Dall Italia e dal Mondo- Pagina 72

Il lago d’Orta di Mario Soldati

L’essere stato tra i pionieri della televisione, esaltandone le capacità d’indagine sul costume sociale, consentì a Soldati di mettere in luce, con evidenza ancora maggiore, la predisposizione ad indagare sul viaggio, sull’avventura, sul movimento, dimostrando anche un’attenzione analitica per gli aspetti gastronomici ed enologici legati al territorio, aspetto di chiara ispirazione manzoniana, ma sicuramente anche caro ad uno scrittore che Soldati amò molto e portò sullo schermo: Antonio Fogazzaro

+

 Di Marco Travaglini

.

Nelle sue opere Mario Soldati offre al lettore una molteplicità di suggestioni e, tra queste, accanto ai profili dei personaggi e all’idea del viaggio, assume una notevole importanza quella del paesaggio. I luoghi non sono solo lo sfondo e la cornice alle vicende narrate, ma diventano anch’essi veri e propri protagonisti, mirabilmente descritti dalla penna incisiva dello scrittore piemontese. L’essere stato tra i pionieri della televisione, esaltandone le capacità d’indagine sul costume sociale, consentì a Soldati di mettere in luce, con evidenza ancora maggiore, questa predisposizione ad indagare sul viaggio, sull’avventura, sul movimento, dimostrando anche un’attenzione analitica per gli aspetti gastronomici ed enologici legati al territorio, aspetto di chiara ispirazione manzoniana, ma sicuramente anche caro ad uno scrittore che Soldati amò molto e portò sullo schermo: Antonio Fogazzaro che apre il suo romanzo “Piccolo Mondo Antico”, con un viaggio attraverso il lago, durante il quale la conversazione fra Pasotti e il curato verte sui cibi che troveranno imbanditi sulla tavola della marchesa Orsola.

***

Programmi  come “Viaggio lungo la Valle del Po, alla ricerca dei cibi genuini”, del  1957, e “Chi legge? Viaggio lungo le rive del Tirreno”, inchiesta televisiva in sette puntate sulle letture degli italiani, firmata con Cesare Zavattini e andata in onda nel 1960, offrono ancor oggi l’immagine ricca e innovativa – per l’epoca – di quella che potremmo definire una “indagine sul campo”. Va ricordato che Mario Soldati ha inciso profondamente nella storia dei mezzi radiotelevisivi in Italia, proprio nella fase pionieristica della RAI, quando la televisione stava muovendo i suoi primi passi. Resta il fatto che per Soldati i ‘luoghi’ con i loro nomi e le loro caratteristiche  non rappresentano lo sfondo indistinto dove vengono ambientate le storie di tanta narrazione del secolo breve.  In Soldati c’è un’attenzione diversa, quasi un’attrazione che si trasforma in desiderio di comunicare, di far vedere quei luoghi, elevandoli al ruolo di protagonisti del racconto, mettendo in luce il rapporto stretto e inscindibile che unisce la sua scrittura al suo essere uomo di cinema. Così, in un rilevante esempio d’innovazione comunicativa, ecco che uno degli scrittori più cosmopoliti del panorama letterario  italiano si afferma come uno dei più attenti e profondi conoscitori della provincia. In questo suo bisogno di far assurgere il paesaggio allo stesso livello del personaggio torna con prepotenza il legame alla terra di Manzoni e non si può non cogliere, nelle pagine di Soldati, una sorta di personale ispirazione a brani mirabili dei “Promessi sposi” quali l’incipit “Quel ramo del lago di Como che volge a Mezzogiorno” o “l’addio monti sorgenti dall’acque ed elevati al cielo”, per non parlare delle descrizioni di Milano, o dei luoghi attraversati dalla fuga di Renzo. Ma ciò che in Manzoni si trasforma in lirismo, in Soldati diventa realismo, un realismo che solo lo spietato occhio della telecamera può cogliere pienamente. I temi del viaggio e della fuga, che hanno influenzato tra la fine degli Anni Ottanta e i primi Anni Novanta l’opera di cineasti come Gabriele Salvatores, con la cosiddetta “trilogia della fuga” composta dai film Marrakech Express , Turnè e Mediterraneo, nella ricca bibliografia di Soldati tornano spesso, come suggeriscono i titoli stessi di molte delle sue opere, come  Fuga in Francia, Viaggio a Lourdes, Fuga in Italia, L’avventura in Valtellina.

***

Negli stessi “Racconti del Maresciallo”, sia nella forma scritta che nelle due riduzioni televisive, con le serie andate in onda nel 1968 ( la prima in sei puntate, con Turi Ferro a prestare il volto al maresciallo Gigi Arnaudi) e nel 1984 (“I nuovi racconti del Maresciallo”, in cinque puntate con la regia del figlio  Giovanni Soldati e Arnoldo Foà come interprete) i luoghi assumono una notevole rilevanza, mettendo in luce questo che può essere definito come uno dei tratti distintivi di Mario Soldati. La sua passione per “le Italie”, lo portò a compiere un’esperienza del tutto unica nella sua  carriera: l’organizzazione della  mostra sulle regioni per ‘Italia 61’ che celebrò i cent’anni dell’Unità d’Italia al Palazzo delle Esposizioni di Torino (costruito per quell’occasione). Volendosi cimentare nella costruzione di un “itinerario soldatiano”, sarebbero tanti i luoghi del Bel Paese (e del mondo) da ripercorrere: da Torino e dall’abitazione nel centro storico del sabaudo capoluogo fino a Roma, dove visse e lavorò fino al 1960, da Corconio, sul lago d’Orta, alle colline dell’entroterra del lago Maggiore e alle amate Alpi; dalla Liguria, con il mare di Alassio e Chiavari, fino a Tellaro, la frazione più orientale del comune di Lerici, nello spezzino, dove trascorse gli ultimi anni della sua vita.  C’è però un luogo che forse, più di altri, ha lasciato un segno, una traccia indelebile nell’animo di Soldati. E questo luogo è il lago d’Orta. E’ qui che la grande amicizia e il sodalizio tra Soldati e Mario Bonfantini trova l’occasione e l’habitat ideale per saldarsi in modo inscindibile. Sulla rivista “Lo Strona” ( n. 1/1979), ricordando l’amico Bonfantini ,da poco scomparso, Soldati rievoca il momento più importante della nostra amicizia e forse anche della sua e della mia vita: un lungo momento magico, tra l’autunno del 1934 e la primavera del 1936, quando il destino ci appaiò, ci assecondò nella scelta di un volontario esilio sul lago d’Orta: quell’autoconfino rigeneratore, quel delizioso paradiso perduto e ritrovato che accogliendo lui e me, Mario il vecchio e Mario il giovane, ci salvò in extremis da strazianti, estenuanti, storte vicende sentimentali e restituì all’uno e l’altro al suo vero se stesso”. Soldati, ne’ “Gli anni di Corconio”, offre una bellissima descrizione del viaggio da Novara al Cusio, raccontando luoghi, persone e vicende con una delicatezza che tradisce i suoi sentimento e l’affetto che nutre per questo suo luogo dell’anima. Un viaggio che intrapresero in bicicletta , con lo stretto necessario di  biancheria e  libri legato sui portapacchi (“..tutto il resto, quando avremmo potuto dare il nostro definitivo indirizzo, ci sarebbe arrivato per ferrovia o portato su da qualche amico di Novara che possedeva un automobile”). Fu un’esperienza importante che Soldati fissa nella sua memoria, al punto da descriverla “ come uno dei momenti più felici della mia esistenza”, raccontando  la partenza in un pomeriggio dei primi di ottobre del 1934 : “…filavamo appaiati sull’asfalto deserto di un lunghissimo rettilineo, nell’aria fresca, nella chiara ombra delle alte cortine dei pioppi. La strada in continua, regolare, lieve salita sembrava fatta apposta per sfidare i nostri garretti: provavamo il piacere di mantenere, con uno sforzo sensibile, ma assolutamente indolore, una velocità quasi da professionisti”. I paesi scorrevano sotto i loro occhi, con Bonfantini che , entusiasta, ne gridava i nomi, mentre i due pedalavano su strade di terra, seguendo un percorso che li portò, in un primo momento sulle colline del lago Maggiore, a Nebbiuno, dove si fermarono sedotti e affascinati da quel nome.

***

Qui però non trovarono l’agognata pace, ma il terribile frastuono della fabbrica di chiodi. Scrive Soldati: “Aihmé, quel nome affascinante ci aveva fatto immaginare, ci aveva promesso un autunno e un inverno da veri scrittori, lunghe giornate al tavolino, ore interminabili, proficue, difese e ovattate dal silenzio delle lente nebbie che dovevano salire dal lago fino alle finestre della nostra stanza. Nebbiuno ci aveva tradito. Da Nebbiuno eravamo fuggiti per sempre con orrore..”. Intrapresa la via dell’alta Valle dell’Agogna , verso Sovazza e Armeno,con l’immagine svettante del Monte Rosa all’orizzonte, apparve davanti ai due letterati-ciclisti  il “miraggio, famigliare, idillico, complementare di quello del Rosa: il lago d’Orta, che Mario amava già appassionatamente, e che anch’io amavo, ma conoscevo appena.. Da quel momento, fu come se se fossimo guidati da una concorde ispirazione, da un’intelligenza misteriosa che ci spingeva, ci spronava a continuare, a scendere verso il lago. Attraversammo Armeno, percorremmo velocemente la strada tra Armeno e Miasino, tra Miasino e Vaciago, e, dopo Vaciago, giù, senza più ricordare la carta geografica, senza pensare a nessun nome di nessun luogo. Forse era solo, molto semplicemente, la gioia della discesa: o forse quell’azzurro che, tra i verde di ogni tornante, ci invitava a scendere verso il lago”.  Così giunsero a Corconio, dove dimorarono nell’alberghetto gestito dalle due sorelle Rigotti, l’Angioletta e la Nitti. Lì, entrambi, quasi adottati da quella famiglia, misero radici e vissero intere stagioni alloggiando in “una stanza d’angolo, la più bella e più soleggiata dell’albergo, con una finestra a nord e una a ovest. Pagavamo ciascuno, per l’alloggio e il vitto vino compreso, centoventi lire al mese”. Le lunghe chiacchierate davanti al fuoco del camino con il Pédar e il Nando, mangiando castagne arrosto o bollite, bevendo il vino nuovo nelle ciotole, si accompagnarono alle pagine che vennero scritte, ai libri che presero forma, agli articoli e ai saggi critici che consentirono loro di racimolare il necessario per poter vivere “da scrittori”. A Corconio , il giovane Soldati rimase due anni. Vi scrisse il suo bellissimo “America primo amore” ( che Mario Bonfantini fece pubblicare da  Bemporad a Firenze) e iniziò il romanzo “Confessione”, oltre a confezionare innumerevoli articoli per “Il Lavoro” e altre testate giornalistiche. L’ambiente circostante si offriva a loro in tutta la sua bellezza. “Quante cose Corconio ci ha insegnato. Come ci ha cambiato, Mario e me, per tutta la vita, in quella specie di autoconfino che ci eravamo scelti involontariamente e inconsciamente. Gli spazi, intorno, ci sembravano immensi. Eravamo restii a violarli, provavamo una strana timidezza a muoverci dalle immediate vicinanze dell’albergo di Corconio. E quando ci muovevamo per andare in qualche posto un po’ più lontano, Alzo, Orta, Pettenasco, Gozzano, era soltanto per la sicurezza che avevamo di trovarci qualcuno che ci aspettava, un amico che ci conosceva”.Sul lago d’Orta, come lui stesso scrisse, indagò – insieme all’inseparabile amico – sul senso da dare al termine civiltà.

***

E lo trovò nelle cose semplici, ma ricche di valori di quell’esperienza. La riconobbe in quella che, in tutta semplicità, veniva chiamata educazione. Così, scriveva in proposito: “La parola civiltà, che deriva da civis, cittadino, include necessariamente il concetto di comunicazione con gli altri, di amore per il prossimo: la parola cultura che è la forma astratta del latino colere, coltivare. non è necessariamente né esclusivamente dedicata agli altri: può essere interpretata anche in senso egotistico. Ed è sintomatico che i tedeschi, invece della parola corrispondente a civiltà, usino di solito in sua vece la parola kultur. Sì, la nostra civiltà contadina e lacustre era allora altrettanto sconosciuta di quella oltre Eboli, altrettanto lontana sebbene vicinissima: solo, era più umana. A Corconio, non l’avrebbero nemmeno chiamata civiltà. Sapete, se fossero stati interrogati come l’avrebbero chiamata? Educazione. Noi siamo così, avrebbero detto, siamo così perché così siamo stati educati dai nostri nonni, dai nostri genitori, dai nostri compaesani appena un po’ più in là di noi negli anni. Era un’educazione più umana e più profonda di quella di tanti altri paesi perché serrava più da presso la realtà, tutto il bene e tutto il male della vita”. A suggellare il legame tra Mario Soldati e la “terra tra i due laghi”, quel territorio che si distende attorno al Mottarone, svettante, solitario,  tra il Maggiore e l’Orta, ci sono molti altri episodi oltre all’ambientazione delle scene finali del film “Piccolo mondo antico”, parecchi episodi de “I racconti del Maresciallo” e quel piccolo atto d’amore rappresentato dal breve documentario “Orta Mia” del 1960. Altre due iniziative di Mario Soldati, entrambe legate alla nascita di importanti premi letterari, confermano il suo amore per queste terre.

***

Nel 1959 , da un incontro tra l’allora sindaco di Omegna Pasquale Maulini con Mario Soldati, insieme a Mario Bonfantini, Cino Moscatelli e Gianni Rodari, nasce l’idea d’istituire il Premio letterario della Resistenza “Città di Omegna” che, in tredici successive edizioni, sino al 1974 ( venne poi ripreso nel 1995) ha rappresentato un appuntamento alto della cultura italiana e internazionale. Basta scorrere l’Albo d’oro dei vincitori ( da  Jean Paul Sartre a Franz Fanon, da Camilla Cederna a Aléxandros Panagulis) ed i prestigiosi nomi che, in quegli anni, fecero parte della Giuria ( oltre ai due “Mario”, Soldati e Bonfantini, Guido Piovene, Gianni Rodari, Cesare Zavattini, Italo Calvino, Franco Fortini, Carlo Bo e tanti altri) per avere un’idea dell’importanza del Premio. Nel 1976, viceversa, Mario Soldati, insieme ad alcuni scrittori che vivevano, o soggiornavano, sul Lago Maggiore e si raggruppavano “idealmente” – allora – attorno alla rivista “La Provincia Azzurra”, contribuì alla fondazione del Premio Stresa di Narrativa. Un appuntamento letterario, quest’ultimo,  che si distinse nel panorama culturale nazionale per un suo particolare dinamismo, ma anche per quell’attenzione al “regionalismo” cui si ispirava una parte importante della letteratura lombardo-piemontese del ’900, e soprattutto in campo narrativo. Accanto a Soldati c’erano l’immancabile Mario Bonfantini, il luinese Piero Chiara, il giornalista Gianfranco Lazzaro e Franco Esposito, fondatore e direttore della rivista culturale “Microprovincia”. Anche qui, sin dall’inizio, della Giuria fecero parte scrittori e intellettuali come Carlo Bo, Giovanni Spadolini, Giorgio Bàrberi Squarotti e Primo Levi. Dunque, non solo le opere del grande scrittore piemontese – letterarie, cinematografiche e televisive – hanno subito l’influenza di questi luoghi ma, in chiusura, è possibile immaginare che anche Mario Soldati abbia avvertito, come noi che per scelta o per sorte qui viviamo, scorrere nel suo sangue la trama dell’acqua del lago. Una trama fatta di bonacce, tempeste, onde, schiume, increspature del vento, sciabordio lungo i moli. Non è cosa che si possa capire fino in fondo se non s’avverte dentro, nell’anima.  Guardare i ghirigori che disegnano le correnti in superficie equivale ad ammirare quelle rughe cesellate nell’istante stesso che precede la loro cancellazione da un’altra onda. Immagino che Soldati, quando si recava ad Omegna, fissasse con curiosità e forse con un certo fascino lo scorrere lento della corrente della Nigoglia e quei pesci che vi si mettono di traverso, puntando il muso in senso opposto, tenaci come salmoni pronti a spiccare il salto. Immagino che abbia pensato che, come ogni cosa viva di queste parti,anche i pesci  mettessero a nudo il loro spirito ribelle stando lì, quasi immobili nella corrente, in direzione ostinata e contraria. Anche i colori del Cusio che vedeva da Corconio, il più delle volte, non s’accontentano delle mezze misure, prediligendo tonalità forti: grigio metallo e antracite sotto la pioggia battente d’inverno; verdeazzurro carico, pieno di vita e di promesse in tarda primavera; dolente e malinconico, pur senza rassegnazione negli autunni dove il colore delle foglie dei boschi tinge di giallo e arancio il riverbero dell’acqua. Quante volte sarà capitato anche a lui, e a Mario Bonfantini, di vedere nell’ombra riflessa sull’acqua di una nuvola che accarezza il Mottarone e fugge via, rapida, verso l’alta Valsesia irrompere la scia di una barca a motore che ne taglia a metà l’immagine riflessa per poi lasciare all’acqua il compito di ricomporla, con le forme morbide e mosse di un’opera di Gaudì. L’acqua, torcendo le immagini,  confonde. In fondo, questo è il lago d’Orta. E si può capire perché Mario Soldati se ne fosse innamorato.

 

Marco Travaglini

 

 

Uccide la moglie a colpi di pistola in mezzo alla strada

DALLA LOMBARDIA

Mentre rientrava a casa sulla sua Alfa Romeo Giulietta Valeria Bufo, di 56 anni, di Seveso, è stata uccisa a colpi di pistola dal marito Giorgio Truzzi, 57enne, a Bovisio Masciago (Monza). L’uomo la stava seguendo  alla guida della sua smart quando ha fatto fuoco ad un incrocio. Non è stato ancora appurato se la donna sia scesa dall’auto volontariamente o sia stata obbligata, prima di essere uccisa in mezzo alla strada. La coppia ha tre figli ed era in crisi  da tempo, in attesa della separazione.

Pink Floyd, il lato oscuro della luna

pink

The Dark Side of the Moon”, ottavo album in studio dei Pink Floyd, nacque dopo numerose sperimentazioni musicali che Waters e compagni studiarono durante i loro live o registrazio­ni

 

Ci incontreremo sul lato oscuro della luna” (I’ll see you on the dark side of the moon). Con questa promessa, quattro decenni fa (era il marzo del 1973) i Pink Floyd pubblicavano “The dark side of the moon”, disco storico del rock che portò al gruppo bri­tannico una (meritata) fama che continua a resistere nonostante il passare degli anni e delle generazioni. Il gruppo, formatosi a Londra nel 1965, dal cantante e chi­tarrista “Syd” Barrett, dal bassista Roger Waters, dal batterista “Nick” Mason e dal tastierista Richard Wright. (ai quali si ag­giunse, due anni dopo, il chitarrista David Gilmour che in bre­ve sostituì Barrett, genio sregolato che s’emarginò dal gruppo a causa del pesante uso di droghe che lo portò all’alienazione), riscrisse le tendenze musicali della propria epoca, diventando uno dei gruppi più importanti della storia. Presentatosi con un titolo intrigante e una copertina con un’im­magine molto semplice, minimalista ma ricca di significati (un prisma triangolare rifrangente un raggio di luce sul fronte), fa­mosa, si è fissato nell’immaginario collettivo come la celebre bocca con la lingua dei Rolling Stones.“The Dark Side of the Moon”, ottavo album in studio dei Pink Floyd, nacque dopo numerose sperimentazioni musicali che Waters e compagni studiarono durante i loro live o registrazio­ni, ma senza le lunghe parti strumentali che erano diventate una caratteristica peculiare del gruppo dopo l’abbandono nel 1968 di Syd Barrett.

***

L’album prima di essere pubblicato e registrato in studio venne eseguito in tourneè, in modo che potessero perfezionare le musiche, come nel caso di “Time”, in origine decisamente più lenta che nella versione poi pubblicata. Venne suonato per la prima volta il 17 Febbraio 1972 al Rainbow Theatre di Londra. Il concerto venne ripetuto quattro volte, fino al 20 Febbraio, e vi assistettero circa 12 mila persone. Nell’occasione venne registrato anche un bootleg Pink Floyd Live, di cui furono vendute la bellezza di 120 mila copie, credendo che fosse il nuovo album del gruppo.“The Dark Side of the Moon” fu un successo immediato e duraturo nel tempo: nel marzo 2013 ha toccato le 1050 settimane nella classifica US Top Catalog, con 50 milioni di copie vendute in tutto il mondo. I testi furono scritti da Toger Waters, mentre il batterista Nick Mason ricevette un premio speciale come compositore solista di “Speak to Me” e  Alan Parsons si guadagnò un Grammy Award per il miglior album prodotto, come tecnico del suono, del 1973. Brani come “Money”, “Time” e “Us and Them”sono conosciuti ovunque. Questo disco ha affascinato e continuerà ad affascina­re diverse generazioni perché, come le più grandi opere d’arte, si fa portatore di temi universali. Parla della società, dell’uomo, del suo lato luminoso e di quello oscuro. Affronta i temi del conflitto interiore, il rapporto con il denaro, il trascorrere del tempo (straordinario il ticchettìo e lo scoccare degli orologi in “Time”) e quello dell’alienazione mentale, ispirato in parte dai disturbi mentali di Barrett. Oltre al suo successo commerciale, “The Dark Side of the Moon” è spesso considerato uno dei migliori album di tutti i tempi.

 

Marco Travaglini

Siria, Iran, Mosca. Un gioco pericoloso

FOCUS INTERNAZIONALE  di Filippo Re

Gli ayatollah iraniani sono già in Siria e si avvicinano alle coste del Mediterraneo orientale, guardano Cipro, le sponde europee e le grandi piattaforme petrolifere che emergono come giganteschi Leviatani dalle tempestose acque levantine, in attesa della prossima mossa. Basi militari, centri di addestramento, piste per aerei, depositi di munizioni, missili e droni, migliaia di soldati guidati sul campo da generali iraniani, istruttori e consiglieri militari. Per non parlare degli uomini più fidati del leader Khamenei ricevuti come fratelli nel palazzo presidenziale dal rais di Damasco. La Siria sembra un avamposto iraniano creato allo scopo di esercitare un’egemonia imperiale da Teheran al Mediterraneo ma con il rischio di scontrarsi prima o poi con l’alleato russo. Se a ciò aggiungiamo le armi che finiscono agli Hezbollah libanesi, decine di migliaia di miliziani sciiti filo-iraniani presenti nell’area, le milizie sciite irachene e schiere di mercenari sciiti afghani e pakistani, per Israele i rischi aumentano di giorno in giorno. E la stessa cosa vale anche per i 2000 soldati americani finiti nel mirino dell’Iran dopo i raid di sabato che ora Trump vuole riportare a casa. Dalla sospetta incursione aerea israeliana nei dintorni di Aleppo contro una base iraniana alle minacce della Guida Suprema Khamenei contro l’Occidente e i suoi alleati, la tensione tra Israele e l’Iran è alle stelle. Teheran installa nuove basi in Siria e Israele le distrugge, a Damasco, a Homs e ad Aleppo. Il vero scontro, per il momento ancora nascosto, è tra Israele e l’Iran. La Siria sarà divisa in futuro tra russi e iraniani, con i turchi che non molleranno tanto facilmente i territori occupati a nord.

***

Due grandi coalizioni gestiranno il futuro della regione mediorientale: un asse russo-turco-iraniano contrapposto a un’alleanza formata da Stati Uniti, Israele e Arabia Saudita. Sabato notte, poche ore dopo il raid missilistico americano e anglo-francese sui cieli della Siria, una misteriosa esplosione a sud di Aleppo ha fatto saltare in aria una base che i pasdaran iraniani avevano riempito di armi ed esplosivi uccidendo una ventina di militari. É probabile che dietro il raid ci sia proprio l’aviazione dello Stato ebraico anche se, per il momento, gli alti comandi di Tel Aviv hanno confermato solo di aver colpito la scorsa settimana una base dei pasdaran nei pressi di Homs. Ma quante sono le basi iraniane sul suolo siriano? Protette da russi e siriani ma guardate con sospetto dai turchi che, pur alleati nella “Triplice” sancita di recente nel vertice di Ankara, diffidano degli ayatollah. Hanno fretta gli israeliani perchè c’è un problema in più per loro rispetto al passato. Per quanto tempo ancora quando i jet con la stella di David potranno sorvolare Siria e Libano ormai ben difesi dal sofisticato sistema missilistico anti-aereo russo fornito a Damasco? Il nemico di Israele, a settant’anni dalla nascita dello Stato ebraico, non è solo la Siria. Dalle alture del Golan le sentinelle di Gerusalemme vedono sempre più distintamente militari iraniani, hezbollah e gruppi jihadisti pronti a scatenare l’inferno ai suoi confini. L’escalation militare in Siria preoccupa anche il confinante Libano, che già ospita un milione 750 mila profughi siriani. Il patriarca maronita del Libano Bèchara Boutros Rai, insieme ai capi delle Chiese d’Oriente, ha lanciato un nuovo appello per la pace alle potenze mondiali affinché si trovi una soluzione politica del conflitto siriano rilanciando i negoziati di Ginevra guidati dall’Onu, la cui agenda prevede un governo di transizione, elezioni libere e una nuova Costituzione. Nel frattempo però l’unico obiettivo dei vincitori riguarda la divisione della Siria in sfere d’influenza mentre i cambiamenti forzati della demografia della nazione annunciano l’arrivo di nuove disgrazie per la martoriata Siria. Prima si cacciavano i cristiani, ora si cacciano i curdi. Fino a pochi anni fa si approfittava della guerra per cancellare in modo definitivo la presenza dei cristiani e ora si cerca di “de-curdizzare” l’enclave curda per far posto ad arabi e minoranze turcofone. Di conseguenza, nelle zone cristiane arrivano i profughi curdi e in quelle curde arrivano truppe straniere. Nel nord della Siria i turchi bombardano i curdi considerati terroristi e alleati del Pkk curdo, fuorilegge in Turchia. Così facendo spingono decine di migliaia di curdi a fuggire in altre aree, come nella vicina regione siriana nord-orientale di Jazira, abitata, prima della guerra, dai cristiani che adesso, sconfitto l’Isis, vorrebbero tornare a casa ma non possono farlo perchè le loro abitazioni sono già occupate da nuovi rifugiati. Nel disordine levantino è palese la volontà di cambiare la demografia del territorio a tal punto da assistere a continui movimenti di popolazione da una regione all’altra, non spontanei ma forzati. Così fu sotto la dittatura di Saddam Hussein in Iraq che cercava di arabizzare le zone curde.

***

Dopo la tragedia dei cristiani scappati davanti alla ferocia dei miliziani jihadisti abbandonando case e villaggi, ora vediamo masse disperate di curdi che scappano dall’area di Afrin di fronte all’invasione delle truppe turche entrate in Siria per creare un’ampia zona cuscinetto lungo il confine. Almeno 4000 famiglie curde stanno per insediarsi in una trentina di villaggi ex cristiani della valle del fiume Khabur dove nei tempi passati vivevano cristiani siri, assiri e caldei. Una situazione che potrebbe modificare forzatamente la demografia della regione rendendo impossibile il ritorno dei cristiani nelle loro terre e dei curdi nella loro regione. Dove finiranno i 500.000 profughi curdi fuggiti da Afrin presa dai turchi? E dove finiranno tutti gli altri civili che dovranno darsi alla fuga nelle prossime settimane se le truppe del sultano occuperanno altre città nell’area curda? Di fatto, russi, turchi e iraniani si stanno già dividendo la Siria e il regime siriano sarà costretto a rinunciare a una parte del territorio. Russi e turchi sono alleati sempre più stretti, alla faccia dell’Occidente e della Nato anche se Ankara ha appoggiato i raid del 14 aprile contro Assad, acerrimo nemico del leader turco. È l’alleanza atomica e militare russo-turca quella che sorprende di più gli osservatori intenti ad analizzare i nuovi rapporti tra i due Paesi. Sono stati firmati accordi nucleari, militari e commerciali impensabili fino a pochi anni fa quando tra Mosca e Ankara scoppiò una grave crisi diplomatica in seguito all’abbattimento di un jet russo da parte dei turchi alla frontiera con la Siria nel novembre 2015. Ora piovono contratti di tutti i tipi, energetici, agricoli, turistici e sembra che tutti i problemi tra Mosca e Ankara siano stati risolti in un colpo solo. Erdogan e Putin hanno inaugurato il cantiere per la realizzazione della prima centrale nucleare turca che sorgerà ad Akkuyu, nella provincia di Mersin, nella Turchia meridionale e sarà costruita dalla società russa Rosatom. Si tratta di una commessa da 20.000 miliardi di euro che darà lavoro a migliaia di persone. A rafforzare ulteriormente l’asse tra i due Paesi è l’imminente fornitura alla Turchia del sofisticato sistema missilistico russo S-400, lo stesso fornito da Putin ad Assad. Le barriere sono crollate anche sul versante del turismo e nei prossimi mesi si prevede il ritorno in massa dei russi sulle spiagge della Mezzaluna. Lo scorso anno i turisti russi erano drasticamente calati sotto il milione mentre nell’estate del 2015 erano stati più di cinque milioni e quest’anno si spera di raggiungere i sette milioni.

 

(dal settimanale “La Voce e il Tempo”)

 

Senza patente e cintura alla guida di un autocarro (mentre telefonava con un bimbo in braccio)

DALLA PUGLIA

Guidava senza cintura, con un bambino in braccio e parlava al cellulare usando la mano destra. Dopo i controlli gli agenti di polizia hanno anche scoperto che l’uomo, 35 anni, di Brindisi, era pure privo di  patente di guida, mai conseguita. L’episodio  a Brindisi dove la polizia stradale ha contestato diverse infrazioni con  sanzioni, al conducente di un autocarro. 

Auto si schianta contro albero, muore 23enne

DALLE MARCHE

Sulla provinciale Fogliense, all’altezza di Caprazzino, nelle Marche, una Golf guidata  da un  23enne si è schiantata contro con un albero. Il conducente è morto sul colpo e  l’amico a bordo, un 26enne polacco,  ora ricoverato ad Ancona in gravissime condizioni, dopo essere stato soccorso dall’eliambulanza. Forse un colpo di sonno o l’elevata velocità le possibili cause. I ragazzi stavano rientrando da una festa.

Antoine de Saint-Exupéry, il “Piccolo Principe”

E’ uno dei libri più venduti di sempre, tradotto in più di duecentocinquanta lingue e stampato in oltre 134 milioni di copie in tutto il mondo

È una follia odiare tutte le rose perché una spina ti ha punto, abbandonare tutti i sogni perché uno di loro non si è realizzato, rinunciare a tutti i tentativi perché uno è fallito. È una follia condannare tutte le amicizie perché una ti ha tradito, non credere in nessun amore solo perché uno di loro è stato infedele, buttate via tutte le possibilità di essere felici solo perché qualcosa non è andato per il verso giusto. Ci sarà sempre un’altra opportunità, un’altra amicizia, un altro amore, una nuova forza. Per ogni fine c’è un nuovo inizio”. Questa frase riporta all’ opera più famosa di Antoine de Saint-Exupéry, “Il Piccolo Principe”, il suo romanzo capolavoro pubblicato il 6 aprile 1943 da Reynal e Hitchcock in inglese, e qualche giorno dopo in francese.  “Il Piccolo Principe” è uno dei libri più venduti di sempre, tradotto in più di duecentocinquanta lingue e stampato in oltre 134 milioni di copie in tutto il mondo.

Un libro che, per alcuni , è secondo per popolarità soltanto alla Bibbia. Antoine Jean Baptiste Marie Roger de Saint-Exupéry nacque a Lione il 29SAINT E 3 giugno del 1900, centoquindici anni fa, in una vecchia famiglia di nobili ( uno dei suoi antenati aveva combattuto con gli americani a Yorktown, la battaglia che decise l’esito della Guerra d’indipendenza americana). Aviatore e scrittore francese, guardava all’avventura e al pericolo con gli occhi del poeta e, come si legge ne “Il Piccolo Principe” anche con quelli di un bambino. Belli ed emozionanti i suoi racconti sui primi voli aerei, tra i quali Volo di notte, L’aviatore e l’intimo Terra degli uomini. Durante la seconda guerra mondiale si arruolò nell’aeronautica militare francese e dopo l’armistizio nelle Forces aériennes françaises libres, dalla parte degli Alleati. Il libro “Let­tera al Gene­rale X e il senso della guerra”, uscito lo scorso anno, è una rac­colta di let­tere e brani (alcuni ine­diti in Ita­lia) di Saint-Exupéry, in cui tro­viamo anche le sue ultime, com­muo­venti parole, quelle scritte all’amico Pierre Dal­loz in una breve let­tera — mai spe­dita — datata 30 luglio 1944, settantuno anni fa. Il giorno dopo sarebbe stato abbat­tuto in volo sul mar Mediterraneo. Questo libro rappresenta il testamento spirituale e artistico di uno dei più straordinari personaggi del Novecento. Saint-Exupéry rac­conta una sto­ria diversa da quella del ragaz­zino dai capelli d’oro che apprende e soprat­tutto inse­gna.

SAINT E1In queste lettere l’autore fran­cese si pre­senta al let­tore come persona , avia­tore, uomo in guerra, e soprat­tutto come chi ha un cuore alla ricerca di un senso per l’uomo e per la vita, con domande sulle ragioni di tante cru­deltà e fol­lie del conflitto bellico. La sua morte in volo restò per molti anni misteriosa, finché nel 2004 venne localizzato e recuperato il relitto del suo aereo. Colpito da un caccia tedesco nel mare antistante la costa marsigliese, il Lockheed P38 Lightninga bordo del quale volava Antoine de Saint-Exupery, si inabissò a una settantina di metri di profondità. Lo scrittore francese,  partito in missione ricognitiva, era scomparso all’alba del 31 luglio del 1944, poco dopo il decollo da una base in Corsica. Il 29 giugno del duemila, nel centenario della nascita, gli è stato intitolato l’aeroporto di Lione. Una frase, molto bella, raccoglie il suo spirito d’avventura: “Quando si arriva al futuro, il nostro compito non è di prevederlo, ma piuttosto di consentire che accada”. Merci, Petit Prince.

Marco Travaglini

La Venezia di Hugo Pratt tra locande, campielli e malinconiche magie

pratt3Raccontava Hugo Pratt in un’intervista rilasciata all’Europeo all’inizio degli anni ‘70: “A Venezia studiavo, andavo a scuola, dimostravo di essere abbastanza dotato per il disegno, ma il mio scopo principale era di attraversare l’intera città da un tetto all’altro. Vivevo praticamente sui tetti, e, sui tetti, sotto le tegole, tenevo le mie cose, i miei giornali, i miei libri…”. Considerato uno dei simboli della venezianità, in realtà  Hugo Pratt era nato a Rimini nel 1927. Giramondo, irrequieto, a dieci anni  fu letteralmente trascinato in Africa dal padre – ufficiale dell’esercito – e restò nel continente nero  fino al 1945, per poi vivere in Argentina e sviluppare lì la sua arte grafica e poi, dagli anni ’70 in avanti, sempre più spesso a Parigi e in Svizzera, a Losanna, dove morì nel 1995. Ma a Venezia, che lui adorava e di cui ha saputo esprimere l’essenza come pochi altri, Pratt ha vissuto intensamente tutta l’infanzia e , tornandovi, aveva stabilito a Malamocco la sua “sede”. “Scarso, Scarso, è pronto lo “sfogio” per Corto Maltese!”. Con questa battuta, contenuta nell’Angelo della finestra d’Oriente, una delle sue storie veneziane, omaggiava la trattoria locanda “da Scarso” a Malamocco, nella parte più meridionale del Lido, sulla laguna. Gestita dall’omonima famiglia, assieme all’annessa locanda, fa parte anch’essa della storia di Venezia. Sui suoi tavoli, a gustare sarde in saòr e baccalà mantecati, risi e bisi, radicchi e – ovviamente – gli sfogi, cioè le sogliole, oltre al papà di Corto Maltese si sono alternati tanti personaggi illustri, da Mario Soldati a Federico Fellini.

pratt2

Tra calli, campielli e fondamenta della Serenissima Pratt amava perdersi, girava, incontrava il gruppo di amici storici che lui chiamava “i bighelloni di Venezia”, ritrovava il suo dialetto, rimanendo sempre venessian fino al midollo. Del resto non fece mai mistero di considerare Venezia “il centro del mondo”, prediligendone le parti “nascoste”, al di fuori dei classici itinerari dei turisti, dove stanno le “corti sconte”, quelle piazzette al riparo dallo sguardo indiscreto dei foresti. Raccontava, parlando della sua infanzia: “Avevo quattro o Cinque anni, forse sei, quando mia nonna si faceva accompagnare da me al Ghetto Vecchio di Venezia. Andavamo a visitare una sua amica, la signora Bora Levi, che abitava in una casa vecchia. A questa casa si accedeva salendo un’antica scala di legno esterna chiamata “scala matta” oppure “scala delle pantegane”, o ancora “scala turca”…andavo alla finestra della cucina e guardavo giù in un campiello erboso con una vera da pozzo coperta di edera. Quel campiello ha un nome: Corte Sconta detta Arcana. Per entrarvi si dovevano aprire sette porte, ognuna delle quale aveva inciso il nome di un shed, ossia di un demonio…. Ogni porta si apriva con una parola magica..”. In “Favola di Venezia”,  venticinquesima avventura di Corto Maltese, ambientata a Venezia tra il 10 e il 25 aprile 1921, si narra una  storia che si svolge prevalentemente di notte , in equilibrio tra sogno e realtà, tra oriente e occidente, tant’è che nel fumetto compare anche il titolo in arabo del racconto ( Sirat Al Bunduqiyyah ). Nel finale, una rivelazione: “Ci sono a Venezia tre luoghi magici e nascosti: uno in calle dell’amor degli amici; un secondo vicino al ponte delle Meraveige; un terzo in calle dei marrani a San Geremia in Ghetto. Quando i veneziani (e qualche volta anche i maltesi..) sono stanchi delle autorità costituite, si recano in questi tre luoghi segreti e, aprendo le porte che stanno nel fondo di quelle corti, se ne vanno per sempre in posti bellissimi e in altre storie…”. Nomi fantastici, luoghi magici, come la pratt4maggior parte delle centinaia di ponti e calli nei rioni di Venezia dove, tra le ombre umide delle case strette sui rii silenziosi o sotto le logge dei grandi palazzi signorili, si svelano le trame di storie e racconti vecchi d’ogni epoca, vicina o lontana. secoli di storia. Come se tutto ciò non bastasse, Hugo Pratt si è divertito un mondo ad inventare nomi per i luoghi frequentati dal suo marinaio. Seguendo questa toponomastica fantastica si scopre che il “Ponte della nostalgia” è il ponte Widmann, nei pressi della Chiesa dei Miracoli, a Cannaregio o che il “Sotoportego dei cattivi pensieri” in realtà corrisponde al Sotoportego dell’Anzolo che dà sulla Calle Magno, verso l’Arsenale, nel sestiere di Castello. Il “Campiello de l’arabo d’oro” è in Corte Rotta a San Martino, nelle vicinanze di Campo Do Pozzi, la “Corte del Maltese” equivale a Corte Buello nei pressi di Corte Nova e  la “Calle dei Marrani” è in Salizada Santa Giustina, vicino a Campo San Francesco della Vigna, tutti in Castello. La famosa e già citata “Corte Sconta detta Arcana” è la Corte Botera , che deve il proprio nome ad una bottega dibotteri, cioè di fabbricanti di botti, nei pressi della basilica dei Santi Giovanni e Paolo (detta San Zanipolo in dialetto veneziano) mentre nel citato racconto Pratt scelse l’abitazione di Tiziano come domicilio di Corto Maltese, nella corte che porta il nome del pittore, a Cannaregio. Pratt, negli ultimi suoi anni, ricordava con un velo di tristezza il pratt1suo legame con la città sulla laguna, quasi parafrasando – inconsapevole o meno – il testo di quella bella e triste canzone che  Guccini ha dedicato alla città (“ Venezia che muore,Venezia appoggiata sul mare, la dolce ossessione degli ultimi suoi giorni tristi,Venezia, la vende ai turisti, che cercano in mezzo alla gente l’ Europa o l’ Oriente..”). Quindi, per finire, è necessario far parlare ancora il maestro: “..vado e vengo per il mondo, quasi senza meta. Ma a Venezia ci torno sempre. Cammino per le sue calli, attraverso i canali, mi fermo sui ponti e osservo che sulle rive non ci sono più i granchi che al pomeriggio se ne stavano pigramente a prendere il sole. Non ci sono più da tanti anni. Cerco i posti di quando ero bambino ma molte volte non li riconosco. La scala matta non c’è più e non più neppure la signora Bora Levi. Le finestre della sua casa sono murate, la fisionomia del luogo è cambiata. Quando chiedo non mi sanno rispondere. Gente giovane che non sa, oppure qualche vecchio che non vuole ricordare”.

 Marco Travaglini

Spara dopo una lite: un morto e due feriti gravi

DALLA TOSCANA

E’ stato arrestato vicino a Grosseto l’uomo che ha sparato a tre persone a Follonica, uccidendone una e ferendo le altre due in modo grave, una donna e un uomo, dopo una lite. Era riuscito a fuggire in auto ma i carabinieri l’hanno bloccato. Si è trattato di un agguato avvenuto a seguito di un litigio. L’omicida, secondo quanto si è appreso, sarebbe un ristoratore della zona.

Saint- Eustache, chiesa “magnifica e trascurata” nel ventre di Parigi

Lungo il viale deserto, nel profondo silenzio della notte, i carri degli ortolani, diretti verso Parigi, percuotevano con l’eco dei loro monotoni scossoni, a destra e a sinistra, le facciate della case immerse nel sonno dietro i filari confusi degli olmi. Un carro di cavoli e un altro di piselli si erano riuniti sul ponte di Neully ad otto carri di rape e di carote calati da Nanterre; ed i cavalli procedevano a testa bassa, con andatura pigra e uguale rallentata dalla fatica della salita. Su in alto, sdraiati bocconi, sul carico dei legumi, sonnecchiavano i carrettieri coi loro mantelli a righe nere e grigie, le redini arrotolate al polsi..”. Così inizia Le ventre de Paris (Il ventre di Parigi) che Émile Zola pubblicò nel 1873, ambientando il racconto a Les Halles , i vecchi mercati generali dove venivano venduti all’ingrosso i prodotti alimentari freschi. Un mondo incredibile, carico di odori e colori che si è trasformato nei secoli, fino ai nostri giorni. Oggi  dove sorgevano i padiglioni ottocenteschi in ferro battuto ( “un gigantesco ventre di metallo, inchiavardato, saldato, fatto di legno, vetro e ferro”) c’è la Canopée, megastruttura di vetro e acciaio, dal tetto ondulato aperto verso ovest, che sovrasta il Forum des Halles, secondo centro commerciale di Francia. Siamo  nel primo arrondissement, il centro del centro di Parigi dove tutto è cambiato, stravolgendo quello che era il “ventre” della città. L’unica a restare immutata e impassibile davanti al turbinio delle trasformazioni è la chiesa di Saint-Eustache, una delle più grandi e famose di Parigi, costruita per volere di Francesco I di Francia tra la fine del ‘500 e l’inizio del ‘600. Varcata la soglia è l’imponenza delle cinque navate ad ammutolire; si resta senza fiato percorrendo l’interno maestoso di questo luogo di culto dove lo stile tardo gotico è di quelli  “flamboyant”, fiammeggianti, accompagnato da decorazionirinascimentali. “Chiesa magnifica e trascurata”, scrive Corrado Augias ne “I segreti di Parigi”. Eppure l’église Saint-Eustache  contiene importanti opere d’arte antiche e come una delle più celebri tele di Rubens, i “Discepoli di Emmaus” del 1611, varie opere di artisti italiani  ( Santi di Tito, Rutilio Manetti , Luca Giordano) e vi sono sepolti personaggi illustri come Jean-Baptiste Colbert, madame de Pompadour e Anna Maria Pertl, madre di Wolfgang Amadeus Mozart. Sotto le volte di Sant’Eustachio furono battezzati Molière, il cardinale Richelieu e Jeanne-Antoinette Poisson, futura marchesa di Pompadour; Luigi XIV, il Re Sole, ricevette la sua prima comunione mentre vi si sposò il compositore Jean-Baptiste Lully. Nella chiesa si svolsero i funerali di Mirabeau e La Fontaine, Franz Liszt  asistette all’esecuzione della sua Messa solenne mentre Hector Berlioz diresse per la prima volta il suo Te Deum. Visitando la chiesa è impossibile non notare il magnifico organo. Con più di 8.000 canne e più di cento registri è il più grande di Francia, superando gli strumenti storici della cattedrale di Notre Dame de Paris e della chiesa del Saint-Suplice. E se Enrico di Navarra abiurò il calvinismo per il cattolicesimo pur di conquistare Parigi dove fu incoronato re nel 1594, affermando che “Parigi val bene una messa”, si può ben dire che vale altrettanto la pena assistere ad una messa accompagnata dalle note dell’organo di questa splendida chiesa di Saint- Eustache.

Marco Travaglini