Un video diffuso dallo stesso Casalino gli ha provocato non pochi problemi. La sua difesa è stata tutta incentrata sul diritto alla privacy. Le sue furberie e il clamoroso autogol dovrebbero insegnare qualcosa
Veniamo ai fatti: il portavoce dei Cinque Stelle, diffonde di sua spontanea volontà, la notizia che: “all’interno del Movimento si pensa che alcuni alti funzionari dello Stato facciano ostruzionismo in merito alle proposte sul reddito di cittadinanza”, se dovessero persistere in caso contrario si attuerà, nel 2019, la “megavendetta”. Che ci sia qualcuno – anche a livello ministeriale – che non condivide l’idea del reddito di cittadinanza, la Flat tax e via di seguito, argomentandolo con l’aggravamento del deficit di Bilancio, è cosa nota. La furbizia di Casalino è stata quella di diffondere la notizia chiedendo ai due giornalisti di far circolare all’esterno la voce che la fonte era una parlamentare, ma in effetti era di lui stesso. Casalino si è lamentato perché la diffusione del video violerebbe i principi costituzionali alla riservatezza delle comunicazioni. Parimenti, della stessa opinione, è il premier Conti che seppur non è esperto di diritto della Privacy, è ordinario di diritto privato. Addirittura il presidente della Camera Roberto Fico paventerebbe anche la violazione delle norme deontologiche del Giornalismo. A nostro avviso tutti e tre sbagliano. Quando ci sono due norme da tutelare va stabilito quale è quella prevalente. Proferire la minaccia verranno “fatti fuori” è in netto contrasto con l’art 97 della Costituzione che stabilisce che la pubblica amministrazione deve uniformarsi a criteri di buon andamento e imparzialità. Trattandosi di una notizia di interesse pubblico non ci sono dubbi sul fatto che non ci sia bisogno del consenso per la pubblicazione. Del resto, va aggiunto che è lo stesso portavoce ad averla diffusa. Va da sé che una volta fornita la notizia non si può definirne i contorni e le modalità della sua circolazione.Vale a dire: pubblicate la notizia, ma non dite che ve l’ho data io. Se non è furbizia …! L’altra notizia, chissà se anche questa è violazione della privacy. Il Consiglio dell’Ordine dei
Tommaso Lo Russo






Moro e poi la Valsesia dal Colle del Turlo. Attorno al XIII secolo, interi nuclei familiari con i bambini più piccoli trasportati nelle gerle, si misero in cammino lungo le antiche mulattiere per risalire le valli, superare nei punti più convenienti le montagne e ridiscendere a sud delle Alpi in cerca di luoghi ove dar vita a nuovi villaggi. A fine Settecento, il ginevrino Horace Benedicte de Saussure, appassionato studioso, nel corso del suo viaggio intorno al Monte Rosa, li definì nei suoi diari “sentinella tedesca” in territorio italiano. Macugnaga è composta dalla frazione più grande – Staffa – insieme a quelle di Pestarena e Borca, le più basse, e Pecetto, la più alta. Macugnaga ospita alcuni interessanti e originali musei. A Borca, ad esempio, c’è la Casa-museo Walser, abitazione d’epoca comprensiva di tutti gli arredi e gli oggetti di un tempo e anche il museo della miniera d’Oro della Guja, prima miniera-museo in Italia, percorribile per un chilometro e mezzo nel ventre roccioso della montagna, dove si è estratto il prezioso metallo dal 1710 fino al 1945. A Staffa, invece, si può trascorrere un po’ di tempo al museo della Montagna e in quello del contrabbando che racconta la secolare storia degli “spalloni” che valicavano con i loro carichi di merce il confine tra l’Italia e la Svizzera, sfidando i rischi naturali e i controlli della Finanza. A poca distanza dal centro del paese, nel Dorf – l’antico borgo fatto da abitazioni costruite con tronchi di larice incastrato – davanti alla Chiesa Vecchia si trova il vecchio tiglio. Sotto all’imponente albero pluricenteneario, dalla circonferenza di oltre sette metri, un tempo si tenevano i mercati, s’incontravano le genti delle diverse valli del Rosa, si svolgevano, come in una sorta di tribunale all’aperto, riunioni giudiziarie e amministrative. A fianco della Chiesa Vecchia c’è il cimitero degli alpinisti. La storia ci dice che, il 22 luglio 1872, Ferdinand Imseng di Saas, ma residente a Macugnaga, con una guida e un portatore condusse tre inglesi alla vetta della Dufour direttamente da Macugnaga. Da quel momento iniziò un’epoca di grandi ascensioni e, come capita sulle grandi montagne, anche di parecchie tragedie, la prima delle quali causò proprio la scomparsa di Imseng
assieme a un suo cliente, Damiano Marinelli, e alla guida Battista Pedranzini. Un evento che provocò una sollevazione dell’opinione pubblica al punto che furono proibite le ascensioni sul Rosa, ma il provvedimento non venne preso in grande considerazione visto che, cinque anni dopo, venne inaugurata la capanna Marinelli, per aiutare gli scalatori che tentavano le ascensioni dirette da Macugnaga. Nel cimitero, tra le tombe che ospita, molte portano il nome dei “caduti del Rosa”, sfortunati alpinisti che trovarono la morte nel bianco perenne della grande montagna. Un luogo suggestivo, dove spesso sono state intonate struggenti invocazioni al “Signore delle Cime”. Tra lapidi e foto, immagini di corde, piccozze e ramponi ci sono anche delle tombe vuote perché i corpi sono ancora sepolti nel ghiaccio della parete Est e chissà mai se verrà il giorno in cui la montagna consentirà di trovarne le povere spoglie. In qualche caso è passato anche più di mezzo secolo, come quando – nel 2007 – vennero alla luce un femore, alcune costole, un dito e dei brandelli di abiti che, l’esame del Dna, attribuì ad Ettore Zapparoli, alpinista, scrittore e musicista, scomparso sul Rosa nell’agosto del 1951 durante un’ascensione solitaria e nonostante le ricerche, mai ritrovato. Ora anche lui, come tanti, riposa nel vecchio cimitero, sotto il portichetto dove una lapide ricorda i soci defunti del Gruppo italiano scrittori di montagna, del quale Zapparoli era membro. Un sonno eterno, quello dell’ “unico vero alpinista solitario” – come lo definì il grande alpinista Emilio Comici, proprio davanti all’imponente incanto della Est, la parete più alta delle Alpi, con le sue insidiose rocce, i seracchi e i ripidi pendii di neve.


E’ stato eretto anche un bel monumento al personaggio di legno, opera degli artigiani locali fratelli Bertaina. Nella pace del cimitero comunale, l’artistica tomba dello “zio di Pinocchio” è vegliata dal burattino che piange
Il grande disegnatore scelse a Vernante la seconda compagna della sua vita, la signora Martini Margherita, ed il luogo in cui dedicarsi al lavoro artistico e trascorrere gli ultimi anni della sua vita, dal 1944 al 1954. Formatosi all’Accademia Albertina di Torino, già da studente Mussino collaborò con alcuni giornali satirici come La Luna e Il Fischietto. Lungo quasi mezzo secolo fu il rapporto con il Corriere dei Piccoli : a partire dal primo numero, pubblicato nel dicembre del 1908, fino al 1954 (anno della sua morte). Il suo lavoro più celebre, tuttavia, è rappresentato dalle illustrazioni delle collodiane “Avventure di Pinocchio”nell’edizione del 1911 edita dalla fiorentina Bemporad . Con i disegni di Attilio, come usava firmarsi, Pinocchio affrontò per la prima volta il colore e andò ben oltre i limiti in cui l’avevano confinato i primi due illustratori, Enrico Mazzanti e Carlo Chiostri. Mussino portò il burattino di Carlo Collodi dentro la grande illustrazione europea del Novecento, al punto che la sua edizione sarà la più ristampata e venduta in assoluto e, per molti versi, resterà ineguagliata. Vernante, dove è stato eretto anche un bel monumento a Pinocchio, opera degli artigiani locali fratelli Bertaina, gli ha intitolato – oltre al museo – anche la Scuola Elementare e i giardinetti pubblici. Non a caso, nella pace del cimitero comunale, l’artistica tomba dello “zio di Pinocchio” è vegliata dal burattino che piange.
Alessandro Volta, tra i più famosi fisici della storia, studioso e inventore molto prolifico che si applicò soprattutto allo studio dei fenomeni elettrici. Infatti, quella che viene comunemente chiamata la “
melmoso dell’acqua, Volta vide salire a galla e poi svanire nell’aria bollicine gassose. Incuriosito, racchiuse il gas all’interno di provette di vetro e incominciò a studiarne le proprietà e scoprì che poteva essere incendiato, sia per mezzo di una candela accesa, sia mediante una scarica elettrica(
grandi vantaggi e, già nella prima metà dell’Ottocento, l’illuminazione a gas divenne comune in molte città americane ed europee, a tal punto da modificare gli stili di vita dei cittadini: le strade, ben illuminate anche di sera, scoraggiarono i malintenzionati, la gente usciva anche di sera i luoghi d’incontro e cambiavano anche i costumi. Nel febbraio del 1822 il gas fece la sua prima apparizione a Torino, in piazza San Carlo, nel caffè del sig. Gianotti ( quello che oggi è il Caffè San Carlo) ma solo vent’anni dopo venne impiegato nell’illuminazione delle strade cittadine. Nel 1837, Carlo Alberto, autorizzò François Reymondon, architetto di Grenoble, e Hippolyte Gautier, ingegnere di Lione a costruire il gasometro di Porta Nuova e due anni dopo un nuovo tipo di illuminazione a gas entrò in funzione con 100 fiamme che divennero 1600 nel 1840. Le cronache dell’epoca raccontano che, nell’ottobre del 1846, “fra l’entusiasmo della popolazione, furono illuminate le contrade Dora Grossa e Nuova” e, poco dopo, anche le vie Po e Santa Teresa, piazza Castello, piazza San Carlo e piazza Vittorio. E tutto questo, in qualche misura, trovò origine anche da quella “nativa aria infiammabile di palude” che il Volta scoprì tra i canneti dell’isolotto sul lago Maggiore.