DALL’UMBRIA Due morti carbonizzati a causa di un incidente avvenuto questa mattina sulla carreggiata nord dell’Autosole tra Orvieto e Fabro. Il tratto è ora chiuso al traffico dalla polizia stradale. Le vittime erano su un’auto che si è scontrata per motivi ancora da accertare con un grosso camion che si è ribalto incendiandosi. Il camion occupa parte della carreggiata sud nella quale il traffico passa solo sulla corsia di emergenza. Si sono formate lunghe code .
Trieste, molo Audace. Quello che al tempo dell’Impero si chiamava “San Carlo” e che prese il nome della prima nave italiana che attraccò lì, nel porto della città dalla “scontrosa grazia”, il 3 novembre del 1918. Da lì parte ( e lì finisce) un viaggio a piedi di una donna incinta e di un uomo malato ( “confini estremi della vita”) che arriverà in Bosnia, passando per Slovenia e Croazia, varcando confini ufficiali e non, attraversando terre cattoliche, ortodosse e “meticce”, fino a quelle dell’islam europeo, laico e aperto, e in quanto tale ignorato e offeso. “La lumaca e il tamburo” racconta l’ultimo viaggio di Paolo Vittone, giornalista della redazione esteri di Radio Popolare, morto di cancro a 46 anni, il 23 agosto 2009. Un itinerario, in auto e a piedi, da Trieste al “ventre” della Bosnia, in quei Balcani che conosceva come le sue tasche. Un libro postumo, prezioso, realizzato come una delle più testarde sfide alla morte che stava per strapparlo agli affetti e alle amicizie. Paolo Vittone amava profondamente le terre sulle sponde orientali dell’Adriatico e , dopo averci lavorato come inviatodurante la guerra nell’ex-Jugoslavia, decise di riattraversarle in tempo di pace, lentamente, con un passo da lumaca, accompagnato da Elisa Iussig, che – con i suoi disegni – ha arricchito il libro. Lei era incinta, lui malato terminale, sofferente: quasi per un incredibile disegno della sorte, s’incrociarono le strade di una vita che iniziava e di una che andava verso la fine. Il sottotitolo del libro ( “favola di un viaggio alla riconquista del tempo”) descrive bene l’andare con lentezza di Paolo Vittone alla riconquista del tempo. Una straordinaria lezione che ci dice come non sia mai troppo tardi incamminarsi nella ricerca delle proprie emozioni, dei luoghi e delle storie che si sono amate come quelle della “terra degli slavi del sud”, etnicamente purificate o ancora meticcie, lungo il crinale che separa la cultura del mare e quella della terra. Gli ultimi mesi di vita, Paolo li trascorse a Trieste. Una scelta che motivò così, in una lettera all’amico Paolo Rumiz, giornalista come lui: “Sai bene che vengo a Trieste a vivere, ma con ogni probabilità a morire… Vengo a Trieste perché è al confine delle terre della mia e nostra anima ed essere più vicino mi fa pensare che tornerò almeno una volta a sentire la Neretva, ad ascoltare il muezzin dalla moschea del Beg e annusare i cevapi e la pita in Baščaršija, che forse vedrò persino ancora una volta il vecchio amico Hilmo. Vengo a Trieste perché per le sue strade i vocaboli si mescolano, perché solo a Trieste le scintille si chiamano falischee i gabbiani imperiali cocài”.
E Rumiz, nell’introduzione a “La lumaca e il tamburo”, scrive: ”Avevamo condiviso il mito della Bosnia, della sua resistenza antinazista, dei suoi boschi, delle sue donne e dei suoi briganti, della leggenda nera che la pervadeva, di un islam capace di coesistere con cattolici, serbo-ortodossi ed ebrei. In Bosnia era stato per lui fatale tornare. Era bastata una mappa al 100.000 del territorio fra Trieste e Bihać perché tutto gli apparisse chiaro. Era su quel percorso che doveva partire la sua riconquista del tempo. La volle e la realizzò, travolgendo gli ostacoli come sempre. Dopo il viaggio conquistò calma e persuasione di sé… Sapeva di avere la Signora alle calcagna e non voleva sfuggirle, ma semplicemente farsi trovare al posto giusto”. Ad ogni tappa del viaggio raccontato ne “La lumaca e il tamburo” s’incontrano persone, volti segnati dalla fatica e cotti dal sole, scoppi di gioia e incredibili malinconie, boschi, montagne e fiumi, delicati tramonti balcanici e musiche d’ottoni, suoni di campane e canti dei muezzin nell’ora della preghiera. Paolo Vittone appuntava tutto su un block notes ma non si limitava a questo: da buon giornalista radiofonico, portava sempre con sé il registratore. Imprimeva sul nastro le voci, i suoni e il fiato profondo delle terre che dal Carso e dall’Istria scendono fino alla foce della Neretva. Per non dimenticare nulla, portando tutto dentro di se e lasciando a noi un testamento prezioso, denso di emozioni e significati.
Marco Travaglini
Un’indagine condotta da Doxa per l’Osservatorio Rentokil ha rivelato che uffici, bagni pubblici e palestre sono fra gli ambienti dove è più facile imbattersi in infestanti di varia natura
La fine delle ferie è uno dei periodi dell’anno più difficili da affrontare: riprendere con la routine quotidiana, affrontare il lavoro in ufficio e la palestra la sera fanno sentire da subito la nostalgia per la spensieratezza e la libertà delle vacanze. Cosa potrebbe peggiorare questo scenario? La risposta arriva da una recente ricerca che Rentokil Initial, leader mondiale in disinfestazione e derattizzazione, ha commissionato a Doxa con l’obiettivo di indagare in modo approfondito sentimenti e comportamenti degli italiani in rapporto alla presenza di infestanti, in particolare nei luoghi frequentati abitualmente. Dall’indagine[i] è emerso come proprio uffici, bagni pubblici, palestre e mense aziendali possano diventare “posti da incubo” per molti italiani perché sono ambienti dove, dichiarano, è capitato spesso di imbattersi in insetti di varia natura. D’altra parte, è anche emerso che bagni pubblici, mezzi pubblici e spogliatoi di palestre e piscine sono i luoghi dove, secondo gli Italiani, è maggiormente elevato il rischio di contrarre malattie o infezioni a causa della scarsa igiene. “Se si dice la parola ‘igiene’, la prima cosa a cui pensano gli Italiani è ‘salute’. Analizzando i dati raccolti nel corso dell’indagine, emerge come il concetto di salute si declini in differenti aree di attenzione. Il binomio igiene-salute viene prima di tutto associato alla ‘cura di sé’ per 7 intervistati su 10, seguita dalla ‘cura e sicurezza degli ambienti e de gli alimenti’, intesa come assenza di malattie/infezioni e contaminazioni/intossicazioni,
La meravigliosa vita di Jovica Jovic
“La meravigliosa vita di Jovica Jovic” (Feltrinelli) è un libro straordinario e divertente scritto da Marco Rovelli insieme a Moni Ovadia. E’ la storia di Jovica, fisarmonicista rom serbo, che, attraverso la sua vita intensa e straordinaria, dischiude un mondo ai più sconosciuto, quello della cultura rom. Storie, leggende, ricordi, lettere, fiabe e tanta musica: il racconto di una vita da usare come una chiave per spalancare l’ùscio sulle tradizioni dei rom. Jovica Jovic, musicista, oggi ha 64 anni. E’ nato il 24 luglio del 1953, vicino a Belgrado. Il padre faceva il caldaista, il nonno era partigiano con Tito. La sua è una famiglia di musicisti rom della Serbia. Padre e nonno erano violinisti ma Jovic , all’età di 9 anni, ha scelto la fisarmonica, strumento nuovo per quei tempi. Una “carriera” fulminante, la sua. All’età di 12 anni suonava ai matrimoni e alle feste. A diciotto ha deciso di cercare fortuna in altri paesi che potessero offrirgli maggiori possibilità della Serbia. Dal 1971 al 1996 ha fatto il musicista in vari paesi d’Europa. Da poco più di vent’anni vive stabilmente in Italia, a Parabiago, e continua a esercitare la professione di musicista con la sua Balcan Orkestar. Il suo inseparabile strumento è una fisarmonica cromatica, uno di quei modelli introvabili con i bottoni al posto della tastiera, estremamente difficile da suonare. La sua storia è come un’avventura della memoria che affonda le radici nel Novecento, in cui ciò che si è ascoltato si fonde a ciò che si è visto. “Mio bisnonno è morto a centosei anni con il violino in mano. Io ho cominciato a suonare da bambino. La musica tzigana si suona in maniera diversa: non con le note, ma con il cuore. Chi suona con il cuore quello che sente, piange. Prima piange quello che suona, poi piange quello che sente. E questo a noi ce l’ha lasciato Auschwitz”. Jovica ha suonato in tutta Europa, in teatri, balere, matrimoni, sagre, festival. Ha calcato tutti i palcoscenici possibili, al fianco di musicisti di cui non ci si ricorda il nome e di celebrità come Moni Ovadia, Dario Fo, Goran Bregovic, Piero Pelù e tanti altri. Si legge nel libro: “Bisogna sempre attraversare terre sconosciute prima di capire e giudicare. Non è restando nel recinto che si cresce”. Queste storie compongono un coloratissimo disegno. E sotto gli occhi del lettore prende vita l’universo rom, al di fuori degli stereotipi ma ricco di personaggi, situazioni e avventure rocambolesche, calato nella storia del “secolo breve”– dalla deportazione del popolo rom ad Auschwitz ( dove morirono gli zii partigiani e vennero rinchiusi anche i genitori e il nonno) alle guerre balcaniche – ma anche immerso nelle tradizioni, negli usi e nei costumi di una cultura millenaria. Un libro che narra una storia unica come lo sono tutte le storie ma soprattutto viva, orgogliosa e sorprendente.
Marco Travaglini
DALLA CAMPANIA Intendeva seguire una ragazza su Instagram, peccato che il di lei fidanzato non fosse d’accordo. Anziché attraverso un botta e risposta sul web la questione si è risolta a colpi di arma da fuoco. Il fatto è avvenuto nel Napoletano, a Grumo Nevenao, dove un 35enne già noto alle forze dell’ordine, è ora sottoposto a fermo dai carabinieri per tentato omicidio. L’altro protagonista, un 30enne, la vittima, che si trovava ai domiciliari, è stato denunciato per evasione. Per gelosia un bel giorno, dopo aver discusso, il 35enne va a casa del 30enne, spara e fugge. Ma dopo qualche ora il 30enne, nonostante fosse ai domiciliari, si fa accompagnare a casa dell’aggressore per “regolare i conti”, ma questi gli spara ancora dei colpi di pistola senza però ferirlo.
DALLA PUGLIA La donna sarebbe stata violentata per più di 20 anni da suo padre, e dall’incesto sarebbe nata una bambina. Della vicenda, che sarebbe avvenuta in un paese del Salento, è stata data notizia sull’edizione online della Gazzetta del Mezzogiorno. La procura di Lecce avrebbe, secondo il giornale, aperto una inchiesta per la quale il genitore della donna sarebbe iscritto nel registro degli indagati, accusato di violenza sessuale aggravata e continuata, e maltrattamenti in famiglia. Sarebbe stata la donna stessa a denunciare l’accaduto, ora che vive con un compagno fuori provincia.
Donne toste: Milena di Praga
Era una donna istruita, determinata, di bell’aspetto, piena di quell’entusiasmo che ne accompagnerà tutta la vita. Curiosa, intelligente, ribelle, aperta al mondo e generosa, ma spesso sola
Donatella Sasso, brillante ricercatrice storica presso l’istituto Salvemini di Torino, con il suo libro “Milena. La terribile ragazza di Praga” (Effatà Editrice, 2014. Collana Donne toste ), consegna ai lettori la storia di una donna straordinaria. Milena Jesenskà, giornalista e scrittrice di talento, stimata dallo stesso Kafka (che di lei s’innamorò), brillante e generosa, figlia di una famiglia benestante praghese (padre chirurgo dentale), sposata con Ernst Pollak, un illustre letterato e critico ebreo. Di Milena, Donatella Sasso traccia un ritratto dalle tinte calde, emozionante, senza omettere le contraddizioni o nascondere gli angoli più discutibili, di una persona dal carattere volitivo, sorretta da un’intelligenza ironica e da un innato talento per la scrittura. “Milena di Praga”, così era solita presentarsi la Jesenskà che era nata a Praga nel 1896, crescendo in una bella casa nei pressi di piazza Venceslao, nel tempo in cui la capitale della Boemia voleva darsi un’immagine europea e competere in bellezza con Vienna. Milena era una donna istruita, determinata, di bell’aspetto, piena di quell’entusiasmo che ne accompagnerà tutta la vita. Curiosa, intelligente, ribelle, aperta al mondo e generosa, ma spesso sola, nella vita e nelle sue tribolazioni così come nei legami d’amore complessi e difficili, come quello con Franz Kafka. Tra gli uomini della sua vita, Franz Kafka (lei lo chiamava Frank) di cui tradusse alcune opere in ceco, che egli, ebreo di lingua tedesca, conosceva solo oralmente, le scrisse, manifestando questo suo sentimento complesso e tortuoso :” Siccome amo te […] amo il mondo intero“, ma anche: “amore è il fatto che tu sei il coltello col quale frugo dentro me stesso“. Da Praga a Vienna e ritorno a Praga, Milena, giornalista e traduttrice affrontò notevoli ristrettezze economiche adeguandosi anche ai lavori più umili, lottando contro le ingiustizie, le disuguaglianze sociali e la persecuzione degli ebrei. Una donna che seppe alzare la testa volgendo il suo sguardo verso le persone che soffrivano e proprio la sua volontà ad occuparsene la rese invisa ai nazisti. La sua vita si concluse nel campo di concentramento di Ravensbruck, a 90 chilometri a nord di Berlino, il 17 maggio del 1944. Nel Giardino dei Giusti, a Gerusalemme, un albero porta il suo nome e conserva la memoria della sua generosità.
Marco Travaglini
In Mare la Pietà
Il 23 agosto alle ore 12.30 presso il porto di Lampedusa, Fabio Viale presenterà In Mare la Pietà, un nuovo passaggio, questa volta attraverso un’azione performativa, di Souvenir Pietà (Madre), con il patrocinio del Comune di Lampedusa e il supporto della Galleria Poggiali.
Il lavoro dell’artista, da sempre caratterizzato dal virtuosismo della finitura dei suoi marmi e dal riferimento ai capolavori dell’arte classica, è indissolubilmente legato allo spiazzamento percettivo dello spettatore che in diverse occasioni si manifesta attraverso atti performativi.
L’opera Souvenir Pietà (Madre) realizzata nel 2018 è la prosecuzione di Souvenir Pietà (Cristo), realizzata invece nel 2007. In entrambe le circostanze l’artista ha replicato in scala 1:1 la Pietà Vaticana di Michelangelo Buonarroti aggiungendo a questo capolavoro della storia dell’arte uno scarto percettivo determinate: nel primo caso è stato riprodotto il Cristo senza la Madre, nel secondo invece la Madre senza il Figlio a simboleggiare un’angosciata separazione. Il passo successivo del lavoro ha assunto poi una dimensione più concettuale con Lucky Ehi presentata in occasione dell’apertura della sede milanese della Galleria Poggiali. In questo caso Viale ha invitato a prendere posto nel luogo del Figlio e a riempire il vuoto tra le braccia della Madre un giovane nigeriano di religione cattolica sfuggito a morte e persecuzione, conosciuto in un centro di accoglienza per rifugiati di Torino. Quella Madonna in marmo bianco di Carrara diviene una madre universale, delle epoche e delle religioni, accoglie l’ultimo, assume le sembianze di una donna col velo e pare dismettere il portato cattolico connotato e fragoroso per divenire una figura universale velata da un copricapo di misericordia assoluta. Nell’esposizione milanese, la scultura era accompagnata da un manifesto di 4 metri per 3 che occupava tutta la parete della galleria e raffigurava Lucky Ehi nudo nel luogo del Cristo, e dalla registrazione sonora della sua storia di migrante. Il nuovo passaggio del progetto di Fabio Viale sarà adesso quello di posizionare la scultura orfana del Cristo su un peschereccio ormeggiato presso il porto di Lampedusa in corrispondenza della Guardia Costiera. La statua, rivolta verso il mare, rappresenta la sintesi magniloquente di un messaggio di accoglienza e universalità. La Madre è pronta a ospitare su di sé, nel suo doloroso vuoto, l’universalità dell’uomo che giunge dal mare, offrendo il suo grembo all’intera umanità. Nel pomeriggio il peschereccio lascerà il porto e si fermerà a largo della scosta sud, accanto all’Isola dei Conigli, teatro di innumerevoli tragedie e drammatici naufragi tristemente celebri. La Pietà di Viale allora, in mare aperto, volgerà simbolicamente le spalle alla terra di Lampedusa e lo sguardo alla Libia.
In un angolo del vecchio cimitero di Montparnasse, a Parigi, c’è una lunga tomba di pietra, corrosa dal tempo e dalle intemperie, senza fiori e seminascosta da altre tombe imponenti. Sotto questa lapide giace Chaim Soutine, grande pittore di origine russa, scomparso il 9 agosto 1943, insieme all’ultima compagna della sua vita, Marie-Berthe Aurenche, la musa dei pittori surrealisti ex moglie di Max Ernst. Chaim Soutine, decimo di undici figli di un sarto ebreo, fin dall’infanzia viene osteggiato nella sua passione per il disegno da una famiglia, profondamente legata alle tradizioni religiose contrarie alla rappresentazione dell’essere umano, che cerca in tutti i modi possibili di impedirgli di dedicarsi all’arte, infliggendogli pesanti punizioni che creano in lui traumi, ferite e lacerazioni psicologiche che lo accompagneranno per tutta la sua esistenza. Soutine sviluppa una personalità schiva, caratterizzata da un’introversione profonda e da una spiccata timidezza. I fantasmi della sua infanzia continueranno a perseguitarlo, posandosi sulle tele, insinuandosi nei suoi dipinti, popolandoli di figure deformate, di buoi squartati che grondano sangue, di fiori enormi e palpitanti come rosse bocche spalancate, di paesaggi impazziti che sembrano trombe d’aria, tifoni, vortici, raffigurazioni che danno vita ad una pittura personalissima e profondamente coinvolgente fatta di colori violenti e squillanti che caratterizzano i suoi bambini, i suoi piccoli pasticceri, i suoi chierichetti e tutto quel mondo che dal lontano ghetto russo ha trovato spazio e immortalità nella sua arte e nei suoi quadri. Soutine, trasferitosi a Parigi nel 1913, si lega con una profonda amicizia ad Amedeo Modigliani. I due pittori non potrebbero essere più diversi l’uno dall’altro: l’italiano è affascinante, attraente, spavaldo ed esuberante, brucia se stesso e la propria scarsa salute in feste, ebbrezza e gesti folli, il russo è chiuso, timido, malinconico e cupo; la pittura del livornese è naturale, spontanea, fatta di schizzi e di linee buttati giù in un caffè, di donne nude, di amanti belle e spavalde, quella di Soutine è faticosa, meditata, piena di sofferenza, di dolore, casta, pudica, difficile da partorire, da realizzare. Eppure Modigliani prende l’artista russo sotto la sua ala protettrice, convincendo anche il proprio mercante a gestirlo, condividendo con lui gli scarsi guadagni e le lunghe notti insonni trascorse a bere e ad ubriacarsi, dipingendo quattro ritratti di questo amico che rappresenta il suo esatto contrario, una faccia antitetica e al tempo stesso indivisibile di una stessa moneta. Tuttavia quando, nel 1920, Modigliani si spegne all’Ospedale della Charité, distrutto dalla tubercolosi e dall’alcol, Soutine è lontano, a Vance, e laggiù apprende della scomparsa dell’amico. La morte di Modigliani lo sconvolge profondamente e resta traumatizzato anche dal suicidio di Jeanne Hébuterne, compagna del pittore italiano, gettatasi dalla finestra all’ottavo mese di gravidanza. Nuove ferite si aggiungono a quelle che l’artista portava impresse nell’anima, ferite che nemmeno i successi che la sua pittura inizia ad ottenere, scoperta dai collezionisti americani riescono a cicatrizzare.
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Del resto, Soutine si comporta nei confronti dei suoi quadri come Saturno con i suoi figli: li crea e, poi, per una strana paura connaturata in lui, per una sorta di insoddisfazione, li taglia, li brucia, li cancella, dominato da una furia distruttrice. La fama sembra diventare un peso e il denaro che guadagna, attraverso le proprie opere, viene rapidamente bruciato per concedersi lussi che non gli appartengono. Dopo la scoppio della Seconda Guerra mondiale, Soutine, essendo ebreo, è costretto a nascondersi per non essere catturato dai tedeschi e deportato. Deve diventare un fantasma, abbandonare Parigi e cercare rifugio nei centri minori della Francia. Il pittore si volatilizza, scompare, si annulla, sfuggendo a tutti, eccetto che alla morte che lo segue come un’ombra. Una pericolosa ulcera gastrica lo affligge da tempo e a causa di un improvviso aggravarsi del male, l’artista è costretto ad intraprendere un ultimo viaggio verso Parigi per tentare un’operazione che gli sarà fatale, in un carro funebre che lo cela a tutti, trasformandolo prematuramente in un cadavere. Soutine muore il 9 agosto 1943, senza aver ripreso conoscenza. Il decesso, tuttavia, viene segnalato soltanto l’11 agosto, per evitare controlli da parte degli occupanti che continuano, così, a cercarlo. Il funerale si tiene l’11 agosto: oltre alle compagne della sua vita Ma-Be Aurenche e Gerda Grot-Michaelis sono presenti soltanto tre persone nel cimitero di Montparnasse: Pablo Picasso, Jean Cocteau e Max Jacob. Inizialmente la tomba è anonima e soltanto dopo la fine della guerra viene inciso il nome di Soutine. Mentre il suo “Piccolo Pasticcere” batte i record d’asta e i suoi dipinti strazianti vengono ammirati nei grandi musei il pittore di Smilovici riposa dimenticato da tutti, come se, anche nella morte continuasse a perpetrare la necessità di essere invisibile, introvabile, nascosto e a parlare al mondo soltanto attraverso la forza devastante della sua pittura.
Barbara Castellaro
DALLA CAMPANIA Ha messo un proprio selfie sulla carta d’identità, dato che la foto del documento non gli piaceva. Per questo un 52enne del Foggiano è stato arrestato a Ischia con l’accusa di possesso di documento di identificazione falso. I poliziotti del commissariato sono intervenuti in un albergo dove l’addetto alla reception aveva segnalato perplessità sulla carta d’identità di un cliente. L’uomo ha detto ai poliziotti che la foto del documento, scattata cinque anni prima, non era più di suo gradimento e aveva deciso di cambiarla con uno dei suoi selfie, pensando di non commettere un reato.