DAL VENETO Marito e moglie ottantenni sono stati trovati morti nella loro casa a Rivamonte Agordino, uno dei centri bellunesi flagellati dal maltempo dei giorni scorsi. Si ipotizza che la coppia sia rimasta vittima di avvelenamento da monossido di carbonio per una stufetta difettosa.L’allarme è stato dato dai vicini di casa, che non riuscivano a contattare i due anziani. I vigili del fuoco sono entrati nell’appartamento e hanno trovato i coniugi privi di vita.
(foto archivio)
A Sarajevo le zie di Goran, Samira e Zeina, vivono in una casa a pochi passi dalla Moschea Gazi Husrev-beg, in una viuzza parallela alla via Sarači che collega la bella strada di Ferhaddija con il cuore della Baščaršija, la città vecchia.
rispetto. Dall’uscio della loro casa bastano due passi e, svoltato l’angolo, si rimane incantati davanti alla bellezza della cupola centrale della Moschea, affiancata dai suoi tetims, le cupole laterali, più piccole. Il minareto, un dito puntato verso il cielo, teso a solleticare le nuvole con i
suoi quarantacinque metri d’altezza, domina la piazza del mercato. Passare di qua e non far visita alle zie, mi dice Goran “equivale ad un’offesa molto seria al senso dell’ospitalità che qui è sacro“. Avvertite da lui, hanno preparato il pranzo. Ci accolgono con grande gentilezza. Entrambe con i capelli candidi, appena visibili sotto il velo, mostrano in volto i lineamenti delicati delle donne slave, con gli zigomi alti, occhi grandi e chiari, sguardo orgoglioso e fiero. Non più giovani, entrambe sono state “partizanke” con Tito, combattendo
nelle divisioni dell’esercito popolare di liberazione tra la Drina e la Neretva, scacciando i nazisti e riconquistandosi, coi denti e le unghie, il diritto di vivere libere. Mi stupisce la loro vitalità e si comprende quanto bene vogliano al loro adorato Goran che, per parte sua, ricambia l’affetto unendolo a una grande, e da noi rarissima, reverenza. Ci fanno accomodare e, vistici visibilmente accaldati, ci offrono una birra fredda ( hladno pivo), ovviamente Sarajevsko. L’appartamento – tre stanze e i servizi – è piccolo ma ben curato e dalla cucina provengono profumi deliziosi. Goran dice che le zie hanno preparato dei piatti tradizionali, la Begova čorba – zuppa di pollo con verdure, riso, tuorli d’uovo e panna – e il bosanski ćimbur, un piatto a base di manzo e agnello immersi nel brodo e ricoperti da spinaci e uova. Nonostante la curiosità che mi porta ad assaggiare tutto ciò
che trovo nel piatto, sul mio volto si deve notare una certa preoccupazione sulla digeribilità della cucina bosniaca. Goran, al quale non sfugge nulla, mi rassicura. “Tranquillo.La cucina bosniaca è leggera e non particolarmente speziata; i piatti si basano essenzialmente su legumi, frutta e
vegetali come pomodori, zucchine, spinaci e fagiolini. E sul latte, utilizzato in una crema che noi chiamiamo pavlaka”. Mi fido. Si pranza. Si beve voda (acqua) e un vino bianco, fruttato che emana una luce verde-oro: lo Zilavka, prodotto in Erzegovina, nella valle della Neretva. Samira e Zeina portando in tavola anche la pita, un involucro di pasta fine ripieno di vegetali, carni, formaggi e erbe. La propongono nei tre diversi tipi: il burek, con la carne di vitello; la sirnica , con il Trávnićki Sir,formaggio di pecora originario di Travnik, dal gusto deciso e piuttosto salato che richiama un po’ la Feta greca, e la zeljanica , con gli spinaci. Hanno anche preparato i ražnjići , deliziosi spiedini di carne d’agnello, e i classici čevapčići, le polpettine di
carne bovina e di montone tritata, passati alla griglia e serviti con cipolla cruda. Sono le specialità della cucina sarajevese. Ma le zie, che stravedono per il nipote e lo vorrebbero rimpinzare fino al collo, questa volta non esagerano e hanno preparato delle confezioni da asporto, così potremo gustarle per cena o in occasione del pranzo di domani. Per buon peso hanno aggiunto anche delle robuste porzioni di musaka alla turca, il timballo di carne tritata con melanzane (o patate, o zucchine) e cotto al forno. Ai dolci, invece, non si può dir di no. E’ proibito il rifiuto e nessuno di noi si sogna di trasgredire la regola. Alla faccia di carie e diabete, compaiono sul desco razioni impegnative di baklava , pita od jabuka ( praticamente uno strudel di mele), savijača od oraha ( altra strudel ma di noci),le palačinke , piccole e gustose frittelle e pasticcini di pasta lievitata aromatizzati al limone o alla vaniglia. Stop. Ci arrendiamo. Prima io e poi Goran. Alziamo bandiera bianca. C’è
posto solo per il caffè , la bosanska kafa servita alla turca e una lašljivovica di prugne. Siamo stati in loro compagnia per quasi quattro ore. Ci congediamo tra tanti saluti, un passar di mano di pacchetti ( i nostri pasti futuri…) e la promessa che se tornerò da queste parti, sarò ancora loro ospite. La luce del pomeriggio si è fatta più scura quando varchiamo l’uscio e nubi cariche di pioggia s’apprestano a scendere dai fianchi del Trebevic, stendendo un grigio e lattiginoso mantello su Sarajevo. E’ davvero l’ora del commiato. Un abbraccio, una stretta di mano. E, mentre ci stiamo allontanando sull’acciottolato, due mani s’alzano in un saluto. Un gesto semplice che ci accompagna, come i loro sguardi, fino alla svolta dell’isolato. Non ci sono parole adatte per descrivere il senso dell’ospitalità. Penso solo che da noi, a malapena, ci si guarda in faccia anche tra persone che si conoscono da una vita.




Era la sera del 30 giugno 1990. Venotto anni fa, a Firenze.
d’ordine indicava meglio di altre il sentimento che univa i popoli della Jugoslavia, sottolineandone lo spirito laico, interetnico e tollerante sulla base del quale era stato rifondato il paese dopo il 1945. Una vicenda emblematica del rapporto perverso tra sport e politica. Proprio per la sua popolarità il calcio è sempre servito al potere come strumento di propaganda, dal fascismo che “usò” i trionfi del 1934 e 1938 ai generali argentini che sfruttarono il Mondiale in casa del 1978, per far dimenticare orrori e violenze della dittatura di Videla. Stessa cosa per l’Isis che decide di colpire lo Stade de France a Saint-Denis, nella banlieue parigina, durante una partita amichevole di calcio fra Francia e Germania, allo scopo di amplificare il suo messaggio di terrore. Ma, come si legge nel libro del caporedattore del settimanale “L’Espresso”, in nessun luogo come nella ex Jugoslavia il legame tra politica e sport è stato così violento e “malato”. Attraverso la vita del protagonista e dei suoi compagni (molti dei quali diventati poi famosi in Italia, da Boban a Mihajlović, da Savićević a Bokšić, da Jozić a Katanec),si scopre il travaglio di quella rappresentativa nazionale e del suo allenatore Ivica Osim, detto “il Professore”, o “l’Orso”. Nelle loro gesta s’intravede, come un immagine riflessa da uno specchio, la disgregazione della Jugoslavia e la volgare spregiudicatezza dei suoi leader politici, che vollero utilizzare lo sport e i suoi protagonisti per costruire il consenso attorno alle idee separatiste. E’ in questa chiave di lettura che il calcio può essere definito come il prologo del conflitto che insanguinò i Balcani occidentali nella prima metà degli anni ’90 del “secolo breve”. Come se su quei rettangoli d’erba verde ci si predisponesse alla prova generale delle future battaglie. Non a caso si attribuisce agli scontri tra i tifosi della Dinamo Zagabria e della Stella Rossa di Belgrado il primato di aver messo in scena, in uno stadio il primo vero episodio del conflitto. Era il 13 maggio del 1990 e, paradossalmente, il nome dello stadio della capitale croata era ( ed è tutt’ora) “Maksimir”, con un evidente sottolineatura della parola “mir”, cioè “pace”. E’ ormai noto come proprio nelle curve degli ultrà siano stati reclutati i
miliziani poi diventati tristemente famosi per la ferocia della pulizia etnica a Vukovar come a Sarajevo, a partire da quel Željko Ražnatović, meglio conosciuto come “Arkan”,leader degli ultrà della Stella Rossa e poi capo sanguinario delle milizie paramilitari serbe delle “Tigri”. Per il loro valore emblematico le vicende narrate ne “L’ultimo rigore di Faruk”, pur risalendo a un quarto di secolo fa, sono ancora terribilmente attuali e il libro le propone con grande intensità e passione. Faruk Hadžibegić oggi ha cinquantanove anni e vive in Francia. Ha conservato il fisico asciutto dell’atleta e fa l’allenatore di calcio (attualmente del Valenciennes, seconda divisione del campionato d’Oltralpe). Quella parata nell’angolino da parte di Goycochea l’ha rivista e pensata mille e mille volte in questi 26 anni. Quando la rimuove, ci sono gli altri a ricordargliela. Come quando torna nei paesi che un tempo formavano la Jugoslavia e al controllo passaporti, porgendo il documento alle guardie di frontiera di cui ben conosce l’idioma ( si possono cambiare i confini, non la lingua) si sente dire “Faruk Hadžibegić..Ah, se lei avesse segnato quel rigore! Forse cambiavano i destini del Paese”. Alle frontiere ci sono i dazi e questo è il suo dazio. Ci è abituato ormai,l’ex capitano dei “Plavi”: “otto volte su dieci, quando incontro ex jugoslavi è così”. La memoria di quel rigore è andata oltre, si è fatta leggenda. Faruk a volte s’interroga su cosa sarebbe successo se avessero sconfitto l’Argentina e poi, magari, giocato la semifinale e la finale. Forse non ci sarebbe stata la guerra, se avessero vinto la coppa del Mondo? Non c’è risposta, ovviamente. Resta solo il rimpianto dell’errore. E Gigi Riva, in chiusura, commenta: “Più passa il tempo più la benevolenza prevale sul rimprovero. L’eroe soccombente è comunque eroe. Ettore non è meno valoroso di Achille, nel suo lato fragile anche più simpatico. Non poteva essere diversamente nella terra dove si celebrano le gloriose sconfitte: la consolazione dei perdenti”.







