Dall Italia e dal Mondo- Pagina 76

A Luino, sulle tracce di Piero Chiara e del “signor Brovelli”

Quinto, da tempo, chiede insistentemente di accompagnarlo fino a Luino, sulla sponda lombarda del lago Maggiore per vedere “ i posti di  Piero Chiara”. Dopo aver vestito i panni di attore per caso e rapinatore per finta sul set del film La Banca di Monate, interamente girato a Omegna, sul lago d’Orta, l’infatuazione per lo scrittore della “sponda magra” del Verbano è diventata quasi un’ossessione. Qualche settimana fa, seduto ad un tavolino del bar in piazza Salera, un conoscente stava parlando al telefono con un amico che, da quanto si è poi saputo, comunicava dal molo di Ronco di Pella. Il primo, riferendosi all’acqua del lago, che riflette il mutare del tempo, chiedeva come l’altro la vedesse ( era chiara? era scura? prometteva brutto tempo? poteva azzardarsi a mettere in acqua la sua barchetta? ) quando il buon Quinto, intromettendosi, esclamò: “ Più che l’acqua, annusa il vento. Allarga bene le narici e sentirai se dalle Quarne scende l’aria brusca o dal Mottarone il mergozzolo”. Quinto era così, di buon carattere ma piuttosto invadente. Non per maleducazione o curiosità degli affari altrui. Anzi, era del tutto convinto di poter essere utile, di dare consigli. E come poteva farlo se non usando quel sesto senso che pensava di aver scoperto leggendo le storie di lago dell’esimio luinese? Così, per evitare il protrarsi di quel tormento ( “dai, andiamo? Mi porti, eh? Si va e si viene in giornata..”) e per farlo contento, ho ceduto le armi: sabato si va a Luino! Siamo partiti di buon ora e Quinto, che solitamente non sta zitto nemmeno se lo imbavagli, fino al ponte sul Ticino rimase più silenzioso di una mummia. Guardava fuori dal finestrino, sgranando gli occhi come i bambini: ogni paese, ogni lungolago s’intuiva come apparissero ai suoi occhi come delle straordinarie scoperte. Francamente  non è che, oltrepassate Gravellona Toce e Feriolo, Baveno e Stresa il paesaggio fosse così vario e mutevole. Posti belli, da cartolina, per carità; niente da dire ma abbastanza noti per non dire scontati, agli occhi di chi viveva lì o nei dintorni. Eppure era evidente che a lui si presentavano come una tal novità da disegnargli sul viso imbambolato un largo sorriso.  Del resto, in vita sua aveva viaggiato ben poco, a parte il gran camminare su e giù per le sale d’alberghi e ristoranti, obbligato dal suo lavoro di cameriere. Passati sulla sponda orientale del Maggiore, in terra lombarda, sembrò riprendere vita, riconoscendo i luoghi della prosa di Chiara. Così, fino a Luino, dove  parcheggiammo l’auto  nel grande spiazzo sterrato sul lungolago. Da lì, a piedi, in un attimo la nostra meta venne raggiunta: il “mitico” Caffè Clerici.

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Così, seduti a un tavolino esterno, guardando il lago, Quinto prese dalla tasca un libro e – partendo da dove aveva messo un vecchio biglietto del treno come segnalibro – iniziò a leggere: “….Volle sapere qualche cosa di più sul Caffè Clerici, che le parve un’istituzione degna d’interesse. Glielo descrissi, vicino al porto, sul quale si affacciava da un portichetto, coi tavolini di ferro e i miei amici seduti intorno fin dalla mattina. Le barche che andavano e venivano, la gente che passava, il biliardo dentro al caffè, in attività tutto il giorno e il giardinetto inghiaiato sempre in ombra dietro, con le piante concimate con i fondi di caffè nelle mezze botti dipinte di verde”. Alzando gli occhi, quasi s’accorgesse allora della mia presenza, mi disse: “Hai notato? Guardati attorno: non è più o meno com’è oggi?”. In effetti la descrizione della Luino che Piero Chiara aveva tratteggiato ne “ Il cappotto di astrakan”, non era dissimile da quanto si poteva vedere in quel momento. Il Caffè Clerici era rimasto più o meno lo stesso e non si faticava ad immaginare come lo scrittore avesse organizzato il suo “ufficio” tra i tavolini della sala. Era il suo, immaginario,  “buco della serratura” dal quale poteva sbirciare e indagare la poliedrica umanità luinese. Quella  che poi, consapevole o meno, gli aveva offerto la materia prima per confezionare le sue storie. E il molo,  quello dove arrivavano le raffiche e si potevano distinguere tutti i sentori che il vento, scendendo dalla Svizzera, raccoglieva lungo le valli della sponda piemontese ? Era proprio quello che stava lì, davanti a noi. A fianco dell’imbarcadero, dopo lo “spazio di rispetto” che apparteneva alla Società di Navigazione, si apriva il porto delle barche,  “coi suoi moli convergenti che terminavano in due torrette dal parapetto ad altezza di gamba”.

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A dire il vero erano poche le barche allineate contro la riva, mentre un paio di burchielli stavano lì in secca, arrampicati sulla rampa erbosa, poco distanti da una lancia da lago che stava pancia all’aria, capovolta sui cavalletti, ad asciugarsi le fiancate  verniciate di fresco. Sorseggiamo due “bianchini”, corretti con un’ombra di Campari, e guardammo entrambi un uomo piuttosto robusto intento a pescare con una canna fissa dal muraglione di pietra antica del porticciolo. “Guarda un po’ quel tipo. Non sembra mica il Brovelli, quello lì? Sì, il Brovelli: quello del “Ti sento, Giuditta”? ”. La stazza doveva esser suppergiù   la stessa del personaggio del racconto di Chiara e la suggestione poteva indurre a chiamarlo per nome ( “Signor Amedeo.. Amedeo Brovelli..”) ma evitammo di farlo. Un pò per non far figure, un pò perché – qualora si fosse voltato verso di noi – non  avremmo saputo che dire. Annusammo anche noi l’aria, quasi istintivamente. Non sentimmo nulla. Non intercettammo nessun odore: né dei sigari di Brissago, né delle bestie della Val Cannobina e nemmeno delle fragranti michette sfornate a Cannobio. “Mi sa che siamo anche noi come il ragazzo a cui il Brovelli aveva insegnato l’arte del “fiuto dell’aria”, disse Quindo, sconsolato.  Quella storia la conoscevamo entrambi, quasi a memoria. Le parole, affidate alla penna di Chiara, dai ricordi vennero in superficie : “…passai mattine intere sul molo per risentire gli odori; ma avessi dimenticato la posizione esatta o l’angolo giusto, non mi riuscì di sentire mai altro che l’odore d’acqua e quasi di luce che ha sempre il vento al mio paese”. Pagata la consumazione al Caffè, gironzolammo per Luino alla ricerca di qualche frammento di quell’atmosfera  di vento e bonacce, acqua di lago e tetti lastricati di beole. C’erano ancora i balconi sporgenti dove vivacissimi gerani si mettono in mostra e anche i vecchi cancelli dietro ai quali s’intravedevano i bei giardini delle dimore signorili , traboccanti di verde e di glicini.

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Molti dei luoghi di Chiara, nel tempo, erano cambiati: l’albergo Metropole, dove ai suoi tavoli, con accanimento e passione, si giocavano interminabili partiti a carte, ora portava il nome di Palazzo Verbania e  al piano terra ospitava mostre e conferenze. C’era ancorala statua di Garibaldi, la prima ad essergli stata dedicata in Italia, nel 1867,  quando l’eroe dei due mondi era ancora in vita. Anche Chiara, ne “Il piatto piange”, fa cenno a questa singolare vicenda con una certa ironia, raccontando a modo suo l’episodio storico avvenuto il 15 agosto del 1848, durante la prima guerra di indipendenza italiana. Giunto a Luino con un manipolo di camicie rosse per scacciare gli austriaci, dopo aver attraversato il lago a bordo di due battelli sequestrati ad Arona,  Garibaldi  dovette far ricorso alla farmacia Clericiper avere, in fretta e furia , un rimedio contro la dissenteria che aveva colpito a tradimento l’eroe “dei due mondi”. Girammo e  girammo ma di quegli alberghetti collocati in posizione strategica, vicino alla penultima stazione ferroviaria prima del confine svizzero, dove s’incontravano le coppie clandestine, non c’era più nemmeno l’ombra. Gli anni si sono portati via, in una caotica progressione, tutto quel mondo di chiacchiere e confidenze nei caffè e nelle osterie dove s’ingannava il tempo con interminabili partite a carte, scherzi e beffe alle spalle dei cornuti, mordaci canzonature, piccoli scandali e pettegolezzi dove i condimenti erano sempre tre: sesso, quattrini e debiti. Quinto scrutava i passanti che incontravamo, alla ricerca di un indizio che ci svelasse la loro vera identità. Mi parve deluso dal fatto di non intravedere quell’umanità di perdigiorno, sciupafemmine, truffatori, madame procaci e sensuali che aveva conosciuto grazie ai racconti dell’uomo che più di altri aveva sdoganato la provincia e le sue storie. Per consolarci ci concedemmo una lauta merenda al Clerici come s’usava un tempo: pane e frittura di lago, un litro di bianco e due grappini all’erba ruga, alla ruta, per “buttar giù il peso dallo stomaco”. Lasciammo Luino quasi al tramonto. Guidavo l’auto senza fretta e quest’ultima si mangiava la strada a piccoli morsi, muovendosi con un dondolio da barca, quasi fosse in riserva e occorresse sfiorare leggermente l’acceleratore per non  restare a secco. Si tornava verso casa. Arrivederci alla prossima, signor Brovelli.

 

Marco Travaglini

Assolto dopo 9 anni: aveva tentato di rubare una melanzana. E lo Stato paga le spese

DALLA PUGLIA 

Sono trascorsi nove anni tra inchiesta e processi vari e finalmente la Corte di Cassazione ha assolto un uomo di 49 anni che era accusato di aver cercato di rubare una melanzana in un campo. Era stato condannato dalla Corte d’appello di Lecce a cinque mesi di reclusione, ma la  Suprema corte ha deciso che in questo caso debba essere applicata la causa di non punibilità per la  particolare tenuità del fatto. Peccato che il processo sia costato allo Stato diverse migliaia di euro, in quanto l’imputato è indigente ed ha usufruito del patrocinio gratuito nei tre gradi di giudizio.

L’Antologia di Spoon River ha più di cent’anni ma non li dimostra

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La prima edizione italiana ( per i tipi dell’Einaudi) porta la data del 9 marzo 1943 e venne curata dall’allora ventiseienne Fernanda Pivano che raccontava: “Ero una ragazzina quando vidi per la prima volta l’Antologia di Spoon River. Me l’aveva portata Cesare Pavese, una mattina che gli avevo chiesto che differenza c’è tra la lettura americana e quella inglese”

Quando l’avvocato Edgar Lee Masters, tra il maggio del 1914 ed il gennaio del 1915, pubblicò sul “Mirror” di St. Louis una serie di poesie , successivamente raccolte nell’Antologia di Spoon River, non immaginava di ottenere tanto successo. Ogni poesia, raccontando in forma di epitaffio la vita di una delle persone sepolte nel cimitero di un immaginario paesino statunitense, proponeva un folgorante ritratto della profonda provincia americana, sospesa fra l’Ottocento e il Novecento. La prima edizione della raccolta, pubblicata cent’anni fa ( nell’aprile del 1915)  contava 213 epigrafi diventate poi 244 più La Collina ( “Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom e Charley, l’abulico, l’atletico, il buffone, l’ubriacone, il rissoso? Tutti, tutti, dormono sulla collina..”) nella versione definitiva del 1916. La raccolta comprende diciannove storie che coinvolgono un totale di 248 personaggi che coprono praticamente tutte le categorie e i mestieri umani. Masters si proponeva di descrivere la vita umana raccontando le vicende di un microcosmo, il paesino di Spoon River. In realtà, Masters si ispirò a personaggi veramente esistiti nei paesini di Lewistown e Petersburg, vicino a Springfield nell’Illinois, dove passò parte della sua vita. Il paesaggio intorno a queste città, il cimitero di Oak Hill , la collina di Lewistown e il fiume Spoon , offrirono le fonti d’ispirazione ma molte delle persone a cui le poesie erano ispirate, che a quel tempo erano ancora vive, si sentirono offese nel veder messe a nudo le loro debolezze ed ipocrisie. Del resto, la caratteristica dei personaggi da lui tratteggiati è che essendo per la maggior parte morti non avevano più niente da perdere e quindi potevano “raccontare” la loro vita in assoluta in assoluta sincerità. L’autore stesso disse che cinquantatre epitaffi erano ispirati da personaggi di Petersburg, e sessantasei da quelli di Lewistown. Edgar Lee Masters morì in miseria e dimenticato, di polmonite, il 5 marzo 1950. Aveva ottant’anni e fu sepolto nel cimitero Oak Hill di Petersburg. Il suo epitaffio include queste frasi: “Penso dormirò, non c’è cosa più dolce.Nessun destino è più dolce di quello di dormire. Sono un sogno di un riposo benedetto..”. La sua grandezza verrà universalmente riconosciuta solo a partire dagli anni ’60, in cui diverrà uno dei poeti statunitensi più celebri a livello mondiale.

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La pubblicazione in Italia dell’Antologia di Spoon River fu piuttosto tribolata. Durante il ventennio fascista la letteratura americana era ovviamente osteggiata dal regime, in particolare se esprimeva idee libertarie come nel caso di Edgar Lee Masters. La prima edizione italiana ( per i tipi dell’Einaudi) porta la data del 9 marzo 1943 e venne curata dall’allora ventiseienne Fernanda Pivano che raccontava: “Ero una ragazzina quando vidi per la prima volta l’Antologia di Spoon River. Me l’aveva portata Cesare Pavese, una mattina che gli avevo chiesto che differenza c’è tra la lettura americana e quella inglese”. Fu un colpo di fulmine: “L’aprii proprio alla metà, e trovai una poesia che finiva così “mentre la baciavo con l’anima sulle labra, l’anima d’improvviso mi fuggì”. Chissà perché questi versi mi mozzarono il fiato: è così difficile spiegare le reazioni degli adolescenti”. I versi di Masters e la loro “scarna semplicità” furono, per la Pivano,  una rivelazione. Così, quasi per conoscere meglio i personaggi, iniziò a tradurre in italiano le poesie, naturalmente senza dirlo a Pavese: temeva che la prendesse in giro. Ma un giorno Pavese scoprì in un cassetto il manoscritto e convinse Einaudi a pubblicarlo. Incredibilmente riuscì a evitare la censura del ministero della cultura popolare cambiando il titolo in «Antologia di S.River» e spacciandolo per una raccolta di pensieri di un quanto mai improbabile San River. La Pivano, tuttavia, pagò questa sua traduzione con il carcere; a tal proposito dichiarò: “Quel libro in Italia era superproibito. Parlava della pace, contro la guerra, contro il capitalismo, contro in generale tutta la carica del convenzionalismo. Era tutto quello che il governo non ci permetteva di pensare […], e mi hanno messo in prigione e sono molto contenta di averlo fatto”. Dal 1943, anno della prima pubblicazione, dell’Antologia di Spoon River sono uscite sessantadue edizioni in diverse collane dell’Einaudi, e si sono venduti più di cinquecentomila esemplari: un piccolo record per un libro di poesia. Vale la pena ricordare anche che, nel 1971,  Fabrizio De André pubblicò l’album “Non al denaro, non all’amore nè al cielo”, liberamente tratto dall’Antologia di Spoon River. De André scelse nove delle 244 poesie e le trasformò in altrettante canzoni.  Le nove poesie scelte toccavano fondamentalmente due grandi temi: l’invidia (Un matto, Un giudice, Un blasfemo, Un malato di cuore) e la scienza (Un medico, Un chimico, Un ottico). E l’album è universalmente riconosciuto come una delle “perle” più preziose del grande cantautore genovese.

 

Marco Travaglini

Multa da 200 euro a chi rovista nei cassonetti

DALLA LIGURIA

Una multa da 200 euro per chi rovista nei cassonetti. Succederà da oggi  a Genova, nel caso che chi viene sorpreso a cercare nell’immondizia non lo faccia per cercare da mangiare. E’ stata approvata in municipio la delibera di giunta che modifica il regolamento di polizia urbana, che indica anche misure per contrastare i fenomeni di degrado nel centro storico.

La storia infinita della “Veneranda Fabbrica” del Duomo

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In saecula saeculorum

I barcaioli, per entrare a Milano con il marmo, utilizzavano una parola d’ordine: “Auf”, l’abbreviazione di “Ad usum fabricae”, cioè ad uso della Fabbrica, con la quale potevano passare senza pagare il pedaggio ed in Lombardia ne è rimasta traccia nell’espressione “A ufo” che significa “gratuitamente”

A monte della frazione di Candoglia, nel comune di Mergozzo, sulla sinistra del fiume Toce e proprio all’imboccatura della Val d’Ossola , si trovano le cave da cui proviene il marmo del Duomo di Milano. Fu Gian Galeazzo Visconti, fondatore della “Veneranda Fabbrica del Duomo”, a decidere di sostituire il mattone, originariamente pensato per la costruzione del Duomo nel progetto iniziale, con il marmo. Una scelta motivata dalla sua bellezza cristallina, screziata di rosa, unita alla grande resistenza, al punto da condizionare non solo l’architettura e la statica del Duomo sormontato dalla “Madonnina”, ma anche la parte ornamentale. A questo scopo,  il 24 ottobre 1387, Gian Galeazzo cedette in uso alla Fabbrica le cave di Candoglia e concesse il trasporto gratuito dei marmi fino a Milano attraverso le strade d’acqua, in modo che fosse possibile averne sempre in abbondanza per conservare inalterato nei secoli lo splendore  dell’opera. Inizialmente la Fabbrica utilizzò la cava a cielo aperto detta delle Piane, situata appena sopra il letto del Toce ma, successivamente, si decise di spostare l’escavazione sempre più in alto, fino alla quota di 580 metri, a causa di smottamenti, frane e carenza di materia prima. Strumenti di ferro, come ad esempio picconi, mazze, punte, cunei, palanchini, furono i soli mezzi tecnologici in uso nelle cave, fin dalla loro apertura e alcuni di essi lo sono ancora oggi. Con l’avvento dell’energia elettrica, sul finire del XX° secolo, la lavorazione è diventata più efficace grazie alle innovazioni tecnologiche (filo veloce e lame a catena diamantati, etc.), che hanno reso più rapida e selettiva la preparazione dei blocchi di marmo. Il trasporto del materiale fino a Milano avveniva dal Toce al Lago Maggiore, lungo il Ticino e il Naviglio Grande e poi dentro al cuore della  città fino alla darsena di S. Eustorgio, a Porta Ticinese.

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Attraverso il sistema di chiuse, realizzato dalla “Veneranda Fabbrica”, il carico arrivava fino al Laghetto, oggi Via Laghetto, a poche centinaia di metri dal cantiere della Cattedrale. I barcaioli, per entrare in città, utilizzavano una parola d’ordine: “Auf”, l’abbreviazione di “Ad usum fabricae”, cioè ad uso della Fabbrica, con la quale potevano passare senza pagare il pedaggio ed in Lombardia ne è rimasta traccia nell’espressione “A ufo” che significa “gratuitamente”. Nel 1874 la Cava Madre fu collegata all’abitato di Candoglia da una strada, ma il trasporto dei blocchi fino al cantiere rimase via acqua per cinque secoli, fino al 1920, per poi passare definitivamente su strada. L’esigua larghezza della vena di questo marmo rende difficile e costosa la sua estrazione. Ciò ha costituito uno dei problemi più assillanti per il rifornimento del cantiere del Duomo: risultava infatti particolarmente difficile prevedere la quantità totale di marmo richiesta da un così grande edificio e dal suo ingente apparato scultoreo. Per risolvere il problema gli architetti delle Veneranda Fabbrica furono costretti ad aprire nuove cave a quote sempre più elevate, con un conseguente aumento di costo e di tempo per il trasporto dei blocchi dai punti di estrazione fino all’imbarco sul fiume Toce. Un’ulteriore difficoltà era rappresentata, tanto nei secoli addietro, quanto ai giorni nostri, dalla percentuale di marmo utilizzabile, rispetto a quello scavato, che si aggirava tra il 10 e il 25%. Tutte queste incognite, tuttavia, non hanno mai fermato l’attività della Fabbrica, che ancora oggi affronta la grande impresa di conservazione del Duomo, curando la coltivazione e la manutenzione delle Cave, con il suo personale e il supporto delle più avanzate tecnologie.

 

Marco Travaglini

I quiz che fecero la storia della Tv

La RAI Radiotelevisione Italiana inizia oggi il suo regolare servizio di trasmissioni televisive”. Erano le 11 di mattina del 3 gennaio 1954 quando, con voce cinguettante, Fulvia Colombo – la prima “signorina buonasera”- fece lo storico annuncio.  E alla sera prese  il via la prima puntata ufficiale de La Domenica Sportiva, con le immagini della partita Inter-Palermo, finita con un secco poker dei nerazzurri. Sergio Brighenti , che nell’occasione segnò una tripletta, fu il primo calciatore ospite della mitica “DS” quando in studio c’era Nicolò Carosio.

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Ben presto iniziarono anche i giochi a quiz, come Lascia o raddoppia? condotto da Mike Buongiorno, che andò in onda –ogni sabato sera, alle 21.00 – dal 26 novembre 1955 all’ 11 febbraio 1956 , per poi passare al giovedì sera dal 16 febbraio1956 al 16 luglio 1959. Il primo, e più famoso, programma a quiz della Rai, ipnotizzava i telespettatori, incollandoli davanti allo schermo in bianco e nero. La popolarità della trasmissione fu tale che la Rai, nel 1956, dovette spostarne la programmazione dal sabato al giovedì a seguito delle proteste dei gestori delle sale cinematografiche, che avevano visto assottigliarsi vistosamente i loro incassi proprio nella serata settimanale tradizionalmente più redditizia. Ma le cose non andarono per il verso giusto e il rimedio si rivelò, paradossalmente, peggiore del male, quando la serata del sabato, rimasta libera, fu occupata da Il Musichiere, a sua volta popolarissimo, condotto da Mario Riva, tanto da costringere molti cinema a installare televisori in sala per non perdere la  clientela.

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Così capitava, ad esempio, che i militari in libera uscita erano costretti a vedere i film a metà, poiché dopo il primo tempo “andava in onda” il quiz televisivo e, a una certa ora, dovevano per forza ritornarsene in caserma. La concorrenza tra il conduttore italoamericano e l’attore romano ( reso famoso anche dalla canzone-sigla della trasmissione, “Domenica è sempre domenica” )  si palesò anche sul versante del “gentil sesso” e dei concorrenti famosi. A Lascia o raddoppia venne inventata la figura della vallettadove spopolò Edy Campagnoli, mentre al Musichiere Mario Riva (che in realtà si chiamava Mariuccio Bonavolontà) era affiancato da due vallette, ribattezzate leSimpatiche, nel cui ruolo si segnalarono, tra le altre, Carla Gravina e Marilù Tolo. La trasmissione condotta da Riva, che usava la formula “niente po’ po’ di meno che”  per presentare gli ospiti di maggior  prestigio, andò in onda per novanta puntate, dal 7 dicembre 1957 al 7 maggio 1960.

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Quasi un anno in più di Lascia o raddoppia?. Ma se Mike Buongiorno, il re dei quiz portato in Italia alla Rai da Vittorio Veltroni ( il padre di Walter), poté vantare una lunghissima carriera (morì l’8 settembre del 2009, a 85 anni), Mario Riva non ebbe la stessa fortuna. Nato a Roma il 26 gennaio 1913, il presentatore del primo quiz musicale televisivo della storia della TV scomparve prematuramente e tragicamente  il 1 settembre del 1960, in seguito alle ferite riportate dopo una caduta, mentre stava presentando il secondo Festival del Musichiere all’arena di Verona. Aveva 47 anni e il paese provò una grande emozione. Ai suoi funerali, svoltisi due giorni dopo la morte a Roma, nella chiesa del Sacro Cuore di Maria in piazza Euclide, parteciparono decine di migliaia  di persone, a dimostrazione dell’affetto che il pubblico nutriva per lui. E di quanto fossero popolari i programmi della Tv  che a quei tempi, dagli schermi a tubo catodico, arrivavano nelle case degli italiani.

Marco Travaglini

 

Macchina agricola taglia braccio a ragazzino di 15 anni

DALLA SARDEGNA

E’  all’ospedale di Cagliari per una semi amputazione del braccio il ragazzino 15enne  che si trovava all’esterno della sua abitazione a Castiadas ed e’ rimasto gravemente ferito. In base a una prima ricostruzione Il giovane era  vicino a un trattore attrezzato con trinciatrice per la legna. E’ ancora da capire come  il braccio del 15enne sia finito nel macchinario da lavoro. Il ragazzo verrà  sottoposto a un delicato intervento chirurgico per ricucire il braccio.

Bram Stoker e il mistero della tomba di Dracula

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DRACULA 1La tradizione popolare vuole che sia stato sepolto nella chiesa ortodossa dell’Assunzione, nel convento di Snagov, su un’isola, nel bel mezzo di un lago situato a una quarantina di chilometri a nord di Bucarest

 Il 26 maggio del 1897, a Londra,  veniva pubblicato il più famoso dei libri dello scrittore irlandese Bram Stoker. Si trattava di “Dracula”, un romanzo dalle atmosfere gotiche. In verità l’idea venne concepita da Stoker qualche anno prima, esattamente 125 anni fa, tra il luglio e l’agosto del 1890. “La bocca, per quel che si scorgeva sotto i folti baffi, era rigida e con un profilo quasi crudele. I denti bianchi e stranamente aguzzi, sporgevano dalle labbra, il colore acceso rivelava una vitalità stupefacente per un uomo dei suoi anni. Le orecchie erano pallide, appuntite; il mento ampio e forte, le guance sode anche se scavate. Tutto il suo volto era soffuso d’un incredibile pallore”. Una descrizione che non lascia dubbi sull’identità del personaggio e sulla sua natura sinistra, che per la prima volta fece acquisire dignità letteraria ai vampiri. Alle credenze popolari e alle superstizioni diffuse soprattutto nei paesi dell’Est e nei Balcani, il letterato irlandese – che nella Londra “vittoriana” alternava all’attività di giornalista quella di scrittore – venne introdotto dal professore ungherese Arminius Vambéry. Fu quest’ultimo a parlargli della Transilvania, raccontando la storia del principe Vlad III di Valacchia, noto con l’appellativo di “Draculea” (che si può tradurre come “figlio del dragone”, riferito al padre Vlad II, membro dell’Ordine del Dragone). Il principe Vlad Tepes, passato alla storia come “Vlad l’Impalatore” per i suoi sadici metodi di tortura che riservava non solo ai turchi ma anche ai cristiani, nell’immaginario di Stoker si sovrappose al protagonista del suo romanzo.

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Tra l’altro, nella lingua rumena,  le parole “dragone” e “diavolo” ( “drac”) sono molto simili. Così, Vlad vide trasformare il suo soprannome “Draculea” in “Dracula” il cui significato e’ “figlio del Diavolo”. Stoker trovò anche un’altra fonte d’ispirazione in diversi articoli comparsi sui giornali dell’epoca in relazione ad un fatto di cronaca realmente accaduto nel 1892, nella cittadina di Exter (New England). La morte di una ragazza diciannovenne scatenò l’ immaginazione dei suoi concittadini, sia per gli strani sintomi, pallore e inappetenza, sia per il fatto che a poca distanza morirono allo stesso modo madre, sorella e fratello. Ciò che per la medicina non poteva che trattarsi di tubercolosi, per la gente era un chiaro caso di vampirismo. Una suggestione dopo l’altra, mischiando storia e immaginazione, lo scrittore costruì il romanzo come una raccolta di pagine di diario scritte dai protagonisti della vicenda. Dal giovane avvocato inglese Jonathan Harker, che si reca in Transilvania per definire l’acquisto di una casa londinese da parte del Conte Dracula, alla sua fidanzata Mina Murray, oggetto del desiderio del vampiro che in lei rivede la moglie morta, fino al professore olandese Abraham Van Helsing, scienziato e filosofo che crede nell’esistenza del soprannaturale. Fatto circolare prima tra gli amici e successivamente modificato, il libro venne stampato e posto in vendita nella tarda primavera del 1897. Da allora, il successo è stato talmente ampio da creare un vero e proprio genere, con adattamenti teatrali e cinematografici come  “Nosferatu il vampiro” (1922), capolavoro del cinema muto  espressionista firmato dal tedesco Friedrich Wilhelm Murnau, fino ai più recenti Dracula di Bram Stoker (tre premi Oscar nel 1993), Van Helsing (2004), il film d’animazione “Hotel Transylvania” (2012) e “Dracula Untold” del 2014. Ma c’è tutta un’altra storia che vale la pena raccontare. E qui dal racconto del libro si passa alla storia, o almeno a  qualcosa che gli assomiglia.

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Il voivoda Vlad III di Valacchia perse la vita in circostanze poco chiare. Si presume che “Dracula” morì com’era vissuto: combattendo. Secondo alcuni la sua  testa, recisa dal corpo, venne portata a Costantinopoli come un trofeo e il suo corpo venne sepolto senza tante cerimonie dal suo rivale e vassallo dei Turchi, Basarab Laiota. Non si conosce l’esatta ubicazione della sua  tomba, anche se la tradizione popolare vuole che sia stato sepolto nella chiesa ortodossa dell’Assunzione, nel convento di Snagov, su un’isola, nel bel mezzo di un lago situato a una quarantina di chilometri a nord di Bucarest. Ricerche archeologiche dal 1930, nella tomba,  scoprirono però solo ossa di cavallo. Il priore di Snagov, ancora recentemente, ha contestato questa versione, rivelando che il sepolcro posto di fronte alle porte dell’iconostasi è la vera tomba di Vlad Tepes. Tuttavia, la maggior parte degli storici romeni, pensa che il vero luogo di sepoltura sia invece il monastero-fortezza di Comana , fondato e costruito nel 1461 proprio da Vlad Tepes, in quello che oggi è il distretto di Giurgiu, nel sud della Romania, al confine con la Bulgaria. Durante i lavori archeologici eseguiti nel 1970, si credette che il corpo senza testa di Vlad l’Impalatore fosse stato localizzato proprio nei sotterranei del monastero. Ma ecco, ad aggrovigliare ancor di più la matassa, una terza e clamorosa ipotesi: il conte Dracula non è morto combattendo in Transilvania ma a Napoli, ed è stato sepolto nel cuore della città, nel chiostro di Santa Maria La Nova. A sostenere quest’ardita tesi non sono dei fantasiosi “cacciatori di vampiri” ma alcuni studiosi dell’Università estone di Tallinn che, in collaborazione con studiosi italiani, hanno compiuto ricerche sulla principessa slava Maria Balsa, fuggita a Napoli nel 1479 a causa delle persecuzioni turche ed accolta nella città da Ferdinando d’Aragona. La donna, che diventò in seguito moglie del  Conte Giacomo Alfonso Ferrillo, sarebbe la figlia del Conte Vlad III di Valacchia, meglio conosciuto- come abbiamo visto – come il Conte “Dracula”. E proprio il padre l’avrebbe accompagnata, cercando e ottenendo l’anonimato. La prova fornita dagli studiosi a sostegno delle loro tesi è il fatto che il blasone che fuse gli stemmi delle famiglie Balsa e Ferrillo presenta un drago, in tutto simile a quello della casata dei principi di Valacchia. Sarà davvero così? Il conte Dracula riposa (?!) a Napoli? La storia è affascinante, ricca di sfumature e di colpi di scena, anche se sembra più la trama di un romanzo d’avventure che una realtà storica. Infatti, al momento, manca il particolare che la renderebbe clamorosa, il colpo di scena finale: il corpo di Vlad Tepes. Ed è ciò che gli studiosi scesi in campo sperano di ottenere. Nel dubbio, come il professor Van Helsing, attendiamo tenendo ben stretto in mano un appuntito paletto di frassino.

 

Marco Travaglini

Il salto dell’acciuga

acciuga bagna caoda

Un bel libro di Nico Orengo che venne pubblicato nel 1997 da Einaudi nella collana de “I coralli”. In una vecchia libreria, curiosando tra gli scaffali, l’ho scovato e acquistato. L’avevo letto quando uscì e, curioso, l’ho riletto a distanza di quasi diciott’anni. L’ho trovato ancor più bello, sorprendente e intrigante di allora

 

Storie che s’intrecciano, antiche, vecchie, nuove; pescatori, donne, finanzieri, contrabbandieri di sale, acciugai… in tutto il libro  si sente il profumo dell’aglio rosa, del salso del mare, delle valli nascoste e della Olga, la rossa di capelli che passa nelle pagine come una cometa tra i picchi delle montagne“. Così, Mario Rigoni Stern descriveva con efficacia  “Il salto dell’acciuga”, un bel libro di Nico Orengo che venne pubblicato nel 1997 da Einaudi nella collana de “I coralli”.In una vecchia libreria, curiosando tra gli scaffali, l’ho scovato e acquistato. L’avevo letto quando uscì e, curioso, l’ho riletto a distanza di quasi diciott’anni. L’ho trovato ancor più bello, sorprendente e intrigante di allora. Forse è il libro migliore dello scrittore ligure, come scrisse Lalla Romano in uno dei suoi elzeviri su “Il Corriere della Sera”. Certamente è un libro pieno di fascino, dove Orengo ( che ci ha lasciati nel 2009) accompagna il lettore in un viaggio che ci  racconta la storia delle acciughe, di come furono portate dal mare alle Alpi, sulle vie dei contrabbandieri del sale, sui carri degli acciugai ambulanti della Val Maira, approdando nelle Langhe e nel Monferrato, a Torino come nel nord del Piemonte, varcando il Ticino, approdando sui navigli di Milano dove incontrarono il gusto di tanti perché “le acciughe piacciono, è cibo povero, per povera gente“. Così il “salto dell’acciuga“, il percorso dal mare fino alle montagne, diventò un buon pretesto per parlare di terre e  genti.

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C’è chi ha azzardato un parallelo con il ” Breviario Mediterraneo” di Predrag Matvejevic’, dove lo scrittore croato, nato all’ombra del ponte di Mostar, ricostruisce e narra la storia “geopoetica” del Mediterraneo e dei paesi che vi si affacciano. Un azzardo che ha un senso, una logica, un fascino.  Nico Orengo, ne “Il salto dell’acciuga”, racconta in prima persona, dialogando con gli amici, rammentando le sue peregrinazioni dal mare della sua Liguria di Ponente alla Val Maira, sulle tracce delle acciughe, fino al paesino di Moschiéres, dove immagina che i  saraceni ( “lasciati alle spalle i venti di Ponente e di Levante, i profumi mescolati del Mistral, l’eco del mare..”) si nascosero per un lungo tempo in cui “furono senza nome, invisibili e nascosti”, “per poi diventare con il mestiere di acciugai paese e abitanti”. Una borgata, Moschiéres,nei pressi di Dronero, nel cuneese,  dove usciva dai camini delle case un “ fumo che sapeva d’acciuga e aglio”. Storie antichissime, una specie d’affresco che va dal Medioevo ai giorni nostri  dove tutto s’intreccia e prende forma . Nella pagine, come una presenza a volte incombente e a volte discreta, c’è Olga, contrabbandiera di sale, vittima di continua violenza da parte di un doganiere corrotto, “finché non perse la testa e una sera gli tagliò con un rasoio il belino “. Come non citare poi il ritratto che Orengo traccia del colonnello Matteo Vinzoni, che aveva “il compito di rilevare e definire confini” tra i  possedimenti dei Savoia e le terre dei genovesi: “viaggiava a dorso di mulo, con una sacca piena di carte e matite colorate. Disegnava mappe, geografie, rilievi del terreno, ciuffi di mortella, rami di castagni, rocce e ciottoli“. E su tutto aleggia, con il suo profumo forte, l’argentea acciuga, “pesce di montagna” che si conservava nel tempo, sotto sale.  Quanti agguati attendevano i carretti degli acciugai? Fin dove si spingevano i loro commerci? Quali riti accompagnavano la bagna caoda?

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Orengo ricorda e racconta, intreccia notizie storiche e storie di paese, indaga mestieri perduti, odori e immagini che incantano nel viaggio del sale e dell’acciuga dalle onde del mar Ligure fino ai villaggi tra le più aspre cime dei monti. “Il salto dell’acciuga” non è solo un romanzo: è anche un saggio, una narrazione storica. E’ la storia di un pesce, quasi un pesce di terra si potrebbe dire, che immerso nel sale valica le montagne per diventare cibo di terra, appunto. E qui ci s’interroga su di un’antica questione: come mai la “bagna caoda”, il piatto principe del Piemonte, regione senza alcun sbocco sul mare, è a base di pesce? In un’indagine semiseria, che mescola notizie storiche, racconti privati, storie di paese, ricordi e chiacchiere, Orengo percorre la via del sale tra Liguria e Piemonte, dimostrando come il mondo dei pescatori si intrecciasse con quello dei contadini e cercando così di rispondere a questa domanda. Dopo aver letto “Il salto dell’acciuga”, onorando la scrittura dell’indimenticabile Nico Orengo, non ci si può esimere dal provare la bagna caoda, soprattutto ora che iniziano, con le brume d’autunno,  i primi freddi. La bagna caoda è un piatto semplice, con pochi ingredienti: acciughe, olio e aglio, nient’altro se non una lunga e lentissima cottura e una noce di burro alla fine. Intingendovi verdure crude o lesse, dai cardi di Nizza Monferrato ai peperoni di Carmagnola, si renderà il giusto onore all’acciuga che i liguri chiamano “pan du mar”, il pane del mare, mentre per i piemontesi erano il “pane di montagna”, perché scendeva dai monti dell’Appennino ligure o delle Alpi marittime.

Marco Travaglini

 

Uomo muore travolto e trascinato da treno

DALLA PUGLIA

Tragico incidente in cui ha perso la vita un clochard, F.B.di Monteroni di Lecce, 58 anni. L’uomo è stato travolto e ucciso da un treno mentre si trovava su di un binario della stazione di Lecce, piegato per usare una conduttura di acqua. E’ rimasto però accecato dal sole e non ha visto il treno che stava arrivando. Il corpo è stato trascinato per diversi metri prima che il convoglio si fermasse.