di Navigazione, si apriva il porto delle barche, “coi suoi moli convergenti che terminavano in due torrette dal parapetto ad altezza di gamba”.
fosse voltato verso di noi – non avremmo saputo che dire. Annusammo anche noi l’aria, quasi istintivamente. Non sentimmo nulla. Non intercettammo nessun odore: né dei sigari di Brissago, né delle bestie della Val Cannobina e nemmeno delle fragranti michette sfornate a Cannobio. “Mi sa che siamo anche noi come il ragazzo a cui il Brovelli aveva insegnato l’arte del “fiuto dell’aria”, disse Quindo, sconsolato. Quella storia la conoscevamo entrambi, quasi a memoria. Le parole, affidate alla penna di Chiara, dai ricordi vennero in superficie : “…passai mattine intere sul molo per risentire gli odori; ma avessi dimenticato la posizione esatta o l’angolo giusto, non mi riuscì di sentire mai altro che l’odore d’acqua e quasi di luce che ha sempre il vento al mio paese”. Pagata la consumazione al Caffè,
gironzolammo per Luino alla ricerca di qualche frammento di quell’atmosfera di vento e bonacce, acqua di lago e tetti lastricati di beole. C’erano ancora i balconi sporgenti dove vivacissimi gerani si mettono in mostra e anche i vecchi cancelli dietro ai quali s’intravedevano i bei giardini delle dimore signorili , traboccanti di verde e di glicini.
nelle osterie dove s’ingannava il tempo con interminabili partite a carte, scherzi e beffe alle spalle dei cornuti, mordaci canzonature, piccoli scandali e pettegolezzi dove i condimenti erano sempre tre: sesso, quattrini e debiti. Quinto scrutava i passanti che incontravamo, alla ricerca di un indizio che ci svelasse la loro vera identità. Mi parve deluso dal fatto di non intravedere quell’umanità di perdigiorno, sciupafemmine, truffatori, madame procaci e sensuali che aveva conosciuto grazie ai racconti dell’uomo che più di altri aveva sdoganato la provincia e le sue storie. Per consolarci ci concedemmo una lauta merenda al Clerici come s’usava un tempo: pane e frittura di lago, un litro di bianco e due grappini all’erba ruga, alla ruta, per “buttar giù il peso dallo stomaco”. Lasciammo Luino quasi al tramonto. Guidavo l’auto senza fretta e quest’ultima si mangiava la strada a piccoli morsi, muovendosi con un dondolio da barca, quasi fosse in riserva e occorresse sfiorare leggermente l’acceleratore per non restare a secco. Si tornava verso casa. Arrivederci alla prossima, signor Brovelli.
DALLA PUGLIA 
essendo per la maggior parte morti non avevano più niente da perdere e quindi potevano “raccontare” la loro vita in assoluta in assoluta sincerità. L’autore stesso disse che cinquantatre epitaffi erano ispirati da personaggi di Petersburg, e sessantasei da quelli di Lewistown. Edgar Lee Masters morì in miseria e dimenticato, di polmonite, il 5 marzo 1950. Aveva ottant’anni e fu sepolto nel cimitero Oak Hill di Petersburg. Il suo epitaffio include queste frasi: “Penso dormirò, non c’è cosa più dolce.Nessun destino è più dolce di quello di dormire. Sono un sogno di un riposo benedetto..”. La sua grandezza verrà universalmente riconosciuta solo a partire dagli anni ’60, in cui diverrà uno dei poeti statunitensi più celebri a livello mondiale.
pubblicarlo. Incredibilmente riuscì a evitare la censura del ministero della cultura popolare cambiando il titolo in «Antologia di S.River» e spacciandolo per una raccolta di pensieri di un quanto mai improbabile San River. La Pivano, tuttavia, pagò questa sua traduzione con il carcere; a tal proposito dichiarò: “Quel libro in Italia era superproibito. Parlava della pace, contro la guerra, contro il capitalismo, contro in generale tutta la carica del convenzionalismo. Era tutto quello che il governo non ci permetteva di pensare […], e mi hanno messo in prigione e sono molto contenta di averlo fatto”. Dal 1943, anno della prima pubblicazione, dell’Antologia di Spoon River sono uscite sessantadue edizioni in diverse collane dell’Einaudi, e si sono venduti più di cinquecentomila esemplari: un piccolo record per un libro di poesia. Vale la pena ricordare anche che, nel 1971, Fabrizio De André pubblicò l’album “Non al denaro, non all’amore nè al cielo”, liberamente tratto dall’Antologia di Spoon River. De André scelse nove delle 244 poesie e le trasformò in altrettante canzoni. Le nove poesie scelte toccavano fondamentalmente due grandi temi: l’invidia (Un matto, Un giudice, Un blasfemo, Un malato di cuore) e la scienza (Un medico, Un chimico, Un ottico). E l’album è universalmente riconosciuto come una delle “perle” più preziose del grande cantautore genovese.


“La RAI Radiotelevisione Italiana inizia oggi il suo regolare servizio di trasmissioni televisive”. Erano le 11 di mattina del 3 gennaio 1954 quando, con voce cinguettante, Fulvia Colombo – la prima “signorina buonasera”- fece lo storico annuncio.
mitica “DS” quando in studio c’era Nicolò Carosio.
fu tale che la Rai, nel 1956, dovette spostarne la programmazione dal sabato al giovedì a seguito delle proteste dei gestori delle sale cinematografiche, che avevano visto assottigliarsi vistosamente i loro incassi proprio nella serata settimanale tradizionalmente più redditizia. Ma le cose non andarono per il verso giusto e il rimedio si rivelò, paradossalmente, peggiore del male, quando la serata del sabato, rimasta libera, fu occupata da Il Musichiere, a sua volta popolarissimo, condotto da
Mario Riva, tanto da costringere molti cinema a installare televisori in sala per non perdere la clientela.
canzone-sigla della trasmissione, “Domenica è sempre domenica” ) si palesò anche sul versante del “gentil sesso” e dei concorrenti famosi. A Lascia o raddoppia venne inventata la figura della valletta, dove spopolò Edy Campagnoli, mentre al Musichiere Mario Riva (che in realtà si chiamava Mariuccio Bonavolontà) era affiancato da due vallette, ribattezzate
leSimpatiche, nel cui ruolo si segnalarono, tra le altre, Carla Gravina e Marilù Tolo. La trasmissione condotta da Riva, che usava la formula “niente po’ po’ di meno che” per presentare gli ospiti di maggior prestigio, andò in onda per novanta puntate, dal 7 dicembre 1957 al 7 maggio 1960.
vantare una lunghissima carriera (morì l’8 settembre del 2009, a 85 anni), Mario Riva non ebbe la stessa fortuna. Nato a Roma il 26 gennaio 1913, il presentatore del primo quiz musicale televisivo della storia della TV scomparve prematuramente e tragicamente il 1 settembre del 1960, in seguito alle ferite riportate
dopo una caduta, mentre stava presentando il secondo Festival del Musichiere all’arena di Verona. Aveva 47 anni e il paese provò una grande emozione. Ai suoi funerali, svoltisi due giorni dopo la morte a Roma, nella chiesa del Sacro Cuore di Maria in piazza Euclide, parteciparono decine di migliaia di persone, a dimostrazione dell’affetto che il pubblico nutriva per lui. E di quanto fossero popolari i programmi della Tv che a quei tempi, dagli schermi a tubo catodico, arrivavano nelle case degli italiani.