DALLA PUGLIA Ha denunciato di avere subito una violenza sessuale sul treno proveniente da Lecce e diretto a Bologna. Lei è una studentessa di 19 anni e il presunto aggressore un barese 40enne che è stato arrestato nella stazione di Ostuni. Ora è ai domiciliari a Bari. La giovane ha chiesto aiuto al personale delle ferrovie che ha attivato l’intervento della polizia ferroviaria. L’uomo è ritenuto responsabile di aver compiuto atti sessuali contro la volontà ed in danno della persona offesa.
La foto che urla
Ci sono foto che non lasciano nulla all’immaginazione. Più che parlarci, attraverso l’immagine, ci urlano in faccia la disperazione di una realtà rappresentata dalla morte cruda e dallo sgomento che provoca. A Potočari, sobborgo di Srebrenica in Bosnia, appena varcato il cancello d’ingresso del Memoriale che ricorda il genocidio del luglio 1995, sulla destra c’è una scala che porta sottoterra, in una sala dove ristagna un’aria fredda. L’ambiente è spoglio. Poche sedie, una panca. Alle pareti alcune gigantografie di foto in bianco e nero calamitano l’attenzione. In un paio si vedono le bare allineate nel capannone dell’ex fabbrica di batterie, dall’altra parte della strada, in attesa dell’inumazione. In un’altra resti di vestiti che riemergono da una delle fosse comuni ( ne furono trovate più di sessanta solo nei dintorni) dove vennero gettati i cadaveri. Un senso di disagio lo provoca la foto in cui s’intravede il gelido paesaggio della zona con l’immagine dei boschi che sfuma tra nubi basse e nebbia. Gi stessi boschi dove, nell’intento di sfuggire alla follia omicida, trovarono la morte migliaia di bosgnacchi. C’è anche l’istantanea di una bambola rotta, con la faccia tagliata, probabilmente strappata dalle mani di una bambina: un giocattolo innocente che, deturpato e scaraventato nel fango, si trasforma in una sagoma inquietante. Queste foto, senza didascalia, raccontano ogni cosa e tutto il dolore meglio delle parole che suonerebbero vuote, fuori posto. In fondo, inutili. Non sono tante queste immagini. Non c’è bisogno di ostentare l’orrore per smuovere la memoria. L’ultima della serie, però, è un pugno nello stomaco ancora più forte. Una mano, guantata di bianco, solleva dalla terra di una fossa comune un’altra mano senza vita, scheletrica, nera, sporca. Il contrasto è netto e la pellicola in bianco-nero lo accentua fino a renderlo sconvolgente,impressionante. Pare che la mano morta chieda aiuto, si aggrappi per trascinarsi disperatamente fuori. E l’altra, oserei dire con una delicatezza caritatevole, la sostiene, consapevole che ormai non resta più nulla da fare se non consentirle una dignitosa sepoltura, dopo l’orrore della morte violenta e la profanazione del corpo. E’ un particolare crudo, un’immagine diretta, priva di mediazioni. La mano, presumibilmente di uno dei tanti uomini massacrati a Srebrenica o nei dintorni, riflette la tragicità della morte con una efficacia senza pari. Nel nostro immaginario la morte viene raffigurata con teschi e ossa umane, scheletri disegnati, dipinti o incisi sulle lapidi dei vecchi cimiteri, a volte sulle inferriate. La figura più classica , diffusasi dopo il Medioevo, è quella dello scheletro che brandisce la falce che recide la vita, allo stesso modo in cui taglia l’erba o il grano. Ma in questo caso la fotografia della mano scarna e sporca di terra rende l’idea del degrado del corpo ed evoca la morte nel modo più macabro e diretto che si possa immaginare. Per questo colpisce, lasciando senza fiato. Difficilmente si può ignorare ma altrettanto difficilmente gli sguardi indugiano su quest’immagine di indicibile drammaticità. Ad alcuni ragazzi la vista ha provocato ansia e conati di vomito, ad altri la tensione si è sciolta in pianto. Nessuno è rimasto indifferente. Ci sono immagini, situazioni che fanno riflettere molto più di altre. Chi visita oggi il campo di sterminio di Auschwitz resta attonito sfilando davanti alle teche del museo colme di scarpe, protesi, occhiali, capelli. O alle centinaia di barattoli vuoti di zyklon B, il cianuro solido che – a contatto con l’aria – non lasciava scampo a chi era stato costretto ad entrare nelle “docce” delle camere a gas. Lo stesso è accaduto a Belgrado qualche anno fa, nel luglio del 2010, dove le “Donne in nero”, attiviste antimilitariste di Serbia, hanno inscenato una originalissima manifestazione in ricordo di Srebrenica. Hanno raccolto 8372 paia di scarpe, tante quante furono le vittime dell’eccidio riportate sulla stele del Memoriale ( in realtà circa diecimila) , allo scopo di farne un monumento nella capitale serba. Così centinaia di paia di scarpe di ogni tipo, foggia e colore – da uomo, donna, sportive e per bambini, ciabatte e stivali – sono state allineate per terra sulla Kneza Mihailova, la frequentatissima strada pedonale nel cuore dell’ex capitale della
Jugoslavia, su striscioni con scritte contro la guerra e in memoria delle vittime di Srebrenica. Stasa Zajovic, esponente delle Donne in Nero belgradesi e coordinatrice della manifestazione, nell’occasione disse : “Donare un paio di scarpe significa riconoscere che il genocidio di Srebrenica è accaduto realmente. Ed è un modo per esprimere partecipazione e solidarietà alle vittime”. Alla domanda del perché si era scelto di utilizzare le scarpe come elemento simbolico, Stasa rispose così: “ Per me, le scarpe sono l’impronta delle persone scomparse a Srebrenica, e quest’impronta ha una grande importanza. Le scarpe sono il simbolo delle vite perdute e vogliamo che ogni singola scarpa abbia un suo spazio, perché coloro che sono stati uccisi non sono solamente ossa. Sono persone i cui sogni, desideri, amori e dolori sono stati uccisi insieme a loro. In più, le scarpe sono un simbolo di movimento, di cambiamento”. Le scarpe come le foto in bianco e nero. L’immaginario visivo di una memoria dura da elaborare per chi piange o vuol piangere i propri morti. Dura anche per chi, ad ovest e a est di Srebrenica, ne porta il grande peso sulla coscienza.
Marco Travaglini
La tradizione popolare vuole che il futuro presidente vietnamita lavorasse come cuoco proprio in quel locale
Il Ristorante “Antica Trattoria della Pesa” è espressione della grande tradizione gastronomica lombarda, in particolare milanese. Antipasto misto di salumi e sottaceti, risotto alla milanese e al salto, pasta e fagioli, bolliti, cassoeula con polenta, ossobuco e cotoletta. Insomma, come dire la tradizione meneghina a tavola. Situato proprio dove nell’Ottocento le merci giungevano da fuori città per essere “pesate” dal dazio, il locale si trova a Garibaldi, poco distante dall’omonima stazione, in uno dei quartieri più vivaci di Milano, al n.10 di Viale Pasubio. Dove un tempo c’erano i cortili degli artigiani, attorniati dalla case di ringhiera, oggi s’incontrano gli ateliers di grandi artisti e le gallerie d’arte. L’Antica Trattoria della Pesa offre un atmosfera del tutto particolare, dagli arredi al pavimento in granigliato rosso e grigio, comune a quello di molte case milanesi di inizio secolo, per non parlare delle splendide stufe in maiolica che rimandano ai tempi in cui i locali venivano riscaldati a legna. Insomma, basta uno sguardo per cogliere quel calore che apparteneva esclusivamente ai ristoranti di un tempo, in cui spesso ci si ritrovava seduti ai lunghi tavoli dell’800 con persone mai viste prima.
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Appena fuori dalla trattoria si trova la vecchia “pesa” rettangolare in ferro, da cui 130 anni fa ha preso il nome il locale che all’epoca si trovava nei pressi del confine tra la città e le campagne circostanti. Ma c’è anche una curiosità, testimoniata da una lapide posta sulla facciata fuori dall’ingresso. L’epigrafe ricorda che quella stessa casa fu frequentata da Ho Chi Minh negli anni ’30, durante le sue missioni internazionali “ in difesa delle libertà dei popoli”. Ma l’epigrafe pare non sia esaustiva. La tradizione popolare vuole che il futuro presidente vietnamita lavorasse come cuoco proprio in quella trattoria. La storia ci dice che nel giugno del 1931 Ho Chi Minh venne arrestato a Hong Kong dalla polizia britannica per attività sovversiva e la Francia ne chiese l’estradizione. Per evitare la pressione diplomatica sul governatore della colonia inglese, i suoi amici diffusero la falsa notizia della sua morte. Scarcerato nel gennaio del 1933, riprese le sue missioni in giro per il mondo e per un certo periodo prese abitazione proprio a Milano, in una caratteristica casa popolare “di ringhiera” tra viale Pasubio e via Maroncelli ( nei pressi dell’Osteria della Pesa). Quella di Ho Chi Minh (in realtà uno pseudonimo poiché il vero nome anagrafico era Nguyen Tat Thanh) tra i fornelli è cosa del tutto plausibile. Nel 1912, partito per gli Stati Uniti a bordo di una nave, lavorò come cuoco. A New York visse facendo il panettiere e altri mestieri legati sempre legati alla cucina e nel 1915 a Londra – all’hotel Carlton – il leader vietnamita divenne chef pasticciere sotto la guida del famoso cuoco Auguste Escoffier ( ribattezzato il “Cuoco dei re, re dei cuochi“). Chissà se il tradizionale prodotto del sud-est asiatico, cioè il riso, lo cucinava con lo zafferano, alla milanese, o alla “Pesa” si occupava solo della lista dei dolci?
Marco Travaglini
Il crollo della lira turca
Erdogan, l’uomo forte della Turchia, viene economicamente affossato dal raddoppio dei dazi americani. Niente male per un alleato nella Nato che Trump con assurda miopia considera ormai un peso economico per gli Usa . L’uomo forte turco chiede allora aiuto all’uomo forte russo contro la politica protezionista americana che non rispetta neppure gli alleati. E Putin non sarà certo insensibile alla richiesta di aiuto. Si determinerà l’ennesimo cortocircuito internazionale. Il crollo della moneta turca ha avuto gravi ripercussioni sulla moneta europea e sulle borse ,soprattutto su quella italiana . Tutto ciò significa che gli uomini forti non sono la soluzione dei problemi ,anzi ,sono mine vaganti molto pericolose e che i popoli devono risvegliarsi da questo sonno della ragione che provoca mostri in politica ed economia. Le infatuazioni autoritarie devono finire, pena gravissime conseguenze sulla realtà internazionale, sulla vita delle nazioni e sulla vita di ciascuno di noi.
DALLA SARDEGNA Una barca è affondata nelle acque del litorale di Lu Bagnu, sulla costa settentrionale sarda. Sono intervenuti i carabinieri, la Capitaneria di Porto, la polizia scientifica e i vigili del fuoco. Un corpo senza vita è stato recuperato sugli scogli, l’altro è stato scoperto all’interno della cabina, semiaffondata, dell’imbarcazione, vicino alla riva.
(foto archivio)
I pipistrelli di Staffarda
Incredibile ma vero. Migliaia di pipistrelli della valle Po hanno messo in fuga nientemeno che il celebre generale francese Nicolas Catinat che portò lutti e dolori nel nostro Piemonte alcuni secoli fa. La rievocazione della famosa battaglia di Staffarda, frazione di Revello in provincia di Cuneo, quest’anno salta a causa di una curiosa colonia di pipistrelli che ha invaso l’abbazia e il terreno di scontro tra gli opposti eserciti. Non si possono far sloggiare perchè si tratta di una delle più importanti colonie di pipistrelli presenti in Italia e pertanto protette da leggi europee. Il problema è che sono molto prolifici e il loro numero continua ad aumentare in modo impressionante. Per il prossimo anno sarà indispensabile individuare una nuova area dove rievocare con centinaia di personaggi a piedi e a cavallo quello che avvenne il 18 agosto 1690 quando intorno alla millenaria abbazia del saluzzese si combattè una delle battaglie più cruente svoltesi sul suolo piemontese. È la battaglia di Staffarda che ogni due anni viene rivissuta sul terreno dove fu combattuta. Quel giorno i francesi del generale Catinat si scontrarono contro l’esercito austro-piemontese del Duca di Savoia Vittorio Amedeo II appoggiato dagli spagnoli e dal cugino Eugenio di Savoia. La battaglia si svolse presso l’abbazia di Staffarda tra il Po e il torrente Ghiandone. Andò male e i piemontesi vennero sopraffatti dalle truppe transalpine. Per sei lunghe ore i soldati sabaudi combatterono con grande coraggio ma le forze francesi, meglio schierate sul campo dall’abile Catinat, costrinsero le truppe di Vittorio Amedeo II alla ritirata. Tra piemontesi, spagnoli e austriaci si contarono circa 4000 morti mentre i francesi persero
meno di 2000 uomini. Neppure i reggimenti di dragoni di Eugenio di Savoia riuscirono a capovolgere le sorti dello scontro. Impegnato a combattere i turchi a est e i francesi a ovest, il giovane Principe era reduce dalla vittoria a Vienna nel 1683 contro i turchi insieme al grande Re polacco Sobieski. Nel 1688 Eugenio partecipò alla conquista di Belgrado e nell’anno successivo combattè contro i francesi di Luigi XIV sul Reno. Trovò anche il tempo per spostarsi in Piemonte ma questa volta non fu fortunato. Nella primavera del 1690 venne inviato nell’Italia del nord per aiutare suo cugino Vittorio Amedeo II, duca di Savoia. Trovò il Piemonte invaso dai francesi comandati dal Catinat che giunto in Piemonte devastò e incendiò paesi e città. Dopo la vittoria di Staffarda il generale francese occupò Savigliano, Saluzzo e saccheggiò Barge vincendo l’accanita resistenza dei bargesi che con eroismo cercarono vanamente di opporsi ai soldati del Re di Francia. Visitare l’abbazia di Staffarda è indispensabile per chi arriva per la prima volta in Valle Po. Lo splendido complesso medievale è a pochi chilomeri da Saluzzo nella suggestiva cornice del Monviso. Fu fondato nel 1135 da Manfredo I del Vasto, Signore di Saluzzo, e divenne la sede dell’Ordine dei monaci cistercensi arrivati dalla Francia.
Filippo Re
“Il piccolo almanacco di Radetzky”
A galleggiare su tutto, come un velo di nebbia, l’assurdità assoluta e palpabile della guerra. Un “catalogo poetico” di straordinario fascino
C’è un piccolo libro ( ma solo per le sue dimensioni) che nel 1982 suscitò curiosità e interesse. Lo aveva pubblicato Adelphi e s’ intitolava “Il piccolo almanacco di Radetzky”. L’autore, Gilberto Forti, raccontava le cronache – in versi – sui grandi scrittori e artisti dell’Impero asburgico, nell’ora del suo tramonto, e su sei vittime della seconda guerra mondiale. Un libro decisamente bello e originale che apriva uno sguardo sulla Grande Guerra attraverso gli occhi di grandi personaggi passati poi alla storia per altri motivi (Freud, Musil, Kraus e tanti altri) che si trovavano, in quelle pagine, messi a confronto con eventi piccoli , quotidiani, a volte assurdi.
Ed a galleggiare su tutto, come un velo di nebbia, l’assurdità assoluta e palpabile della guerra. Un “catalogo poetico” di straordinario fascino,in cui si trova Hofmannsthal che presagisce la fine della “nostra vecchia Austria, assediata da ombre nere, da torbidi presagi”, il tenente Musil che vede in faccia la morte sul campo di battaglia, Kafka che in sogno immagina le future camice brune naziste, Edith Stein che si fa suora cattolica ma muore in un lager come martire ebrea, Freud che spiega ai suoi alunni la connessione tra coraggio soldatesco e viltà scientifica. “Non abbiate timore. A prima vista / può sembrare poesia, ma sono storie / di due guerre, raccolte da un cronista / che si è perduto fra vecchie memorie. / Il testo, anche se ha righe disuguali, / non differisce in nulla da una prosa, / con nomi, date e luoghi ben reali – / sia documento o cronaca o altra cosa”.
Con questa chiave di lettura, Forti apre il suo racconto per poi sfogliare, pagina dopo pagina, gli “annali dispersi” dell’Impero asburgico, cogliendone le voci e riproducendole, trascritte in versi discorsivi su persone e vicende. Così s’incontrano la famiglia Canetti al concerto, l’ultima ora dell’Imperatore, il Golem che appare a Gustav Meyrink, il suo “biografo”. E ancora: Ettore Schmitz tra i naufraghi del Wien, Wittgenstein in viaggio da Asiago a Cassino, Oskar Kokoschka che è dato per disperso o l’epidemia che uccide Egon Schiele. “Esistono incantevoli libri segreti che raddoppiano, anche per questa loro qualità, il piacere della lettura. Il piccolo almanacco di Radetzky appartiene a quel genere”, scrisse Corrado Augias. Aggiungendo come “in un periodo così affollato di cronache, romanzi, storie, Forti è stato capace di mettere insieme avvenimenti ed episodi che mai nessuno prima aveva accostato con tanta appassionata perizia e finezza d’evocazione. Così facendo ci dà di quegli anni di guerra un volto inaspettato e più d’una sorpresa”. Quelle narrate da Forti ( eccellente traduttore, morto nel 199 a 77 anni) sono storie familiari e remote, trascritte come fogli di un “lunario” che racconta, dal 1914 al 1918, anno per anno, mese per mese, il tramonto dell’Impero e le vicende personali dei suoi scrittori e dei suoi artisti, fino alla sconfitta che distruggerà la vecchia compagine e libererà nuovi demoni. In pratica, la fine di un mondo e di un modo d’intendere la vita e i rapporti tra gli uomini che non avrebbe più avuto eguale.
Marco Travaglini
L’obiettivo primario era la città di Kokura, non distante da Fukuoka, nella parte settentrionale dell’isola di Kyushu, sede di un grande deposito di munizioni dell’esercito giapponese. Ma il cielo era coperto di nubi e la visuale pessima. Così si optò per l’alternativa e questa portava il nome di Nagasaki
Nagasaki si estende al centro di una lunga baia, che rappresenta il miglior porto naturale dell’isola di Kyūshū, nel sud del Giappone. Il suo nome, letteralmente, significa “lunga penisola”. Il 9 agosto del 1945 diventò il secondo obiettivo su cui sganciare una bomba atomica. Il bombardiere B-29 Superfortress dell’aviazione americana (esemplare numero 44-27297, ribattezzato “Bockscar”) portava in pancia “Fat Man” (in italiano “ciccione“). Quel nomignolo era stato assegnato alla Model 1561 (Mk.2), la terza bomba atomica approntata nell’ambito del Progetto Manhattan, il secondo e ultimo ordigno nucleare mai adoperato in combattimento. In origine non era previsto che la città di Nagasaki finisse nel mirino dell’aereo pilotato dal maggiore Charles W. Sweeney.
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Era, come si usa dire, “la seconda scelta”. L’obiettivo primario era la città di Kokura, non distante da Fukuoka, nella parte settentrionale dell’isola di Kyushu, sede di un grande deposito di munizioni dell’esercito giapponese. Ma il cielo era coperto di nubi e la visuale pessima. Così si optò per l’alternativa e questa portava il nome di Nagasaki. Così la bomba finì sulle acciaierie Mitsubishi situate poco fuori quella città. “Fat Man” esplose a un’altezza di mezzo chilometro sulla città e sviluppò una potenza di 25 chilotoni, quasi il doppio di “Little Boy” , l’ordigno sganciato dal bombardiere “Enola Gay” che esplose tre giorni prima su Hiroshima. Ma, dato che Nagasaki era costruita su un terreno collinoso, il numero di morti fu inferiore a quelli prodotti dalla prima bomba. A Hiroshima morirono istantaneamente per l’esplosione nucleare tra le 66.000 e le 78.000 persone e una cifra simile rimase ferita. Per due volte, in tre giorni, il sole cadde sulla terra. Un numero elevato di persone persero la vita nei mesi e negli anni successivi a causa delle radiazioni e molte donne incinte persero i loro figli o diedero alla luce bambini deformi. Il numero totale degli abitanti uccisi a Nagasaki venne valutato attorno alle 80.000 persone, incluse quelle esposte alle radiazioni nei mesi seguenti.
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La sorte volle che tra le persone presenti a Nagasaki quel 9 agosto di settant’anni fa vi fossero anche un ristretto numero di sopravvissuti di Hiroshima. Entrambe città furono rase al suolo. Un disastro che costrinse, meno di una settimana dopo, il 15 agosto 1945, l’imperatore del Giappone Hirohito a presentare agli alleati la resa incondizionata. Con la firma dell’armistizio, il 2 settembre del 1945, si concluse di fatto il secondo conflitto mondiale. Settant’anni dopo i bombardamenti atomici su Hiroshima e Nagasaki, due ospedali della Croce Rossa giapponese stanno curando migliaia di persone che continuano a patire le conseguenze di questi attacchi. Secondo fonti ufficiali della Federazione internazionale della Croce Rossa e della Mezza Luna Rossa questi ospedali – nel 2014 – si sono presi cura di 4657 vittime dell’esplosione a Hiroshima e 6030 di quella di Nagasaki.
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Si calcola inoltre che diverse migliaia di queste persone continueranno ad avere necessità di cure, nei prossimi anni, per le problematiche legate alle radiazioni. In totale, tra i due centri sanitari sono stati ospedalizzati 2,6 milioni di persone per le conseguenze legate alle radiazioni. Il 63 % dei decessi registrati nell’ospedale di Hiroshima, in funzione dal 1956, sono stati causati da diversi tipi di cancro. Tra questi, il 20 % per cancro al polmone, il 18 % per cancro allo stomaco, il 14 % per neoplasie al fegato, il 7 % per cancro all’intestino e un altro 6 % dai linfomi maligni. Nell’ospedale di Nagasaki, che cominciò a funzionare nel 1969, i morti per cancro rappresentano, fino a marzo dell’anno scorso, il 56% del totale. Secondo la Croce Rossa, l’incidenza di leucemia tra i sopravvissuti dei bombardamenti fu di quattro o cinque volte superiore rispetto alle persone non esposte alle radiazioni durante la prima decade, e diminuì successivamente. Una contabilità tremenda, eredità diretta di quello che fu l’inizio dell’era del terrore nucleare. Settanta anni dopo, la memoria di ciò che è stato deve indurre a far sì che nessuno debba più scrivere, di fronte alle atrocità della guerra, quello che il copilota, capitano Robert A. Lewis , annotò sul diario di bordo del bombardiere “Enola Gay” dopo aver verificato con un binocolo gli effetti della bomba sganciata su Hiroshima: “My God what have we done?”, ““Dio mio, cosa abbiamo fatto?”.
Marco Travaglini
Bmw richiama 300 mila veicoli
La BMW richiama in Europa 324.000 vetture diesel per il rischio di incendi legato a un modulo di ricircolo dei gas di scarico. Il difetto è nelle serie 3, 4, 5, 6 e 7, nella serie X3 e X6 equipaggiate con i motori diesel a 4 cilindri, vetture prodotte da aprile 2015 a settembre 2016 e quelle con motori diesel a 6 cilindri dal luglio 2012 al giugno 2015. Il componente potenzialmente difettoso deve essere controllato ed eventualmente sostituito per evitare il rischio che piccole quantità di liquido di raffreddamento possano miscelarsi a fuliggine e tracce di olio creando una miscela che potrebbe incendiarsi a temperature elevate.
Il Memoriale è l’unico luogo di internamento, di transito e di deportazione ancora intatto e aperto al pubblico in Francia, dove la memoria e la storia della Shoah s’incrocia e sovrappone ai crimini commessi durante la Seconda Guerra Mondiale dal governo collaborazionista e filonazista di Vichy
Al Chemin de la Badesse, distante pochi chilometri da Aix-en-Provence, si trova il Memoriale del Camp des Milles. Siamo nel sud della Francia, dipartimento delle Bocche del Rodano, nella regione della Provenza-Alpi-Costa Azzurra. Il Memoriale è l’unico campo di internamento, di transito e di deportazione ancora intatto e aperto al pubblico in Francia, dove la memoria e la storia della Shoah s’incrocia e sovrappone ai crimini commessi durante la Seconda Guerra Mondiale dal governo collaborazionista e filonazista di Vichy e alle assurdità della prigionia degli “indesiderabili”.Il cielo è coperto ma l’autunno è ancora dolce attorno alla grande fornace di Les Milles dove, tra il ’39 e il ’42, vennero internati migliaia di antifascisti d’ogni nazionalità, e, in seguito, gli ebrei avviati allo sterminio. Le alte ciminiere, come sentinelle mute, stanno ancora lì, circondate dalla campagna provenzale. Dentro l’antico refettorio dei guardiani del campo, si vedono ancora le pitture murali, opera degli artisti antifascisti che vi furono imprigionati.Nell’edificio vennero prima reclusi, in condizioni sempre più dure, migliaia di persone che si erano rifugiate in Francia, la maggior parte in fuga dal totalitarismo, dal fanatismo e le dalla persecuzione di alcuni paesi dell’Europa. La sua storia si articola in diverse fasi corrispondenti alle diverse categorie di internati che vi soggiornarono: cittadini del Reich e legionari, stranieri che desideravano emigrare e gli ebrei prima di essere deportati. Dal settembre 1939 a giugno 1940 fu un campo per “stranieri nemici”.
Una vicenda tragica e vergognosa, iniziata sotto la Terza Repubblica, all’inizio della seconda guerra mondiale, quando il governo francese decise di internare cittadini teschi in fuga dal nazismo e rifugiatisi in Francia. Considerati alla stregua di “soggetti nemici”, gli internati furono vittime di una miscela di xenofobia, assurdità amministrative al punto di vivere, in condizioni sempre più precarie, come appesi ad un filo. La scelta, nel sud-est francese, cadde su questo complesso industriale, trasformato in campo di internamento sotto il comando militare francese. Poi, nel giugno del 1940 si aprì la seconda “fase”, con l’invasione tedesca della Francia, la capitolazione di Parigi e la firma dell’armistizio. La Francia venne divisa in una zona militare di occupazione a nord e lungo le coste dell’Atlantico, mentre a sud fu instaurato un governo collaborazionista, la Repubblica di Vichy, guidata dal generale Pétain. In breve, sotto il regime di Vichy, il campo raggiunse i 3500 internati. Durante quel periodo vennero trasferiti al Camp des Milles anche gli anziani delle Brigate internazionali in Spagna e gli ebrei espulsi dal Palatinato e dal Baden- Württemberg. A partire dal novembre 1940, il campo passò sotto l’autorità del Ministero degli Interni. Le condizioni di internamento si deteriorarono: parassiti, malattie, promiscuità, mancanza di cibo, privazioni di ogni genere.
E, tra l’agosto e il settembre del 1942, si giunse alla “terza fase”, la più drammatica. Il governo filonazista di Vichy , impegnatosi a consegnare gli ebrei alle forze d’occupazione tedesche, accettò che venissero deportati anche i loro figli sotto i sedici anni. La storia del Camp des Milles mostrò il volto peggiore, con le intolleranze, gli ingranaggi, l’ideologia xenofoba e antisemita che portò alla deportazione di più di duemila uomini, donne e bambini ebrei dal campo in Provenza al lager di Auschwitz, attraverso Drancy e Rivesaltes. Con l’aiuto del pastore protestante Henri Manen e dell’ex guardiano Auguste Boyer (insigniti del titolo di “giusti” dello Stato di Israele) alcuni poterono fuggire. La maggioranza non fece più ritorno. Tra i bambini c’erano Jean Krauss, età: un anno; Daniel Kaminsky, due anni; Jürgen Schild, due; Noëmie Kaminsky, sette; Maria Kleinkopf, quattro; Rachel Rosner, cinque; Willy Zwirn, sei; Isaac Strumer, nove. All’esterno del Memoriale, su un binario morto, c’è ancora un vagone ferroviario di quell’epoca, a ricordarli. Inaugurato a settembre 2012, il Camp des Milles ora è un memoriale dove il percorso di visita, distribuito su 15 mila metri quadri, si sviluppa attorno alle tematiche della storia, della memoria e della riflessione. In quello che viene soprannominato il “Ve’ l’ d’ Hiv” del sud ( nel Vélodrome d’Hiver di Parigi, vennero internati 12.884 ebrei , dopo la retata del 16 luglio del ‘42– tra i quali 5.802 donne e 4.051 bambini – tutti deportati nei lager nazisti,vittime della “soluzione finale“), oggi si fa didattica della memoria e ci vengono le scuole con i loro studenti e docenti. Per non dimenticare la storia e ciò che può insegnare, per sconfiggere ignoranza ,indifferenza e razzismo. Per tener ben desta la ragione ed evitare che il suo sonno generi ancora i mostri che fecero del Camp des Milles, nonostante la bellezza del paesaggio attorno, dipinto nei quadri di Paul Cézanne, un luogo che restituì a chi fu costretto a viverci tanto dolore e sofferenza .
Marco Travaglini