Dall Italia e dal Mondo- Pagina 71

Padre Claudio e il dialogo islamo-cristiano

FOCUS INTERNAZIONALE

di Filippo Re

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Lasciata Piasco, sulle colline della bassa Val Varaita, piccolo paese di 3000 abitanti che negli anni della Grande Guerra diede i natali a Luigi Pareyson, uno dei maggiori filosofi italiani del Novecento, si trasferisce a Torino dove studia teologia delle religioni, con particolare attenzione alla religione islamica ed entra nell’Ordine dei frati domenicani. Padre Claudio Monge diventa ben presto uno dei più autorevoli esperti italiani di dialogo islamo-cristiano e viene inviato in missione a Istanbul per portare avanti le sue ricerche sul mondo arabo-musulmano. Di recente Papa Francesco lo ha nominato Consultore del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso. Il missionario domenicano vive da 15 anni nella città sul Bosforo ed è parroco della chiesa dei Santi Pietro e Paolo, una delle pochissime chiese cattoliche ancora presenti in una metropoli in profonda trasformazione sotto diversi punti di vista. Oggi infatti possiamo definire Istanbul una città quasi “araba” e molto più “velata” di prima. Non cambia per fortuna il suo splendore, intatto e indistruttibile, come le sue possenti e celebri mura, il fulgore di una millenaria capitale imperiale, nelle cui pietre cerchiamo ancora oggi le tracce di un passato molto lontano ma che ci appartiene strettamente. Ma dietro la città incantata e al di là del commovente nazionalismo kemalista che il 10 novembre, giorno dell’anniversario della morte di Ataturk, fa suonare le sirene, alle 9,05 del mattino, fermando simbolicamente per un paio di minuti i traghetti sul Bosforo e sul Mar di Marmara e pietrificando all’improvviso il traffico assordante di una città di quindici milioni di abitanti (esclusi i 500.000 profughi siriani che vivono per strada), spuntano i cambiamenti che avanzano lentamente da qualche anno.

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Il turismo europeo e americano è sparito quasi del tutto dopo gli ultimi gravi attentati terroristici che hanno colpito la metropoli europea e dopo il fallito golpe del 15 luglio 2015, sostituito dal turismo del Golfo Persico e del Medio Oriente che salva dalla crisi il settore turistico turco. Dove sono finiti i francesi, gli inglesi, i tedeschi, gli americani e gli italiani che si trovano ovunque? A Istanbul non si vedono quasi più, come dissolti nelle nuvole della paura e del terrore che da qualche tempo tengono lontani i turisti da questa citttà. Ci sono però russi, cinesi e giapponesi, questi sì che si vedono ma c’è soprattutto una folla di arabi che mai nei secoli passati erano riusciti a conquistare Costantinopoli e adesso invece ci sono riusciti, con trolley zeppi di denaro. A Istanbul non si sono mai visti così tanti turisti mediorientali. Ed ecco allora sauditi, qatarioti, kuwaitiani, iraniani, iracheni, emiratini, c’è tutto il Golfo, sia arabo che persico. “Il turismo è in forte crisi, spiega Claudio Monge, un crollo verticale, da due anni a questa parte. È crollato soprattutto il turismo organizzato delle agenzie, sostituito in gran parte dal turismo arabo. È in corso una forte arabizzazione e in certi quartieri ci sono scritte bilinque, come nei negozi e negli hotel, li hanno favoriti togliendo i visti ai turisti arabi che sono gli unici che possono investire e pagare ingenti somme con denaro liquido. Qui il turismo classico, fatto di arte, storia e pellegrinaggi, è stato sostituito dal turismo dello shopping.

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Ci sono voli charter che portano i cittadini dei Paesi del Golfo che si fanno un weekend nei centri commerciali e nei negozi di lusso e poi ripartono senza fare neanche un giro in città. E poi gli arabi sono gli unici possibili acquirenti nel settore immobiliare. C’è stata un’esplosione edilizia incontrollata ma le case sono rimaste invendute per il 70%. In Turchia c’è poco denaro oggi e i prezzi sono troppo alti”. Padre Claudio guida come parroco la piccola chiesa di San Pietro e Paolo, all’ombra della possente Torre di Galata, che sopravvive insieme ad altre due chiese cattoliche, incuneata tra moschee, case ottomane e grandi edifici. Una biblioteca con 30.000 volumi per la formazione dei frati ma aperta a tutti, agli studenti turchi e agli stranieri allo scopo di aiutarli nella ricerca universitaria, nello studio della teologia delle religioni e del rapporto tra islam e cristianesimo. Un centro culturale nato per far incontrare gente diversa, seguendo un disegno tipico della cultura domenicana. Un progetto che procede con alti e bassi. “Qui vengono anche ricercatori che lavorano nel campo della storia per riscoprire le vicende di questi quartieri multietnici che un tempo erano abitati da molti cristiani, cercano documenti sulle radici cristiane di Costantinopoli e sui siti cristiani diventati poi moschee. Ci sono stati sicuramente periodi più facili di quello attuale, ammette fra Claudio, ma le tensioni politiche in questo Paese hanno fatto sì che molte persone, un tempo ben collocate nei gangli del potere, e che erano i nostri referenti diretti, sono spariti e abbiamo dovuto cambiarli con la conseguenza che certi contatti costruiti in passato sono finiti e hanno dovuto essere cambiati. Da anni stiamo cercando di ristrutturare una parte del vecchio convento per trasferire la biblioteca ma ci sono molti impedimenti e procedure burocratiche interminabili che ci stanno sfiancando. La nostra condizione di cristiani e di stranieri non aiuta, è un ostacolo in più, che riguarda non solo noi italiani ma tutti i cittadini dell’Ue”. Sempre più donne con il velo nelle strade di Istanbul, scuole religiose in aumento, Ataturk in naftalina? Per il momento il padre fondatore della Turchia moderna e laica resiste, le immagini di Mustafa Kemal abbondano in città e la sua statua di cera nel Museo navale, sulla sponda europea del Bosforo, non è ancora stata rimossa. Ma qualcosa è già cambiato.

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“Da tre-quattro anni, osserva il frate domenicano, c’è un aumento notevole del velo tradizionale, alla turca, almeno del 40%, e si vedono anche molte donne arabe e iraniane con un lungo velo nero o donne turche provenienti dai piccoli villaggi anatolici con il tradizionale velo. Le vie dello shopping restano abbastanza “occidentali” ma nel resto della città la situazione è mutata. E’ stato tolto il divieto di portare il velo negli uffici pubblici e quindi c’è un ritorno del velo che ora è ammesso, il cambiamento di panorama è innegabile anche se penso che la Turchia non potrà tornare troppo indietro. Come il Kemalismo aveva comportato l’occupazione della scena pubblica con simboli e cultura laica imposta dall’alto, oggi assistiamo a un’occupazione della scena pubblica con i simboli islamici”. Nel Paese della Mezzaluna cambia anche la scuola per avere musulmani più ortodossi e Istanbul si è già adeguata con il potenziamento degli istituti religiosi. “Più che di medrese si tratta di scuole “imam-hatip”, scuole di formazione religiosa per coloro che in futuro potrebbero diventare imam di moschea, insegnanti di religione o dipendenti del Diyanet, il Ministero degli Affari Religiosi. Tuttavia queste scuole che dovevano limitarsi a formare i quadri di questo Ministero stanno rimpiazzando di fatto l’educazione tradizionale. Sono aumentate con la chiusura di diverse scuole pubbliche e con il risultato di fare abbassare drasticamente il livello medio dell’istruzione. È certo però che lo studio scolastico dei decenni di potere di Kemal sarà ridimensionato nella nuova Turchia del sultano Recep Tayyip Erdogan. A cominciare dai simboli del kemalismo, come il “Centro culturale Ataturk” che domina piazza Taksim, il cuore di Istanbul, e ora è in fase di smantellamento (al suo posto sorgerà un teatro dell’Opera) mentre dalla parte opposta della piazza è in costruzione una grande moschea. Il vicino Gezi Park, punto di ritrovo per le manifestazioni anti-Erdogan rischia di scomparire e lasciare il posto a una caserma ottomana.

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“C’è chiaramente la tendenza a voltare pagina, aggiunge il missionario piemontese, il discorso è che si sta rimpiazzando quella che è stata una sorta di identità laica imposta dall’alto, il progetto autoritario di Ataturk con un altro progetto autoritario, si sta imponendo ora un’identità che fa riferimento molto di più alle radici culturali islamiche. E ciò implica anche una presa di possesso dei luoghi simbolici degli anni della Repubblica kemalista che adesso sono ripresi e reinventati a immagine e somiglianza del nuovo progetto. Taksim, che era per eccellenza la piazza della laicità repubblicana kemalista, sta cambiando faccia. Assistiamo a uno scontro tra ideologie diverse. A una vecchia ideologia si risponde con una nuova ideologia”. Decine di ragazze affollano il vecchio caffè turco a ridosso di Santa Sofia, nella grande piazza Sultanahmet, a poche decine di metri dalla Moschea Blu. Sono appena uscite da scuola, ancora più allegre perchè domani è domenica, giorno festivo per tutti nella Istanbul europea, capelli al vento, musica nelle orecchie, cellulare in mano. L’Oriente, per loro, sembra lontano, l’Europa più vicina.

 

 

 

Trieste, memoria e dolore tra i mattoni rossi della Risiera

I mattoni rossi della Risiera di San Sabba

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L’appuntamento è a Valmaura, rione alla prima periferia meridionale di Trieste, lungo l’asse che la collega con l’Istria

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di  Marco Travaglini

Il primo appuntamento, per gli studenti piemontesi distintisi nella 37° edizione del Progetto di storia contemporanea bandito dal Comitato Resistenza e Costituzione del Consiglio regionale, si terrà a Trieste, capoluogo del Friuli Venezia Giulia all’estremo lembo orientale dell’Alto Adriatico, città di confine stretta tra il Carso e il mare.

La cella della morte

L’appuntamento è a Valmaura, rione alla prima periferia meridionale di Trieste, lungo l’asse che la collega con l’Istria. In questa piccola valle tra il colle di Servola e quello di San Pantaleone si trova la Risiera di San Sabba, unico esempio di lager nazista in Italia.

Luoghi di detenzione alla Risiera

Già all’entrata s’avverte, incombente, il “peso” della vicenda consumatasi tra le mura del grande complesso di edifici dello stabilimento per la pilatura del riso, costruito nel 1898.

 

L’ingresso

 

Dapprima utilizzato dall’occupante nazista come campo di prigionia provvisorio per i militari italiani catturati dopo l’8 settembre 1943 ( lo Stalag 339), verso la fine di ottobre di quell’anno venne strutturato come Polizeihaftlager (campo di detenzione di polizia), destinato sia allo smistamento dei deportati in Germania e in Polonia, sia alla detenzione ed eliminazione di ostaggi, partigiani, detenuti politici, ebrei.

La Risiera oggi

 

La Risiera, dal 1965, è monumento nazionale e, dieci anni dopo, ristrutturata su progetto dell’architetto Romano Boico, divenne Civico Museo. Nel primo stanzone posto alla sinistra prima di entrare nel cortile e dopo aver attraversato lo stretto e inquietante “budello” tra le mura di cemento alte undici metri, s’incontra la “cella della morte”. Lì venivano stipati i prigionieri tradotti dalle carceri o catturati in rastrellamenti e destinati a essere uccisi e cremati nel giro di poche ore. Proseguendo sempre sulla sinistra, si trovano, al pianterreno dell’edificio a tre piani, i laboratori di sartoria e calzoleria dove venivano impiegati i prigionieri, nonché le camerate per gli ufficiali e i militari delle SS, le 17 micro-celle in ciascuna delle quali venivano ristretti fino a sei prigionieri. Queste celle erano riservate a partigiani, politici e ebrei destinati all’esecuzione.

Le celle

I graffiti degli internati

Le prime due venivano usate per la tortura o la raccolta di materiale prelevato ai prigionieri: vi sono stati rinvenuti, fra l’altro, migliaia di documenti d’identità, sequestrati non solo a detenuti e deportati, ma anche ai lavoratori inviati al lavoro coatto.

Mazza usata dagli aguzzini nazisti alla Risiera

Quasi tutti i documenti, prelevati dalle truppe jugoslave che per prime entrarono nella Risiera dopo la fuga dei tedeschi, furono trasferiti a Lubiana, dove sono attualmente conservati presso l’Archivio della Repubblica di Slovenia. Le porte e le pareti dei locali della Risiera erano ricoperte di graffiti e scritte. L’occupazione dello stabilimento da parte delle truppe alleate, la successiva trasformazione in campo di raccolta di profughi, sia italiani che stranieri, l’umidità, la polvere, l’incuria degli uomini hanno in gran parte fatto sparire graffiti e scritte. Ne restano a testimonianza i diari dello studioso e collezionista Diego de Henriquez , conservati dal “Civico Museo di guerra per la pace” a lui intitolato, che ha sede al 22 di via Cumano, a Trieste. Nei diari è stata riportata l’accurata trascrizione delle scritte, offrendo una testimonianza drammatica di quanto accadde tra le mura della Risiera.

Una veduta del museo alla Risiera

Nel successivo edificio a quattro piani venivano rinchiusi, in ampie camerate, gli ebrei e i prigionieri civili e militari destinati per lo più alla deportazione in Germania: uomini e donne di tutte le età e bambini anche di pochi mesi.Da Trieste venivano inviati a Dachau, Auschwitz, Mauthausen, verso un tragico destino che solo pochi hanno potuto evitare. Nel cortile interno, proprio di fronte all’area contrassegnata dalla piastra metallica ( dove si pensava sorgesse l’edificio destinato alle eliminazioni) si trovava il forno crematorio. L’impianto, al quale si accedeva scendendo una scala, era interrato. Sull’impronta metallica della ciminiera sorge oggi una simbolica Pietà costituita da tre profilati metallici a segno della spirale di fumo che usciva dal camino.

La targa alla Risiera di San Sabba

La struttura del forno crematorio venne distrutta con la dinamite dai nazisti in fuga, nella notte tra il 29 e il 30 aprile 1945, per eliminare le prove dei loro crimini, secondo la prassi seguita in altri campi al momento del loro abbandono. Tra le macerie furono rinvenute ossa e ceneri umane raccolte in tre sacchi di carta, di quelli usati per il cemento. Tra i resti venne trovata anche la mazza usata per l’esecuzione dei prigionieri la cui copia, realizzata e donata da Giuseppe Novelli nel 2000, è ora esposta nel Museo (l’originale venne trafugato nel 1981). Triestini, friulani, istriani, sloveni e croati, militari, ebrei, “passarono” per la Risiera.

Studenti e docenti piemontesi alla Risiera di San Sabba

Quante furono le vittime? Calcoli effettuati sulla scorta delle testimonianze danno una cifra tra le tre e le cinquemila persone soppresse tra quelle mura di mattoni rossi. Ma in numero ben maggiore furono i prigionieri e i ”rastrellati” che da lì vennero smistati nei lager — in particolare, a quello di Auschwitz-Birkenau — o al lavoro obbligatorio. La Risiera è un luogo della memoria della deportazione importantissimo, essendo stato il principale campo di concentramento, transito e sterminio italiano (altri campi di transito sorgevano a Fossoli, Ferramenti, Bolzano e — in Piemonte — a Borgo San Dalmazzo). In luogo della memoria importante come lo è la storia di questa città “dalla scontrosa grazia”, come scriveva Umberto Saba, dove sulle piazze e tra le vie soffia la bora e “ s’infrange l’ultima onda del Mediterraneo”.

 

A 80 anni, dopo 25 di procedimento penale, gli viene restituito il posto di lavoro

DALLA SICILIA

Ha compiuto 80 anni ma rientra nel proprio posto di lavoro il funzionario della Motorizzazione civile di Messina, Eduardo Saija, che è stato riassunto con sentenza della Corte d’appello di Messina, in applicazione della  “Legge Carnevale”. L’uomo era dirigente alla Motorizzazione civile di Messina, ma  nel 1993 era stato sospeso a causa di un procedimento penale per presunti reati legati alla sua attività lavorativa. 25 anni dopo arriva  la sentenza della Corte d’appello penale di Messina del 20 febbraio 2009:  assolto per insussistenza del fatto.

Incendio in chiesa, bruciano le ostie consacrate

DALLA TOSCANA

Diverse ostie consacrate sono andate in fiamme nel corso di un principio di incendio presso la chiesa di San Martino a Salviano, a Livorno. Forse un cero lasciato acceso sull’altare della deposizione ha dato il via al fuoco. Sono stati danneggiati solo il tabernacolo dell’altare laterale e alcuni arredi sacri. Ma sono state bruciate  le ostie consacrate nella pisside. Ora verranno  sottoposte al rito dello scioglimento nell’acqua, come succede quando l’eucarestia viene  contaminata da fattori esterni.

Bettelmatt, il buon formaggio del “pascolo della questua”

bettelmattIl nome Bettelmatt, oggi associato ad uno dei più famosi e rinomati formaggi d’alpe, deriva da un termine vallesano-Walser risalente al Medioevo che significa, letteralmente, “pascolo della questua”, traendo origine da un’antica tradizione religiosa . Una delle più vecchie pratiche di lasciti in natura, a favore dei poveri o di enti religiosi, per i vallesani dell’Oberland bernese e per i Walser, era quella di disporre, giunta l’ultima ora, di “legati” in formaggio, usandolo come merce di scambio, per il pagamento degli affitti, delle concessioni di alpeggio e delle tasse. O, come in questo caso, a vantaggio dei più bisognosi. Così, dall’alto Vallese alle colonie Walser come la Val Formazza, si diffuse l’usanza, nei testamenti, di questi formazza bettelmatlasciti a favore dei poveri, con la distribuzione ( quasi sempre a Natale o Pasqua ) di forme di formaggio. Grazie alla devozione e al senso di pietà dei vecchi Walser, i formaggi dei pascoli migliori  venivano riservati alla questua per i poveri. Gli alpeggi da cui provenivano questi formaggi venivano spesso indicate come “alpi della questua” (“Bettelalp”) e corrispondevano sempre ai pascoli più ricchi delle vallate. Il motivo? Più il pascolo era ricco e più la generosità del donatore sarebbe stata premiata nell’altra vita. In altri casi l’usanza della questua era legata ad ex-voto, per “liberarsi” da pericoli e calamità naturali. Nella Turtmanntal , valle del Canton Vallese che si apre sulla sinistra della valle del Rodano, un tempo abitata dai Walser, aibettelmatt 36 piedi dell’imponente mole del Weisshorn, il 14 agosto – vigilia dell’Assunta – i poveri , saliti dal fondovalle, giravano con la gerla i diciassette alpeggi, ricevendo in ciascuno una piccola parte di formaggio. Ma gli esempi sono tanti, come recitano i più antichi documenti conservati negli archivi ecclesiastici e delle varie comunità.Il Bettelmatt, formaggio a pasta compatta di colore che va dal giallo all’oro, con la ruvida crosta di color marrone più o meno scuro, porta con se anche questa storia legata all’elemosina pubblica. Così questa delizia, prodotta da latte crudo intero di una mungitura di mucche di razza bruna,  tra luglio e settembre, esclusivamente nei sette alpeggi della Valle Antigorio Formazza ( Bettelmatt, Kastel, Val Toggia, Vannino, Poiala, Forno e Sangiatto )  può essere definito anche un prodotto solidale che affonda le radici in quello che era un generoso esempio di carità e di sostegno agli “ultimi”.

Marco Travaglini

Muore dopo la lezione di spinning

DALLA PUGLIA

Al termine della lezione di spinning  stavano sistemando le cyclette quando Antonio Focolando, di 46 anni, colpito da  infarto, si è accasciato ed  è morto, nonostante i tentativi di rianimarlo. Il fatto è avvenuto presso il centro sportivo ‘Kendro’ a Triggian. la vittima, un, ingegnere, sposato e padre di una bambina di 9 anni, era titolare di  un’azienda di componentistica nella zona industriale tra Bari e Modugno.

A Luino, sulle tracce di Piero Chiara e del “signor Brovelli”

Quinto, da tempo, chiede insistentemente di accompagnarlo fino a Luino, sulla sponda lombarda del lago Maggiore per vedere “ i posti di  Piero Chiara”. Dopo aver vestito i panni di attore per caso e rapinatore per finta sul set del film La Banca di Monate, interamente girato a Omegna, sul lago d’Orta, l’infatuazione per lo scrittore della “sponda magra” del Verbano è diventata quasi un’ossessione. Qualche settimana fa, seduto ad un tavolino del bar in piazza Salera, un conoscente stava parlando al telefono con un amico che, da quanto si è poi saputo, comunicava dal molo di Ronco di Pella. Il primo, riferendosi all’acqua del lago, che riflette il mutare del tempo, chiedeva come l’altro la vedesse ( era chiara? era scura? prometteva brutto tempo? poteva azzardarsi a mettere in acqua la sua barchetta? ) quando il buon Quinto, intromettendosi, esclamò: “ Più che l’acqua, annusa il vento. Allarga bene le narici e sentirai se dalle Quarne scende l’aria brusca o dal Mottarone il mergozzolo”. Quinto era così, di buon carattere ma piuttosto invadente. Non per maleducazione o curiosità degli affari altrui. Anzi, era del tutto convinto di poter essere utile, di dare consigli. E come poteva farlo se non usando quel sesto senso che pensava di aver scoperto leggendo le storie di lago dell’esimio luinese? Così, per evitare il protrarsi di quel tormento ( “dai, andiamo? Mi porti, eh? Si va e si viene in giornata..”) e per farlo contento, ho ceduto le armi: sabato si va a Luino! Siamo partiti di buon ora e Quinto, che solitamente non sta zitto nemmeno se lo imbavagli, fino al ponte sul Ticino rimase più silenzioso di una mummia. Guardava fuori dal finestrino, sgranando gli occhi come i bambini: ogni paese, ogni lungolago s’intuiva come apparissero ai suoi occhi come delle straordinarie scoperte. Francamente  non è che, oltrepassate Gravellona Toce e Feriolo, Baveno e Stresa il paesaggio fosse così vario e mutevole. Posti belli, da cartolina, per carità; niente da dire ma abbastanza noti per non dire scontati, agli occhi di chi viveva lì o nei dintorni. Eppure era evidente che a lui si presentavano come una tal novità da disegnargli sul viso imbambolato un largo sorriso.  Del resto, in vita sua aveva viaggiato ben poco, a parte il gran camminare su e giù per le sale d’alberghi e ristoranti, obbligato dal suo lavoro di cameriere. Passati sulla sponda orientale del Maggiore, in terra lombarda, sembrò riprendere vita, riconoscendo i luoghi della prosa di Chiara. Così, fino a Luino, dove  parcheggiammo l’auto  nel grande spiazzo sterrato sul lungolago. Da lì, a piedi, in un attimo la nostra meta venne raggiunta: il “mitico” Caffè Clerici.

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Così, seduti a un tavolino esterno, guardando il lago, Quinto prese dalla tasca un libro e – partendo da dove aveva messo un vecchio biglietto del treno come segnalibro – iniziò a leggere: “….Volle sapere qualche cosa di più sul Caffè Clerici, che le parve un’istituzione degna d’interesse. Glielo descrissi, vicino al porto, sul quale si affacciava da un portichetto, coi tavolini di ferro e i miei amici seduti intorno fin dalla mattina. Le barche che andavano e venivano, la gente che passava, il biliardo dentro al caffè, in attività tutto il giorno e il giardinetto inghiaiato sempre in ombra dietro, con le piante concimate con i fondi di caffè nelle mezze botti dipinte di verde”. Alzando gli occhi, quasi s’accorgesse allora della mia presenza, mi disse: “Hai notato? Guardati attorno: non è più o meno com’è oggi?”. In effetti la descrizione della Luino che Piero Chiara aveva tratteggiato ne “ Il cappotto di astrakan”, non era dissimile da quanto si poteva vedere in quel momento. Il Caffè Clerici era rimasto più o meno lo stesso e non si faticava ad immaginare come lo scrittore avesse organizzato il suo “ufficio” tra i tavolini della sala. Era il suo, immaginario,  “buco della serratura” dal quale poteva sbirciare e indagare la poliedrica umanità luinese. Quella  che poi, consapevole o meno, gli aveva offerto la materia prima per confezionare le sue storie. E il molo,  quello dove arrivavano le raffiche e si potevano distinguere tutti i sentori che il vento, scendendo dalla Svizzera, raccoglieva lungo le valli della sponda piemontese ? Era proprio quello che stava lì, davanti a noi. A fianco dell’imbarcadero, dopo lo “spazio di rispetto” che apparteneva alla Società di Navigazione, si apriva il porto delle barche,  “coi suoi moli convergenti che terminavano in due torrette dal parapetto ad altezza di gamba”.

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A dire il vero erano poche le barche allineate contro la riva, mentre un paio di burchielli stavano lì in secca, arrampicati sulla rampa erbosa, poco distanti da una lancia da lago che stava pancia all’aria, capovolta sui cavalletti, ad asciugarsi le fiancate  verniciate di fresco. Sorseggiamo due “bianchini”, corretti con un’ombra di Campari, e guardammo entrambi un uomo piuttosto robusto intento a pescare con una canna fissa dal muraglione di pietra antica del porticciolo. “Guarda un po’ quel tipo. Non sembra mica il Brovelli, quello lì? Sì, il Brovelli: quello del “Ti sento, Giuditta”? ”. La stazza doveva esser suppergiù   la stessa del personaggio del racconto di Chiara e la suggestione poteva indurre a chiamarlo per nome ( “Signor Amedeo.. Amedeo Brovelli..”) ma evitammo di farlo. Un pò per non far figure, un pò perché – qualora si fosse voltato verso di noi – non  avremmo saputo che dire. Annusammo anche noi l’aria, quasi istintivamente. Non sentimmo nulla. Non intercettammo nessun odore: né dei sigari di Brissago, né delle bestie della Val Cannobina e nemmeno delle fragranti michette sfornate a Cannobio. “Mi sa che siamo anche noi come il ragazzo a cui il Brovelli aveva insegnato l’arte del “fiuto dell’aria”, disse Quindo, sconsolato.  Quella storia la conoscevamo entrambi, quasi a memoria. Le parole, affidate alla penna di Chiara, dai ricordi vennero in superficie : “…passai mattine intere sul molo per risentire gli odori; ma avessi dimenticato la posizione esatta o l’angolo giusto, non mi riuscì di sentire mai altro che l’odore d’acqua e quasi di luce che ha sempre il vento al mio paese”. Pagata la consumazione al Caffè, gironzolammo per Luino alla ricerca di qualche frammento di quell’atmosfera  di vento e bonacce, acqua di lago e tetti lastricati di beole. C’erano ancora i balconi sporgenti dove vivacissimi gerani si mettono in mostra e anche i vecchi cancelli dietro ai quali s’intravedevano i bei giardini delle dimore signorili , traboccanti di verde e di glicini.

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Molti dei luoghi di Chiara, nel tempo, erano cambiati: l’albergo Metropole, dove ai suoi tavoli, con accanimento e passione, si giocavano interminabili partiti a carte, ora portava il nome di Palazzo Verbania e  al piano terra ospitava mostre e conferenze. C’era ancorala statua di Garibaldi, la prima ad essergli stata dedicata in Italia, nel 1867,  quando l’eroe dei due mondi era ancora in vita. Anche Chiara, ne “Il piatto piange”, fa cenno a questa singolare vicenda con una certa ironia, raccontando a modo suo l’episodio storico avvenuto il 15 agosto del 1848, durante la prima guerra di indipendenza italiana. Giunto a Luino con un manipolo di camicie rosse per scacciare gli austriaci, dopo aver attraversato il lago a bordo di due battelli sequestrati ad Arona,  Garibaldi  dovette far ricorso alla farmacia Clericiper avere, in fretta e furia , un rimedio contro la dissenteria che aveva colpito a tradimento l’eroe “dei due mondi”. Girammo e  girammo ma di quegli alberghetti collocati in posizione strategica, vicino alla penultima stazione ferroviaria prima del confine svizzero, dove s’incontravano le coppie clandestine, non c’era più nemmeno l’ombra. Gli anni si sono portati via, in una caotica progressione, tutto quel mondo di chiacchiere e confidenze nei caffè e nelle osterie dove s’ingannava il tempo con interminabili partite a carte, scherzi e beffe alle spalle dei cornuti, mordaci canzonature, piccoli scandali e pettegolezzi dove i condimenti erano sempre tre: sesso, quattrini e debiti. Quinto scrutava i passanti che incontravamo, alla ricerca di un indizio che ci svelasse la loro vera identità. Mi parve deluso dal fatto di non intravedere quell’umanità di perdigiorno, sciupafemmine, truffatori, madame procaci e sensuali che aveva conosciuto grazie ai racconti dell’uomo che più di altri aveva sdoganato la provincia e le sue storie. Per consolarci ci concedemmo una lauta merenda al Clerici come s’usava un tempo: pane e frittura di lago, un litro di bianco e due grappini all’erba ruga, alla ruta, per “buttar giù il peso dallo stomaco”. Lasciammo Luino quasi al tramonto. Guidavo l’auto senza fretta e quest’ultima si mangiava la strada a piccoli morsi, muovendosi con un dondolio da barca, quasi fosse in riserva e occorresse sfiorare leggermente l’acceleratore per non  restare a secco. Si tornava verso casa. Arrivederci alla prossima, signor Brovelli.

 

Marco Travaglini

Assolto dopo 9 anni: aveva tentato di rubare una melanzana. E lo Stato paga le spese

DALLA PUGLIA 

Sono trascorsi nove anni tra inchiesta e processi vari e finalmente la Corte di Cassazione ha assolto un uomo di 49 anni che era accusato di aver cercato di rubare una melanzana in un campo. Era stato condannato dalla Corte d’appello di Lecce a cinque mesi di reclusione, ma la  Suprema corte ha deciso che in questo caso debba essere applicata la causa di non punibilità per la  particolare tenuità del fatto. Peccato che il processo sia costato allo Stato diverse migliaia di euro, in quanto l’imputato è indigente ed ha usufruito del patrocinio gratuito nei tre gradi di giudizio.

L’Antologia di Spoon River ha più di cent’anni ma non li dimostra

SPOON3

La prima edizione italiana ( per i tipi dell’Einaudi) porta la data del 9 marzo 1943 e venne curata dall’allora ventiseienne Fernanda Pivano che raccontava: “Ero una ragazzina quando vidi per la prima volta l’Antologia di Spoon River. Me l’aveva portata Cesare Pavese, una mattina che gli avevo chiesto che differenza c’è tra la lettura americana e quella inglese”

Quando l’avvocato Edgar Lee Masters, tra il maggio del 1914 ed il gennaio del 1915, pubblicò sul “Mirror” di St. Louis una serie di poesie , successivamente raccolte nell’Antologia di Spoon River, non immaginava di ottenere tanto successo. Ogni poesia, raccontando in forma di epitaffio la vita di una delle persone sepolte nel cimitero di un immaginario paesino statunitense, proponeva un folgorante ritratto della profonda provincia americana, sospesa fra l’Ottocento e il Novecento. La prima edizione della raccolta, pubblicata cent’anni fa ( nell’aprile del 1915)  contava 213 epigrafi diventate poi 244 più La Collina ( “Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom e Charley, l’abulico, l’atletico, il buffone, l’ubriacone, il rissoso? Tutti, tutti, dormono sulla collina..”) nella versione definitiva del 1916. La raccolta comprende diciannove storie che coinvolgono un totale di 248 personaggi che coprono praticamente tutte le categorie e i mestieri umani. Masters si proponeva di descrivere la vita umana raccontando le vicende di un microcosmo, il paesino di Spoon River. In realtà, Masters si ispirò a personaggi veramente esistiti nei paesini di Lewistown e Petersburg, vicino a Springfield nell’Illinois, dove passò parte della sua vita. Il paesaggio intorno a queste città, il cimitero di Oak Hill , la collina di Lewistown e il fiume Spoon , offrirono le fonti d’ispirazione ma molte delle persone a cui le poesie erano ispirate, che a quel tempo erano ancora vive, si sentirono offese nel veder messe a nudo le loro debolezze ed ipocrisie. Del resto, la caratteristica dei personaggi da lui tratteggiati è che essendo per la maggior parte morti non avevano più niente da perdere e quindi potevano “raccontare” la loro vita in assoluta in assoluta sincerità. L’autore stesso disse che cinquantatre epitaffi erano ispirati da personaggi di Petersburg, e sessantasei da quelli di Lewistown. Edgar Lee Masters morì in miseria e dimenticato, di polmonite, il 5 marzo 1950. Aveva ottant’anni e fu sepolto nel cimitero Oak Hill di Petersburg. Il suo epitaffio include queste frasi: “Penso dormirò, non c’è cosa più dolce.Nessun destino è più dolce di quello di dormire. Sono un sogno di un riposo benedetto..”. La sua grandezza verrà universalmente riconosciuta solo a partire dagli anni ’60, in cui diverrà uno dei poeti statunitensi più celebri a livello mondiale.

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La pubblicazione in Italia dell’Antologia di Spoon River fu piuttosto tribolata. Durante il ventennio fascista la letteratura americana era ovviamente osteggiata dal regime, in particolare se esprimeva idee libertarie come nel caso di Edgar Lee Masters. La prima edizione italiana ( per i tipi dell’Einaudi) porta la data del 9 marzo 1943 e venne curata dall’allora ventiseienne Fernanda Pivano che raccontava: “Ero una ragazzina quando vidi per la prima volta l’Antologia di Spoon River. Me l’aveva portata Cesare Pavese, una mattina che gli avevo chiesto che differenza c’è tra la lettura americana e quella inglese”. Fu un colpo di fulmine: “L’aprii proprio alla metà, e trovai una poesia che finiva così “mentre la baciavo con l’anima sulle labra, l’anima d’improvviso mi fuggì”. Chissà perché questi versi mi mozzarono il fiato: è così difficile spiegare le reazioni degli adolescenti”. I versi di Masters e la loro “scarna semplicità” furono, per la Pivano,  una rivelazione. Così, quasi per conoscere meglio i personaggi, iniziò a tradurre in italiano le poesie, naturalmente senza dirlo a Pavese: temeva che la prendesse in giro. Ma un giorno Pavese scoprì in un cassetto il manoscritto e convinse Einaudi a pubblicarlo. Incredibilmente riuscì a evitare la censura del ministero della cultura popolare cambiando il titolo in «Antologia di S.River» e spacciandolo per una raccolta di pensieri di un quanto mai improbabile San River. La Pivano, tuttavia, pagò questa sua traduzione con il carcere; a tal proposito dichiarò: “Quel libro in Italia era superproibito. Parlava della pace, contro la guerra, contro il capitalismo, contro in generale tutta la carica del convenzionalismo. Era tutto quello che il governo non ci permetteva di pensare […], e mi hanno messo in prigione e sono molto contenta di averlo fatto”. Dal 1943, anno della prima pubblicazione, dell’Antologia di Spoon River sono uscite sessantadue edizioni in diverse collane dell’Einaudi, e si sono venduti più di cinquecentomila esemplari: un piccolo record per un libro di poesia. Vale la pena ricordare anche che, nel 1971,  Fabrizio De André pubblicò l’album “Non al denaro, non all’amore nè al cielo”, liberamente tratto dall’Antologia di Spoon River. De André scelse nove delle 244 poesie e le trasformò in altrettante canzoni.  Le nove poesie scelte toccavano fondamentalmente due grandi temi: l’invidia (Un matto, Un giudice, Un blasfemo, Un malato di cuore) e la scienza (Un medico, Un chimico, Un ottico). E l’album è universalmente riconosciuto come una delle “perle” più preziose del grande cantautore genovese.

 

Marco Travaglini

Multa da 200 euro a chi rovista nei cassonetti

DALLA LIGURIA

Una multa da 200 euro per chi rovista nei cassonetti. Succederà da oggi  a Genova, nel caso che chi viene sorpreso a cercare nell’immondizia non lo faccia per cercare da mangiare. E’ stata approvata in municipio la delibera di giunta che modifica il regolamento di polizia urbana, che indica anche misure per contrastare i fenomeni di degrado nel centro storico.