DALLA TOSCANA Sono 10 i medici iscritti nel registro degli indagati dalla procura di Pisa nell’ambito dell’inchiesta sulla morte del piccolo di due mesi, morto il 27 maggio nel reparto di neonatologia dell’ospedale pisano dove era ricoverato per una caduta dalle braccia del padre, anch’egli indagato. Come scrive il quotidiano “il Tirreno” si tratta di medici che, nelle diverse operazioni del ricovero, hanno avuto a che fare con la cura del bambino.
“Sarajevo Rewind. 2014 >1914”
Il 28 giugno 1914 a Sarajevo due colpi di pistola misero fine alla Belle Époque dando origine al “secolo breve”, il secolo delle guerre mondiali, dei conflitti di massa, dei regimi totalitari, delle grandi ideologie e delle immani tragedie. Gavrilo Princip e Franz Ferdinand sono i protagonisti di questo frammento di storia. Trascorsi oltre cento anni dall’attentato che nei libri di storia è indicato come il casus belli che dette inizio alla prima Guerra Mondiale, un documentario degli storici Eric Gobetti e Simone Malavolti ci porta alla scoperta di luoghi, testimonianze,tracce storiche e biografiche dei due protagonisti:l’attentatore Gavrilo Princip e l’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo, erede al trono austro-ungarico. “Sarajevo Rewind. 2014>1914” è un film importante, tenacemente pensato e voluto dai due storici che ne hanno firmato soggetto e regia, ottenendo l’indispensabile aiuto di tanti attraverso il crowdfunding e il supporto tecnico dell’ Istituto Alcide Cervi. Le strade percorse da Eric e Simone sono le stesse scelte da Gavrilo Princip e Francesco Ferdinando d’Asburgo, rispettivamente da Belgrado e da Vienna, per raggiungere Sarajevo dove all’altezza del ponte Latino, all’incrocio con una strada posta sulla riva destra del fiume Miljacka, s’incrociarono i loro destini. Il film propone la riedizione dei due viaggi attraverso confini e storie dell’Europa di oggi, in un dialogo costante tra passato e presente, fra le chiacchiere dei bar e le interviste agli storici, mentre emergono conflitti identitari, memorie contrastanti, il difficile rapporto – quando mai attuale – fra nazioni, nazionalismi e realtà politiche sovra e pluri-nazionali. Un intreccio inquietante se lo si legge affiancando tutto con la cronaca dell’oggi, mentre i Balcani sono tornati ad essere una delle rotte dei migranti e Sarajevo ne ospita a migliaia, accampati un pò ovunque. “Sarajevo Rewind. 2014>1914” (il cui dvd è disponile prenotandolo all’indirizzo mail sarajevo.rewind@gmail.com ) fa riflettere con la sua originalità ben documentata su cosa rimane, cent’anni dopo, di quel mondo e come sono rimasti nella memoria questi due protagonisti della storia del Novecento. Una moderna lezione di storia in video, come racconta Eric Gobetti: “Da una parte abbiamo una realtà balcanica che è molto più “balcanizzata” oggi di allora. Nel senso della marginalizzazione, del ritardo e dell’esclusione sia politica che economica, dal resto dell’Europa. Belgrado era una grande capitale in espansione; da Sarajevo si andava in giornata in ogni parte dell’Impero”. “ Oggi sono luoghi a parte,soprattutto nell’immaginario del resto d’Europa”, racconta lo storico torinese. “Dall’altro lato abbiamo un’Unione Europea che sembra afflitta dagli stessi problemi dell’Impero Austro-Ungarico: mancanza di democrazia, se non apparente; scarso rispetto dei popoli e delle nazioni, che infatti genera successi elettorali dei partiti nazionalisti; elefantiasi burocratica e sistema economico troppo ingessato. Insomma, gli ingredienti per un parallelo ci sono tutti, poi certo, c’è anche tanta differenza: è passato un secolo ma per molti versi pare un millennio!”.
DALLA CAMPANIA La Cassazione ha detto sì al licenziamento dei cinque operai della Fiat che nel 2014 organizzarono il finto funerale dell’ad Sergio Marchionne ai cancelli dello stabilimento di Pomigliano d’Arco. Vennero licenziati dall’azienda ma la sanzione fu annullata dalla Corte d’appello di Napoli che ne ordinò il reintegro, escludendo la giusta causa. Ieri la Suprema Corte ha accolto il ricorso dell’azienda e detto sì ai licenziamenti. Uno dei cinque operai si è incatenato a un palo davanti alla casa del ministro del Lavoro Luigi Di Maio e si è cosparso la testa con una bottiglia di benzina. Il vicepremier è andato a fargli visita.”Da ministro – ha commentato Di Maio – gli ho detto che è una sentenza che va rispettata ma per noi non deve essere un alibi”.
Una giovane di 22 anni è morta questa mattina a Galliate, nel Novarese, investita da un carro funebre. Il conducente, colto da malore, ha investito la ragazza che si trovava sulla traiettoria del veicolo rimasto fuori controllo. Stroncato da infarto è deceduto anche il conducente del mezzo. (Foto archivio)
Libri e Islam
FOCUS INTERNAZIONALE di Filippo Re
Alcuni libri per saperne di più sull’Islam. Sono infatti tante le domande che ci poniamo sul mondo arabo-islamico. Un mondo plurale, fatto di tanti islam diversi, molto complessi e non sempre facili da capire. Quesiti che nascono dalla nostra curiosità, dal desiderio di conoscenza e anche da dubbi e timori su temi che hanno profonde implicazioni religiose, politiche e sociali. A queste domande cerca di rispondere la collana editoriale “Islam: saperne di più” delle Edizioni Paoline in collaborazione con il Centro studi sull’islam Federico Peirone. I libri, già pubblicati e presentati al Salone del Libro, sono “Corano, identità e storia” e “Maometto, inviato di Dio e condottiero”, di Augusto Negri, sacerdote, insegnante di storia dell’islam alla Facoltà Teologica di Torino e direttore del Centro Peirone, “Jihad, significato e attualità” e “Sharia, legge sacra e norma giudirica”, entrambi di Silvia Scaranari Introvigne, studiosa dell’islam, ed “Etica islamica, ragione e responsabilità” di Marco Demichelis, docente all’Università Cattolica di Milano. Ogni volume, curato da specialisti del settore, si occupa di un particolare aspetto della fede, della storia, della cultura musulmana e del costume.
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Scritti in modo semplice ed esauriente, i libri, arricchiti di note e bibliografia, si rivolgono a un vasto pubblico. Il Corano, libro sacro dei musulmani, viene a volte difeso e talora messo sotto accusa, ma con quanta cognizione di causa? L’autore del libro, Augusto Negri, offre risposte chiare e minuziose alle tante domande che ci poniamo. Nel libro su Maometto, don Negri ricostruisce invece le due fasi della vita del Profeta: alla Mecca, come inviato di Allah e a Medina come condottiero e fondatore dello Stato politico-religioso islamico. Silvia Scaranari affronta invece il fenomeno del jihad armato che, dopo i tanti attentati terroristici degli ultimi anni, è entrato con forza e prepotenza nelle nostre case. L’autrice ricostruisce il significato del termine a partire dalla dottrina, sviluppando la parte storica fino ad oggi. Nell’altro libro sulla Sharia, la studiosa presenta una sorta di vademecum per orientarsi tra i frequenti riferimenti alla legge sacra dell’islam presenti nell’attualità ricostruendo i rapporti della sharia con la legge e gli usi locali. Marco Demichelis nel suo “Etica islamica” chiarisce invece gli aspetti morali dell’islam in riferimento alla dottrina, ai 5 “pilastri” e alle peculiarità storiche e teologiche attraverso un’analisi che ripercorre i lunghi secoli di vita della religione islamica. I volumi sono in vendita nelle migliori librerie di Torino tra cui le cattoliche Paoline e al Centro Peirone in via Mercanti 10.
Anche le statue muoiono, sfregiate o decapitate, i musei vengono saccheggiati, i siti archeologici devastati dalla follia umana. Interi patrimoni culturali distrutti dalle guerre e dai barbari moderni. Come ci ricordano le mostre allestite al museo Egizio, alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e ai Musei Reali a Torino, fino al 3 giugno, per riflettere sull’importanza e sulla protezione del patrimonio artistico, dai tempi antichi fino ai giorni nostri. Dagli Egizi alle nefandezze dell’Isis e dei talebani, le guerre hanno spesso cancellato patrimoni culturali vecchi di millenni, come viene messo in rilievo nelle rassegne torinesi. Anche i maestosi templi dell’antichità non sono scampati a questo destino e anche noi italiani abbiamo distrutto una delle meraviglie del mondo antico. Accadde ad Atene alla fine del Seicento quando i veneziani demolirono nientemeno che il Partenone sull’Acropoli, visitato ogni anno da milioni di turisti. “L’abbiamo fatta grossa! Non si può distruggere la più bella antichità del mondo in una Atene ornata di antiche vestigia di celebri ed erudite memorie”. Il giorno successivo a quella terribile esplosione, Francesco Morosini non si dà pace, ben consapevole del disastro compiuto, e cerca di giustificarsi dicendo di aver colpito il Tempio di Minerva (o Atena) per sbaglio, ma non fu un errore. Il Partenone (V secolo a.C.), sull’Acropoli ateniese, fu preso di mira volutamente. Ebbene sì, i veneziani sbriciolarono il maestoso Tempio greco con un colpo di mortaio. La notizia fece rabbrividire l’intera Europa: al patrimonio culturale mondiale era stato inferto un colpo durissimo. Ecco cosa avvenne il 26 settembre 1687. Venezia era ancora una grande potenza sul mare e sulla terraferma. Dopo aver occupato la Morea (il Peloponneso), i veneziani, guidati dal condottiero Francesco Morosini, che diventerà il 108° doge della Repubblica di Venezia, sbarcano al Pireo e assediano la rocca dell’Acropoli ad Atene che a quel tempo era un villaggio di cinquemila abitanti. I turchi ottomani, padroni della Grecia, si erano rinchiusi nel tempio con le famiglie, i generi alimentari, armi e polvere da sparo. Il Partenone, che includeva una moschea e veniva usato come polveriera, sembrava un luogo solido e sicuro e mai nessun nemico avrebbe osato danneggiare un monumento così antico e leggendario. Tra la Repubblica di Venezia e l’Impero ottomano scorreva da secoli un rapporto di amore-odio, le due potenze si combattevano aspramente sui mari ma i conflitti erano intervallati da lunghi periodi di pace e intensi scambi commerciali e culturali. In cifre, 86 anni di guerra e 410 anni di pace ma appena capitava l’occasione per litigare nessuno dei due si tirava indietro. Un micidiale colpo di una bombarda da 500 libbre centrò in pieno il deposito della polvere da sparo distruggendo gran parte dello storico edificio dell’antichità classica, uccidendo 300 persone e provocando un vasto incendio che durò alcuni giorni. La deflagrazione fece franare tre dei quattro muri del luogo sacro e molte sculture dei fregi andarono in pezzi. Crollarono 28 colonne e i locali interni adibiti a chiesa e poi a moschea furono devastati. I frammenti del tempio vennero proiettati a centinaia di metri di distanza. Atene diventò una città veneziana ma il danno arrecato fu immane, uno dei più grandi scempi della storia dell’umanità, un gesto del tutto inutile perchè i veneziani furono costretti a scappare da Atene alcuni mesi dopo per l’arrivo di nuove truppe turche. Per Venezia il trionfo è breve e la sconfitta è dietro l’angolo. I turchi riconquisteranno la Morea e la terranno fino all’indipendenza della Grecia nel 1832. Ma per Francesco Morosini l’assedio dell’Acropoli e la distruzione del Partenone fu un grande successo militare e d’immagine. La Serenissima accolse il capitano generale dell’armata veneziana con tutti gli onori e gli assegnò il titolo onorifico di “Peloponnesiaco”. Dalla spada all’armatura, dai vessilli alle insegne vittoriose collocate sui monumenti e alla Porta di terra dell’Arsenale dedicata a lui, ogni pezzo dell’eroe della campagna di Morea contro i turchi è conservato a Venezia come una reliquia. Ma laggiù restò un Partenone sventrato, demolito dalle bombe veneziane.
Filippo Re
Lo scrittore trasmette la sua passione per la pesca al protagonista del suo romanzo che s’avventura sul lago in compagnia del barman: “Io remavo mentre il barman sedeva a poppa e lanciava la lenza con un’esca a cucchiaino e con un peso al fondo per pescare le trote del lago…“
Tra i personaggi che soggiornarono sul lago Maggiore figura anche Ernest Hemingway, Nobel per la letteratura nel 1954, indimenticato autore de “Il vecchio e il mare”. Hemingway, che venne più volte in Italia, proprio sul “Maggiore” ambientò la parte finale del romanzo “Addio alle armi“, in cui racconta l’esperienza della prima guerra mondiale e l’amore per l’infermiera Agnes Hanna von Kurowsky. Il giovane protagonista del romanzo, il tenente Frederic Henry, dopo Caporetto fuggì dal fronte, e raggiunse a Stresa Catherine, la donna che amava e che aspettava un figlio. Alloggiarono al Grand Hotel des Iles Borromées, dove era arrivato in carrozza (“L’ albergo era molto lussuoso. Percorsi i lunghi corridoi, scesi le ampie scale, attraversai i saloni fino al bar. Conoscevo il barman e mi sedetti su un alto sgabello e mangiai mandorle salate e patatine. Il Martini era fresco e pulito”). Hemingway trasmette la sua passione per la pesca al protagonista del suo romanzo che s’avventura sul lago in compagnia del barman: “Io remavo mentre il barman sedeva a poppa e lanciava la lenza con un’esca a cucchiaino e con un peso al fondo per pescare le trote del lago…Remai verso l’Isola Bella e mi avvicinavo ai muraglioni, dove l’acqua diventava improvvisamente più fonda e si vedeva il muro di roccia scendere obliquo nell’acqua, e poi risalii verso l’Isola dei Pescatori, dove c’erano barche tirate in secco e uomini che rammendavano reti “. Frederic e Catherine sono costretti ad abbandonare l’Italia perché la polizia militare è sulle sue tracce del giovane e sta per arrestarlo come disertore. Decidono così di riparare in Svizzera.
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Partono di notte in barca, nonostante la pioggia, che per fortuna cessa. “Non pioveva più e il vento respinse le nuvole finché apparve la luna e guardando indietro vidi la punta nera della Castagnola ( a Pallanza, ndr) e il lago con frangenti bianchi e più in là la luna sulle alte montagne di neve“. Dopo alcune ore arrivarono a Brissago, località svizzera del Canton Ticino, sulla sponda destra del Verbano, appena varcato il confine con l’Italia. “Era un villaggio simpatico. C’erano molte barche da pesca lungo la banchina e reti stese sui rastrellieri..Spinsi forte sul remo sinistro e mi avvicinai. Poi mi raddrizzai quando fummo vicino alla banchina e portai la barca ben aderente al muro. Rientrai i remi, afferrai un anello di ferro, scesi sulla pietra bagnata ed ero in Svizzera“. “Addio alle armi” (A Farewell to Arms) venne pubblicato nel 1929. La storia narrata si basava, almeno in parte, sulle esperienze personali dello scrittore (che negli ultimi mesi della prima guerra mondiale aveva prestato servizio come conducente di ambulanze nella Croce Rossa Americana, era stato ferito nella notte dell’8 luglio 1918 nell’ansa del Piave in località Buso Burato di Fossalta, colpito dalle schegge causate dall’esplosione di una bombarda austriaca. La storia, d’amore e di guerra , si svolge prima, durante e dopo la dodicesima battaglia dell’Isonzo. Il romanzo non poté essere pubblicato in Italia fino al 1948 perché ritenuto lesivo dell’onore delle Forze Armate dal regime fascista, sia per la descrizione della disfatta dell’esercito italiano, sia per una certa vena antimilitarista sottointesa nell’opera. In realtà, la traduzione italiana in realtà era stata già scritta clandestinamente nel 1943 da Fernanda Pivano, che per questo motivo fu arrestata a Torino. Ernest Hemingway ritornò al Grand Hotel des Iles Borromées di Stresa trent’ anni dopo, nell’ ottobre del 1948,e lasciò scritto sul libro delle firme di essere “An old client”, un vecchio cliente.
Marco Travaglini
Il Tribunale di Verona presieduto da Giulia Rizzuto ha dichiarato il fallimento della Melegatti e della controllata Nuova Marelli. E’ la fine della storia della celebre azienda dolciaria con sede a San Giovanni Lupatoto, nel Veronese. L’istanza di fallimento è stata accolta verificata la pesante situazione debitoria dell’azienda – si parla di 50 milioni – che ha in tutto 350 lavoratori. Poco tempo fa il fondo americano D.E. Shaw & C. aveva presentato un piano di salvataggio e ipotizzato un investimento di 20 milioni di euro per rilanciare l’antica ditta fondata da Domenico Melegatti, che nel 1894 depositò il brevetto del pandoro.
Il Battaglione degli alpini “Intra”, costituito nel 1908 con il nome di “Pallanza”, l’anno successivo alla sua formazione assunse la denominazione che lo rese famoso tra le “penne nere“. Il Battaglione era strutturato su tre compagnie – la 7ª “Di Dio”, la 24ª “Di Corsa” e la 37ª detta “La Nobile” – a cui si aggiunse, durante la prima guerra mondiale – anche la 112ª , quella “Degli Spiriti”. Gli organici del Battaglione “Intra” venivano reclutati tra i giovani dei paesi del Verbano, del Cusio e dell’Ossola oltre che nelle vallate a ridosso della “sponda magra” del lago Maggiore, in quella porzione di territorio lombardo che fa capo alla provincia di Varese. Durante le due guerre mondiali, come battaglioni di mobilitazione, furono “messi in campo” anche il “Valtoce” ed il “Monrosa”, mentre negli anni di gelo e di fuoco della “Grande Guerra” venne costituito un battaglione sciatori, il “Pallanza”. Quest’ultimo , prima di essere sciolto nel 1919, terminato il conflitto, si distinse nella “guerra bianca”, combattendo sul Montello, sul Monte Grappa e nel gruppo dell’Adamello dove, oltre al nemico austriaco, bisognava lottare anche contro le tormente di neve, le valanghe, l’inedia e gli assideramenti causati dalle temperature a volte di 40° sotto lo zero. Le sedi dov’era dislocato il Battaglione “Intra” erano essenzialmente tre: le caserme “Simonetta” di Intra, “Cadorna” di “Pallanza”, “Urli” di Domodossola a cui si devono aggiungere i due distaccamenti a Iselle-Trasquera, a ridosso del passo del Sempione, e nella zona del Montorfano, tra il lago di Mergozzo e il Verbano. La nappina che distingueva gli alpini dell’Intra era verde e il loro “motto” era già un programma: “O u roump o u moeur !”, “O rompo, o muoio”. L’Intra , dopo aver preso parte a numerose battaglie ed operazioni in alta quota durante la prima guerra mondiale, cessate le ostilità venne inviato in Albania unitamente ad una forza multinazionale. In tempo di pace, per le periodiche esercitazioni, le marce ed i campi estivi ed invernali, gli alpini dell’Intra erano impegnati sui molti e sui sentieri di casa, nelle valli dell’Ossola o del Verbano. Il Battaglione prese parte anche alla campagna in Africa Orientale, inquadrato nell’11° Reggimento Alpini, distinguendosi nella battaglia dei laghi Ascianghi dove cadde tra gli altri anche Attilio Bagnolini di Villadossola, medaglia d’oro al valor militare. Nell’ultimo conflitto mondiale l’Intra operò sul fronte francese, passando poi nel 1941 su quello greco-albanese e , nel gennaio del 1942, in Jugoslavia. Dopo l’8 settembre del 1943, gli Alpini dell’Intra vennero colti dall’armistizio in Montenegro e ,dopo la prima fase di sbandamento, iniziarono la lotta antinazista,in un primo momento autonomamente ed in seguito a fianco dell’Esercito popolare di liberazione Jugoslavo di Tito, inquadrati nella IV Brigata della “Divisione Garibaldi”. In Bosnia e Montenegro, alpini e artiglieri, alla guida del capitano Zavattaro Ardizzi, parteciparono a numerose battaglie, liberando le città di Cetinje, Danilovgrad, Podgorica. In quei quindici mesi di disperata lotta partigiana, insieme con tanti altri soldati italiani, con i nemici di ieri contro gli ex alleati, gli uomini dell’Intra seppero riscattare il nome dell’Italia che usciva dalla dittatura, mettendo le basi di quello che diventò poi il nuovo esercito italiano. A guerra finita, il Battaglione “Intra”, all’epoca inquadrato nel 4° Reggimento Alpini della Divisione “Taurinense”, non venne più ricostituito, restando così nei ricordi di coloro che ne fecero parte, in pace come in guerra.
Marco Travaglini
Train de vie, un treno per vivere
Il tema della Shoah in una commedia in cui convivono la comicità, il dramma e la malinconia dell’umorismo yiddish
“C’era una volta un piccolo “shtetl”, un piccolo villaggio ebraico dell’Europa dell’est, era l’anno 5701, cioè 1941 secondo il nuovo calendario. Era d’estate, l’estate del 1941, il mese di luglio, credo… Io fuggivo credendo che si potesse fuggire, da ciò che si è già visto, troppo visto. Correvo per avvertirli. I miei, il mio “shtetl”, il mio villaggio. E questa è la storia, del mio villaggio così come tutti noi l’abbiamo vissuta”. Così Schlomo, il folle, fa ritorno al proprio villaggio con la notizia dell’imminente arrivo dei tedeschi. E’ l’inizio di “Train de vie”, piccolo grande film di Radu Mihaileanu del 1998. Pellicola geniale e surreale, divertente e amara: il regista rumeno, naturalizzato francese, riesce nella difficile impresa di presentare con grande delicatezza la più grande tragedia della storia, che si percepisce sempre incombente nonostante l’irresistibile ironia dei personaggi e delle situazioni. Una commedia in cui convivono comicità, dramma e malinconia, uniti all’originalità narrativa del regista, capace di affrontare il tema della Shoah in chiave del tutto inedita. Schlomo, di fronte al rabbino, non riesce a esprimere in parole l’orrore che ha visto al di là dei monti, in un altro villaggio. Può solo rappresentarlo in gesti: concitati, assurdi, parossistici. Il Consiglio dei Saggi si riunisce e decide di organizzare un falso treno di deportati per sfuggire ai nazisti. Così,comprato pezzo per pezzo un convoglio ferroviario, mimetizzandolo da treno di deportati, l’intera comunità prepara la partenza per la Terra Promessa.Ciascun abitante del villaggio ebraico deve recitare una parte: chi il prigioniero, chi il tedesco; chi si mette all’opera per attrezzare i vagoni del treno e chi confeziona le divise, mentre un impiegato delle ferrovie s’improvvisa manovratore. S’innesca una specie di psicodramma collettivo, dove ciascuno tende a identificarsi sempre più col proprio ruolo. Mentre il mercante Mordechai diventa un perfetto ufficiale nazista, una fazione si converte al marxismo e istituisce il soviet del treno (“prigionieri che valgono il doppio:ebrei e comunisti ,in un colpo solo”, spiegherà poi Mordechai a un vero nazista, davanti ad un posto di blocco). I personaggi sono caricaturali e volutamente stereotipati, come il rabbino, il sarto, il folle, il comunista. Così il regista riesce egregiamente a mettere in scena gli effetti disumanizzanti dell’ideologia e del potere sull’individuo, mostrando come una commedia possa essere più tragica della tragedia stessa. Va in scena una tragicommedia che unisce l’umorismo yiddish, in cui convivono comicità, dramma e malinconia, che non risparmia una grottesca ironia verso gli stessi ebrei, i tedeschi e i comunisti, con un ritmo impeccabile, grazie alla colonna sonora di Goran Bregovic , un’originalità narrativa davvero straordinaria e un fiume di battute fulminanti (i dialoghi dell’edizione italiana sono curati da Moni Ovadia) come quella ad esempio, che definisce lo yiddish “una parodia del tedesco, con dentro l’ironia“. Del resto è lo stesso Mihaileanu ad affermare che “l’umorismo come ebreo, è ciò che mi ha fatto sopravvivere, che ha salvato la nostra vita e la nostra memoria. Ridere è un altro modo di piangere “. Come ne “La vita è bella” di Benigni, la chiave del film è racchiusa nel desiderio di raccontare una favola, con valore di parabola, sulla tragedia. Con un’ironia amara, che obbliga a riflettere mentre –prendendo a prestito le stesse parole del “folle” Schlomo – “volavano via i nostri compagni, volavano via appesi a una stella gialla, trascinati da un vento furioso. Avevano negli occhi il terrore. Volavano via gli uccelli, e non torneranno mai più. Si spegneva il sole e non comparivano più stelle. Solo nuvole nere, e il fuoco”.
Marco Travaglini