Dall Italia e dal Mondo- Pagina 72

Fossalta e il “fronte del Piave” di Hemingway

Fossalta me la ricordavo ridotta dalle bombe a cumuli di macerie, al punto che neppure i topi ci potevano abitare”. Così scrisse Ernest Hemingway sul “Daily Star” di Toronto  nel luglio del 1922. L’articolo, intitolato “Visita di un reduce al vecchio fronte”, venne scritto quattro anni dopo la tragica notte tra l’8 e il 9 luglio del 1918 quando – una ventina di giorni prima del suo 19° compleanno – venne colpito dalle schegge dell’esplosione di un colpo di un mortaio austriaco a corta gittata. Il giovane Hemingway, volontario arruolasi  durante la prima guerra mondiale come autista d’ambulanza  della sezione statunitense della Croce Rossa ( era stato escluso dai reparti combattenti a causa di un difetto alla vista) , cercò di mettere in salvo i feriti  quando fu colpito alla gamba destra da proiettili di mitragliatrice che gli penetrarono nel piede e in una rotula. Il luogo in cui lo scrittore fu ferito è  noto come “Buso Burato”. Lì l’acqua del Piave si dirige verso Fossalta, seguendo una linea di anse disegnate a “elle”. E lì, tra le due sponde del fiume, c’era la prima linea, con gli austriaci appostati sulla riva sinistra. Hemingway arrivò a Fossalta di Piave il 24 giugno 1918, appena conclusa la Battaglia del Solstizio e le strade del piccolo paese parevano un cimitero a cielo aperto. Quelle due settimane in cui rimase lì, fino alla notte del ferimento, segnarono in profondità la sua vita. Dopo il ferimento, ricevute le prime cure, venne trasportato in treno all’Ospedale della Croce Rossa americana di Milano, dove fu operato. Lì rimase tre mesi, durante i quali furono necessarie ben 12 operazioni chirurgiche per estrarre le oltre 200 schegge che gli erano entrate nella gamba. Lì s’innamorò di un’infermiera statunitense di origine tedesca, Agnes von Kurowsky. Dall’intera vicenda trasse spunto per uno dei suoi romanzi più celebri, “Addio alle armi”, dove il tratto autobiografico è ben visibile. Il gesto d’eroismo che lo vide protagonista sul Piave  gli valse la medaglia d’argento al valore del Regno d’Italia e  la Croce di Guerra, conferitagli dagli Stati Uniti del presidente Thomas Wilson. Così, quando fece ritorno– nel gennaio del 1919 –  al suo paese natale di Oak Park, nell’Illinois, venne accolto come un eroe. Hemingway, in viaggio in Italia negli anni seguenti, volle ritornare a Fossalta e in Veneto, dove ambientò anche un altro suo romanzo – “Di là dal fiume e tra gli alberi” – scritto nel 1950. Oggi una stele, posta lungo l’argine di Fossalta del Piave, ricorda il luogo dove Hemingway fu ferito. Per mantenere viva la memoria  della “guerra Granda” e del legame con il celebre scrittore americano, la municipalità del piccolo centro in provincia di Venezia ha realizzato un ecomuseo intitolato “La guerra di Hemingway“: un anello di 11 chilometri in cui camminare lungo il Piave ascoltando le parole dello scrittore raccolte in un’audio guida e con la possibilità di scaricare ulteriori documenti e informazioni attraverso dei QR code presenti sulle steli disseminate lungo il percorso segnato – a terra – da impronte azzurre di scarpe chiodate. A Bassano del Grappa, poco più a nord del celebre ponte in legno del Palladio, sulla riva est del fiume, sorge invece Ca’ Erizzo, elegante struttura del ‘400. Nel 1918 la villa fu residenza della Sezione Uno delle ambulanze della Croce Rossa Americana. In una parte del complesso, restaurato dall’attuale proprietario, ha sede il Museo Hemingway e della Grande Guerra, che ospita inoltre una “collezione Hemingway” con una vasta documentazione. Un’ultima annotazione sul Sacrario di Fagarè, dove riposano le salme di più di diecimila caduti (per metà ignoti) nelle dure battaglie del Piave tra il 1917 e il ‘18, provenienti da ottanta cimiteri di guerra del basso Piave. Lì è  sepolto anche il tenente Edward McKey, ufficiale della Croce Rossa Americana, amico personale di Hemingway che, in sua memoria, scrisse una poesia il cui testo è scolpito in ferro ed è visibile nella cappella centrale del Monumento.

Marco Travaglini

Olmi, il regista che diede voce agli ultimi

La scomparsa di Ermanno Olmi ha lasciato un grande vuoto nella cultura e nel cinema italiano. Il grande maestro è morto ad Asiago, dove riposa uno dei suo grandi amici, quel Mario Rigoni Stern che con lui sceneggiò (insieme a Tullio Kezich) il film  “I recuperanti “ nel quale Olmi narrava la vicenda di chi si guadagnava da vivere sull’altipiano dei Sette Comuni, recuperando i residuati bellici metallici della Grande Guerra. Olmi era nato 86 anni fa a Bergamo in una famiglia contadina profondamente cattolica e aveva trascorso la sua infanzia tra la periferia milanese e la campagna bergamasca di Treviglio. Per mantenersi agli studi di arte drammatica e poter diventare, seguendo i suoi sogni, regista e sceneggiatore, trovò lavoro alla Edison, dove realizzò una trentina di documentari tecnico-industriali, alcuni dei quali girati in alta Val d’Ossola e Formazza, raccolti nel bellissimo dvd “Gli anni Edison”. Il suo primo lungometraggio “Il tempo si è fermato” nel quale si parla del rapporto tra uno studente e il guardiano di una diga, è del 1959 e ad esso seguirà, due anni dopo, “Il posto”.  Nel 1965 è autore di una straordinaria biografia filmata di Papa Giovanni XXIII (“E venne un uomo”) che realizza magistralmente evitando di fornire un ritratto agiografico del “Papa buono” di Sotto il Monte al quale si sentiva unito dalle comuni radici bergamasche. Regista di rara sensibilità sociale, pioniere nel campo del documentario,  Olmi è tra coloro che hanno saputo, con lucidità e grazia, dare voce e immagine agli ultimi, regalandoci autentici capolavori come ”L’albero degli zoccoli”, “La leggenda del santo bevitore”, “Il mestiere delle armi”, “Centochiodi” e il bellissimo “Torneranno i prati”, piccolo-grande film contro la guerra che raccontava il primo conflitto mondiale. Se per tanti il suo nome è legato alla vicenda della famiglia contadina narrata in dialetto bergamasco de “L’albero degli zoccoli”, con la quale vinse quarant’anni fa la Palma d’Oro al Festival di Cannes, credo sia giusto ricordare i suoi ultimi due lavori che richiamano il legame tra la fede e quell’idea di “chiesa dei poveri” legata al Concilio Vaticano II.  Sette anni fa Olmi realizzò “Il villaggio di cartone” dedicato al tema dell’immigrazione, nel quale racconta la “conversione” di un vecchio sacerdote che ritrova la fede aiutando gli immigrati clandestini, mentre lo mentre lo scorso anno girò il suo ultimo film, un documentario dedicato a Carlo Maria Martini, l’indimenticabile “cardinale del dialogo”.

Marco Travaglini

Motociclista muore nello schianto contro un bus

DALLA SARDEGNA E’ morto il motociclista tedesco di 41 anni che sulla Statale 128, in territorio di Laconi, in Sardegna aveva riportato gravi ferite in un violento scontro con un pullman si linea. I soccorsi del 118  non hanno potuto che constatarne la morte. Leggi le altre notizie: http://www.iltorinese.it

 

 

Giovan Maria Salati, il primo che attraversò a nuoto la Manica per la libertà

SALATI LIBROIn pochi ricordano l’impresa di un montanaro che sfidò le onde della Manica per amore della libertà, risultando il  primo uomo al mondo ad attraversare a nuoto quel tratto di mare di 34 chilometri che separa la Gran Bretagna dall’Europa continentale e collega il mare del Nord all’oceano Atlantico

Non passa giorno senza che la Tv trasmetta le immagini delle varie odissee dei migranti che, sfuggendo da guerre e povertà, cercano di valicare i confini europei dal canale di Sicilia alle isole greche fino al passaggio della Manica, da Calais a Dover, in un drammatico viaggio della speranza o della disperazione. In pochi ricordano però l’impresa di un montanaro che sfidò le onde della Manica per amore della libertà, risultando il  primo uomo al mondo ad attraversare a nuoto quel tratto di mare di 34 chilometri che separa la Gran Bretagna dall’Europa continentale e collega il mare del Nord all’oceano Atlantico. Si chiamava Giovan Maria Salati ed era nato nel 1796 in Valle Vigezzo, a Malesco, oggi comune di 1.474  anime nel VCO, al confine nord del Piemonte, nel Parco Nazionale della Val Grande.

Figlio di Domenico e Anna Maria Salati, a sedici anni – dopo aver lavorato, come molti suoi compaesani, fin dalla più tenera età,  comeSALATI MALESCO spazzacamino, si arruolò nell’armata italiana che faceva parte della Grande Armée di Napoleone Bonaparte, in cerca di fortuna. Iniziò, così, la sua avventura, agli ordini del generale di divisione Domenico Pino. Negli anni successivi, imbarcatosi  sulla “Belle Poule”, fregata della flotta francese, come fuciliere di marina, combatté a Waterloo dove, ferito, venne fatto prigioniero e recluso a Dover, su un vecchio pontone inglese (una sorta di enorme chiatta galleggiante). Il 16 agosto 1817, il ventunenne fuciliere di marina decise che quello sarebbe stato il suo ultimo giorno di prigionia: durante la notte si gettò in acqua dirigendosi, a nuoto, verso la costa della Francia, lasciandosi alle spalle le “bianche scogliere di Dover”. Il giorno dopo arrivò sulle spiagge francesi da uomo libero che, per primo, aveva attraversato la Manica. Così, beffando gli inglesi, un  montanaro piemontese che  aveva imparato a nuotare nei pomeriggi estivi nelle acque gelide dei torrenti alpini, aveva compiuto un’impresa che gli valse un primato, motivata da uno straordinario e quasi imperioso gesto di libertà. Senza saperlo, Giovan Maria Salati dava, così, una precisa identità alla figura del fondista e del maratoneta del nuoto. Il resto della sua vita la passò in Francia. Trovato lavoro a Parigi presso alcuni parenti che avevano fatto fortuna come fumisti, da semplice spazzacamino, diventò lui stesso fumista impresario. Nel 1850 si trasferì a Soissons e, successivamente, al seguito del figlio prete, dimorò in varie parrocchie per poi morire, ultra ottantenne, in quella di Saint-Brice-sous-Forêt, non distante da Parigi. La storia di questo  leggendario vigezzino, soldato di Napoleone e nuotatore per spirito di libertà, è stata raccontata nel libro “Giovan Maria Salati. Una beffa che fruttò il primato”. Si tratta di un bel volume, ricco di illustrazioni, scritto dopo lunghe e minuziose ricerche dal conterraneo del Salati, Benito Mazzi. Il comune di Malesco, ricordandone la figura, gli ha dedicato una mostra permanente, ospitata presso ilo storico lavatoio, vicino alla Chiesa,con pannelli illustrati recanti la storia del Salati.

 

Marco Travaglini

Neonato morto: 10 medici indagati

DALLA TOSCANA Sono 10 i medici iscritti nel  registro degli indagati dalla procura di Pisa nell’ambito dell’inchiesta  sulla morte del piccolo di due mesi, morto il 27 maggio nel reparto di neonatologia dell’ospedale pisano dove era  ricoverato per una caduta dalle braccia del padre, anch’egli indagato. Come scrive il quotidiano “il Tirreno” si tratta di medici che, nelle diverse operazioni del ricovero, hanno avuto a che fare con la cura del bambino.

“Sarajevo Rewind. 2014 >1914”

Il 28 giugno 1914 a Sarajevo due colpi di pistola misero fine alla Belle Époque dando origine al “secolo breve”, il secolo delle guerre mondiali, dei conflitti di massa, dei regimi totalitari, delle grandi ideologie e delle immani tragedie. Gavrilo Princip e Franz Ferdinand sono i protagonisti di questo frammento di storia. Trascorsi oltre cento anni dall’attentato che nei libri di storia è indicato come il casus belli che dette inizio alla prima Guerra Mondiale, un documentario degli storici Eric Gobetti e Simone Malavolti ci porta alla scoperta di luoghi, testimonianze,tracce storiche e biografiche dei due protagonisti:l’attentatore Gavrilo Princip e l’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo, erede al trono austro-ungarico. “Sarajevo Rewind. 2014>1914” è un film importante, tenacemente pensato e voluto dai due storici che ne hanno firmato soggetto e regia, ottenendo l’indispensabile aiuto di tanti attraverso il crowdfunding e il supporto tecnico dell’ Istituto Alcide Cervi. Le strade percorse da Eric e Simone sono le stesse scelte da Gavrilo Princip e Francesco Ferdinando d’Asburgo, rispettivamente da Belgrado e da Vienna, per raggiungere Sarajevo dove all’altezza del ponte Latino, all’incrocio con una strada posta sulla riva destra del fiume Miljacka, s’incrociarono i loro destini. Il film propone la riedizione dei due viaggi attraverso confini e storie dell’Europa di oggi, in un dialogo costante tra passato e presente, fra le chiacchiere dei bar e le interviste agli storici, mentre emergono conflitti identitari, memorie contrastanti, il difficile rapporto – quando mai attuale – fra nazioni, nazionalismi e realtà politiche sovra e pluri-nazionali. Un intreccio inquietante se lo si legge affiancando tutto con la cronaca dell’oggi, mentre i Balcani sono tornati ad essere una delle rotte dei migranti e Sarajevo ne ospita a migliaia, accampati un pò ovunque. “Sarajevo Rewind. 2014>1914” (il cui dvd è disponile prenotandolo all’indirizzo mail sarajevo.rewind@gmail.com ) fa riflettere con la sua originalità ben documentata su cosa rimane, cent’anni dopo, di quel mondo e come sono rimasti nella memoria questi due protagonisti della storia del Novecento. Una moderna lezione di storia in video, come racconta Eric Gobetti:  “Da una parte abbiamo una realtà balcanica che è molto più “balcanizzata” oggi di allora. Nel senso della marginalizzazione, del ritardo e dell’esclusione sia politica che economica, dal resto dell’Europa. Belgrado era una grande capitale in espansione; da Sarajevo si andava in giornata in ogni parte dell’Impero”. “ Oggi sono luoghi a parte,soprattutto nell’immaginario del resto d’Europa”, racconta lo storico torinese. “Dall’altro lato abbiamo un’Unione Europea che sembra afflitta dagli stessi problemi dell’Impero Austro-Ungarico: mancanza di democrazia, se non apparente; scarso rispetto dei popoli e delle nazioni, che infatti genera successi elettorali dei partiti nazionalisti; elefantiasi burocratica e sistema economico troppo ingessato. Insomma, gli ingredienti per un parallelo ci sono tutti, poi certo, c’è anche tanta differenza: è passato un secolo ma per molti versi pare un millennio!”.

Marco Travaglini

Operai fecero funerale a Marchionne: licenziati

DALLA CAMPANIA La Cassazione ha detto sì  al licenziamento dei cinque operai della Fiat che nel 2014 organizzarono il finto  funerale dell’ad Sergio Marchionne ai cancelli dello stabilimento di Pomigliano d’Arco. Vennero licenziati dall’azienda ma la sanzione fu annullata dalla Corte d’appello di Napoli che ne ordinò il reintegro, escludendo la giusta causa. Ieri la Suprema Corte ha accolto il ricorso dell’azienda e detto sì ai licenziamenti. Uno dei cinque operai   si è incatenato a un palo davanti alla casa del ministro del Lavoro Luigi Di Maio e si è cosparso la testa con una bottiglia di benzina. Il vicepremier è andato a fargli visita.”Da ministro – ha commentato Di Maio – gli  ho detto che è una sentenza che va rispettata ma per noi non deve essere un alibi”.
   

Libri e Islam

FOCUS INTERNAZIONALE  di Filippo Re

Alcuni libri per saperne di più sull’Islam. Sono infatti tante le domande che ci poniamo sul mondo arabo-islamico. Un mondo plurale, fatto di tanti islam diversi, molto complessi e non sempre facili da capire. Quesiti che nascono dalla nostra curiosità, dal desiderio di conoscenza e anche da dubbi e timori su temi che hanno profonde implicazioni religiose, politiche e sociali. A queste domande cerca di rispondere la collana editoriale “Islam: saperne di più” delle Edizioni Paoline in collaborazione con il Centro studi sull’islam Federico Peirone. I libri, già pubblicati e presentati al Salone del Libro, sono “Corano, identità e storia” e “Maometto, inviato di Dio e condottiero”, di Augusto Negri, sacerdote, insegnante di storia dell’islam alla Facoltà Teologica di Torino e direttore del Centro Peirone, “Jihad, significato e attualità” e “Sharia, legge sacra e norma giudirica”, entrambi di Silvia Scaranari Introvigne, studiosa dell’islam, ed “Etica islamica, ragione e responsabilità” di Marco Demichelis, docente all’Università Cattolica di Milano. Ogni volume, curato da specialisti del settore, si occupa di un particolare aspetto della fede, della storia, della cultura musulmana e del costume.

***

Scritti in modo semplice ed esauriente, i libri, arricchiti di note e bibliografia, si rivolgono a un vasto pubblico. Il Corano, libro sacro dei musulmani, viene a volte difeso e talora messo sotto accusa, ma con quanta cognizione di causa? L’autore del libro, Augusto Negri, offre risposte chiare e minuziose alle tante domande che ci poniamo. Nel libro su Maometto, don Negri ricostruisce invece le due fasi della vita del Profeta: alla Mecca, come inviato di Allah e a Medina come condottiero e fondatore dello Stato politico-religioso islamico. Silvia Scaranari affronta invece il fenomeno del jihad armato che, dopo i tanti attentati terroristici degli ultimi anni, è entrato con forza e prepotenza nelle nostre case. L’autrice ricostruisce il significato del termine a partire dalla dottrina, sviluppando la parte storica fino ad oggi. Nell’altro libro sulla Sharia, la studiosa presenta una sorta di vademecum per orientarsi tra i frequenti riferimenti alla legge sacra dell’islam presenti nell’attualità ricostruendo i rapporti della sharia con la legge e gli usi locali. Marco Demichelis nel suo “Etica islamica” chiarisce invece gli aspetti morali dell’islam in riferimento alla dottrina, ai 5 “pilastri” e alle peculiarità storiche e teologiche attraverso un’analisi che ripercorre i lunghi secoli di vita della religione islamica. I volumi sono in vendita nelle migliori librerie di Torino tra cui le cattoliche Paoline e al Centro Peirone in via Mercanti 10. 

Quando i Veneziani distrussero il Partenone

Anche le statue muoiono, sfregiate o decapitate, i musei vengono saccheggiati, i siti archeologici devastati dalla follia umana. Interi patrimoni culturali distrutti dalle guerre e dai barbari moderni. Come ci ricordano le mostre allestite al museo Egizio, alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e ai Musei Reali a Torino, fino al 3 giugno, per riflettere sull’importanza e sulla protezione del patrimonio artistico, dai tempi antichi fino ai giorni nostri. Dagli Egizi alle nefandezze dell’Isis e dei talebani, le guerre hanno spesso cancellato patrimoni culturali vecchi di millenni, come viene messo in rilievo nelle rassegne torinesi. Anche i maestosi templi dell’antichità non sono scampati a questo destino e anche noi italiani abbiamo distrutto una delle meraviglie del mondo antico. Accadde ad Atene alla fine del Seicento quando i veneziani demolirono nientemeno che il Partenone sull’Acropoli, visitato ogni anno da milioni di turisti. “L’abbiamo fatta grossa! Non si può distruggere la più bella antichità del mondo in una Atene ornata di antiche vestigia di celebri ed erudite memorie”. Il giorno successivo a quella terribile esplosione, Francesco Morosini non si dà pace, ben consapevole del disastro compiuto, e cerca di giustificarsi dicendo di aver colpito il Tempio di Minerva (o Atena) per sbaglio, ma non fu un errore. Il Partenone (V secolo a.C.), sull’Acropoli ateniese, fu preso di mira volutamente. Ebbene sì, i veneziani sbriciolarono il maestoso Tempio greco con un colpo di mortaio. La notizia fece rabbrividire l’intera Europa: al patrimonio culturale mondiale era stato inferto un colpo durissimo. Ecco cosa avvenne il 26 settembre 1687. Venezia era ancora una grande potenza sul mare e sulla terraferma. Dopo aver occupato la Morea (il Peloponneso), i veneziani, guidati dal condottiero Francesco Morosini, che diventerà il 108° doge della Repubblica di Venezia, sbarcano al Pireo e assediano la rocca dell’Acropoli ad Atene che a quel tempo era un villaggio di cinquemila abitanti. I turchi ottomani, padroni della Grecia, si erano rinchiusi nel tempio con le famiglie, i generi alimentari, armi e polvere da sparo. Il Partenone, che includeva una moschea e veniva usato come polveriera, sembrava un luogo solido e sicuro e mai nessun nemico avrebbe osato danneggiare un monumento così antico e leggendario. Tra la Repubblica di Venezia e l’Impero ottomano scorreva da secoli un rapporto di amore-odio, le due potenze si combattevano aspramente sui mari ma i conflitti erano intervallati da lunghi periodi di pace e intensi scambi commerciali e culturali. In cifre, 86 anni di guerra e 410 anni di pace ma appena capitava l’occasione per litigare nessuno dei due si tirava indietro. Un micidiale colpo di una bombarda da 500 libbre centrò in pieno il deposito della polvere da sparo distruggendo gran parte dello storico edificio dell’antichità classica, uccidendo 300 persone e provocando un vasto incendio che durò alcuni giorni. La deflagrazione fece franare tre dei quattro muri del luogo sacro e molte sculture dei fregi andarono in pezzi. Crollarono 28 colonne e i locali interni adibiti a chiesa e poi a moschea furono devastati. I frammenti del tempio vennero proiettati a centinaia di metri di distanza. Atene diventò una città veneziana ma il danno arrecato fu immane, uno dei più grandi scempi della storia dell’umanità, un gesto del tutto inutile perchè i veneziani furono costretti a scappare da Atene alcuni mesi dopo per l’arrivo di nuove truppe turche. Per Venezia il trionfo è breve e la sconfitta è dietro l’angolo. I turchi riconquisteranno la Morea e la terranno fino all’indipendenza della Grecia nel 1832. Ma per Francesco Morosini l’assedio dell’Acropoli e la distruzione del Partenone fu un grande successo militare e d’immagine. La Serenissima accolse il capitano generale dell’armata veneziana con tutti gli onori e gli assegnò il titolo onorifico di “Peloponnesiaco”. Dalla spada all’armatura, dai vessilli alle insegne vittoriose collocate sui monumenti e alla Porta di terra dell’Arsenale dedicata a lui, ogni pezzo dell’eroe della campagna di Morea contro i turchi è conservato a Venezia come una reliquia. Ma laggiù restò un Partenone sventrato, demolito dalle bombe veneziane.

Filippo Re