DALL’ABRUZZO È finito in ospedale in osservazione intensiva breve, con un trauma cranico ed escoriazioni a un ginocchio, il carabiniere che è rimasto ferito dopo essere stato investito e trascinato per diversi metri da un ragazzo di 22 anni, di Vasto, che su uno scooter 500, non si è fermato all’alt. Il giovane era privo di patente di guida ed è stato rintracciato dopo alcune ore e arrestato per resistenza e lesioni a pubblico ufficiale.
Era la sera del 30 giugno 1990. Venotto anni fa, a Firenze. L’orologio indicava che di lì a poco sarebbero scoccate le 19,30 della sera e allo stadio Comunale ( quello che oggi porta il nome di Artemio Franchi) faceva un gran caldo. Nell’aria ferma e umida non c’era verso di trovare un briciolo di refrigerio. Ai calci di rigore si stavano decidendo i quarti di finale dei mondiali di calcio tra l’Argentina di Maradona e la Jugoslavia dei tanti talenti balcanici. Dopo 120 minuti di calcio a decidere fu un rigore di Faruk Hadžibegić, un difensore, maglia blu numero cinque della nazionale della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. Quello che, due anni dopo, fu l’ultimo ad indossare la fascia di capitano dell’ultima nazionale del paese prima che “la terra degli slavi del sud” si dissolvesse nella tempesta della guerra.Faruk tirò all’angolo ma si fece parare il tiro da Sergio Goycochea, il portiere della “selecciòn” di Buenos Aires. La Jugoslavia era eliminata. L’illusione era finita .Quel rigore fallito, in un certo senso, divenne il simbolo del destino di una nazione condannata a sgretolarsi in una guerra feroce come solo le guerre tra fratelli sanno essere. Quasi che un “penalty” potesse diventare il detonatore dell’implosione di un intero paese, pronto ad imboccare il tragico destino che sarebbe seguito di lì a poco. Raccontando questa storia nel suo “L’ultimo rigore di Faruk” (Sellerio), il giornalista Luigi (“Gigi”) Riva coglie la complessità di un evento che sembrava soltanto sportivo e con un’attenzione da storico e una spiccata sensibilità da narratore porta il lettore “dentro” la storia di questo tiro fatale. La leggenda popolare vuole che una eventuale vittoria nella competizione avrebbe contribuito al “ritorno di fiamma” di un forte sentimento nazionale per gli jugoslavi, scongiurando il crollo che si sarebbe prodotto con la dissoluzione del paese orfano di Tito. Una sorta di “Bratstvo i jedinstvo”, “Fratellanza e Unità” in chiave calcistica. Quella parola
d’ordine indicava meglio di altre il sentimento che univa i popoli della Jugoslavia, sottolineandone lo spirito laico, interetnico e tollerante sulla base del quale era stato rifondato il paese dopo il 1945. Una vicenda emblematica del rapporto perverso tra sport e politica. Proprio per la sua popolarità il calcio è sempre servito al potere come strumento di propaganda, dal fascismo che “usò” i trionfi del 1934 e 1938 ai generali argentini che sfruttarono il Mondiale in casa del 1978, per far dimenticare orrori e violenze della dittatura di Videla. Stessa cosa per l’Isis che decide di colpire lo Stade de France a Saint-Denis, nella banlieue parigina, durante una partita amichevole di calcio fra Francia e Germania, allo scopo di amplificare il suo messaggio di terrore. Ma, come si legge nel libro del caporedattore del settimanale “L’Espresso”, in nessun luogo come nella ex Jugoslavia il legame tra politica e sport è stato così violento e “malato”. Attraverso la vita del protagonista e dei suoi compagni (molti dei quali diventati poi famosi in Italia, da Boban a Mihajlović, da Savićević a Bokšić, da Jozić a Katanec),si scopre il travaglio di quella rappresentativa nazionale e del suo allenatore Ivica Osim, detto “il Professore”, o “l’Orso”. Nelle loro gesta s’intravede, come un immagine riflessa da uno specchio, la disgregazione della Jugoslavia e la volgare spregiudicatezza dei suoi leader politici, che vollero utilizzare lo sport e i suoi protagonisti per costruire il consenso attorno alle idee separatiste. E’ in questa chiave di lettura che il calcio può essere definito come il prologo del conflitto che insanguinò i Balcani occidentali nella prima metà degli anni ’90 del “secolo breve”. Come se su quei rettangoli d’erba verde ci si predisponesse alla prova generale delle future battaglie. Non a caso si attribuisce agli scontri tra i tifosi della Dinamo Zagabria e della Stella Rossa di Belgrado il primato di aver messo in scena, in uno stadio il primo vero episodio del conflitto. Era il 13 maggio del 1990 e, paradossalmente, il nome dello stadio della capitale croata era ( ed è tutt’ora) “Maksimir”, con un evidente sottolineatura della parola “mir”, cioè “pace”. E’ ormai noto come proprio nelle curve degli ultrà siano stati reclutati i
miliziani poi diventati tristemente famosi per la ferocia della pulizia etnica a Vukovar come a Sarajevo, a partire da quel Željko Ražnatović, meglio conosciuto come “Arkan”,leader degli ultrà della Stella Rossa e poi capo sanguinario delle milizie paramilitari serbe delle “Tigri”. Per il loro valore emblematico le vicende narrate ne “L’ultimo rigore di Faruk”, pur risalendo a un quarto di secolo fa, sono ancora terribilmente attuali e il libro le propone con grande intensità e passione. Faruk Hadžibegić oggi ha cinquantanove anni e vive in Francia. Ha conservato il fisico asciutto dell’atleta e fa l’allenatore di calcio (attualmente del Valenciennes, seconda divisione del campionato d’Oltralpe). Quella parata nell’angolino da parte di Goycochea l’ha rivista e pensata mille e mille volte in questi 26 anni. Quando la rimuove, ci sono gli altri a ricordargliela. Come quando torna nei paesi che un tempo formavano la Jugoslavia e al controllo passaporti, porgendo il documento alle guardie di frontiera di cui ben conosce l’idioma ( si possono cambiare i confini, non la lingua) si sente dire “Faruk Hadžibegić..Ah, se lei avesse segnato quel rigore! Forse cambiavano i destini del Paese”. Alle frontiere ci sono i dazi e questo è il suo dazio. Ci è abituato ormai,l’ex capitano dei “Plavi”: “otto volte su dieci, quando incontro ex jugoslavi è così”. La memoria di quel rigore è andata oltre, si è fatta leggenda. Faruk a volte s’interroga su cosa sarebbe successo se avessero sconfitto l’Argentina e poi, magari, giocato la semifinale e la finale. Forse non ci sarebbe stata la guerra, se avessero vinto la coppa del Mondo? Non c’è risposta, ovviamente. Resta solo il rimpianto dell’errore. E Gigi Riva, in chiusura, commenta: “Più passa il tempo più la benevolenza prevale sul rimprovero. L’eroe soccombente è comunque eroe. Ettore non è meno valoroso di Achille, nel suo lato fragile anche più simpatico. Non poteva essere diversamente nella terra dove si celebrano le gloriose sconfitte: la consolazione dei perdenti”.
Marco Travaglini
DALLA PUGLIA Abbaiava tropo e così il povero cane è stato dato alle fiamme sul balcone di un appartamento a San Pietro Vernotico, nei pressi di Brindisi. Ma Giako è salvo, anche se per miracolo. Infatti un passante se n’è accorto e ha chiamato soccorsi. Il veterinario giunto sul posto ha pubblicato un post su Facebook: “Scena da brivido: carabinieri, vigili del fuoco e il povero cane, fortunatamente vivo e in questo stato”. L’ animale è stato prima legato, poi cosparso di liquido infiammabile e gli è stata resa impossibile la fuga, chiudendo con un mobile la strada che gli avrebbe permesso di entrare in casa. L’appartamento è di una vecchietta che stava dormendo, sconosciuti sono arrivati al balcone e hanno commesso il vergognoso gesto.
(foto archivio)
Una fitta nebbia lattiginosa avvolge Venezia nascondendo calli e canali. Anche la laguna è nascosta sotto quell’umido mantello. La luce dei lampioni si riverbera sui lastroni di pietra dei colli Euganei che formano il selciato della Serenissima. Il vaporetto si stacca dal molo delle Fondamenta Nuove e punta verso la prima isola che si affaccia a nord di Venezia. A mano a mano che ci si allontana dalla riva la bruma si dirada un poco e si intravede il rosso dei mattoni dei muri di cinta e il profilo scuro e cupo dei cipressi dell’isola di San Michele, il cimitero monumentale di Venezia. Un tempo questo lembo di te terra veniva chiamato “cavana de Muran” perché offriva rifugio ai barcaioli diretti a Murano. Oggi è un luogo di pace, serenità e grandi silenzi. San Michele non fu sempre il cimitero della Serenissima. Prima dell’arrivo di Napoleone Bonaparte le salme dei veneziani venivano sotterrate negli spazi adiacenti alla chiesa parrocchiale di appartenenza — come ricordano inizioleti di campi e calli, i lenzuolini sui muri con dipinte le indicazioni stradali — e solamente i benefattori e i nobili potevano avere il privilegio di essere tumulati in chiese o chiostri.E quando non c’era più posto, i poveri resti
venivano trasferiti nelle isole della laguna. Con l’editto di Saint Cloud del 12 giugno 1804 (il famoso “Décret Impérial sur les Sépultures”) venne scelta l’Isola di San Cristoforo della Pace, posizionata di fronte alle Fondamenta Nuove, per accogliere la necropoli cittadina. Nel 1837, con un lungo lavoro che si protrasse per molti anni, venne interrato il piccolo canale che divideva San
Michele e San Cristoforo della Pace, formando un’unica isola, destinata interamente a cimitero cittadino. Sono molti i personaggi illustri inumati a San Michele. In due recinti sono ospitate le sepolture protestanti e quelle ortodosse, segno della millenaria accoglienza di Venezia verso le
altre religioni. Il poeta e saggista americano Ezra Pound è tumulato nel settore evangelico, entrando a sinistra, tra il viale centrale e il muro di cinta. Lì riposa anche il poeta russo Josif Brodskij, Premio Nobel 1987, che a Venezia dedicò le sue Fondamenta degli Incurabili.Nella parte ortodossa s’incontra la tomba di Igor Stravinskij, grande compositore e innovatore della musica di cui si ricordano l’ Uccello di fuoco, Petruska e la Sagra della primavera. Non distante c’è quella del grande impresario teatrale russo Sergei Diaghilev, passato alla storia per aver creato i Balletti Russi, la più rivoluzionaria compagnia di danza del XX secolo, che realizzò una fusione tra danza, musica, arte e moda. Sempre nella parte ortodossa vi è anche un monumento di grande bellezza, collegato a una triste storia d’amore. E’ la tomba di Sonia Kaliensky, giovanissima nobile russa che giunse a Venezia per i festeggiamenti del Carnevale del 1907, dimorando all’Hotel Danieli sulla riva degli Schiavoni. Tra l’allegria generale di una notte di Carnevale, la ventiduenne Sonia si tolse la vita con una dose letale di laudano a causa di una cocente delusione d’amore. Sono davvero tanti gli
ospiti illustri dell’isola di San Michele che vanno richiamati alla memoria. Tra questi il musicista e compositore Luigi Nono, gli storici Giulio Lorenzetti e Pompeo Molmenti, l’attore e grande interprete goldoniano Cesco Baseggio, i commediografi Riccardo Selvatico e Giacinto Gallina, i
pittori e incisori Virgilio Guidi, Emilio Vedova e Mario De Luigi, lo psichiatra Franco Basaglia, straordinario medico e riformatore al quale venne intitolata la rivoluzionaria legge sulla salute mentale, lo scienziato Christian Doppler, il calciatore e allenatore Helenio Herrera, il “mago” che fece grande l’Inter di Angelo Moratti. Due note curiose meritano un accenno. I veneziani meno giovani ricordano che ancora negli anni ’50 si accedeva al cimitero dall’entrata storica a fronte delle Fondamenta Nuove e il primo novembre di ogni anno, giorno della commemorazione dei morti, veniva costruito un ponte di barche, come quello che viene posizionato per la festa del Redentore, che consentiva di attraversare la laguna e collegava Venezia all’isola. L’altra vicenda riguarda la cartolina con una veduta dell’isola
dopo il tramonto che si trovava accanto alle altre immagini illustrate nei chioschi veneziani. La promessa di un appuntamento romantico s’intuiva dalla scritta invitante:”Manchi solo tu!”. Peccato che il luogo non fosse esattamente la “location” più indicata per un rendez-vous sentimentale. Evidentemente chi che le aveva fatte stampare era dotato di uno spirito decisamente burlone. Ma quello scherzo innocente non intendeva certamente mancare di rispetto a chi, veneziano o no, ha fatto dell’isola l’ultima sua dimora.
Marco Travaglini
DALLA PUGLIA La Polizia ha arrestato quattro di cinque presunti componenti di una gang nigeriana accusati di violenza sessuale di gruppo nei confronti di una giovane connazionale all’interno del Centro Accoglienza Richiedenti Asilo di Bari. I cinque sono ritenuti responsabili, in concorso, di violenza privata e violenza sessuale di gruppo. Hanno tra i 21 ed i 37 anni. Il quinto è ancora ricercato. A maggio 2017 i cinque sarebbero entrati all’interno di un modulo abitativo del Centro Accoglienza di Bari-Palese bloccando una ragazza nigeriana, di 24 anni, e poi l’avrebbero costretta, sotto la minaccia di un coltello, a subire un rapporto sessuale non consenziente. La giovane ha denunciato l’episodio.
Prof. ferita a sediate dagli studenti
DALLA LOMBARDIA Una professoressa di storia di 55 anni è stata ferita a colpi di sedia, mentre stava tenendo una lezione all’istituto superiore “Floriani” di Vimercate (Monza). La docente ha riportato ferite guaribili in cinque giorni e ha detto ai carabinieri di essere stata aggredita all’improvviso in classe. Alcuni alunni hanno spento le luci in aula ed altri le hanno scagliato addosso alcune sedie.
Fusa dalla millenaria ‘Pontificia Fonderia Marinelli’ di Agnone, scandirà per sempre il tempo dalla Torre Civica. Le parole preziose di plauso all’iniziativa del noto psichiatra Alessandro Meluzzi. Un sacro bronzo pregiato di ben 56 cm di diametro, nota MI, del peso di circa 100 kg. Un’opera d’arte unica, finemente realizzata dai Fratelli Armano e Pasquale Marinelli secondo un antico procedimento artigianale che da più di 1000 anni a questa parte fa della rinomata e storica ‘Pontificia Fonderia Marinelli’ di Agnone, da sempre la prima e più antica fabbrica di campane al mondo, già Sito Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco, una delle eccellenze italiane di spicco e fama internazionale. Queste le caratteristiche del prezioso oggetto, protagonista domenica 4 novembre, giorno tradizionalmente dedicato all’Unità Nazionale e alla celebrazione delle Forze Armate, di una grande inaugurazione alla presenza delle autorità cittadine e della stampa, prima della sua definitiva collocazione su un’adeguata e moderna struttura dalla quale, dall’alto della Torre Civica del Comune di Luino (VA), scandirà il tempo diffondendo giornalmente armoniosi rintocchi di pace. “A novembre del 2017, appresi casualmente dai media locali dell’intento lodevole di questa campana, che originariamente avrebbe dovuto vedere la luce nel 2011, in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, a rimpiazzare l’antica preesistente di cui si sono da tempo perse le tracce“, ricorda Maurizio Scandurra, giornalista appassionato di sacri bronzi e testimonial dell’Azienda produttrice. Che prosegue: “Ho trovato in Pier Marcello Castelli, Assessore alla Cultura e uomo di territorio appassionato e dalle solide radici, l’interlocutore giusto su di una scala di valori umani, etici e civili condivisa con cui dar compiutezza a un progetto da tempo desideroso di piena realizzazione. E nell’ottimo Sindaco e Avvocato Andrea Pellicini una figura realmente sensibile e attenta alla nobiltà intrinseca di questa iniziativa“, aggiunge Scandurra.
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“Nasce così la ‘Campana dei Tre Anniversari’, atta a rievocare anche le eroiche gesta dei gloriosi Alpini: pensata inizialmente per il 150° (1861-2011) dell’Unità d’Italia, celebra ora altresì anche il primo 150° (1867-2017) dalla posa del primo monumento italiano eretto a Giuseppe Garibaldi ancora vivente in Luino, opera dello scultore Alessandro Puttinati. Oltre al centenario della fine della Grande Guerra (1918-2018): con un pensiero fuso in memoria dei gloriosi Alpini, a testimonianza del fatto che, alle volte, anche un ritardo può trasformarsi in un’opportunità preziosa di aggregazione e richiamo di maggior eco e significato, se destinato per sempre a essere fissato nel bronzo, come in questo caso, sapientemente lavorato e decorato dai Fratelli Armando e Pasquale Marinelli, 31esima generazione dei Maestri d’Arte e Fonditori di campane più apprezzati e richiesti da sempre in tutto il mondo“, conclude il giornalista, fra l’altro anche designer della campana in oggetto, che omaggerà al Comune di Luino, insieme ai Fratelli Armando e Pasquale Marinelli, anche una preziosa targa commemorativa a ricordo della ricorrenza da collocare all’interno dei luoghi più suggestivi del Palazzo Civico. All’iniziativa giunge il plauso del noto psichiatra e studioso di fama internazionale, nonché saggista, sociologo e criminologo Alessandro Meluzzi: “Quello delle campane è un suono archetipico. Rimanda effettivamente a delle frequenze, a dei disegni sonori che fanno parte del repertorio più antico, più tradizionale, e tutto sommato più solido e più sano dell’animo umano. C’è un’antica tradizione greco-orientale per la quale il rumore delle campane spaventa i demoni, i diavoli. Infatti nei turiboli di quei luoghi v’è tutta una serie di campanelle che adornano i paramenti sacri dei sacerdoti, dei vescovi, ma anche degli stessi turiboli per l’incenso. Le nostre campane che hanno popolato anche il paesaggio uditivo e visivo attraverso molti dei campanili dei nostri mondi, sono state talvolta silenziate poiché sembravano disturbare il sonno con il suono sistemico delle loro voci“, spiega il noto studioso. Che prosegue: “Noi crediamo invece che il suono delle campane abbia non soltanto qualcosa di familiare, di consueto, di dolce e di avvolgente, ma anche di rievocativo. Rimanda alla storia, all’identità, alle nostre radici. Un albero senza radici e senza storia non conta nulla”.
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Conclude così il Professor Meluzzi: “Ci sono campane di capace, ma anche campane che hanno segnato la forza della difesa di un popolo nei confronti degli invasori ai confini. Hanno chiamato a raccolta gli uomini di Pier Capponi di fronte all’azione militare di Carlo VIII. Con questa nuova Campana dei Caduti di Luino vogliamo ricostruire la rete di solidarietà, di identità, di nazione e di popolo tramite il meltin pot che è il contrario del mix di culture sgangherate ed è altresì il contrario del caso. La campana è un suono ordinato che è fonte di ordine, gioia, di alchimia e armonia, oltre che di quella dimensione nella quale un popolo, una persona una famiglia si raduna intorno a un desco ordinato per celebrare il meglio della propria identità”. “Dopo cento anni dalla fine della Grande Guerra, dopo cinquant’anni dalla posa del monumento dei Caduti in Piazza Risorgimento, la Città di Luino celebra Vittorio Veneto e ricorda con commozione il sacrificio dei seicentocinquantamila morti italiani“, afferma con soddisfazione il Primo Cittadino di Luino,
Avvocato Andrea Pellicini. “La realizzazione di questa campana è stata una bella e impegnativa ‘Avventura’ che si conclude ora con un’opera d’arte che resterà a perenne memoria” gli fa eco l’Assessore alla Cultura, Pier Marcello Castelli. Il programma dell’evento prevede alle 9.45 la posa, da parte di una delegazione ufficiale, di una corona alla Cappella dei Caduti presso il Cimitero di Luino. Alle 10.30, invece, avrà luogo la Santa Messa presso la Chiesa prepositurale dei Santi Pietro e Paolo. Alle ore 11.15, invece, al via il corteo lungo le vie cittadine con posa delle corone al Monumento dei Caduti in Piazza Risorgimento e al Monumento a Giuseppe Garibaldi nell’omonima Piazza, per poi raggiungere il Palazzo Comunale ove verrà benedetta la campana celebrativa. A seguire i discorsi del Sindaco e del Generale di Squadra dell’Aeronautica Militare Stenio Vecchi. Alla manifestazione parteciperà altresì la Musica Cittadina di Luino ‘M.tro Pietro Bertani’.
Tutte le informazioni sul sito www.comune.luino.va.it
Al via “Scopri gratis l’Italia”
Orgogliosamente ignoranti
Chissà se la media dei politici conosce che cosa è avvenuto in via Rasella? O leggermente prima in piazza Barberini, a Palazzo Barberini? Si stava facendo e si è fatta la Storia di questo nostro paese. I gappisti travestiti da netturbini facevano saltare mezza divisione tedesca ed i romani conoscevano la ferocia nazifascista. E il futuro Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat rompeva con i compagni socialisti capeggiati da Pietro Nenni. Padri della nostra Repubblica. Bene, dubito che molti sappiano, ora che l’ignoranza va di moda nel Paese. Direi quasi che si deve dimostrare di essere
orgogliosamente ignoranti. Così non c’è sospetto di essere stati della “casta”. Anche su questo qualcosa non funziona. Ho assistito ad una seduta del Senato. Questi nuovi senatori tanto attenti non mi parevano quando i loro colleghi parlavano. Non tutti ovviamente, ma la maggioranza sì. Decisamente ridanciana. Ad una più attenta osservazione Giorgio Napolitano era invece
decisamente attento. Cordiale con chi lo omaggiava ma risoluto nel voler ascoltare e rimandare dopo i saluti. Solo formalismo istituzionale? Non penso proprio. Sicuramente sentire il dovere del proprio ruolo ad oltre 90 anni. Non è poco. Ed allora ecco decido di girare per Roma tra ricordi e ” pellegrinaggi” dei luoghi della prima repubblica, quando conoscere era indispensabile, non sufficiente ma fondamentale. Quasi sempre non si era
d’accordo tra le parti politiche ma si sapeva che l’altro sapeva. Poi è arrivata Roma ladrona. E pensare che alcuni epigoni di ieri ora governano il Paese. Tra la prima Repubblica e questa attuale repubblichetta c’è stata la seconda che ha portato a casa poco o nulla. La Rivoluzione Liberale di marca Berlusconi si è infranta sulla prosecuzione di una Tangentopoli ante litteram. Da prima i Lombardi a prima il Nord, per finire a prima gli Italiani. Riformismo senza popolo, è l’ottima definizione del “compagno ” Dalema. Dove le virgolette non sono ironiche. E
poi Grillo che ascoltando il consiglio di Piero Fassino ha fondato un partito veramente, consegnandolo a Di Maio decisamente debole nel campo del sapere. Ma iniziamo il percorso “amarcord” partendo da via Del corso 476. Doveroso iniziare dal Psi sempre stretto tra PCI e Democrazia Cristiana, tra riformismo e stanza dei bottoni. Da Pietro Nenni che entusiasta accettò il premio Stalin, al suo figlioccio politico Bettino Craxi. Batteva i pugni se alle frontiere italiane non facevano entrare gli esuli antifascisti cileni e a Sigonella spiegò ai Marines americani che essendo nel territorio italiano non erano graditi ospiti. O Giusi La ganga il vero numero due responsabile Enti Locali che dai comunisti aveva ” imparato ” il centralismo democratico e a Torino diceva a Fiat e Agnelli: ” parliamoci”. In Via Della vite la Federazione nazionale dei giovani comunisti, dove ci venne presentato Massimo
Dalema. Sapevamo che arrivava da Pisa, figlio del romano segretario del PCI del Lazio, voluto da Enrico Berlinguer. Ciò bastava. Scelta incontestabile. Con tutti quei capelli neri, allora fumava ed era già cinicamente intelligente. Ci aspettava il ’77 dove violenza e terrorismo la facevano da padroni. Poi Piazza del Gesù che aveva visto entrare Enrico Mattei, Aldo Moro il divo Giulio o Amintore Fanfani. Oramai la Dc figlia del potere ed indissolubile dal potere. Democristiani e comunisti agli antipodi, due opposti che non hanno
impedito di fare la resistenza insieme. Aldo Moro che ha pagato con la vita le sue convergenze parallele, odiato dai servizi segreti inglesi e statunitensi. Infine il tormentato Zaccagnini, tormentato e diviso tra l’amicizia per la sorte del suo amico Moro ed il senso dello Stato che gli impediva di trattare con i banditi brigatisti in odore di servizi segreti russi. Ed ecco Botteghe Oscure: lo Stato nello Stato. Dove dal dopoguerra Palmiro Togliatti
nel sottotetto cominciò a vivere con Nilde Jotti clandestinamente perché il capo del Partito non può e non deve avere una “concubina”. E Luigi Longo da segretario aveva già deciso la sua successione scegliendo un certo Enrico Berlinguer, segretario tutt’altro che incontestabile. Ma nessuno doveva e poteva sapere di contrasti. Centralismo democratico, veniva chiamato. E lo spessore di Giorgio Amendola e di Pietro Ingrao con un altro futuro Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. E Nilde Jotti prima
presidente della Camera donna e comunista. Si faceva politica ognuno con la
propria filosofia. E che dire del Craxi riformatore che aveva capito che non era più possibile escludere i comunisti. O di Berlinguer che alla via italiana al socialismo aveva aggiunto la rottura con gli oppressivi sovietici che avevano per antonomasia sempre ragione. Del resto Dio non si contesta, e loro erano Dio in Terra. Torniamo al presente, forse sono solo nostalgico
di qualcosa che so perfettamente che non può e non sa ritornare. Ma lasciatemi dire che preferivo e preferisco quei tempi dove ignorare e non sapere o mancare di esperienza e capacità era una colpa. E la politica era una cosa seria.
Patrizio Tosetto
