Dall Italia e dal Mondo- Pagina 59

Il treno dei desideri che saliva sul Mottarone

MOTTARONE LAGODalla sommità del Mottarone  si può spaziare a 360° dalla catena dell’Appennino Ligure e delle Alpi Marittime al massiccio del Monte Rosa , fino alle imponenti cime elvetiche, passando attraverso la Pianura Padana 

Il Mottarone (1491 m. s.l.m.) è  sempre stato una montagna speciale, dolce nella fisionomia ( come un grande panettone) e maestosa nel posizionamento. Pur essendo tra le cime meno alte della catena alpina, dalla sua vetta lo sguardo si perde su di un panorama a dir poco unico, da molte parti indicato come pari, se non superiore in fascino, a quello della ben più alta vetta del Righi, la montagna svizzera resa famosa proprio dal suo straordinario scenario panoramico. Dalla sommità del Mottarone  si può spaziare a 360° dalla catena dell’Appennino Ligure e delle Alpi Marittime al massiccio del Monte Rosa , fino alle imponenti cime elvetiche, passando attraverso la Pianura Padana e la zona dei “sette laghi” (Orta, Maggiore, Mergozzo, Biandronno, Varese, Monate, Comabbio). Un tempo, in vetta, ci si poteva salire anche in treno. Infatti, la Società Ferrovia Stresa-Mottarone, svolse la sua funzione di pubblico collegamento tra il 12 luglio del 1911 – giorno della sua inaugurazione –  e la fine del 1962. Il tracciato della linea, lunga circa 10 km, partiva da Stresa con un doppio capolinea: dal piazzale dell’imbarcadero della navigazione  e dall’area antistante la stazione ferroviaria. I due rami si riunivano, appena fuori l’abitato, per continuare la loro salita sui fianchi della montagna, con un dislivello superiore ai mille metri. La ferrovia s’inarcava con un doppio sistema (da qui la denominazione della ferrovia, “ad aderenza mista”), ad aderenza naturale ed a cremagliera del tipo Strub.

L’alimentazione era a corrente continua a 750 Volt. Lungo la linea c’erano tre stazioni (Alpino – Gignese – Levo) e due fermate: cosicché l’interoMOTTARONE 2 percorso s’effettuava in 1 ora e 15 minuti. Il materiale rotabile veniva ricoverato a Stresa ed era composto da 5 elettromotrici e 3 rimorchiate “a giardiniera”; 4 carri di servizio completavano la flotta. Nel 1920 venne costruito un carro speciale porta sci che veniva agganciato in coda. Le motrici, in livrea gialla, erano di costruzione svizzera; i loro carrelli erano prodotti dalla SLM di Winthertur, azienda specializzata nella costruzione di materiale ferroviario ad aderenza artificiale. Le elettromotrici accoglievano fino a 110 persone cadauna, tra posti a sedere e posti in piedi. Il servizio si basava su tre coppie di treni in bassa stagione e sei coppie in alta. Era altresì prevista la possibilità di organizzare corse straordinarie su richiesta. La partenza della ferrovia fu un po’ rallentata a causa dello scoppio della Prima Guerra Mondiale ma, successivamente a questa, l’esercizio riuscì a mantenersi positiva: quindi,una gestione accorta sia relativamente al traffico locale sia dal punto di vista turistico. Incredibilmente e paradossalmente le cose andarono meglio durante la Seconda Guerra Mondiale: infatti, non avendo subito danni rilevanti dagli eventi bellici, fornì un comodo collegamento per i milanesi sfollati e rifugiati sulle pendici del monte; si pensi che l’anno 1945 fu toccato il record di 100 mila biglietti staccati!Con l’arrivo degli anni ‘50 e ‘60 iniziarono a farsi sentire lamentele, provenienti da più parti, sul fatto che la ferrovia era antiquata, improduttiva e che un servizio automobilistico o funiviario avrebbero potuto sostituirla. Con un po’ di lungimiranza, magari guardando all’esempio della vicina Svizzera,  si sarebbe potuto investire  sul rilancio e su di una moderna gestione di quella ferrovia turistica. Purtroppo la storia andò diversamente e così, nel giugno 1963, fu posta la parola “fine” alla Ferrovia “Stresa – Mottarone”.

Le vetture furono rottamate o vendute. Fino a qualche mese fa il collegamento tra Stresa e il Mottarone è stato svolto da una funivia, la cuiMOTTARONE TRENINO stazione è peraltro piuttosto distante dal centro cittadino, in località Carciano. Fino a qualche mese fa perché ora anche la funivia ha chiuso i battenti. Alle 17,40 del 30 ottobre scorso , dalla vetta del  Mottarone è partita  l’ultima corsa di ritorno della funivia, che ha poi cessato l’attività  per la scadenza del termine dei 40 anni vita, entro il quale è necessario provvedere alla revisione generale dell’impianto. Ad oggi la situazione si presenta tutt’altro che rosea, dopo l’esito negativo della gara d’appalto, andata deserta. Troppi oneri, troppe difficoltà. Dopo la chiusura del trenino ( prima ferrovia col sistema a cremagliera in Italia),  straordinaria occasione mancata di cinquant’anni fa, ora anche la funivia rischia di essere un ricordo. Il Mottarone , straordinaria vetta panoramica, è un po’ più solo e più lontano da Stresa, la  perla del lago Maggiore che lo guarda da sotto in su  intristita.

 

Marco Travaglini

Caccia al ladro: spariti gioielli per 150 mila euro nell’hotel dei vip

DALLA SARDEGNA Un colpo da maestro, con bottino da circa 150 mila euro, all’hotel Pitrizza di Porto Cervo, uno degli alberghi più esclusivi della Costa Smeralda, appartenente alla catena Marriott International di proprietà del fondo sovrano del Qatar. Un ricco cliente ha denunciato il furto delle cassaforte della villetta dell’hotel dove sarebbero stati custoditi dei gioielli di grande valore. Le indagini sono affidate ai carabinieri.

 

La gialla cotogna di Istanbul

Ma voi che ne sapete dell’amore? […] della passione che il mondo consuma?” Con questo incipit il lettore è invitato al racconto di un amore struggente e tumultuoso, nato dall’altra parte dell’Adriatico, in Bosnia, “la terra dei lunghi amori e dei lunghi rancori; una storia di amore e di morte che, affidata alla potenza della narrazione orale, ha attraversato le città e le nazioni sino a giungere a Paolo Rumiz, che ha deciso di metterla per iscritto, scegliendo la forma dell’endecasillabo. “La cotogna di Istanbul. Ballata per tre uomini e una donna” è un bellissimo libro, scritto magistralmente da Rumiz, ottenendo un buon successo.

Il racconto si snoda come un lungo, magico e dolorante poema di paesaggi, donne, passioni, strade, città, morte. Protagonisti di questo romanzo in versi, sono Max – un ingegnere austriaco – e Maša Dizdarević, donna bosniaca  austera e bellissima, con un passato intriso dalla storia del suo Paese. In una notte invernale a Sarajevo, con al neve che turbina nel vento, Maša “viso da tartara, femori lunghi e occhi come grani di uva nera” canta a Max  una sevdalinka, un’antica canzone d’amore di quelle terre:“Žute dunje”, la gialla cotogna di Istanbul. Sulle note di questa malinconica melodia, che narra di due giovani amanti e di un destino a loro avverso, scaturisce un legame profondo e indissolubile. Scrive il giornalista-narratore triestino: “Cantò nella sua lingua la struggente / tristezza dei distacchi che i balcanici / adorano ogni tanto condividere / con chi accetta di bere assieme a loro. / C’era un lamento, spesso ripetuto, / nella canzone, ed era lo stesso / che lui aveva sentito anni prima / sotto le muraglie di Diyarbakir…”. Paolo Rumiz non solo incanta ma riesce a far innamorare il lettore di tutti quei luoghi che fanno da sfondo alla narrazione: i Balcani, terra devastata dagli orrori della guerra; l’austera e asburgica Vienna, il Danubio che scorre entro i confini di dieci paesi e ,infine, Sarajevo , la città che contiene tutte le altre, da Trieste fino a Istanbul. Il suo linguaggio, ricercato ed elegante, descrive sapientemente non solo i luoghi ma anche tradizioni, riti, gli odori e i profumi di quel pezzo di Europa nato dall’incontro tra Oriente e Occidente. Nella bella Dizdarević si racchiude il mistero di quei luoghi (“Disse Maša: ‘Ancora qui si celebra / la vittoria del luogo sulle stirpi.”); con lei arriva il racconto della forza di un amore inamovibile, ampio, tremendamente calato nella cruda realtà, ma allo stesso tempo puro e ancestrale. Tra i luoghi emerge potente l’immagine di Sarajevo, serraglio per carovane, “femmina inerme in mezzo a maschi assetati di stupro”. E’ lì lo zenit in cui si incontrano Masa e Max, alla fine del confitto. Max ne rimane stregato. Basterà una cena, un timballo di carne, l’aroma del caffè. Basterà quell’ “impasto balcanico fatto di sangue e miele” per accendere la fantasia dell’uomo, che con la mente  cominciò a scavalcare secoli e montagne. Il resto lo farà una bottiglia di vodka gelata e  Maša che canta per lui con cuore ardente la canzone della cotogna d’Istanbul, dei due amanti in lotta col destino e contro la malattia della donna, la cui cura viene affidata proprio a quel miracoloso frutto giallo (“nasconde in sé anche il fiore”), che però arriverà tardi, troppo tardi. La scrittura di Rumiz ha una potenza evocativa incredibile, in questo libro, quasi sprigionasse un’energia e una profondità sconosciute: non solo scrittura o lettera, ma soprattutto è voce, parola, narrazione e ascolto. Ed è una fortuna, perché altrimenti dovremmo associarci al rimpianto di Max: “..che povero mondo è questo che ha perso / il gusto delle storie da ascoltare”.

Marco Travaglini

 

Si appoggia a un palo della luce e muore fulminato a 25 anni davanti alla futura sposa

DALLA CAMPANIA Probabilmente è stato fulminato da una scarica elettrica appoggiandosi ad un palo della luce, non dell’illuminazione pubblica,  ma un lampioncino  all’interno del parco in cui voleva entrare. E’ morto in questo modo a Santa Maria Capua Vetere, nel Casertano, un giovane 25 enne . Il ragazzo  era insieme alla fidanzata, davanti al cancello di ingresso del parco dove vive la ragazza. Poiché lei aveva dimenticato  le chiavi del cancello ma non voleva  svegliare i genitori, essendo ormai notte fonda, a  quel punto il giovane ha scavalcato toccando un lampioncino  di fianco al cancello ed è rimasto fulminato, morendo sul colpo. La tragedia davanti agli occhi della fidanzata, che avrebbe dovuto sposare a settembre. 

La patata,” pomo di terra” e pane dei poveri

 La patata si diffuse e fu, insieme alla castagna, il cibo principe di molte popolazioni in quegli anni difficili. Prima dell’avvento della patata, un nucleo familiare contadino per potersi garantire l’autosufficienza, dal punto di vista alimentare, necessitava di una discreta zona di terra, dove per lo più seminava segale e piantava fagioli, piselli e cavoli; un piatto molto comune era appunto una sorta di stufato composto da piselli e fagioli, radici o cavoli, qualche erba e raramente della carnepatata 33

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Per prolungare un tempo senza fine la durata dei Pomi di terra in sostanza, bisogna farli bollire un poco in acqua alquanto salata; ciò che dicesi volgarmente bianchire e quindi tagliarli in fette, ed esporli sopra un forno da pane. Essi allora acquisteranno secchezza, e trasparenza d’un corno: messi quindi in un vaso con un poco d’acqua o d’altro liquore, sopra un fuoco dolce, somministrano un alimento sano, uguale alla radice fresca. Riducendoli in polvere danno una zuppa, ed un brodo molto salutar Questo mezzo porge il grandissimo vantaggio di conservare da pertutto e per secoli senza pena e senza spesa,il superfluo della provvigione diciascun mese“.  Pubblicato cinque anni dopo la Rivoluzione Francese ( “Istruzioni sopra la coltura e gli usi dei Pomi di terra”, Cognet, Nizza 1794 ), questo metodo per conservare a lungo le patate, il “pane dei poveri”, dà l’idea di come si stesse diffondendo all’epoca, per necessità prima ancora che per scelta, l’uso alimentare di uno dei tuberi più famosi. I tempi di allora dispensavano carestia e povertà, soprattutto in montagna e nelle campagne. Così la patata sipatata5 diffuse e fu, insieme alla castagna, il cibo principe di molte popolazioni in quegli anni difficili. Prima dell’avvento della patata, un nucleo familiare contadino per potersi garantire l’autosufficienza, dal punto di vista alimentare, necessitava di una discreta zona di terra, dove per lo più seminava segale e piantava fagioli, piselli e cavoli; un piatto molto comune era appunto una sorta di stufato composto da piselli e fagioli, radici o cavoli, qualche erba e raramente della carne. A pari superficie coltivata, le patate producevano una quantità d’amido che era da due a tre volte superiore alla segale. E non era cosa da poco. In Europa, furono gli irlandesi  tra i primi ad usare come nutrimento umano la patata, non perché fossero più furbi, ma perché stavano letteralmente morendo di fame.  In Inghilterra la massima espansione della patata si registrò tra il 1770 e il 1860. In Germania già nella prima metà del ‘700 si mangiavano patate. Nei Paesi Bassi, nel 1800, era l’alimento nazionale. In Francia, al contrario dei paesi ora menzionati, nonostante la pubblicità della famiglia reale (Maria Antonietta ne portava addirittura i fiori sul corpetto) non ebbe grande successo. I cugini d’oltralpe, chissà poi perché,  continuarono ad essere eccessivamente diffidenti nei confronti della patata, che definivano “strano ortaggio”. In Italia la patata fece la sua comparsa in punta di piedi, all’inizio del secolo dei Lumi, introdotta dal granduca Ferdinando II di Toscana.  Ma , appena affacciatasi sulle “terre alte”, la patata contribuì a rivoluzionare l’alimentazione nelle alpi. Anzi, fu proprio dalle nostre zone montane che venne diffusa nel resto d’Europa. Gli italiani la chiamarono “tartuffolo”, da cui la traduzione in tedesco Tartofflen e patata1Kartoffen. Inizialmente, il popolo non la conosceva o pensava che potesse portare malattie come la lebbra. Veniva coltivata solo in periodo di guerra o carestia e, in montagna, cominciò ad essere usata solo dal XVIII secolo, nonostante avesse caratteristiche ideali per l’alta quota (ad esempio, resisteva alla grandine e al freddo). Il primo documento sulla coltivazione della patata nelle zone alpine risale al 20 settembre del 1741, mentre sembra che, nel 1759, la patata sia entrata a far parte della “grande decima” (cioè venne istituita una tassazione su di essa). Le testimonianze dell’epoca ci raccontano che, grazie alla patata, si combattevano meglio le carestie La patata, infatti, poteva essere coltivata fino a quasi duemila metri, assicurando sempre un minimo di raccolto; si conservava a lungo e, garantiva un buon contenuto proteico. Non solo: la patata poteva anche migliorare la produzione del pane e ridurre il consumo di granaglie, così preziose nell’economia alpina. Inoltre, vennero scoperti nuovi tipi di patate; tra queste vale la pena di ricordare la patata di Formazza , “titolare” di un colore rossastro e di una pasta giallo-scura, medio-piccola e tondeggiante, dal fiore viola e dal fusto sottile e robusto. La patata, dunque, dava da vivere. Ecco perché venne considerata la “benedizione della montagna”. A sostenerne la diffusione furono sempre i motivi di necessità, in concomitanza con gli elevati prezzi dei cereali ( che aumentavano per i crolli di produzione causati quasi sempre o dalle guerre o da annate segnate da gelate primaverili, grandinate, alluvioni e siccità).Così, nel tempo, le migliori, le più belle e saporite patate hanno contribuito a salvare dall’esodo le vallate alpine. Da quando fece la sua comparsa in Europa, “emigrante” dalle Americhe, ha suscitato prima curiosità e poi, via via , ammirazione e riconoscenza, soprattutto da parte di chi, grazie a “lei”, ha evitato di morire di fame. Per la diffusione della sua coltivazione da noi bisogna arrivare però alla fine del ‘700, quando un intraprendente cuneese – l’ing. Giovanni Vincenzo Virginio -, contemporaneamente al botanico francese Parmentier, ne propagandò la coltivazione in Piemonte, offrendo – tra l’altro – i tuberi gratuitamente  sul mercato di Torino nel 1803. Da quel momento la pataticoltura si diffuse, moltiplicando le “cultivar” locali, tra le quali la  “Rossella” , tipica delle vallate del nord del Piemonte. Sotto il profilo dei caratteri botanici, la patata ( “solanum tuberosum” ) appartiene alla famiglia delle patata7solanacee – come il pomodoro -, ed è una pianta perenne anche se da noi viene tenuta in coltura per un solo anno. Si propaga per tubero (costituito da un 75% di acqua e da un 20% di amido ), ha un apparato radicale di notevole sviluppo, i suoi fiori – raccolti in corimbi – sono bianchi o violacei. La patata fruttifica poco ed in modo irregolare: il “frutto” è una bacca più o meno sferica, giallastra quando matura. Nelle parti verdi e nel tubero, contiene un alcaloide velenoso, la “solanina”. Abbiamo poi patate molto patata3precoci – che durano in vegetazione settanta giorni – ed altre molto tardive, che impiegano a svilupparsi oltre cinque mesi . Per il terreno  è di “bocca buona”, non ha grandi esigenze: basta che sia fresco ed un poco, ma poco, acido. Predilige i climi freschi, i cieli coperti, un buon rifornimento idrico ma senza esagerare.  Infatti, se l’umidità è eccessiva il prodotto è scadente e poco conservabile, mentre nei terreni troppo sciolti o piuttosto aridi, i tuberi rimangono piccoli. La patata è una coltura da rinnovo e quindi esige delle accurate lavorazioni, un ottima e generosa concimazione. Si “avvicenda”con alcuni cereali e nelle vallate piemontesi un tipico esempio è offerto dal “tandem” patata-segale. Si coltiva in ogni latitudine e ad ogni altitudine, a conferma della sua grande adattabilità. Salvo che in giugno e luglio, si seminano le patate in tutti i mesi ( in montagna, tra aprile e maggio): la quantità di seme dipende, ovviamente,  dalla qualità  e dalla varietà del terreno, ma una media ragionevole è di circa 15 quintali per ettaro, vale a dire da 6 a 10 piantine per metro quadro. Dai tempi in cui donna Teresa Castiglioni de Ciceri – dama lombarda, nata nell’ottobre del 1750 ad Angera, sulla sponda “magra” del lago Maggiore – affascinata dal progresso delle scienze e grande amica di Alessandro Volta, ne  introdusse la coltivazione nelle terre dei laghi dell’Insubria, è passata moltissima acqua sotto i ponti  e, più che altro, una infinità di quintali di patate nelle nostre cucine.

 

Marco Travaglini

Il Piemonte continuerà a rifornire di marmo il Duomo di Milano

Da parte del Piemonte continuerà a essere garantito negli anni e senza aggravio di burocrazia, il prelievo dalle cave di Candoglia (Vco) dei marmi bianco-rosa necessari alla Fabbrica del Duomo di Milano per la continua manutenzione della Cattedrale meneghina.Con l’emendamento 114 al testo del Defr licenziato a maggioranza dalla prima Commissione (Bilancio), presieduta da Vittorio Barazzotto, si prevede infatti: “L’autorizzazione viene rilasciata anche in deroga al limite” temporale di 15 anni previsto dalle norme piemontesi e  “in relazione alle necessità di approvvigionamento della Fabbrica, che è esentata dalla presentazione di garanzie finanziarie dell’articolo 33”.Nella relazione all’emendamento presentato dall’assessore all’Economia Giuseppina De Santis, si precisa che esso si è reso necessario per adeguare la durata dell’autorizzazione alle “peculiari esigenze della Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano, che utilizza il marmo estratto dal giacimento di Candoglia unicamente per le necessità di manutenzione e sostituzione delle parti ammalorate del monumento milanese e, pertanto, necessita di estrarre modesti quantitativi di pietra per un arco temporale di respiro maggiore rispetto alla durata quindicennale prevista dalla legge, essendo continuativamente in esercizio da oltre sei secoli”. Anche per questi motivi non si rende “necessaria la presentazione di garanzie finanziarie, che graverebbero inutilmente sui costi dell’istituzione”.

Cucciolo di cane gettato nel fosso, tre ragazzi lo salvano calandosi per tre metri

DALLA CALABRIA

In mezzo ai rovi a Motta Santa Lucia, nel Catanzarese, è stato trovato un cane gettato dalla strada e abbandonato. Si chiama Ares, un  meticcio che sarebbe morto se non fosse stato salvato da tre ragazzi che si sono calati nel fosso di  tre metri. Ad attirare l’attenzione dei ragazzi i lamenti disperati del cucciolo che doveva trovarsi in quella situazione forse da giorni.  Affamato, magrissimo e infestato da parassiti, il cucciolo ha riportato ferite al cranio e alla spina dorsale. Il cane, affidato alle cure di un veterinario,  è in prognosi riservata. 

 

(foto archivio)

La pattuglia del Passo S. Giacomo

OlmiPattuglia Passo San Giacomo

Uno dei numerosi documentari in cortometraggio che Ermanno Olmi girò negli anni Cinquanta su commissione della Edison, per la quale al tempo lavorava. L’azienda impose come unico limite all’opera del giovane regista ( a quel tempo poco più che ventenne ) che il tema fosse il lavoro, narrando per immagini la rapidità di risposta dei tecnici Edison anche nelle condizioni più difficili

Sulle pendici innevate del Passo San Giacomo, nell’alta Val Formazza, al confine con la Svizzera, un albero abbattuto malamente ha tranciato i cavi dell’alta tensione. Dalla centrale elettrica, inforcati gli sci, partono i tecnici per controllare il guasto. La pattuglia dei riparatori si mette in cammino su un percorso che suggerisce alla narrazione fatica e tempi lenti. Devono trasportare il necessario per la riparazione e lavorare nel bagliore accecante della neve.La scalata al traliccio, necessaria per riparare il guasto, offre immagini di forte impatto, una sorta di “alpinismo elettrico” raccontato con piglio neorealista. “La pattuglia di Passo San Giacomo” è uno dei numerosi documentari in cortometraggio che Ermanno Olmi girò negli anni Cinquanta su commissione della Edison, per la quale al tempo lavorava. L’azienda impose come unico limite all’opera del giovane regista ( a quel tempo poco più che ventenne ) che il tema fosse il lavoro, narrando per immagini la rapidità di risposta dei tecnici Edison anche nelle condizioni più difficili. Olmi realizzò così una serie di “corti”, con interpreti non professionisti, diretti benissimo. Ne “La pattuglia del Passo San Giacomo” la narrazione venne affidata a una voce esterna, con un testo scritto da Silvano Rizza, che firmò anche il commento per “La diga del ghiacciaio”, che il regista diresse l’anno successivo. Il film, undici minuti di durata in tutto, lontano da intenti celebrativi e privo di slanci retorici, attento a testimoniare l’attività di umili e anonimi individui che – davanti alla macchina da presa – diventano protagonisti di una vicenda corale raccontata con modi e ritmi inconsueti, vinse il primo premio nella categoria “I problemi industriali della montagna” al Festival di Trento del 1954. Nelle sale cinematografiche la pellicola venne abbinata a “La donna del fiume” di Mario Soldati (un melodramma padano al quale lavorarono otto soggettisti e sceneggiatori tra cui Bassani, Moravia e Pasolini, consacrando Sophia Loren come star, lanciandola verso Hollywood), dove fu vista da otto milioni di spettatori. Feltrinelli, nella collana Real Cinema, qualche tempo fa ha pubblicato il cofanetto “Ermanno Olmi. GLI ANNI EDISON. Documentari e cortometraggi 1954-1958“.  Il  Dvd ,che raccoglie “i meravigliosi, inediti “piccoli film” del giovane Olmi, racconti di lavoro, tra campagne e fabbrica, già pieni della grazia e della forza di un maestro che non ha mai smesso di cercare“, è accompagnato da un agile libro, “I volti e le mani”, a cura di Benedetta Tobagi.

Marco Travaglini

 

Ecco come è morto Kaos, il cane eroe

Kaos, il cane eroe di Amatrice è morto avvelenato da metaldeide, un prodotto chimico impiegato in agricoltura come lumachicida. Questo l’esito degli esami finali dell’Istituto zooprofilattico di Abruzzo-Molise. Non è possibile sapere se per avvelenamento doloso o per assunzione involontaria da parte del cane. In un primo tempo, dopo la notizia della sua morte per avvelenamento, si era diffusa la voce che fosse invece stato stroncato da un infarto. Ora è arrivata la conferma dell’assunzione di veleno.

Ragazzo ucciso a colpi di pistola nella piazza piena di gente

DALLA PUGLIA – E’ stato assassinato  in un agguato in piazza Abbazia, a Corato, in provincia di Bari, un albanese di 23 anni.  Era sera e la piazza era affollata. Dalle prime ricostruzioni sembra che due persone  su uno scooter, abbiano affiancato il giovane sparandogli  alle spalle e colpendolo alla testa e ad un polmone. Sul movente stanno indagando i carabinieri.