Aveva allestito uno studio dentistico attrezzato di tutto punto, con tanto di sala d’attesa, poltrona, materiali e strumenti medici per un valore stimabile in 100mila euro. Il locale e le attrezzature sono state sequestrate dalla Guardia di finanza a Nicosia (Enna) . E’ stato indagato un uomo che esercitava abusivamente l’attività di dentista, ma non era iscritto all’Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri e non aveva i titoli di legge idonei . Il falso dentista è risultato sconosciuto al Fisco dal 2009. Le fiamme hanno segnalato all’Agenzia delle Entrate un reddito per un ammontare di circa 600 mila euro.
E’ morto dopo essere stato investito, mentre si trovava accanto al suo furgone in sosta in una piazzola di servizio, da un mezzo compattatore della società della raccolta dei rifiuti a Brindisi, sulla superstrada per Bari. Due furgoni erano fermi, forse per un trasbordo di merce, nella piazzola, quando è arrivato il pesante compattatore di rifiuti che li ha travolti. La vittima è un uomo della provincia di Bari.
Marco Travaglini
Spray urticante al peperoncino è stato spruzzato stamane da due studenti in classe durante le lezioni nella prima liceo Classico Garibaldi di Palermo. Insegnante e allievi sono usciti di corsa spaventati. Poi, dopo avere spalancato le finestre, la situazione è tornata alla normalità. La polizia ha identificato i due alunni. La preside è riuscita a riportare sotto controllo la situazione senza dover chiamare il 118. Presto verranno organizzati incontri con i ragazzi e i genitori per spiegare i danni che possono provocare questi gesti irresponsabili.
L’Europa “al contrario” del Medioevo
di Filippo Re
L’Europa nel Medioevo? La sponda ricca del Mediterraneo non era la nostra, quella europea, ma quella meridionale, quella africana. Dalle coste libiche e tunisine non partivano barconi di disperati, di profughi e di migranti economici alla ricerca di fortuna, lavoro e denaro. Il sud non era povero e arretrato e il nord non era sviluppato e prospero come ai tempi nostri. Tutt’altro, i viaggiatori musulmani che sbarcavano nell’Europa cristiana mille anni fa si trovarono di fronte capanne, tende e allevamenti di bestiame, gente povera e incivile che viveva più o meno come i barbari. La civiltà era altrove, la “modernità”, la cultura e l’arte erano a sud in mezzo alle popolazioni arabe, in quel Maghreb oggi alle prese con guerre, povertà, terrorismo e perenne instabilità politica da cui si cerca di fuggire con ogni mezzo. L’Europa di quel tempo era così. Sembrava che gli arabi provenissero perfino da un altro mondo e fossero portatori di sapienza e insegnamento. Per loro il nostro caro continente era solo una terra da conquistare e saccheggiare come accadde con la dominazione musulmana della Spagna e della Sicilia. Un’Europa cattolica incapace di riprendersi, di rimettersi in cammino, prigioniera di sé stessa, come scrive lo storico inglese Chris Wickham, docente di storia medievale a Oxford, nel libro fresco di stampa, “L’Europa nel Medioevo” (Carocci editore), quasi schiacciata a ovest dalla Spagna musulmana e a est dall’Impero bizantino e dal califfato abbaside in Medio Oriente. L’Europa sottosviluppata non piaceva affatto al mondo arabo-islamico, allora più evoluto e potente, che invece aveva un’ammirazione particolare per la Cina imperiale dove tutto era perfetto e in ordine. E che dire delle città europee? A Parigi e a Londra si camminava nel fango ma Damasco, Il Cairo, Tunisi, Palermo e Samarcanda potevano contare su centri urbani già sviluppati e all’avanguardia per quei tempi. Se nella Spagna moresca Cordova contava almeno 300.000 abitanti e figurava come l’ornamento del mondo con sorgenti, terme, canali, palme, aranci, facendo volare il pensiero allo splendore dell’Alhambra, tra arabeschi, fontane, colonne e archi, Palermo era la città magnifica per eccellenza, ricca di palazzi, chiese e moschee, giardini e mercati, una delle più belle del Mare Nostrum. Con un milione di abitanti Baghdad era la metropoli più importante del mondo ed erano i tempi in cui Federico II, l’imperatore siculo-germanico, era un mediatore di sapienza tra mondo islamico e mondo europeo. Cordova primeggiava nella cultura. La biblioteca del califfo al Hakam II conteneva 400 mila volumi mentre la più grande biblioteca europea si doveva accontentare di poche centinaia di libri. Il califfo la abbellì con opere scientifiche e filosofiche della Grecia antica tradotte in arabo e con numerosi scritti di Aristotele, Galeno, Tolomeo e Avicenna. Poi, più avanti nel tempo, dal XII secolo in avanti, le cose mutarono profondamente e l’Occidente prese il sopravvento come viene descritto nel volume di Wickham che fornisce al lettore un’ampia ricostruzione delle relazioni tra il nostro continente e la civiltà musulmana.
Vrbanja, il ponte triste di Sarajevo
Quello di Vrbanja è il ponte più triste della storia recente di Sarajevo. Noto anche come “ponte della morte”, attraversa la Miljacka e collega il quartiere di Grbavica con quello di Marijin-Dvor. Nel tempo ha cambiato nome e ora è il ponte Dilberović –Sučić , dai cognomi delle due donne che vi persero la vita, prime vittime dell’assedio di Sarajevo: una studentessa e una pacifista che vennero uccise da un cecchino proprio lì. La prima aveva genitori bosgnacchi (i bosniaci musulmani), la seconda era croata. Suada Dilberović era nata a Dubrovnik, la Ragusa di Dalmazia, e non aveva ancora ventiquattro anni. Si trovava a Sarajevo per studiare medicina all’università e frequentava il sesto anno quando iniziò il conflitto, nei primi giorni di aprile. Il 5 aprile del 1992 è la data in cui ufficialmente iniziò l’assedio della città di Sarajevo. Quel giorno si svolse un’imponente manifestazione a favore della pace e dell’indipendenza della Bosnia, che era stata appena dichiarata. Radovan Karadžić, lo psichiatra leader dei serbo bosniaci, intervenne in Parlamento e disse che se la Bosnia si fosse resa indipendente dalla Serbia, i serbo bosniaci avrebbero reagito con le armi. Il presidente della Bosnia, Alija Izetbegovic´, gli rispose rivolgendosi a tutti i bosniaci e dicendo loro di stare tranquilli perché non ci sarebbe stata nessuna guerra. Gli studenti, comunque, si radunarono e manifestarono (la memoria di ciò che era accaduto da poco in Croazia era ben viva e il fragore della guerra s’annunciava).
In piazza non c’erano solo bosniaci. Molti avevano raggiunto Sarajevo dalla Serbia e dalla Croazia. Erano tanti e insieme a loro c’era la gente comune. Pare fossero centomila. I cecchini serbi, rintanati all’Holiday Inn (allora sede del Partito Democratico Serbo) aprirono il fuoco causando sei morti e ferendo altre persone. Le prime a essere colpite a morte, sul ponte Vrbanja, furono loro: Suada Dilberović e la trentaquattrenne OlgaSučić. Oggi sul ponte c’è una targa in ricordo di queste vittime innocenti che recita “Kap moje krvi potecˇe i Bosna ne presuši”, cioè ”una goccia del mio sangue scorre e la Bosnia non diventerà arida”. In un primo momento il ponte venne nominato Most Suade Dilberović(Ponte Suada Dilberović) per essere successivamente rinominato come Most Suade i Olge (Ponte Suada e Olga). Il 15 novembre 2007 l’Università di Sarajevo ha assegnato a Suada Dilberović la laurea in Medicina alla memoria. Storie di vite offese e storie di amori spezzati, come quella di Admira Ismić e Boško Brkić , due ragazzi come tanti, nati entrambi nel 1968 a Sarajevo. Lei era bosniaca di fede musulmana e lui era serbo bosniaco di fede cristiano ortodossa. Erano fidanzati, si amavano e volevano fuggire dalla città. Il 19 maggio 1993, percorrendo il Ponte Vrbanja, un cecchino aprì il fuoco su di loro. Bosko morì subito, mentre Admira, ferita gravemente, non tentò di fuggire: abbracciò Bosko e attese la morte. I loro corpi restarono sul selciato per cinque giorni, come due moderni e tragici Romeo e Giulietta. Admira e Bosko furono ritratti nell’immobilità della loro morte e divennero il simbolo di quella guerra fratricida. La coppia, in un primo tempo sepolta a Lukavica, un comune della Republika Srpska, è stata portata nell’aprile del 1996 al cimitero del Leone, una collina di Sarajevo, ricoperta interamente di croci dove ora riposano l’uno vicino all’altra. Proprio di fronte alle loro tombe, al di là del muro di cinta del cimitero, c’è il caffè dove i giovani fidanzati si incontravano e s’innamorarono; ai tavolini di quel locale, concordarono il loro piano di fuga per vivere il loro sogno di un amore lontano dalle bombe e dall’odio.
C’è però un’altra targa sul ponte. Vi si legge: “Sarajevo, 2000. Caro Moreno, il tuo sangue e entrato nelle crepe di questa Storia. Sei arrivato in questa umanità sofferente e sei partito beato. E ora dal tuo martirio nascono storie nuove, storie che si concretizzano nella pace.. fino agli estremi confini del mondo..”. È firmata “Mir (Pace) – Marco F”. La targa ricorda un italiano di 34 anni, Gabriele Moreno Locatelli, originario di Canzo, nei pressi di Como, volontario del movimento Beati i costruttori di pace, ucciso dai cecchini proprio sul ponte di Vrbanja, un anno e mezzo dopo Suada e Olga. Era il 3 ottobre 1993, a Sarajevo. Gabriele Moreno, con altri quattro amici del movimento, era impegnato nella realizzazione del progetto “Si vive una sola pace”. Iniziarono l’attraversamento di quel ponte, si fermarono a metà, inginocchiandosi in preghiera. In un attimo furono investiti dai proiettili dei cecchini. Avrebbero dovuto posare lì un mazzo di fiori, sul luogo del primo morto di quella città ferita dalla guerra dell’odio. Poi sarebbero dovuti andare dai soldati serbi e da quelli bosniaci, offrendo agli uni e agli altri un pane di pace. Lo portarono in ospedale, venne operato due volte e con l’ultimo fiato, prima di morire, chiese agli altri: “Stanno tutti bene?”. Hanno scritto di lui all’Azione Cattolica: “Gabriele Moreno Locatelli è un vagabondo del Vangelo che parte dalla Lombardia e non pianta la sua tenda da nessuna parte, passando per tante esperienze e obbedendo a due sole regole: seguire Gesù e servire tutti coloro che ci passano accanto in questa breve vita”. È una vita straordinaria la sua. Milita nell’Azione Cattolica, studia teologia a Napoli e Friburgo, prova per cinque anni a fare il francescano tra Assisi, Napoli e la Sicilia. Bussa anche alla porta dei Piccoli Fratelli di Gesù, a Spello. Vive tre anni a Parigi, per assistere un prete infermo. All’ingresso della sua casa di Canzo aveva messo una targa con queste parole tratte dal Cantico dei Cantici: “Forte come la morte e l’amore”. Pensando di diventare frate francescano – in una comunità particolare che predica il ritorno al rigore delle origini – aveva sperimentato la questua a piedi nudi. Moreno aveva una fede sconfinata ed era mosso da principi saldissimi. Quaranta giorni prima di morire, dalla capitale bosniaca assediata, lanciò un grido in forma di poesia che era una testimonianza con cui cercava di scuotere le coscienze di tutti. Eccola: ”Vi prego, gridate che qui la gente muore di granate, di snajper (cecchini), di malattie ma anche di paura, angoscia, disperazione perché non c’è pace, non c’é pane e l’inverno arriva e nessuno crede che non li abbiamo dimenticati. Vi prego, gridate”. Scrissero ancora di lui, all’Azione Cattolica: “Cosi se ne va questo cristiano vagabondo, che a forza di cercare il Signore in ogni terra ha finito con l’incontrarlo a metà di un ponte proibito”. Ho percorso molte volte quel “ponte proibito” che ora non è più tale. La prima volta non avevo fiori freschi ma volevo comunque lasciare qualcosa, in segno di rispetto, sulle lapidi e sulla targa del ponte: ho sistemato dei rametti di rosmarino e foglie di menta che ho trovato in un orto lì vicino. Il profumo e l’azzurro-violetto del fiore del ricordo e tutte le virtù di una pianta che ricresce e fiorisce anche nelle condizioni più avverse.
Marco Travaglini
Si chiama ‘Campana della Nuova Vita’, suona nota Sol, ha un diametro di 47 cm e pesa 70 kg. Fusa dalla ‘Pontificia Fonderia Marinelli’ di Agnone, in Molise (dall’anno 1000 la prima e più antica fabbrica di campane al mondo), è stata donata per celebrare le vittime di banche e fisco ingiusti, ma anche tutti i bimbi precocemente scomparsi. Suonerà, a partire dal 15 Dicembre 2018, dall’alto del campanile della Chiesa Parrocchiale di Castenedolo (BS).
Un dono prezioso, desiderato, appassionato e generoso dei fedeli devoti Maurizio Scandurra (giornalista, critico musicale e benefattore) e Serafino Di Loreto. Quest’ultimo, stimato Avvocato, Accademico e imprenditore, Fondatore di SDL CENTROSTUDI SPA, primaria realtà italiana nella lotta alle iniquità dell’erario e delle banche, è autore anche di una profonda riflessione sul rapporto di autenticità che lega campane e vita. Le parole toccanti e sentite di Di Loreto: “È innegabile che la campana rappresenti un simbolo: una sorta di vessillo, come può esserlo una bandiera. Emerge subito però la considerazione che la campana è qualcosa di più. E non solo perché non è unicamente una stoffa variopinta ed è fatta di materiale pregiato (il bronzo) fuso in uno stampo preventivamente lavorato per fare emergere la rappresentazione artistica (immagini e scritte) a futura, imperitura memoria. Ma una campana rappresenta qualcosa di più, anche perché oltre a farsi vedere e notare come farebbe una bandiera, si fa anche sentire con i suoi rintocchi che sono un forte richiamo, non solo per le orecchie: ma anche per il cuore, la mente e lo spirito. La campana ci dà protezione, e infatti ci chiama a “coorte” con i suoi rintocchi a martello quando vi è un’emergenza. Così come ci avvisa che un caro amico se n’è andato quando lancia i suoi lenti e ritmati rintocchi, ma ci dice anche che è festa e che dobbiamo gioire quando lo scampanio è brillante nel ritmo. Una campana oltre a evocare il punto di raccolta e di difesa ci parla: e noi siamo tutti figli suoi. La campana è un simbolo, ma anche una portatrice di emozioni e di informazioni: e ricorda a tutti che abbiamo un’unica radice cristiana che ci accomuna, e se non sempre nel fatto di essere praticanti quanto meno dal punto di vista storico e culturale…e quindi per ricordare a tutti noi da dove venivamo. Ecco perché una campana: una comunità non può non avere una campana: una comunità ha bisogno di una campana! La campana come simbolo: fusione di religiosità, umanità, arte e aspirazioni. Ma questa campana possiede una cosa in più perché contiene il ricordo per i piccoli fratelli prematuramente scomparsi che non vogliamo dimenticare e che affidiamo alle braccia del Signore; questa campana è nata anche per dare speranza per tutti coloro che hanno dovuto subire ingiustizie e prevaricazioni personali nonché finanziarie (quali l’usura) per rimettere i propri debiti ai poteri forti e senza scrupoli. Questa campana è la testimonianza che la libertà dalla prevaricazione è un diritto umano e divino. L’usura infatti è l’applicazione di interessi illeciti: nessuno dovrebbe chiedere ad un altro essere umano interessi per il solo fatto che passi il tempo (e tanto meno esorbitanti ed usurari): solo Dio creatore immutabile di ogni cosa avrebbe il diritto di chiedere a noi umani e cristiani il dovuto per il tempo che passa…e non lo fa! E se ciò non lo chiede l’Altissimo, certi comportamenti non possono essere una prerogativa di qualche usuraio che si traveste da spacciatore legalizzato di crediti. È questa una campana speciale; una campana che rappresenta il momento di incontro di una comunità che lancia nel cielo un grido di speranza“, conclude commosso Serafino Di Loreto.
FOCUS INTERNAZIONALE di Filippo Re
Spiragli di dialogo nello Yemen martoriato da quasi quattro anni di guerra civile che vede opposte la leadership sunnita dell’ex presidente Mansour Hadi, sostenuta da Riad, e i ribelli sciiti vicini all’Iran
La coalizione guidata dall’Arabia Saudita ha autorizzato l’evacuazione con un aereo delle Nazioni Unite di una cinquantina di ribelli sciiti dalla capitale yemenita Sana con destinazione l’Oman affinchè vengano curati. La richiesta era stata avanzata dall’inviato speciale Onu per lo Yemen, Martin Griffiths, come gesto di apertura da parte della coalizione per far partire i nuovi colloqui di pace in Svezia dopo il fallimento dei negoziati di Ginevra. A settembre infatti la delegazione degli insorti aveva disertato le trattative nella città elvetica sostenendo che l’Onu non poteva garantire ai suoi membri un ritorno sicuro in Yemen. Ora sia i ribelli che i membri del governo riconosciuto dall’Onu sono seduti attorno a uno stesso tavolo. Portare le parti in causa nello stesso palazzo è già un successo. Ma mentre la diplomazia si rimette in movimento il dramma yemenita continua a mietere vittime. Sono soprattutto i bambini a pagare il prezzo più alto del conflitto, bambini che muoiono a migliaia per la guerra, la mancanza di cibo, di farmaci, di acqua potabile e per il dilagare di malattie. Le cifre sono impressionanti: secondo “Save the Children” già 80.000 bambini al di sotto dei cinque anni sono deceduti dall’inizio del conflitto.
Perchè si continua a morire nello Yemen? Da una parte è una guerra per il potere in un’area strategicamente rilevante e dall’altra è un conflitto religioso provocato dall’odio arcaico tra sunniti e sciiti sullo sfondo della lotta per la supremazia islamica nell’area del Golfo Persico tra sauditi e iraniani. Lo Yemen si trova in una posizione strategica, controlla lo stretto di Bab el Mandeb che collega il Mar Rosso con il Golfo di Aden e il Corno d’Africa, uno specchio d’acqua dove transita molto petrolio. Sauditi e iraniani si confrontano nello Yemen per mantenere l’influenza nella regione del Golfo. Il conflitto ha anche dei risvolti economici: la lotta degli Houti minaccia da vicino lo Stretto di Bab-el-Mandeb fra Gibuti e lo Yemen, all’entrata del Mar Rosso. Attraverso di esso passano ogni giorno circa 3-4 milioni di barili di greggio e l’eventuale chiusura dello Stretto potrebbe compromettere il commercio petrolifero della penisola arabica. Dai porti yemeniti si controlla infatti il passaggio di gran parte del petrolio esportato dal regno saudita. Ecco perchè è così importante controllare questa via d’acqua. Tutto inizia nel marzo 2015 con l’operazione militare “Tempesta di fermezza” per contrastare l’offensiva dei ribelli sciiti yemeniti armati dall’Iran contro il governo filosaudita e frenare l’influenza iraniana in Medio Oriente oltre a garantire il passaggio delle petroliere nel Mar Rosso. L’intervento, voluto fortemente da Mohammad bin Salman quando era Ministro della Difesa, si internazionalizza con la discesa in campo di Riad nella guerra civile contro le milizie sciite Houthi. I sauditi si pongono alla guida di una coalizione multinazionale insieme agli Emirati Arabi Uniti. Stati Uniti e Francia forniscono sostegno logistico e vendono armi al regno. Gli americani intervengono anche con raid aerei e forze speciali sul terreno per colpire soprattutto i miliziani di Al Qaeda e dell’Isis. Riad vuole a tutti i costi impedire ai ribelli di estendere il proprio controllo dalla montagne del nord a tutto il Paese. Da settimane si combatte aspramente attorno al porto di Hudayda in mano agli Houthi e assediato dalle forze governative appoggiate da sauditi ed emiratini.
Per l’Arabia Saudita la riconquista del porto strategico sul Mar Rosso consentirebbe di bloccare i rifornimenti esterni agli Houthi sostenuti dall’Iran e dal Qatar. Nello scalo marittimo arriva la maggior parte degli aiuti umanitari per gli yemeniti. I sauditi non possono permettere ai rivoltosi, per di più sciiti e filo-iraniani, di occupare lo Yemen, considerato da Riad come il proprio cortile di casa e diventato un campo di battaglia dal quale gli insorti lanciano missili in territorio saudita avvicinandosi anche alla capitale. L’intervento militare saudita in Yemen è stato un fallimento e gli attacchi degli Houthi non sono stati per nulla neutralizzati. Anzi, lo Yemen è diventato un pantano in cui si combattono sauditi e milizie sciite filo-iraniane mentre Al Qaeda e l’Isis hanno guadagnato terreno approfittando della guerra che ha causato, secondo l’Onu, la peggiore crisi umanitaria al mondo. Il numero delle vittime è incerto e sarebbe molto più alto delle stime ufficiali che contano oltre 12.000 morti in battaglia. Altri organismi presenti sul territorio sostengono invece che il conflitto tra le forze governative sostenute dai sauditi e i ribelli filo-iraniani avrebbe provocato da marzo 2015 a oggi oltre 50.000 vittime solo tra i combattenti e decine di migliaia di feriti. Il conflitto ha inoltre lasciato 20 milioni di persone senza aiuti umanitari. Nuovi armamenti e nuovi missili sono stati venduti ai sauditi alla fine di novembre da Trump che ha investito altri 15 miliardi di dollari nel riarmo della monarchia del Golfo, sua stretta alleata. Per sorvegliare le aree a sud del regno raggiungibili dai missili degli sciiti yemeniti forniti loro da Teheran arriverà un nuovo sistema di difesa anti-missilistica. L’amministrazione americana ha firmato un nuovo contratto per la fornitura del sistema difensivo Thaad richiesto da Riad per rafforzare la sicurezza dell’Arabia Saudita e della regione del Golfo davanti alle minacce crescenti del regime iraniano. L’annuncio è giunto contemporaneamente al voto del Senato statunitense che intende togliere il sostegno americano alla coalizione araba a guida saudita, forse per punire la Casa Reale per l’assassinio di Jamal Khashoggi e lo stesso principe ereditario Mohammad bin Salman, ritenuto il mandante dell’omicidio del giornalista saudita. Khashoggi sarebbe stato eliminato proprio perchè voleva denunciare i vertici sauditi per l’impiego di bombe chimiche nella sanguinosa guerra civile yemenita progettata dallo stesso Bin Salman. Si tratta di una nuova fornitura di armamenti dopo quella, assai imponente, di maggio 2017 quando il presidente americano Donald Trump e re Salman siglarono un accordo in base al quale Riad comprerà armi e sistemi di difesa dagli Usa per 110 miliardi di dollari con l’obiettivo di arrivare alla cifra record di 350 miliardi di dollari in dieci anni.
DAL SETTIMANALE LA VOCE E IL TEMPO
Muffa nei budini al cioccolato serviti alla mensa di una scuola primaria della periferia nord di Milano. La società che si occupa della ristorazione scolastica spiega che non ha ancora ricevuto segnalazioni sulla partita di budini avariati ma che provvederà a segnalare l’episodio al produttore del budino che viene consegnato nelle mense già confezionato.
Siamo da sempre convinti che i Poteri dello Stato debbano dialogare fra loro. In quest’ottica, giustamente, ci stanno le informative che il Capo della Polizia fa al ministro dell’Interno, dopo averle ricevute, a sua volta, dalla Magistratura inquirente. Da questo, a ipotizzare che se ne possano informare subito i social in modo che tutto diventi di dominio pubblico il passo è ancora lungo. Vale a dire, che se c’è un obbligo di informativa fra i Corpi dello Stato, potrebbe essere stato deleterio informarne i Social, a operazione, ancora in corso. Riepiloghiamo la vicenda dello scontro tra Armando Spataro e il ministro Matteo Salvini. Tutto parte da un tweet di Salvini: “… anche a Torino altri 15 mafiosi nigeriani sono stati fermati dalla Polizia, che poi ha ammanettato 8 spacciatori (titolari di permesso di soggiorno per motivi umanitari e clandestini) a Bolzano”. A questa esternazione c’è stata la risposta del procuratore Spataro che ha rimproverato al Ministro di aver “messo a rischio un’operazione di polizia“. Replica di Salvini che sostiene che è “inaccettabile” accusarlo di compromettere le indagini e aggiunge… “se il procuratore è stanco, si ritiri“. Sarebbe bastato questo scambio di precisazioni e dileggio da parte di Salvini per non infiammare oltre la polemica. A innescarne una nuova ci ha pensato Giuseppe Cascini, capogruppo al Csm che ridicolizza il ministro Salvini: ”Non possiamo trascinare questo Paese e le sue istituzioni nel mondo dei social. Non siamo ragazzini e se si assumono incarichi istituzionali bisogna fargli capire che non è più un ragazzino e che deve avere un atteggiamento consono al ruolo”. Continua aggiungendo: “Il ministro dell’Interno non può permettersi di rispondere come ha fatto a un rilievo critico, fosse anche infondato. Non è ammissibile che si risponda con il dileggio, lo scherno, l’irrisione nei confronti di un servitore dello Stato. Non possiamo ridurre tutto a chi fa la battuta più veloce e dice la cattiveria più intrigante: questo lo fanno i ragazzi a scuola”. Discorso pronunciato in apertura di plenum del Consiglio superiore della magistratura che ha provocato reazioni, tra cui, quella di Alessio Lanzi ( Forza Italia) che ha detto che “non si può parlare qui come al bar e definire ragazzino un ministro” e di alcuni togati come Corrado Cartoni di Magistratura Indipendente che ha espresso critiche anche nei confronti di Spataro. “Anche quando il magistrato ha ragione le forme di comunicazione devono essere più sobrie possibili e in questa vicenda forse la forma di comunicazione è stata sbagliata: si poteva fare per vie istituzionali o con una telefonata al ministro”. Il solito ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, ha fatto come Pilato, sostenendo che i due contendenti hanno entrambi agito in buonafede e correttezza. In effetti sono due esternazioni, ma si può equipararle? In conclusione, nella lotta fra vita reale contro social, il mondo virtuale ha nuovamente vinto e non è un bene!
Tommaso Lo Russo