Erdogan e il Mediterraneo

FOCUS INTERNAZIONALE  di Filippo Re

Non soddisfatto di aver riacceso la guerra nel Levante inviando i carri armati nel nord della Siria trasforma ora il Mediterraneo orientale e il mar Egeo in nuovi fronti di tensione con l’Europa. È un sultano sempre più aggressivo Erdogan che sogna un Mediterraneo controllato dalle sue navi, come ai tempi dell’Impero turco, e che invia le cannoniere a Cipro per tutelare i suoi interessi energetici nell’area alzando il tiro contro Israele, la Grecia e l’Italia per non perdere del tutto le preziose risorse nascoste nei fondali marini. L’intesa israelo-egiziana di febbraio in base alla quale gli israeliani venderanno al Cairo idrocarburi per 15 miliardi di dollari conferma che il gas resta fortemente al centro delle strategie economiche e diplomatiche di diversi Paesi mediorientali. Nell’area costiera compresa tra Cipro, Turchia, Siria, Libano, Israele, Gaza ed Egitto si nascondono enormi giacimenti di idrocarburi stimati in oltre 11.000 miliardi di metri cubi di gas naturale e quasi 2 miliardi di barili di petrolio. La Turchia dispone di poche risorse ma è un grande terminal energetico attraverso il quale transitano oleodotti e gasdotti che collegano il Medio Oriente all’Europa. Importando oltre il 70% dell’energia, in gran parte dalla Russia, i turchi non hanno alcuna intenzione di restare indietro nella corsa alle risorse naturali, anche a costo di usare la forza, come sta avvenendo a est di Cipro. Tutti gli altri Stati interessati alle ricchezze sottomarine stanno però facendo di tutto per escludere la Turchia dalla partita in corso. Ankara, che da tempo preferisce mostrare i muscoli al posto delle vie diplomatiche, non ci sta e ha subito risposto inviando navi militari al largo di Cipro per bloccare la piattaforma dell’Eni-Saipem mentre stava navigando verso una zona di trivellazione su concessione del governo cipriota. Cipro non fa certo paura alla Turchia che deve però stare in guardia poiché il governo di Nicosia collabora strettamente con gli israeliani, non solo nelle esplorazioni sottomarine, ma anche nel campo della difesa e dell’intelligence. La vicenda ha fatto salire gli attriti tra l’Unione Europea e la Turchia le cui relazioni sono già burrascose per tanti altri motivi. La nave è rimasta ferma per dieci giorni a una cinquantina di chilometri dal luogo delle esplorazioni di idrocarburi, a sud-est dell’isola di Cipro che è divisa tra la parte sud greca e la parte nord turca, non riconosciuta dalla comunità internazionale. Il nord dell’isola fu invaso dai turchi nel luglio 1974 dopo il golpe a Nicosia del regime dei colonnelli di Atene per unire Cipro alla Grecia. Per difendere la propria minoranza etnica la Turchia occupò militarmente l’isola. Ankara si oppone a trivellazioni unilaterali perchè minaccerebbero i diritti dei turco-ciprioti sulle risorse naturali e quindi, secondo Erdogan, il governo cipriota si sta comportando come se fosse “l’unico proprietario dell’isola”. In realtà, il nuovo giacimento scoperto si trova nelle acque cipriote, come peraltro stabilito dalla comunità internazionale, ma quel braccio di mare è invece rivendicato dal governo turco. Nel cosiddetto “Bacino del Levante” l’Europa e Israele sono da tempo al lavoro senza badare troppo alle pretese di Ankara. La corsa al gas è cominciata otto anni fa quando la compagnia di Houston, Noble Energy, scoprì un grande giacimento di gas, il “Leviathan” con 450 miliardi di metri cubi di gas a un centinaio di chilometri dalla costa nord di Israele, seguito dal più piccolo “Aphrodite” nelle acque cipriote. La notizia provocò l’immediata reazione del Libano secondo cui il giacimento rientra anche nei suoi confini marittimi e oggi il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, minaccia perfino di colpire con i missili le piattaforme petrolifere di Tel Aviv.

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Poi gli israeliani hanno individuato il giacimento “Tamar” al largo delle sue coste mentre i tecnici dell’Eni, davanti all’Egitto, hanno scoperto Zohr, il più grande giacimento di gas del Mediterraneo con 850 miliardi di metri cubi. L’attenzione maggiore è concentrata in queste settimane sull’Eni che sta operando al largo di Cipro. Il rovesciamento delle alleanze sono una costante della politica mediorientale. Di recente turchi e israeliani andavano d’accordo e lavoravano insieme a un progetto che avrebbe portato il gas dei giacimenti dello Stato ebraico in Turchia. Ma dopo la crisi esplosa attorno alla questione di Gerusalemme capitale il progetto è stato messo da parte. Fare a meno della Turchia non sarà facile come dimostra la reazione militare contro la nave dell’Eni. Gas e petrolio non sono l’unico motivo di contrasto tra gli europei e il Paese della Mezzaluna. Forse il più pericoloso è quello che oppone Grecia e Turchia per una questione di isole e isolotti nel mar Egeo che periodicamente viene rispolverata per infiammare il nazionalismo turco anti-greco. Una diatriba che si trascina da decenni e a volta sfiora lo scontro armato tra i due Paesi come accadde nel 1996. La tensione tra i due Stati è infatti salita nuovamente alle stelle dopoché una pattuglia della guardia costiera di Ankara ha speronato violentemente delle corvette greche vicino ad alcune isole contese. La collisione è avvenuta davanti agli isolotti greci di Imia (Kardak in turco), rivendicati dalla Turchia che pretende di sorvegliare l’Egeo e tenere lontani i greci. Per fare un po’ di chiarezza su quanto accade nel Mar Egeo bisogna andare indietro di cent’anni. La Turchia chiede la revisione del Trattato di Losanna del 24 luglio 1923 che, alla fine dell’Impero Ottomano, assegnò alla Grecia molte isole oggi reclamate da Erdogan.

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Con la firma di quell’accordo, la Turchia annunciò di astenersi da qualsiasi rivendicazione sui territori perduti durante la Prima guerra mondiale. Ottenne Imbro e Tenedo nell’Egeo ma fu costretta ad abbandonare tutte le altre isole occupate dai greci. Ankara rivendica anche parti delle province nord di Idlib, Aleppo, Raqqa e Hasakah, e vuole creare zone cuscinetto protette da truppe turche e quindi chiede la revisione di Losanna ’23. Aggressiva ed espansionista all’estero, repressiva e antidemocratica all’interno. E’ questa la Turchia che i ventotto Stati membri dell’Unione europea incontreranno al vertice del 26 marzo in Bulgaria, che detiene la presidenza di turno dell’Ue. Ventotto Paesi contro uno solo. A Varna, sul Mar Nero, il vecchio continente cristiano sfiderà una potenza “sultaniale” che la deriva autoritaria in atto nel Paese sembra allontanare ancora di più da Bruxelles. Il confronto si annuncia duro e aspro. Da più parti si chiede di rompere definitivamente i negoziati di adesione all’Unione Europea, un ricordo ormai lontanissimo, e di riflettere sulla sua presenza nell’Alleanza Atlantica. Erdogan parte con un piccolo “vantaggio”. Nostalgico di glorie ottomane, il presidente turco arriverà nella località sul Mar Nero con la forza della storia dalla sua parte. La scelta di Varna come sede del summit, e non della capitale Sofia, è, a suo modo, emblematica. A Varna, nel 1444, il sultano trionfò sulla Cristianità. Apparso all’improvviso sul campo di battaglia, spazzò via l’esercito cristiano di 30.000 crociati che cercava in un estremo tentativo di allontanare la minaccia ottomana da Costantinopoli che stava per cadere nelle mani dei turchi. Fu il trionfo dei giannizzeri e per l’esercito cristiano fu una disfatta totale e una terribile carneficina. Sei secoli dopo vincerà di nuovo il sultano o dovrà piegarsi ai diktat europei?

Dal setttimanale “La Voce e il Tempo”
(L’immagine è tratta da Limes)

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