Dall Italia e dal Mondo- Pagina 57

La meravigliosa vita di Jovica Jovic

La meravigliosa vita di Jovica Jovic” (Feltrinelli) è un libro straordinario e divertente scritto da Marco Rovelli insieme a Moni Ovadia. E’ la storia di Jovica, fisarmonicista rom serbo, che, attraverso la sua vita intensa e straordinaria, dischiude un mondo ai più sconosciuto, quello della cultura rom. Storie, leggende, ricordi, lettere, fiabe e tanta musica: il racconto di una vita da usare come una chiave per spalancare l’ùscio sulle tradizioni dei rom. Jovica Jovic, musicista, oggi ha 64 anni. E’ nato il 24 luglio del 1953, vicino a Belgrado. Il padre faceva il caldaista, il nonno era partigiano con Tito. La sua è una famiglia di musicisti rom della Serbia.  Padre e nonno erano violinisti ma Jovic , all’età di 9 anni,  ha scelto la fisarmonica, strumento nuovo per quei tempi. Una “carriera” fulminante, la sua. All’età di 12 anni suonava ai matrimoni e alle feste. A diciotto ha deciso di cercare fortuna in altri paesi che potessero offrirgli maggiori possibilità della Serbia. Dal 1971 al 1996 ha fatto il musicista in vari paesi d’Europa. Da poco più di vent’anni vive stabilmente in Italia, a Parabiago,  e continua a esercitare la professione di musicista con la sua Balcan Orkestar. Il suo inseparabile strumento è una fisarmonica cromatica, uno di quei modelli introvabili con i bottoni al posto della tastiera, estremamente difficile da suonare. La sua storia è  come un’avventura della memoria che affonda le radici nel Novecento, in cui ciò che si è ascoltato si fonde a ciò che si è visto. “Mio bisnonno è morto a centosei anni con il violino in mano. Io ho cominciato a suonare da bambino. La musica tzigana si suona in maniera diversa: non con le note, ma con il cuore. Chi suona con il cuore quello che sente, piange. Prima piange quello che suona, poi piange quello che sente. E questo a noi ce l’ha lasciato Auschwitz”. Jovica ha suonato in tutta Europa, in teatri, balere, matrimoni, sagre, festival. Ha calcato tutti i palcoscenici possibili, al fianco di musicisti di cui non ci si ricorda il nome e di celebrità come  Moni Ovadia, Dario Fo, Goran Bregovic, Piero Pelù e tanti altri. Si legge nel libro: “Bisogna sempre attraversare terre sconosciute prima di capire e giudicare. Non è restando nel recinto che si cresce”. Queste storie compongono un coloratissimo disegno. E sotto gli occhi del lettore prende vita l’universo rom, al di fuori degli stereotipi ma ricco di personaggi, situazioni e avventure rocambolesche, calato nella storia del “secolo breve”– dalla deportazione del popolo rom ad Auschwitz ( dove morirono gli zii partigiani e vennero rinchiusi anche i genitori e il nonno) alle guerre balcaniche – ma anche immerso nelle tradizioni, negli usi e nei costumi di una cultura millenaria. Un libro che narra una storia unica come lo sono tutte le storie ma soprattutto viva, orgogliosa e sorprendente.

Marco Travaglini

Vuole seguire la fidanzata dell’amico su Instagram. Ma lui non è d’accordo e gli spara

DALLA CAMPANIA Intendeva seguire una ragazza su Instagram, peccato che il di lei  fidanzato non fosse d’accordo. Anziché attraverso un botta e risposta sul web la questione si è risolta a colpi di arma da fuoco. Il fatto è avvenuto nel Napoletano, a Grumo Nevenao, dove un 35enne già noto alle forze dell’ordine, è ora sottoposto a fermo dai carabinieri per tentato omicidio. L’altro protagonista, un  30enne, la vittima, che si trovava ai domiciliari, è stato denunciato per evasione. Per gelosia un bel giorno, dopo aver discusso, il 35enne va a casa del 30enne, spara e fugge. Ma dopo qualche ora il 30enne, nonostante fosse ai domiciliari, si fa accompagnare a casa dell’aggressore per “regolare i conti”, ma questi  gli spara ancora dei colpi di pistola senza però ferirlo.

“Violentata dal padre per 20 anni”: nasce una bimba

DALLA PUGLIA La donna sarebbe stata violentata per più di 20 anni da suo padre, e dall’incesto sarebbe nata  una bambina. Della vicenda, che sarebbe avvenuta in un paese del Salento, è stata data notizia sull’edizione online della Gazzetta del Mezzogiorno. La procura di Lecce avrebbe, secondo il giornale, aperto una inchiesta per la quale  il genitore della donna sarebbe iscritto nel registro degli indagati, accusato di violenza sessuale aggravata e continuata, e maltrattamenti in famiglia. Sarebbe stata la donna stessa a denunciare l’accaduto, ora che vive con un compagno fuori provincia.

Donne toste: Milena di Praga

MILENAEra una donna istruita, determinata, di bell’aspetto, piena di quell’entusiasmo che ne accompagnerà tutta la vita. Curiosa, intelligente, ribelle, aperta al mondo e generosa, ma spesso sola

 

Donatella Sasso, brillante ricercatrice storica presso l’istituto Salvemini di Torino, con il suo libro “Milena. La terribile ragazza di Praga” (Effatà Editrice, 2014. Collana Donne toste ), consegna ai lettori la storia di una donna straordinaria. Milena Jesenskà, giornalista e scrittrice di talento, stimata dallo stesso Kafka (che di lei s’innamorò), brillante e generosa, figlia di una famiglia benestante praghese (padre chirurgo dentale), sposata con Ernst Pollak, un illustre letterato e critico ebreo. Di Milena, Donatella Sasso traccia un ritratto dalle tinte calde, emozionante, senza omettere le contraddizioni o nascondere gli angoli più discutibili, di una persona dal carattere volitivo, sorretta da un’intelligenza ironica e da un innato talento per la scrittura. “Milena di Praga”, così era solita presentarsi la Jesenskà che era nata a Praga nel 1896, crescendo in una bella casa nei pressi di piazza Venceslao, nel tempo in cui la capitale della Boemia voleva darsi un’immagine europea e competere in bellezza con Vienna. Milena era una donna istruita, determinata, di bell’aspetto, piena di quell’entusiasmo che ne accompagnerà tutta la vita. Curiosa, intelligente, ribelle, aperta al mondo e generosa, ma spesso sola, nella vita e nelle sue tribolazioni così come nei legami d’amore complessi e difficili, come quello con Franz Kafka. Tra gli uomini della sua vita, Franz Kafka (lei lo chiamava Frank) di cui  tradusse alcune opere in ceco, che egli, ebreo di lingua tedesca, conosceva solo oralmente, le scrisse, manifestando questo suo sentimento complesso e tortuoso  :” Siccome amo te […] amo il mondo intero“, ma anche: “amore è il fatto che tu sei il coltello col quale frugo dentro me stesso“. Da Praga a Vienna e ritorno a Praga, Milena, giornalista e traduttrice affrontò notevoli ristrettezze economiche adeguandosi anche ai lavori più umili, lottando contro le ingiustizie, le disuguaglianze sociali e la persecuzione degli ebrei. Una donna che seppe alzare la testa volgendo il suo sguardo verso le persone che soffrivano e proprio la sua volontà ad occuparsene la rese invisa ai nazisti. La sua vita si concluse nel campo di concentramento di Ravensbruck, a 90 chilometri a  nord di Berlino, il 17 maggio del 1944. Nel Giardino dei Giusti, a Gerusalemme, un albero porta il suo nome e conserva la memoria della sua generosità.

Marco Travaglini

In Mare la Pietà

Il 23 agosto  alle ore 12.30 presso il porto di Lampedusa, Fabio Viale presenterà In Mare la Pietà, un nuovo passaggio, questa volta attraverso un’azione performativa, di Souvenir Pietà (Madre), con il patrocinio del Comune di Lampedusa e il supporto della Galleria Poggiali.

Il lavoro dell’artista, da sempre caratterizzato dal virtuosismo della finitura dei suoi marmi e dal riferimento ai capolavori dell’arte classica, è indissolubilmente legato allo spiazzamento percettivo dello spettatore che in diverse occasioni si manifesta attraverso atti performativi. 

 

L’opera Souvenir Pietà (Madre) realizzata nel 2018 è la prosecuzione di Souvenir Pietà (Cristo), realizzata invece nel 2007. In entrambe le circostanze l’artista ha replicato in scala 1:1 la Pietà Vaticana di Michelangelo Buonarroti aggiungendo a questo capolavoro della storia dell’arte uno scarto percettivo determinate: nel primo caso è stato riprodotto il Cristo senza la Madre, nel secondo invece la Madre senza il Figlio a simboleggiare un’angosciata separazione. Il passo successivo del lavoro ha assunto poi una dimensione più concettuale con Lucky Ehi presentata in occasione dell’apertura della sede milanese della Galleria Poggiali. In questo caso Viale ha invitato a prendere posto nel luogo del Figlio e a riempire il vuoto tra le braccia della Madre un giovane nigeriano di religione cattolica sfuggito a morte e persecuzione, conosciuto in un centro di accoglienza per rifugiati di Torino. Quella Madonna in marmo bianco di Carrara diviene una madre universale, delle epoche e delle religioni, accoglie l’ultimo, assume le sembianze di una donna col velo e pare dismettere il portato cattolico connotato e fragoroso per divenire una figura universale velata da un copricapo di misericordia assoluta. Nell’esposizione milanese, la scultura era accompagnata da un manifesto di 4 metri per 3 che occupava tutta la parete della galleria e raffigurava Lucky Ehi nudo nel luogo del Cristo, e dalla registrazione sonora della sua storia di migrante.  Il nuovo passaggio del progetto di Fabio Viale sarà adesso quello di posizionare la scultura orfana del Cristo su un peschereccio ormeggiato presso il porto di Lampedusa in corrispondenza della Guardia Costiera. La statua, rivolta verso il mare, rappresenta la sintesi magniloquente di un messaggio di accoglienza e universalità. La Madre è pronta a ospitare su di sé, nel suo doloroso vuoto, l’universalità dell’uomo che giunge dal mare, offrendo il suo grembo all’intera umanità. Nel pomeriggio il peschereccio lascerà il porto e si fermerà a largo della scosta sud, accanto all’Isola dei Conigli, teatro di innumerevoli tragedie e drammatici naufragi tristemente celebri. La Pietà di Viale allora, in mare aperto, volgerà simbolicamente le spalle alla terra di Lampedusa e lo sguardo alla Libia.

 

 

A Montparnasse la tomba dimenticata di Chaim Soutine

In un angolo del vecchio cimitero di Montparnasse, a Parigi, c’è una lunga tomba di pietra, corrosa dal tempo e dalle intemperie, senza fiori e seminascosta da altre tombe imponenti. Sotto questa lapide giace Chaim Soutine, grande pittore di origine russa, scomparso il 9 agosto 1943, insieme all’ultima compagna della sua vita, Marie-Berthe Aurenche, la musa dei pittori surrealisti ex moglie di Max Ernst. Chaim Soutine, decimo di undici figli di un sarto ebreo, fin dall’infanzia viene osteggiato nella sua passione per il disegno da una famiglia, profondamente legata alle tradizioni religiose contrarie alla rappresentazione dell’essere umano, che cerca in tutti i modi possibili di impedirgli di dedicarsi all’arte, infliggendogli pesanti punizioni che creano in lui traumi, ferite e lacerazioni psicologiche che lo accompagneranno per tutta la sua esistenza. Soutine sviluppa una personalità schiva, caratterizzata da un’introversione profonda e da una spiccata timidezza. I fantasmi della sua infanzia continueranno a perseguitarlo, posandosi sulle tele, insinuandosi nei suoi dipinti, popolandoli di figure deformate, di buoi squartati che grondano sangue, di fiori enormi e palpitanti come rosse bocche spalancate, di paesaggi impazziti che sembrano trombe d’aria, tifoni, vortici, raffigurazioni che danno vita ad una pittura personalissima e profondamente coinvolgente fatta di colori violenti e squillanti che caratterizzano i suoi bambini, i suoi piccoli pasticceri, i suoi chierichetti e tutto quel mondo che dal lontano ghetto russo ha trovato spazio e immortalità nella sua arte e nei suoi quadri. Soutine, trasferitosi a Parigi nel 1913, si lega con una profonda amicizia ad Amedeo Modigliani. I due pittori non potrebbero essere più diversi l’uno dall’altro: l’italiano è affascinante, attraente, spavaldo ed esuberante, brucia se stesso e la propria scarsa salute in feste, ebbrezza e gesti folli, il russo è chiuso, timido, malinconico e cupo; la pittura del livornese è naturale, spontanea, fatta di schizzi e di linee buttati giù in un caffè, di donne nude, di amanti belle e spavalde, quella di Soutine è faticosa, meditata, piena di sofferenza, di dolore, casta, pudica, difficile da partorire, da realizzare. Eppure Modigliani prende l’artista russo sotto la sua ala protettrice, convincendo anche il proprio mercante a gestirlo, condividendo con lui gli scarsi guadagni e le lunghe notti insonni trascorse a bere e ad ubriacarsi, dipingendo quattro ritratti di questo amico che rappresenta il suo esatto contrario, una faccia antitetica e al tempo stesso indivisibile di una stessa moneta. Tuttavia quando, nel 1920, Modigliani si spegne all’Ospedale della Charité, distrutto dalla tubercolosi e dall’alcol, Soutine è lontano, a Vance, e laggiù apprende della scomparsa dell’amico. La morte di Modigliani lo sconvolge profondamente e resta traumatizzato anche dal suicidio di Jeanne Hébuterne, compagna del pittore italiano, gettatasi dalla finestra all’ottavo mese di gravidanza. Nuove ferite si aggiungono a quelle che l’artista portava impresse nell’anima, ferite che nemmeno i successi che la sua pittura inizia ad ottenere, scoperta dai collezionisti americani riescono a cicatrizzare.

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Del resto, Soutine si comporta nei confronti dei suoi quadri come Saturno con i suoi figli: li crea e, poi, per una strana paura connaturata in lui, per una sorta di insoddisfazione, li taglia, li brucia, li cancella, dominato da una furia distruttrice. La fama sembra diventare un peso e il denaro che guadagna, attraverso le proprie opere, viene rapidamente bruciato per concedersi lussi che non gli appartengono. Dopo la scoppio della Seconda Guerra mondiale, Soutine, essendo ebreo, è costretto a nascondersi per non essere catturato dai tedeschi e deportato. Deve diventare un fantasma, abbandonare Parigi e cercare rifugio nei centri minori della Francia. Il pittore si volatilizza, scompare, si annulla, sfuggendo a tutti, eccetto che alla morte che lo segue come un’ombra. Una pericolosa ulcera gastrica lo affligge da tempo e a causa di un improvviso aggravarsi del male, l’artista è costretto ad intraprendere un ultimo viaggio verso Parigi per tentare un’operazione che gli sarà fatale, in un carro funebre che lo cela a tutti, trasformandolo prematuramente in un cadavere. Soutine muore il 9 agosto 1943, senza aver ripreso conoscenza. Il decesso, tuttavia, viene segnalato soltanto l’11 agosto, per evitare controlli da parte degli occupanti che continuano, così, a cercarlo. Il funerale si tiene l’11 agosto: oltre alle compagne della sua vita Ma-Be Aurenche e Gerda Grot-Michaelis sono presenti soltanto tre persone nel cimitero di Montparnasse: Pablo Picasso, Jean Cocteau e Max Jacob. Inizialmente la tomba è anonima e soltanto dopo la fine della guerra viene inciso il nome di Soutine. Mentre il suo “Piccolo Pasticcere” batte i record d’asta e i suoi dipinti strazianti vengono ammirati nei grandi musei il pittore di Smilovici riposa dimenticato da tutti, come se, anche nella morte continuasse a perpetrare la necessità di essere invisibile, introvabile, nascosto e a parlare al mondo soltanto attraverso la forza devastante della sua pittura.

Barbara Castellaro

 

Mette selfie sulla carta d’identità: arrestato

DALLA CAMPANIA Ha messo un proprio selfie  sulla carta d’identità, dato che la foto del documento non gli piaceva. Per questo un 52enne del Foggiano è stato arrestato a Ischia con l’accusa di possesso di documento di identificazione falso. I poliziotti del  commissariato sono intervenuti in un albergo dove l’addetto alla reception aveva segnalato perplessità  sulla carta d’identità di un cliente. L’uomo ha detto  ai poliziotti che la foto del documento, scattata cinque anni prima, non era più di suo gradimento e aveva deciso di cambiarla  con uno dei suoi selfie, pensando di non commettere un reato.

La cartolina del nonno (la Grande guerra, cent’anni dopo)

Conobbe i reduci che avevano vissuto la disfatta di Caporetto; vide cadere i “ragazzi del ’99”, chiamati alle armi nel 1917, non ancora diciottenni,  ed inviati sul Piave e sul Grappa per fermare l’avanzata nemica dopo lo sfondamento austro-tedesco del fronte dell’Isonzo

 

Di mio nonno ricordo le mani. Dovevano esser state delle mani grandi e forti. Capaci di strette sincere e di una presa ferma. Io le ricordo, poco prima di morire, coperte da vene blu che – dopo aver viaggiato per una vita come i fiumi del Carso – erano risalite in superficie, accompagnandone dolcemente i tremolii e le incertezze. Mani da lavoratore, rese dure dai calli ma – immagino –  capaci di tenerezze per quanto si potesse cogliere questa disponibilità  affiorante come una debolezza tra le pieghe del suo  carattere burbero e severo.

 

Il nonno – nato all’inizio dell’ultimo decennio dell’ottocento –  si era fatto, tutta intera e senza sconti, la prima guerra mondiale. Dal 24 maggio del 1915 all’11 novembre del 1918 furono, per i tanti come lui che – fortunati – riuscirono a portare a casa la “ghirba”, giorni, settimane, mesi ed anni durissimi. ” Si vede che non era la mia ora“, diceva quasi a giustificazione di non aver fatto la fine di tanti suoi compagni, morti o dispersi. Alpino del Battaglione “Intra” come tanti altri provenienti dalle nostre zone e dal varesotto, prima di partire per il fronte era stato assegnato in un primo momento alla caserma “Simonetta” di Intra e poi alla  “Urli” di Domodossola. Sulla divisa portava la nappina verde degli Alpini dell’Intra, quelli che non mollavano mai ed avevano scelto un motto ( “O u roump o u moeur!” ) che era tutto un programma. Quella guerra fu una vera carneficina. Fu, al tempo stesso, l’ultimo conflitto del passato  – con la sua guerra di trincea, lenta e di posizione – ed il primo grande conflitto in cui si usarono senza risparmio  tutti i mezzi moderni, come aeroplani, mezzi corazzati, sommergibili e  – terribili e disumane – le armi chimiche, tra cui il gas “iprite” che prese il nome dalla città belga  di Ypres, dove fu utilizzato per la prima volta per iniziativa dei tedeschi. Sopravvissuto agli assalti alla baionetta ed agli scontri sulle montagne del Carso e sul Grappa, il nonno – con in grado di sergente maggiore- combatté senza tregua per portare a casa intera la pelle.

Conobbe i reduci che avevano vissuto la disfatta di Caporetto; vide cadere i “ragazzi del ’99”, chiamati alle armi nel 1917, non ancora diciottenni,  ed inviati sul Piave e sul Grappa per fermare l’avanzata nemica dopo lo sfondamento austro-tedesco del fronte dell’Isonzo. Comandò, negli ultimi mesi, dopo che una granata aveva spezzato la vita al capitano ed ai due sottotenenti, i suoi uomini dando prova di buon senso e di coraggio. Gli affidarono così un reparto formato da giovanissimi della classe 1900, arruolata nel 1918 in vista della prevista offensiva della primavera 1919 e che, tolto qualche volontario, non venne mandata in prima linea perché la guerra terminò prima. Quand’aveva la vena malinconica si lasciava scappare qualche accenno. Ricordo la descrizione inorridita dei soldati passati per le armi perché erano scappati dal fronte dopo Caporetto. Mi parlava delle frasi tracciate sui muri delle case  come quella, famosa, del “Tutti eroi! O il Piave o tutti accoppati!”.  Di ricordi, s’intuiva ne avesse molti ma parlava poco e malvolentieri. Era stato decorato con una medaglia di bronzo e due encomi solenni per ” l’assidua, fervida, utile opera prestata, per il costante efficace esempio di coscienzioso adempimento del dovere, combattendo per la Patria sul Monte Grappa e sull’altipiano del Carso“. Il nonno morì prima di vedersi assegnare la Croce di Cavaliere di Vittorio Veneto. Una onorificenza che non gli avrebbero comunque dato perché si era rifiutato di farne richiesta. L’Ordine di Vittorio Veneto venne istituito per legge nel marzo del 1968 per «esprimere la gratitudine della Nazione» a coloro che avevano combattuto per almeno sei mesi durante la prima guerra mondiale o precedenti conflitti. Per ottenerlo bisognava avanzare, tramite il comune di residenza, una propria, personale domanda al capo dello Stato. Quando venne il vigile, modulo alla mano, a proporre di compilarla, il nonno lo mandò via con modi bruschi.

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Dopo quasi cinquant’anni non so che farmene del titolo. Se quelli di Roma  vogliono  fare qualcosa di buono, allora diano una mano alle famiglie di quelli che sono stati mandati a morire sui fronti. Io ho solo fatto il mio dovere anche se la guerra è una cosa schifosa, dove a rimetterci sono sempre i poveri cristi“. In un cassetto della credenza scoprii, accanto alla medaglia ed ai nastrini tricolori, una vecchia e consumata cartolina postale spedita da Innsbruck, la capitale del Tirolo.  Raffigurava il Castello di Ambras, caro all’arciduca Ferdinando II d’Asburgo. Il bollo sull’affrancatura portava la data del 12 maggio 1923. E la scritta, in un italiano scarno e stentato, diceva : “Amico taliano, grazie per tutto.  Molti belli  saluti“.  La firma, quasi illeggibile, pareva di un certo Hans Maier o Hans Heigher. Probabilmente un montanaro, inquadrato in qualche battaglione d’assalto dei Kaiserschutzen tirolesi. Il nonno era geloso dei suoi segreti e non ne fece mai cenno ma so bene che molti alpini e molti “tiratori dell’imperatore” fraternizzarono, trovandosi ad alte quote gli uni di fronte agli altri, tutti montanari che sentivano più il legame della terra che il richiamo del sangue e l’astio del confine. Si fronteggiavano, sparandosi addosso, ma molti lo facevano controvoglia, per obbligo e non certo per scelta. Chissà cosa si dissero e che fecero in quei giorni e in quei luoghi dove si combattevano le battaglie “più alte della storia”. Non l’ho mai saputo e non lo saprà mai nessuno. Il nonno, questo suo “segreto” se l’è portato via con se, per sempre. E non fatico a credere che la stessa cosa sia capitata al suo amico d’oltre frontiera. Sono passati tanti anni da allora ed anche i ricordi sfumano, diventano trasparenti, impalpabili. Si ha paura di toccarli per non vederseli ridurre in polvere e volar via. Resta però un fatto. Duro come la pietra su cui sono fissate le lettere di metallo dei nomi dei caduti e dei reduci della “grande guerra” sul lastrone all’entrata del cimitero di Baveno. Tra i tanti nomi quello del nonno non c’è. Lui che della guerra non riuscì ad evitarne neppure un attimo è stato omesso, dimenticato. Sono certo che se lo venisse a sapere ne sarebbe sinceramente contento, godendo di quel po’ d’oblio che le dimenticanze, a volte, possono regalare.

 

Marco Travaglini

 

Studentessa denuncia violenza sessuale avvenuta in treno

DALLA PUGLIA Ha denunciato di avere subito una violenza sessuale sul treno proveniente da Lecce e diretto a Bologna. Lei è una studentessa di 19 anni e il  presunto aggressore un barese 40enne che  è stato arrestato nella stazione di Ostuni. Ora è ai domiciliari a Bari. La giovane ha chiesto aiuto al personale delle ferrovie che ha attivato l’intervento della polizia ferroviaria. L’uomo è ritenuto responsabile di aver compiuto  atti sessuali contro la volontà ed in danno della persona offesa.

La foto che urla

Ci sono foto che non lasciano nulla all’immaginazione. Più che parlarci, attraverso l’immagine, ci urlano in faccia la disperazione di una realtà rappresentata dalla morte cruda e dallo sgomento che provoca. A Potočari, sobborgo di Srebrenica in Bosnia, appena varcato il cancello d’ingresso del Memoriale che ricorda il genocidio del luglio 1995, sulla destra c’è una scala che porta sottoterra, in una sala dove ristagna un’aria fredda. L’ambiente è spoglio. Poche sedie, una panca. Alle pareti  alcune gigantografie di foto in bianco e nero calamitano l’attenzione. In un paio si vedono le bare allineate nel capannone dell’ex fabbrica di batterie, dall’altra parte della strada, in attesa dell’inumazione. In un’altra resti di vestiti che riemergono da una delle fosse comuni ( ne furono trovate più di sessanta solo nei dintorni)  dove vennero gettati i cadaveri. Un senso di disagio lo provoca la foto in cui s’intravede il gelido paesaggio della zona con l’immagine dei  boschi che sfuma tra  nubi basse e nebbia. Gi stessi boschi dove, nell’intento di sfuggire alla follia omicida, trovarono la morte migliaia di bosgnacchi. C’è anche l’istantanea di una bambola rotta, con la faccia tagliata, probabilmente strappata dalle mani di una bambina: un giocattolo innocente che, deturpato e scaraventato nel fango, si trasforma in una sagoma inquietante. Queste foto, senza didascalia, raccontano ogni cosa e tutto il dolore meglio delle parole che suonerebbero vuote, fuori posto. In fondo, inutili. Non sono tante queste immagini. Non c’è bisogno di ostentare l’orrore per smuovere la memoria. L’ultima della serie, però, è un pugno nello stomaco ancora più forte. Una mano, guantata di bianco, solleva dalla terra di una fossa comune un’altra mano senza vita, scheletrica, nera, sporca. Il contrasto è netto e la pellicola in bianco-nero lo accentua fino a renderlo sconvolgente,impressionante. Pare che la mano morta chieda aiuto, si aggrappi per trascinarsi disperatamente fuori. E l’altra, oserei dire con una delicatezza caritatevole, la sostiene, consapevole che ormai non resta  più nulla da fare se non consentirle una dignitosa sepoltura, dopo l’orrore della morte violenta e la  profanazione del corpo. E’ un particolare crudo, un’immagine diretta, priva di mediazioni. La mano, presumibilmente di uno dei tanti uomini massacrati a Srebrenica o nei dintorni, riflette la tragicità della morte con una efficacia senza pari. Nel nostro immaginario la morte viene raffigurata con teschi e ossa umane, scheletri disegnati, dipinti o incisi sulle lapidi dei vecchi cimiteri, a volte sulle inferriate. La figura più classica , diffusasi dopo il Medioevo, è quella dello scheletro che brandisce la falce che recide la vita, allo stesso modo in cui taglia l’erba o il grano. Ma in questo caso la fotografia della mano scarna e sporca di terra rende l’idea del degrado del corpo ed evoca la morte nel modo più macabro e diretto che si possa immaginare. Per questo colpisce, lasciando senza fiato. Difficilmente si può ignorare ma altrettanto difficilmente gli sguardi indugiano su quest’immagine di indicibile drammaticità. Ad alcuni ragazzi la vista ha provocato ansia e conati di vomito, ad altri la tensione si è sciolta in pianto. Nessuno è rimasto indifferente. Ci sono immagini, situazioni che fanno riflettere molto più di altre. Chi visita oggi il campo di sterminio di Auschwitz resta attonito sfilando davanti alle teche del museo colme di scarpe, protesi, occhiali, capelli. O alle centinaia di barattoli vuoti di zyklon B, il cianuro solido che  – a contatto con l’aria –  non lasciava scampo a chi era stato costretto ad entrare nelle “docce” delle camere a gas. Lo stesso è accaduto a Belgrado qualche anno fa, nel luglio del 2010, dove le “Donne in nero”, attiviste antimilitariste di Serbia, hanno inscenato una originalissima manifestazione in ricordo di Srebrenica. Hanno raccolto 8372 paia di scarpe, tante quante furono le vittime dell’eccidio riportate sulla stele del Memoriale ( in realtà circa diecimila) , allo scopo di farne un monumento nella capitale serba. Così centinaia di paia di scarpe di ogni tipo, foggia e colore – da uomo, donna, sportive e per bambini, ciabatte e stivali – sono state allineate per terra sulla Kneza Mihailova, la frequentatissima strada pedonale nel cuore dell’ex capitale della

09/05/2015 Viaggio in Bosnia con i ragazzi vincitori del concorso di storia contemporanea organizzato dal Comitato Resistenza e Costituzione del Consiglio regionale – Il memoriale di Potocari dove sono sepolte le persone di etnia musulmana uccise dalle truppe paramilitari serbe nel luglio del 1995

Jugoslavia, su striscioni con scritte contro la guerra e in memoria delle vittime di Srebrenica.  Stasa Zajovic, esponente delle Donne in Nero belgradesi e  coordinatrice della manifestazione, nell’occasione disse : “Donare un paio di scarpe significa riconoscere che il genocidio di Srebrenica è accaduto realmente. Ed è un modo per esprimere partecipazione e solidarietà alle vittime”. Alla domanda del perché si era scelto di utilizzare le scarpe come elemento simbolico, Stasa rispose così: “ Per me, le scarpe sono l’impronta delle persone scomparse a Srebrenica, e quest’impronta ha una grande importanza. Le scarpe sono il simbolo delle vite perdute e vogliamo che ogni singola scarpa abbia un suo spazio, perché coloro che sono stati uccisi non sono solamente ossa. Sono persone i cui sogni, desideri, amori e dolori sono stati uccisi insieme a loro. In più, le scarpe sono un simbolo di movimento, di cambiamento”. Le scarpe come le foto in bianco e nero. L’immaginario visivo di una memoria dura da elaborare per chi piange o vuol piangere i propri morti. Dura anche per chi, ad ovest e a est di Srebrenica, ne porta il  grande peso sulla coscienza.

 

Marco Travaglini