Dall Italia e dal Mondo- Pagina 71

Krtek, la talpa più simpatica del mondo

Dalle vetrine del centro di Praga uno strano animaletto dagli occhi spalancati e il naso rosso si presenta agli sguardi dei turisti. Con il suo sguardo furbo e simpatico è diventato, nei decenni, uno dei simboli della città magica e dell’intera nazione. E’ Krtek, che in ceco significa semplicemente “talpa”, personaggio dei cartoni animati nato nel 1956 dall’ingegnosa  penna del disegnatore Zdenek Miler. Sessantadue anni fa a Miler venne chiesto di immaginare una storia per bambini da trasformare in un film. La ricerca di un personaggio in grado di coinvolgere e appassionare i più piccoli lo impegnò per diverso tempo e l’idea di Krtek gli venne incidentalmente. Durante una passeggiata in un bosco inciampò in un buco scavato da una talpa e da quel piccolo inconveniente scaturì l’idea di disegnare proprio uno di questi piccoli insettivori. Protagonista di moltissimi libri per l’infanzia e giocattoli, la talpa esordì nel suo primo film d’animazione (“Come Krtek trovò i suoi pantaloni”) nel 1957, grazie al quale il suo autore si aggiudicò il premio per miglior film informativo-didattico per bambini alla diciottesima edizione del festival di Venezia. Il successo fu strepitoso. A quel cortometraggio ne seguirono altri cinquanta (l’ultimo nel 2002, “Krtek e una piccola rana”), apprezzati in più di ottanta paesi nel mondo, anche grazie all’intuizione di far esprimere Krtek senza parole, evitando così di tradurne il linguaggio. Così, per mezzo secolo, la simpatica talpa ha lanciato i suoi messaggi ( dai valori della solidarietà al senso di giustizia,all’importanza della cura e del rispetto della natura),pensati per i più piccoli ma in grado di conquistare e far riflettere anche gli adulti.

Marco Travaglini

Usa -Iran, lo scenario della crisi

FOCUS INTERNAZIONALE  di Filippo Re

Bandiere a stelle e strisce date alle fiamme nelle piazze delle città iraniane e nel Parlamento di Teheran. Urla e slogan anti-Usa, sermoni bellicosi e incendiari, venti di guerra. Scene già viste quaranta anni fa, all’inizio della rivoluzione incendiaria di Khomeini che nel 1979 travolse la monarchia dello scià e instaurò una teocrazia islamica. Saranno 40 anni il prossimo anno ma pare che la Storia si ripeta oggi. Dall’Iran ai Territori palestinesi che bruciano di rabbia, l’America è tornata ad essere il “Grande Satana” dei tempi di Bush, che oggi si chiama Trump, e il suo alleato Israele, il “piccolo Satana”, che festeggia i settant’anni di vita del suo Stato. Sulla sponda opposta, i palestinesi commemorano la “Nakba” (la catastrofe), l’esodo coatto di 700.000 arabi palestinesi durante la prima guerra con Israele tra il 1948 e il ’49 e si scagliano con violenza contro la nuova ambasciata americana aperta

(AP Photo/Carlos Osorio)

a Gerusalemme. Per completare il quadro di quel periodo alla fine degli anni Settanta manca solo l’occupazione dell’ambasciata americana a Teheran come accadde nel novembre 1979 con la famosa crisi degli ostaggi quando centinaia di fanatici iraniani assaltarono la sede diplomatica prendendo in ostaggio 52 funzionari della legazione per liberarli solo un anno dopo. Non ci sarebbe da stupirsi se oggi accadesse la stessa cosa nella capitale iraniana con i toni sempre più aspri che volano tra Washington, Teheran e Tel Aviv. Al ministro della difesa israeliano Avigdor Liberman che afferma ” se da noi cade la poggia, su di loro deve rovesciarsi l’alluvione”, il leader religioso Ahmad Khatami risponde che il suo Paese è pronto a “distruggere totalmente Tel Aviv e Haifa se gli israeliani agiranno in modo folle”. Al coro di voci infuocate contro lo Stato ebraico si è aggiunto anche un messaggio audio del capo di al-Qaeda al-Zawahiri il quale ricorda che non solo Gerusalemme ma “anche Tel Aviv è terra dei musulmani”, quindi da riconquistare. Mentre si infiamma la retorica anti-americana e anti- israeliana, il livello dello scontro diplomatico e militare tra Israele e l’Iran continua a salire. Le due potenze regionali si combattono già in Siria diventata un terreno di confronto bellico. Il fronte del Golan è diventato rovente e, a duellare su quelle alture, non ci sono israeliani e siriani ma Tashal e i militari della Forza Quds comandata dal generale iraniano Qassem Soleimani. Anche su questo aspetto dello scontro non mancano i richiami alla storia recente. I raid israeliani della settimana scorsa contro basi iraniane in Siria (almeno settanta missili lanciati da 30 jet), in risposta ai lanci di missili da parte dei pasdaran verso postazioni militari sul Golan, sono stati i più potenti dalla guerra del Kippur nel 1973. Il 6 ottobre di quell’anno, siriani, egiziani e giordani attaccarono di sorpresa Israele, approfittando della festività religiosa. Colto di sorpresa, lo Stato ebraico fu sul punto di vacillare. In quei drammatici giorni cadde il mito dell’invincibilità dell’esercito israeliano ma dopo una serie di sconfitte iniziali nel Sinai e nel Golan il recupero fu prodigioso e la controffensiva devastante. La bocciatura dell’accordo sul nucleare iraniano da parte di Trump apre nuovi scenari sul futuro delle relazioni tra gli ayatollah e la comunità internazionale. Dopo lo strappo degli americani l’Unione Europea è al lavoro per salvare l’intesa faticosamente raggiunta nel 2015 e definita dai vertici di Bruxelles “uno dei più grandi successi della diplomazia negli ultimi tempi”. L’Ue è il terzo partner commerciale dell’Iran con un business economico di oltre 20 miliardi di euro. Dalle auto agli aerei, dall’energia alle banche e agli investimenti, numerose grandi aziende europee avevano scommesso proprio sull’Iran dopo la firma dell’accordo. Ora tutto rischia di andare in fumo. La fine delle sanzioni tre anni fa aveva rialzato l’economia iraniana (+13% nel 2017) ma già quest’anno la Banca mondiale prevede una netta frenata con la riattivazione del blocco economico e a penalizzare l’Iran sarà soprattutto il taglio delle esportazioni di petrolio. Preoccupazione anche per l’Italia, primo partner europeo di Teheran, le cui imprese erano rientrate a tutti gli effetti nel mercato iraniano. Dall’Eni alle Ferrovie, Ansaldo, Danieli, Fata e altre, è lungo l’elenco delle aziende italiane che dopo il 2015 hanno ripreso i loro affari con la nazione persiana facendo risalire l’interscambio nel 2017 a 5 miliardi di dollari. Per l’Europa si apre ora un altro grosso problema che investe non solo l’economia ma mette in discussione gli stessi rapporti diplomatici tra l’America e il Vecchio Continente. Trump intende porre sanzioni a tutti i Paesi, compresa l’Italia, che continueranno a commerciare con Teheran dopo la cancellazione dell’accordo sul nucleare. Il presidente iraniano Rouhani chiede invece agli europei di preservare l’accordo e di garantire la salvaguardia degli interessi iraniani sulla vendita di petrolio e gas, sui rapporti bancari e sugli investimenti. Ma chiede anche alle cancellerie europee di decidere in fretta perchè il tempo stringe. Se non avrà il sostegno necssario da parte dell’Europa l’Iran è pronto a riprendere i piani per l’arricchimento dell’uranio e arrivare prima o poi a possedere la bomba atomica. Una scelta pericolosa che potrebbe innescare una nuova corsa alla proliferazione nucleare nella regione. I sauditi hanno già detto di essere pronti a sviluppare l’atomica se Teheran farà ripartire il suo programma nucleare. Ma le minacce non riguardano solo l’atomica ma il rischio che la decisione di Trump di cancellare il patto del 2015 possa spingere l’Iran ad attività ancora più destabilizzanti di quelle attuali in tutto il Medio Oriente. Nucleare a parte, è proprio la presenza militare iraniana, sempre più massiccia e invadente in Siria e in altri Paesi, a dar fastidio a Trump e agli israeliani. Dalla Siria allo Yemen i fronti degli ayatollah in guerra cominciano a essere troppi. I tentacoli della piovra persiana si allungano da Teheran all’Atlantico. Ai russi è arrivata perfino la richiesta di poter ormeggiare le navi della Marina iraniana nel porto di Tartous, base navale russa in Siria, mentre il lontanissimo Marocco ha rotto le relazioni diplomatiche con l’Iran accusandolo di armare il Polisario, il movimento armato che si batte da sempre per l’indipendenza del popolo Saharawi. In Iraq le prime elezioni dopo la sconfitta dell’Isis (solo il 44% alle urne) sono state vinte dal leader radicale sciita Moqtada al -Sadr che ha ridimensionato il premier uscente al Abadi e frenato l’uomo di Teheran, il capo delle milizie sciite al Amiri che continuerà comunque a tutelare gli interessi iraniani in Iraq. Ecco dunque il piano di Trump per far cadere il regime degli ayatollah e troncare di netto il sostegno alle forze sciite nei Paesi islamici in guerra, a quarant’anni dalla presidenza dello sfortunato Jimmy Carter. Strappare l’accordo sul nucleare per far collassare l’economia iraniana con durissime sanzioni al fine di far insorgere la popolazione contro i suoi leader e porre fine alla rivoluzione khomeinista. Con Trump alla Casa Bianca e il super falco John Bolton, già cowboy di Bush, e oggi capo della sicurezza nazionale degli Stati Uniti, tutto è possibile.

 

(dal settimanale “La Voce e il Tempo”)

 

 

Scontro frontale: i genitori della sposa morti il giorno del matrimonio

DALLA CAMPANIA

I genitori della sposa avevano appena preso parte al matrimonio della propria figlia celebrato  a Montefalcone di Valfortore . Stavano andando al pranzo nuziale  verso Benevento quando, mentre erano a bordo di un’utilitaria guidata dall’ altro loro figlio, è avvenuto uno scontro frontale contro un furgone della Protezione civile. Nell’incidente sono morti all’istante i due genitori, lui di 72 anni e la moglie di 65, e il fratello è stato ricoverato in ospedale  L’auto avrebbe urtato un muretto all’ingresso di una galleria per poi sbandare invadendo  la corsia opposta dove stava passando  il mezzo di un’associazione della Protezione Civile.

 

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Ali sul lago: le Frecce Tricolori a Verbania

Venerdì 18 maggio, presentazione; sabato 19, preparazione e prove, Domenica 20, esecuzione. Un evento come quello che sta per andare in onda non c’è tutti i giorni: chiamato “ALI SUL LAGO”, è una manifestazione unica nel suo genere, uno spettacolo nel cielo e sul lago, in questo caso il bacino del Lago Maggiore che sta di fronte a Pallanza (Verbania, ricordiamo, è formata da Intra e Pallanza: da quest’ultima frazione saranno meglio visibili le figure e le acrobazie aeree). La presentazione- spiegazione è avvenuta a Verbania, al Teatro Maggiore, venerdì 18. Presenti il Sindaco Silvia Marchionini e i più autorevoli rappresentanti e dirigenti dello spettacolo acrobatico: il Comandante Pilota Alitalia Maurizio Viti e il Ten- Colonnello Mirco Caffelli (seduti al tavolo della presentazione, nella foto, con la Sindaca). “Per me è la prima volta (s’intende che “per la prima volta” Caffelli ha questo importante incarico di comando di tutta la Pattuglia ndr): le Frecce tricolori hanno questo importante compito di rappresentare le Forze Armate. Le prove di sabato si faranno utilizzando fumi bianchi”. Alla presentazione hanno preso parte attiva anche Mauro Piras, pilota istruttore (di Biella) e il “nostro” Comandante della Navigazione Lago Maggiore Ing. Gian Luca Mantegazza. Nel presentare le caratteristiche più importanti del piano per cercare di dare ordine e limitare il traffico, sia lacustre che di terra, Mantegazza ha raccomandato a tutti di non utilizzare l’auto nelle vicinanze di Pallanza. “Per tornare a casa ci saranno i battelli, non usate l’auto!”. Ci sarà persino un servizio di elicottero da Fondotoce. Il Comandante della Polizia Urbana di Verbania, Ignazio Cianciolo, ha poi aggiunto le ultime raccomandazioni, informando anche del servizio–navetta da Intra a Pallanza.

Elio Motella

 

AMMAN, ATMOSFERA E SAPORI DI UNA CITTA’ DA SCOPRIRE

La Giordania non è solo Petra o Wadi Rum ma anche angoli e scorci di un posto, la capitale, che ci porta magicamente indietro nel tempo, dove le lancette dell’orologio sembrano scorrere con un altro ritmo

 

Viverci tre anni, immergersi nella cultura, respirare l’aria secca del deserto densa di profumi come quello del knafeh, il dolce tipico giordano, vibrare con il richiamo alla preghiera 5 volte al giorno o destreggiarsi in un traffico indisciplinato ma sorridente è stata una esperienza davvero unica. Ci ero stata in vacanza 4 anni prima, in tempi non sospetti, cioè quando non sapevo di doverci andare a vivere. Tutto era già apparso bello, accogliente e irripetibile come Petra, un luogo magico perso nell’altopiano desertico, vite d’altri tempi, colori incredibili sotto un cielo sempre azzurro. Jerash, un meraviglioso sito archeologico che divenne importante al tempo dei Romani, che con il Tempio di Zeus, l’Arco di Adriano, il Teatro magnifica un intero paese. E ancora i Castelli del deserto, Wadi Rum, il Mar Morto, Um Umquais, Aquaba, Monte Nebo e Madaba, luoghi magnifici intrisi di storia, cultura, arte, una natura invincibile ed originalità.

In Giordania però c’è altro,   una vita da spendere ad un ritmo diverso, abitudini che ci catapultano   almeno in un secolo fa, rituali pigri e rilassati che non appartengono certamente al nostro modo di vivere occidentale. Ad Amman, la capitale di questa isola nel deserto, si può fare questa esperienza vivendo luoghi fuori dai circuiti turistici, posti che hanno mantenuto una melodia comoda e imperturbabile.  Una prova di questa esistenza scandita da un battito lento è tangibile nelle abitudini quotidiane come nei bar per esempio. Non si entra per un cappuccino e si scappa, non esiste il caffè al bancone, si ordina e si aspetta seduti, dieci, quindici, anche venti minuti, nessuno sembra avere fretta, si chiacchera, si lavora, ci si prende il proprio tempo e si onora la bevanda per noi accuratamente preparata, inutile lamentarsi del ritardo perché avremo solo un sorriso come risposta.

Nel quartiere di Jabal Al Weibdeh, uno dei più antichi di Amman, sono numerosi i bar dove ci si può fermare, fermare davvero intendo. Rumi, per esempio, è un posto delizioso dove caffè, te, torte e persino il cappuccino sono davvero buoni. In questo quartiere, fuori dai giri organizzati, che vale la pena di vedere se si vuole conoscere la vera Giordania, ogni cosa è tipica: negozi di artigianato, residenze in stile arabo, come la villa rosa sul viale principale, gallerie d’arte, negozi di abbigliamento un po’ datati e una bellissima moschea. Mangiare al Beit Sitti, un ristorante locato in una vecchia dimora, è una esperienza sicuramente da fare, le pietanze infatti , arabe ovviamente, come il pane o i fagottini ripieni di riso, si impara a cucinarle e poi a mangiarle con calma, godendo della compagnia, soddisfatti per aver fatto una lezione di cucina locale. Un posto che non dimenticherete è Darat al Funun, una galleria d’arte, una terrazza, una biblioteca, la vista sulla Cittadella: la zona archeologica della città.

Un altro luogo dove passeggiare in piena atmosfera folcloristica è Jabal Amman e precisamente Rainbow Street, una deliziosa strada decorata da ville vecchio stile, negozi di artigianato e antichità, uno splendido negozio di prodotti di bellezza, Trinitae. Il venerdì, da maggio a luglio, c’è un delizioso mercatino dove si possono trovare oggetti nuovi e antichi, vestiario, artigianato, cibo e soprattutto colori e vitalità. La visita in questa zona non può dirsi completa se non ci si ferma al Books@cafe un bar con libreria e una terrazza che si affaccia su una delle valli della città, un posto adorabile e accogliente. Un altro ristorante degno di nota è il Wild Jordan Cafe che all’interno ospita una boutique che vende oggetti ricavati da materiali naturali e un punto dedicato ai viaggiatori con proposte di percorsi cittadini e naturalistici. Ovviamente non si può non citare il centro vecchio,  Wasat al Balad o Downtown, un souk a cielo aperto, vie fittissime di negozi, spezie, mercato della frutta, oreficerie, abiti locali, profumi, sapori mediorientali. Il caos, il traffico e il disordine saltano subito all’occhio ma ci si abitua, si entra nella vera Amman, ci si addentra in Giordania, quella reale, con tutte le sue particolarità, il suo carattere forte e tenace, ma anche gentile e possibilista. Un ultimo consiglio è ammirare la città di notte, con le sue 14 colline (Jabal) illuminata da migliaia di luci bianche intervallate da quelle verdi dei minareti, Amman ci offre un paesaggio magico da Mille e una Notte, una vista unica, ipnotica e piena di fascino.

 

Maria La Barbera

 

Per la fila all’anagrafe gli stacca l’orecchio con un morso

DAL LAZIO

La  polizia ha rintracciato e arrestato il 61enne che ieri mattina ha staccato con un morso il lobo dell’orecchio a un uomo nel corso di una lite nell’Ufficio Anagrafe di zona Portonaccio a Roma. E’ accusato di lesioni personali gravissime. Sembra fosse intervenuto per difendere la moglie che stava litigando con quella persona per questioni di fila.

Mauthausen, all’ombra della “fortezza di pietra”

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Cinquanta studentesse e studenti, accompagnati dalla storica Elisa Malvestito dell’Istituto storico della Resistenza e della Società contemporanea di Biella-Vercelli e da dieci docenti hanno partecipato, dall’11 al 13 maggio al viaggio studio al campo di concentramento di Mauthausen e al Memoriale di Gusen, in alta Austria. Secondo e penultimo degli appuntamenti finali della 37° edizione del progetto di Storia Contemporanea, il viaggio è stato organizzato dal Comitato Resistenza e Costituzione del Consiglio regionale del Piemonte.

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Il Danubio, le leggi di Keplero e gli anni giovanili di Hitler

Linz è stata la prima meta del viaggio.  Tra le tre città più importanti dell’Austria è anche anche una delle località più conosciute e culturalmente affascinanti dell’Europa centrale. Capitale europea della Cultura nel 2009, annovera tra i suoi cittadini illustri l’astronomo e matematico tedesco Keplero che nel 1618 vi scoprì le leggi che regolano il movimento dei pianeti. Ma la città sul Danubio è nota anche per aver ospitato Adolf Hitler – nato a Braunau, in Alta Austria – quando, negli anni della sua giovinezza, aspirava a diventare un pittore.

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Mauthausen,simbolo dei lager nazisti

A venti chilometri da Linz, Mauthausen rappresenta nell’immaginario collettivo uno dei simboli dei lager nazisti, al pari di Auschwitz. La sua istituzione risale all’8 agosto 1938, alcuni mesi dopo l’annessione dell’Austria alla Germania nazista mentre la sua liberazione, per opera delle truppe alleate, data al 5 maggio 1945. Mauthausen era il “campo madre” di un gruppo di una quarantina di strutture concentrazionarie, di diverse dimensioni, sparse in buona parte dell’Austria. Edificata con il granito della sottostante cava, l’incombente fortezza di pietra ricorda nel suo profilo architettonico uno stile orientaleggiante, tanto che i prigionieri ne ribattezzarono la porta d’accesso principale con il nome di “porta mongola”.

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Campo di lavoro e prigionia durante la “grande guerra”

A Mauthausen, già durante la Prima guerra mondiale, l’Impero Austro-ungarico aveva individuato un luogo di internamento e prigionia per quei militari degli eserciti nemici catturati durante i combattimenti sul fronte orientale e meridionale. Anche allora i prigionieri venivano obbligati al lavoro nella cava di granito, utilizzato per la pavimentazione delle strade. Tra il 1914 e il 1918 vi confluirono circa 40mila persone, perlopiù di origine russa, serba e italiana. Di esse almeno novemila vi perirono, tra cui 1.759 nostri connazionali, a causa della fame e degli stenti, anche se il campo di prigionia di allora nulla aveva a che fare con quello che vent’anni dopo venne istituito dai nazisti.

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Gli oppositori rinchiusi nella “fortezza di pietra”

La quasi totalità di quanti vennero  rinchiusi a Mauthausen tra il 1938 e il 1945 lo fu per ragioni politiche o razziali: la parte restante era costituita da delinquenti comuni, i cosiddetti “asociali” e gli appartenenti ai popoli zingari. Complessivamente i prigionieri furono circa 200mila di cui 50mila polacchi, 40mila sovietici, 40mila ebrei (perlopiù ungheresi e polacchi), 6.781 italiani e 127 donne. Tra l’agosto 1938 e il luglio 1945 (calcolando anche chi perse la vita dopo la liberazione a causa degli stenti patiti) le morti furono 100mila, praticamente la metà di quanti furono internati tar quelle mura. Un numero pazzesco, al quale vanno aggiunti quanti furono sterminati con il gas, nel vicino castello di Harteim e nella camera a gas del lager, dove veniva usato il mortale Zyklon B a base di acido cianidrico (o acido prussico). Altri ancora furono uccisi con il ricorso ai Gaswagen, veicoli sigillati dove i malcapitati erano soffocati dai gas provenienti dai tubi di scappamento.

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La cava e i 186 gradini della “scala della morte”

L’orario di lavoro nel lager era di undici ore.La razione di cibo quotidiana non superava le 1.500 calorie (ma spesso era inferiore), corrispondente a meno della metà di quella necessaria. Le conseguenze erano la fame cronica e la malnutrizione, le malattie e, da ultimo, la morte. Nei primi di anni la durata media della vita degli internati raggiungere i quindici mesi poi, con il passare del tempo, diminuì a sei e, nei periodi più duri e drammatici, a tre. La “scala della morte”collegava  con la sottostante cava per l’estrazione del granito. Lungo i centottantasei gradini di questa scala scavata nella roccia della collina,  i deportati erano costretti a salire e scendere più volte al giorno, portando a spalla sacchi pieni di massi. Chi cadeva esausto, travolgeva i compagni di sventura con un terribile effetto-domino. Oppure i prigionieri venivano allineati lungo il bordo del precipizio, definito con nero sarcasmo dalle SS come il “muro dei paracadutisti”, costretti a scegliere se ricevere un colpo di pistola o gettare nel vuoto il compagno al proprio fianco. “La cava era là, con i suoi 186 gradini irregolari, sassosi, scivolosi. Gli attuali visitatori della cava di Mauthausen non possono rendersi conto, poiché in seguito i gradini sono stati rifatti – veri scalini cementati, piatti e regolari – mentre allora erano semplicemente tagliati col piccone nell’argilla e nella roccia, tenuti da tondelli di legno, ineguali in altezza e larghezza”. La descrizione resa dal giornalista francese Christian Bernadac, figlio di un deportato,  nel suo libro “I 186 gradini o Tra i morti viventi di Mauthausen”, pubblicato nel 1974, rende l’idea di quell’ inferno.

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I tre sottocampi di Gusen

I tre sottocampi intorno al villaggio di Gusen, a poca distanza da Mauthausen, denominati Gusen I, Gusen II, Gusen III, costituirono una realtà a sé per l’alto numero di deportati e l’estrema durezza delle condizioni di prigionia e di lavoro. Aperti dal 1939 per lo sfruttamento delle vicine cave di granito, dal 1941 – anno d’installazione del crematorio – vennero avviate le eliminazioni sistematiche di malati, inabili, portatori sospetti di malattie contagiose con bagni di acqua gelida, annegamenti di massa, iniezioni al cuore, gassazioni. Nel marzo del 1944 iniziarono i lavori per la costruzione del campo di Gusen II (St. Georgen). I deportati, oltre a costruire il campo, lavorano allo scavo di un sistema di gallerie entro le quali vengono collocati impianti per la produzione di armi e parti di aerei (Steyr-Daimler, Messerschmitt). In dicembre iniziò la costruzione di Gusen III, destinato alla produzione di laterizi. A Gusen passarono complessivamente 60mila prigionieri, di cui circa tremila italiani. Almeno la metà vi lasciò la vita. Nel tempo il campo di Gusen I ha subito un’alterazione della sua fisionomia, ospitando ora una complesso di abitazioni residenziali. Non vi è più traccia di recinzioni, baracche o altre strutture. Resta riconoscibile, anche se ora è una villetta abitata, l’edificio dell’ingresso e del comando del campo. Il Memoriale venne realizzato grazie alla decisione dell’ANED e di altre organizzazioni di ex deportati – in primo luogo francesi – di acquistare sul finire degli anni ‘50 il lotto di terreno su cui sorge per non disperdere la memoria di quanto accadde. All’interno della costruzione si trova il forno crematorio originale del campo, oggi di proprietà del governo austriaco.

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Cosa resta del viaggio…

Il  viaggio, la visita al lager, la condivisione della medesima esperienza in luoghi che hanno segnato tragicamente il ‘900 rappresentano oltre che un occasione per fare memoria uno stimolo per diventare a propria volta testimoni di una delle pagine più orribili della storia moderna, ora che i deportati sopravvissuti sono quasi del tutto scomparsi per ragioni anagrafiche. Il dovere civile di testimoniare serve come antidoto democratico nei confronti di tutte le ideologie malate che  tendono a cancellare l’altro, il diverso, negando il pluralismo e qualsiasi forma di rispetto e convivenza. Il principale obiettivo che da oltre quarant’anni  impegna il Comitato Resistenza e Costituzione del Consiglio regionale del Piemonte nei confronti delle nuove generazioni è quello di contribuire a far sì che non vengano dimenticate le lezioni della storia.

Marco Travaglini

Spazzino muore investito da autobus

DAL VENETO

Un autobus ha investito, uccidendolo, un operatore ecologico di 57 anni  della ditta che provvede alla raccolta dei rifiuti nel comune di Abano Terme. L’uomo è morto mentre stava sostituendo i sacchetti della spazzatura lungo la strada. L’operatore ecologico è originario di Piove di Sacco e abita a Codevigo. Stava risalendo nell’abitacolo del suo mezzo e in quel momento è rimasto schiacciato. L’autista dell’autobus è stato denunciato dai carabinieri per omicidio stradale.

Zenica, dove “il bene” contrasta “il male”

Provate a immaginare cosa voglia dire veder arrivare amici come quelli di cui si parla in questo libro, amici che ti aiutano a guarire, che t’istruiscono su come proteggerti. Se anche con questo progetto aves­simo salvato una sola vita, il suo scopo sarebbe stato già soddisfacente. Invece parliamo di centinaia e centinaia di donne curate e salvate, oltre a quelle che, grazie a un sistema integrato di osservazione, cura e trattamento, saranno salvate in futuro”. Così scrive, a commento di “Tra il bene e il male” (Infinito edizioni,2017) , Azra Nuhefendić, giornalista di origine bosniaca che da più di vent’anni vive e lavora a Trieste. Una storia di quelle che contano, straordinariamente importante, sulla dura e quotidiana battaglia contro tumori e inquinamento a Zenica, nel lungo e difficile dopoguerra della Bosnia. A raccontarla è  RE.TE , una Ong italiana da trent’anni impegnata in un percorso che accompagna i processi di miglioramento della qualità della vita delle comunità in Africa, America Latina, Balcani ed Europa, per restituire dignità a quella parte di popolazione che vede negati ipropri diritti al cibo, all’istruzione, all’infanzia, alla salute, a un lavoro degno, alla terra. Il libro che raccoglie questa vicenda e  che – come si vedrà – lega la comunità piemontese a quella del Cantone bosniaco-erzegovese di Zenica-Doboj, è curato da Alessia Canzian con la prefazione di Lidia Menapace e l’introduzione di Maria Cinzia Messineo.

Sono molti i protagonisti di questa sto­ria “corale”, iniziata subito dopo la fine della guerra in Bosnia Erzegovina (1992-1995) e ancora non del tutto conclusa. Una storia d’impegno e solidarietà concreta che ha visto protagonisti donne e di uomini che hanno investito una parte della loro vita per realizzare un desiderio di sviluppo equo. Una realtà che ho potuto conoscere da vicino. Anni fa sono stato a Zenica, la quarta città più grande della Bosnia,  capoluogo del cantone di Zenica-Doboj. Si trova circa 70 km a nord di Sarajevo ed è circondata da colline e montagne, mentre la Bosna, il fiume che dà il nome alla nazione, l’ attraversa per intero. Lì era stato avviato un piano sanitario, partendo da una piccola località – Breza – per estenderlo a tutto il territorio del cantone, che prevedeva  un programma di screening dei tumori femminili al collo dell’utero  e l’istituzione di un Polo Oncologico presso l’ospedale del capoluogo, grazie all’aiuto e alle competenze della Regione Piemonte e della Rete Oncologica che ha sede alle Molinette, in corso Bramante a Torino. Un progetto importante perché a Zenica (circa centoquindicimila abitanti) e nel suo cantone (oltre settecento mila) non esistevano nessuna indagine epidemiologica, nessun intervento preventivo per i tumori, nessuna struttura ospedaliera che potesse offrire una cura di contrasto alle neoplasie in regime di  day hospital. Per curarsi ( chi poteva economicamente permetterselo, ovviamente) occorreva andare a Sarajevo o a Zagabria, in Croazia. Così, con un lungo e paziente lavoro, nel maggio del 2008, è stato inaugurato il Polo oncologico dell’ospedale cantonale di Zenica, come logica continuazione dell’esperienza pilota di screening oncologico avviata anni prima nel Comune di Breza e nel Cantone. Un progetto che ha permesso la totale ristrutturazione di un ala dell’edificio della casa di cura per ospitare il reparto di oncologia e lo svolgimento delle attività di formazione in Serbia, a Belgrado,  e in Italia, aTorino, per i medici e per gli infermieri. Oggi l’ospedale cantonale di Zenica, grazie a questo lavoro, alle verifiche ed alla progettazione di percorsi diagnostico-terapeutici svoltisi in questi anni, può disporre di un servizio di oncologia provvisto di posti letto di ricovero ordinario, di day hospital e di spazi dedicati all’attività ambulatoriale. E siccome da cosa nasce cosa, è stata avviata la nuova anatomia patologica, rinnovata nei locali e nelle attrezzature, ed è entrata in funzione la radioterapia. Un’importante e insperata opportunità di avere una possibilità di cura contro i tumori per i cittadini di una delle città più inquinate e a rischio sociale dell’intero Paese. Anni di cooperazione decentrata vengono narrati in un racconto che dimostra come nascono, prendono avvio, si evolvono e giungono a felice compimento i buoni progetti di cooperazione internazionale. Un esempio positivo di contrasto al problema di fondo, all’eredità “nera” della guerra nei Balcani che ha prodotto un “buco nell’anima”: il disagio e le depressioni, i suicidi, il diabete e il “male oscuro”  del cancro, originato dalla pessima alimentazione, dall’uranio impoverito dei proiettili che anche in Bosnia sono stati sparati. Un pessimo lascito che pesa come un macigno.

Marco Travaglini

KUWAIT: LA SCHIAVITU’ NASCOSTA DEI FILIPPINI IMMIGRATI

FORUM INTERNAZIONALE  di Filippo Re

Maltrattati, picchiati, trattati come schiavi e spinti al suicidio. È la condizione dei lavoratori filippini nel Kuwait, oltre 250.000 su una popolazione di 4,2 milioni, la maggioranza dei quali è impiegata come personale di servizio, soprattutto domestici, in gran parte donne, costretti a lavorare fino a 20 ore al giorno. Sette lavoratori filippini sono morti di recente in circostanze misteriose. Il governo delle Filippine ha sospeso l’invio di lavoratori in Kuwait dopo che il presidente Rodrigo Duterte ha dichiarato che gli abusi da parte dei datori di lavoro hanno spinto diversi domestici a suicidarsi. Il Ministro del Lavoro ha affermato che non verranno più inviati lavoratori filippini in Kuwait in attesa delle indagini sulle cause di morte dei cittadini che risiedevano nel Paese del Golfo da tre anni. Il presidente filippino ha dichiarato che le Filippine hanno “perso quattro donne” in Kuwait, riferendosi alle aiutanti domestiche suicidatesi in seguito a maltrattamenti. Duterte ha affermato di essere a conoscenza di molti casi di abusi sessuali contro donne filippine e ha voluto sollevare la questione con il governo del Kuwait che, sorpreso dalle decisioni del presidente filippino, ha fatto sapere che tutti i lavoratori stranieri sono protetti da leggi che li proteggono dagli abusi. Oltre 2,3 milioni di filippini sono registrati come lavoratori all’estero e inviano a casa ogni mese più di 1,6 miliardi di euro. Come avviene in molti Paesi arabi, per controllare i lavoratori stranieri che operano soprattutto nell’edilizia e come domestici, viene usato il sistema “kafala”, sistema di sponsorizzazione. Questa pratica, severamente criticata dalle organizzazioni per i diritti umani, prevede che tutti i lavoratori abbiano uno sponsor interno che generalmente è il datore di lavoro che ha il potere di ritirare il passaporto ai dipendenti in qualunque momento e obbligarli a lavorare anche 20 ore al giorno ma si parla anche di violenze sessuali e maltrattamenti. Il Kuwait è da molti anni la meta preferita di numerosi migranti economici provenienti dal mondo arabo e dall’Asia ma nei kuwaitiani cresce il malumore per l’eccessivo numero di stranieri presenti nel Paese, i due terzi di 4 milioni di abitanti.

Filippo Re