DALLA LIGURIA
Un ragazzo di 25 anni, originario del Brasile ma fino a pochi mesi fa residente a Carcare, nel Savonese, è morto investito da alcune auto e da un camion sull’autostrada A6 tra i caselli di Millesimo e Altare, in Liguria. La polizia cerca di capire perché il giovane stesse percorrendo a piedi quel tratto di autostrada. Tra le ipotesi al vaglio anche quella di un guasto all’automobile o che fosse stato fatto scendere da qualcuno per arrivare alla sua casa, proprio sotto il tratto in cui è morto.








REPORTAGE di Marco Travaglini
duro lavoro, uccisioni e torture. Nei primi tempi molti detenuti furono costretti a dormire all’aperto perché non erano ancora state completate le baracche. Per la mancanza d’acqua, in tantissimi bevvero l’acqua del fiume Sava e frequenti erano le epidemie di tifo, malaria, dissenteria e difterite. Le guardie permettevano ai prigionieri di lavare i loro pochi indumenti una volta al mese nel fiume. Solo chi aveva particolari abilità professionali, come medici, farmacisti, orefici e calzolai, aveva un trattamento un po’ più umano. Per tutti gli altri toccava subire le angherie degli ustascia. 

ciascuna delle quali venivano ristretti fino a sei prigionieri, Queste celle erano riservate ai partigiani, ai politici, agli ebrei, destinati all’esecuzione a distanza di giorni, talora settimane. Le due prime celle venivano usate a fini di tortura o di raccolta di materiale prelevato ai prigionieri: vi sono stati rinvenuti, fra l’altro, migliaia di documenti d’identità, sequestrati non solo ai detenuti e ai deportati, ma anche ai lavoratori inviati al lavoro coatto (tutti i documenti, prelevati dalle truppe jugoslave che per prime entrarono nella Risiera dopo la fuga dei tedeschi, furono trasferiti a Lubiana, dove sono attualmente conservati presso l’Archivio della Repubblica di Slovenia). Le porte e le pareti erano ricoperte di graffiti e scritte: l’occupazione dello stabilimento da parte delle truppe alleate, la successiva trasformazione in campo di raccolta di profughi, sia italiani che stranieri, l’umidità, la polvere, l’incuria – in definitiva – degli uomini hanno in gran parte fatto sparire graffiti e scritte. Ne restano a testimonianza i diari dello studioso e collezionista Diego de Henriquez (ora conservati dal “Civico Museo di guerra per la pace” a lui intitolato), ove se ne trova l’accurata trascrizione; alcune pagine sono riprodotte nel percorso della mostra storica. Nel successivo edificio a quattro piani venivano rinchiusi, in ampie camerate, gli ebrei e i prigionieri civili e militari destinati per lo più alla deportazione in Germania: uomini e donne di tutte le età e bambini anche di pochi mesi. Da qui finivano a Dachau, Auschwitz, Mauthausen, verso un tragico destino che solo pochi hanno potuto evitare. Nel cortile interno, proprio di fronte alle celle, sull’area oggi contrassegnata dalla piastra metallica, c’era l’edificio destinato alle eliminazioni – la cui sagoma è ancora visibile sul fabbricato centrale – con il forno crematorio. L’impianto, al quale si accedeva scendendo una scala, era interrato. Una canale sotterraneo, il cui percorso è pure segnato dalla piastra d’acciaio, univa il forno alla ciminiera. Sull’impronta metallica della ciminiera sorge oggi una simbolica Pietà costituita da tre profilati metallici a segno della spirale di fumo che usciva dal camino. L’edificio del forno crematorio e la connessa ciminiera vennero distrutti con la dinamite dai nazisti in fuga, nella notte tra il 29 e il 30 aprile 1945, per eliminare le prove dei loro crimini, secondo la prassi seguita in altri campi al momento del loro abbandono. Tra le macerie furono rinvenute ossa e ceneri umane raccolte in tre sacchi di carta, di quelli usati per il cemento. Tra le macerie, fu inoltre rivenuta la mazza la cui copia, realizzata e donata da Giuseppe Novelli nel 2000, è ora esposta nel Museo (l’originale è stato trafugato nel 1981). Triestini, friulani, istriani, sloveni e croati, militari, ebrei: bruciarono nella Risiera alcuni dei migliori ”quadri” della Resistenza e dell’Antifascismo.
Riassume un po’ l’intero c


Ed ecco, in tarda mattinata Mostar, la perla dell’Erzegovina, a cui i croati distrussero il vecchio ponte il 9 novembre del 1993, nel quarto anniversario della caduta del muro di Berlino. Il suo centro storico racchiude un mondo intero, ricostruito completamente dopo che la guerra l’aveva quasi raso al suolo. Le vie acciottolate, lungo le quali spuntano i minareti delle moschee, il Kujundziluk, la via dei commercianti e degli artigiani, i mulini di pietra, le acque impetuose e verde smeraldo della Neretva che attraversa la città. E poi il ponte, simbolo dell’unità e del dialogo che i nazionalismi hanno tentato di spezzare. Quel ponte oggi ricostruito, con la ripida scalinata, da sempre rappresenta l’unione delle due anime di Mostar, quella orientale musulmana e quella occidentale cattolica, vissute insieme per secoli in armonia. Città multietnica dunque, ma con un’anima sola: quella che la guerra ha tentato di dividere con la forza, colpendo anche i suoi monumenti più significativi. Se si guarda con attenzione, i segni del conflitto sono ancora evidenti. Ma le ferite più profondi sono dentro il cuore e la testa dei mostarini, e sono le più difficili da risanare. Lasciata la città dello Stari Most, si raggiunge Sarajevo in meno di tre ore percorrendo per quasi 130 chilometri una delle più belle strade del paese, lungo la valle della Neretva, le cui sorgenti si trovano presso Jabuka , nelle Alpi Dinariche ad una ottantina di chilometri a sud della capitale bosniaca. Passiamo da Jablanica, dove sorge il museo dedicato alla seconda guerra mondiale e all’ultimo conflitto, a pochi passi dal ponte. Qui il maresciallo Tito condusse la battaglia della Neretva contro le forze dell’Asse. L’operazione, conosciuta come la “quarta offensiva nemica” (četvrta neprijateljska ofenziva/ofanziva) o “battaglia per i feriti” (bitka za ranjenike) costituì un successo strategico per le forze partigiane jugoslave che, nonostante la situazione apparentemente disperata e le gravi perdite, riuscirono a sfuggire alla manovra d’accerchiamento tedesca e ad infliggere una dura sconfitta ai reparti italiani e dei collaborazionisti cetnici schierati sul fiume. Tra gli appunti anche una nota di colore: a Jablanica è nato Hasan Salihamidžić , ex calciatore bosniaco, soprannominato “Brazzo” (“fratello”), che vestì per qualche anno anche la maglia della Juventus.
arajevo, la “Gerusalemme d’Europa”ci ha accolti con la luce livida di un tardo pomeriggio di pioggia battente. Chi sperava, a dispetto del meteo, in un tiepido tramonto riflesso sulle acque della Miljacka, nel cuore della città, si deve accontentare. Sarajevo è bella sempre, anche con la pioggia. Adagiata in una stretta valle circondata da montagne e aggrappata alle rive del fiume che scroscia spumeggiando nel suo ventre di città serraglio (Sarajevo dal turco saray, serraglio), e stata uno dei più importanti punti di sosta per le carovane lungo le antiche rotte commerciali tra est e ovest. Qui più che altrove Occidente e Oriente s’incontrano e s’abbracciano, confondendosi. E’ qui che gli imperi Bizantino e Ottomano da est, e gli imperi prima di Roma, poi di Venezia e infine di Vienna da ovest ,hanno portato le loro culture, le tradizioni, le religioni. Difficile trovare un altro posto che condivide, in poco spazio, nel cuore della città, i luoghi di culto delle principali religioni: la gotica cattedrale cattolica del Cuore di Cristo e le moschee di Gazi Husrev-beg, Ali Pasha e dell’Imperatore; la barocca cattedrale serbo ortodossa dedicata alla natività di Gesù insieme alla vecchia chiesa ortodossa degli arcangeli Gabriele e Michele, e la Sinagoga di Sarajevo, che s’affaccia sulla Miljacka mentre quella vecchia di mezzo millennio e ben piantata su solide mura nel Velika Avlija, il quartiere ebraico di Sarajevo. Qui si può, meglio che altrove, con tutte le contraddizioni fatte di affinità e diversità, capire il passato, il presente e immaginare il futuro di questa vecchia e un po’ malandata Europa. A Sarajevo la storia d’insinua attraverso la geometria di quartieri, palazzi, piazze, ponti, lapidi e cimiteri. Durante l’assedio della città un’agenzia matrimoniale del posto pubblicizzava cosi i suoi servizi:”In questo mondo di guerre e morte l’unica cosa che ha un senso è fare l’amore”. Puro distillato d’amaro spirito balcanico. Dopo essersi persi tra i vicoli della Bascarsija, il vecchio quartiere ottomano, eccoci di fronte alla biblioteca nazionale e universitaria di Sarajevo, la “Vijecnica”, uno dei simboli della città. A 120 anni dalla sua costruzione, ventidue anni dopo il rogo che la distrusse e dopo quasi 18 anni di complesso restauro, è tornata al suo antico splendore. Le tre facciate dell’edificio a base triangolare erano da tempo pronte, illuminate dai colori originari del 1894. Ora, non resta che sperare che tornino anche i libri e i lettori e che queste mura non racchiudano solo gli uffici della municipalità.Le granate serbe, lanciate dopo il tramonto del 25 agosto 1992 da postazioni occultate nelle fitte foreste di abeti che incombono sulla città, trasformarono in rogo l’edificio in stile neo-moresco costruito durante l’epoca austro-ungarica. L’incendio durò tutta la notte e per altre trenta ore almeno. Bruciò così la biblioteca di Sarajevo. E con essa un patrimonio immenso di un milione e mezzo di preziosissimi libri e incunaboli, giornali, riviste e mappe, memoria storica di una città multietnica da secoli e per questo invisa a quelli che volevano separare, dividere, cancellare storie e vicende comuni. Poco distante c’è la piazza della fontana ( o dei piccioni) e più in là inizia la Ferhadija, la più elegante strada di Sarajevo. Messi di traverso sulla Miljacka, come vertebre dell’immaginaria spina dorsale della città rappresentata dal letto del fiume, ci sono i ponti in
pietra grigia, erosi dal vento e dalle piogge, con l’erba che cresce nelle fessure, e quelli di ferro, tesi come fili vibranti da una sponda all’altra. Tra questi c’è il ponte Latino dove l’Arciduca Francesco Ferdinando e sua mogli Sofia furono assassinati dall’ultranazionalista Gavrilo Princip in quello che è passato alla storia come l’attentato di Sarajevo. Era il 28 giugno del 1914 e con quegli spari cambiò la storia. Ci sono tante cose da vedere in città, dalla “casa del dispetto” alla famosa Saraievska Pivara, una delle fabbriche di birra di famose dei Balcani, fino al museo del Tunnel, il “cordone ombelicale” scavato sotto la pista d’atterraggio dell’aeroporto che rappresentò l’unica via d’entrata e d’uscita nella città assediata.La Vječna Vatra , la “fiamma eterna”, è il memoriale alle vittime militari e civili della seconda guerra mondiale e ai partigiani. Si dice sia l’unica fiamma che non si è mai spenta nemmeno sotto l’assedio. La lapide ricorda una data, il 6 aprile del 1945. Il giorno della liberazione di Sarajevo dall’occupazione nazista e della vittoria di serbi , bosniaci e croati che, insieme, riconquistarono la liberta. La dimostrazione visiva di una lotta comune, segnata dall’antifascismo degli slavi del sud. La stessa data segnò, provocatoriamente, l’inizio dell’assedio più lungo della storia moderna, protrattosi dal 6 aprile del 1992 al 29 febbraio del 1996. I bombardamenti e i cecchini uccisero 11.541 persone e ne ferirono altre 50.000 durante i 44 mesi dell’assedio. Nei rapporti ufficiali s’indica una media di circa 329 bombardamenti al giorno, con un massimo di 3777 granate il 22 luglio 1993. Gli ordigni che cadevano sull’asfalto lasciavano dei segni che, dipinti con la vernice rossa, diventarono le “rose di Sarajevo”, i fiori della sofferenza e del dolore. La popolazione della città si ridusse di un terzo e da cosmopolita che era, oggi è perlopiù popolata da bosgnacchi, i bosniaci musulmani. Prossime tappe saranno, in terra bosniaca, Tuzla e Banja Luka. Ma prima di partire, una visita al vecchio e coloratissimo mercato austroungarico della frutta e della verdura, il “Markale”. Tra la gente che si aggira tra i banchi di ferro che espongono infinite varietà di ortaggi e frutta fresca e secca, proprio sulla parete in fondo, una lunga lapide rossiccia ricorda i caduti delle stragi di Markale. Stragi, al plurale, poiché per due volte le granate serbe hanno massacrato i civili in questo luogo, nel cuore di Sarajevo. La prima volta, il 5 febbraio del 1994:sessantasette morti e centoquarantadue feriti. La seconda, il 28 agosto del 1995,quando l’ultimo di cinque colpi di mortaio stroncò la vita di trentasette persone e il ferimento di altre novanta. I fiori delle corone, sul ciglio della strada, ancora freschi grazie al clima autunnale, ricordano la recente commemorazione di una delle tante ferite che rendono dolorosa la memoria.
Il viaggio verso Tuzla, sotto una insistente e fastidiosa pioggia che ha deciso di accompagnarci ovunque, è un’altra occasione per attraversare una terra dove le moschee convivono con i boschi di latifoglie e di conifere, le case più vecchie risentono del tratto urbanistico dell’impero viennese , il canto del Muezzin e il suono
A Banja Luka , seconda più grande città della Bosnia, di fatto il centro più importante dell’entità della Repubblica Serpska ( l’altra “entità” della nazione bosniaca), arriviamo sotto l’immancabile pioggia di questa pazza estate. Il capoluogo della storica regione della Bosanska Krajina, con i suoi 200.000 abitanti, ospita il governo della Bosnia serba abitanti al censimento ed è un importante centro economico e culturale con una storia importante che risale all’Alto Medioevo. Sviluppatasi su entrambe le sponde del fiume Vrbas che, l’intera città è punteggiata dal verde dei viali alberati, giardini e parchi. Durante l’occupazione Ottomana della Bosnia,Banja Luka conobbe lo sviluppo urbano ed economico che le consentì di diventare uno dei più importanti centri politici e commerciali della Bosnia. In seguito alle frequenti incursioni austriache si definì anche il suo profilo di centro militare strategico. La città, per conoscere una fase nuova e decisa di modernizzazione, dovette attendere la dominazione austroungarica della fine del XIX secolo. Durante la Seconda guerra mondiale gli Ustascia Croati, cattolici e filonazisti, occuparono la città deportando la maggior parte delle famiglie nobili sefardite e serbe presso i vicini campi di concentramento di Jasenovac e Stara Gradiška. Il 7 febbraio 1942 le forze ustascia, guidate da un monaco francescano, Miroslav Filipović, uccisero 2.500 serbi, tra cui 500 bambini, a Drakulići, Motike e Sargovac, località all’interno del comune di Banja Luka. La cattedrale ortodossa della città fu rasa al suolo dalle forze di occupazione naziste, prima che la città fu liberata il 22 aprile 1945 dai partigiani di Tito. Il 27 ottobre del 1969 ( alle 9,11 del mattino, di domenica, come si legge su di un orologio nel centro cittadino), un tremendo terremoto danneggiò molti degli edifici della città. Un grosso palazzo chiamato Titanik, situato nel centro della città, fu distrutto completamente e l’area dove si trovava è stata tramutata in una piazza. Con grandi sacrifici Banja Luka fu ricostruita ma molti dei piccoli palazzi e negozi dell’epoca ottomana e austroungarica che costituivano il centro della città, danneggiati irreparabilmente, furono demoliti.

