Dall Italia e dal Mondo- Pagina 33

La Siria e il "disimpegno" Usa

FOCUS INTERNAZIONALE    di Filippo Re
É un ritiro per restare quello degli americani che difficilmente se ne andranno dal Levante, soprattutto ora che nella regione sono presenti gli eserciti più potenti del mondo. E comunque, in caso di ritiro totale dalla Siria, sposteranno la loro presenza militare nelle basi nel vicino Iraq da cui potranno tranquillamente monitorare la situazione in tutta l’area
Per il momento restano 200 soldati americani nel teatro siriano per far felici gli alti comandi militari, scossi e preoccupati dalla iniziale decisione di Trump di ritirare quanto prima i marines dalla Siria. Un annuncio ritenuto affrettato e prematuro perchè, nonostante i proclami del presidente americano che sostiene di aver sconfitto al 100% gli estremisti islamici, l’Isis e il resto della galassia islamista rimangono una significativa minaccia malgrado la totale sconfitta militare. Un rapporto degli osservatori dell’Onu ha subito smentito l’entusiasmo di Trump facendo notare che, secondo le loro stime, tra Siria e Iraq vi sono ancora circa 15.000 combattenti, di cui almeno 3000 sono stranieri, pronti a resistere e a reagire con attacchi armati e attentati. Gran parte dei miliziani si starebbero trasferendo nei deserti siriani e iracheni per unirsi ad altri gruppi estremisti sunniti con l’obiettivo di sopravvivere e risorgere per tornare a colpire con la guerriglia. Le cifre della ferocia del defunto Califfato, secondo l’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria (Ondus), sono impressionanti: oltre 6000 condanne a morte per impiccagione e decapitazione, bambini compresi, sono state eseguite dall’Isis in Siria in cinque anni. Le province coinvolte sono quelle di Deir ez Zor, Raqqa, Aleppo, Homs, Hama, Damasco e Hassakè. A Raqqa è stata rivenuta, un anno dopo la riconquista della città, la più grande fossa comune dell’Isis con oltre 3500 corpi sepolti. Ma non è l’unica, altre fosse comuni sono state individuate nei pressi dell’ex roccaforte siriana del Califfato. Secondo il Pentagono il movimento jihadista è stato tutt’altro che spazzato via e sarebbe in grado di far rinascere almeno in parte il Califfato nel giro di un anno. In una situazione così ingarbugliata l’Isis potrebbe riorganizzarsi. Un dossier presentato dal Mossad, i servizi segreti di Israele, sostiene che l’ex Stato islamico può ancora contare su 150-200.000 tra “combattenti, simpatizzanti e potenziali terroristi islamici” nel mondo. Non meno preoccupante per gli israeliani è la presenza militare delle forze iraniane in Siria che, stando a fonti militari di Gerusalemme, comprenderebbe tra 2000 e 5000 membri della Forza Quds e 90.000 miliziani siriani sottoposti al comando iraniano. Ma sul terreno i nodi da sciogliere sono ancora tanti. Dopo la caduta di Baghuz, l’ultima roccaforte delle bandiere nere dell’Isis, nella Siria sud-orientale, restano aperte le questioni della regione curdo-siriana e di Idlib, entrambe assai complicate e con possibili ripercussioni politiche internazionali. Nonostante siano stretti alleati russi e turchi sembrano non fidarsi troppo uno dell’altro. Il futuro della Siria è visto in modo diverso da Mosca e da Ankara dopo l’annunciato ritiro americano ma per il momento l’importante è non pestarsi troppo i piedi. Sia lo zar che il sultano hanno ambizioni imperiali nel Vicino Oriente e forti interessi geostrategici. Al recente vertice di Sochi sul Mar Nero i russi hanno soddisfatto solo in parte le richieste della Mezzaluna. Ankara pretende una zona di sicurezza anti-curda nel nord-est lungo la frontiera con la Siria. Putin, alleato di Assad, non è del tutto contrario ma ritiene necessario il consenso del rais di Damasco, restio però a concedere una fetta del proprio territorio al nemico turco e forte del sostegno dell’ayatollah Khamenei che pochi giorni fa ha incontrato Assad a Teheran. Non si esclude tuttavia che si arrivi a un compromesso barattando magari la striscia di sicurezza con qualche concessione turca a Idlib verso russi e siriani. Dal nord-est del Paese fino a Manbij e Idlib nel nord-ovest, la Siria sembra un grande cantiere avviato verso la spartizione tra grandi potenze e potenze regionali. Le città di Manbij e Idlib sono lo specchio della divisione del territorio in sfere di influenza. La tensione è palpabile a Manbij, tra Aleppo e la riva occidentale dell’Eufrate, nel nord del Paese, non lontano dal confine con la Turchia, dove sono presenti truppe americane, russe, turche e siriane a cui si aggiungono le milizie curde che amministrano il centro abitato. A metà gennaio un kamikaze dell’Isis si fece esplodere davanti a un ristorante uccidendo quattro militari americani e undici civili. La città di Manbij era stata occupata nel 2013 dai jihadisti dello Stato islamico e liberata tre anni fa dalle forze curde appoggiate da truppe speciali e raid aerei americani. I turchi minacciano di occupare Manbij e chiedono che i curdi si ritirino a est dell’Eufrate ma i russi frenano i piani di Erdogan. Le controffensive curde contro l’Isis hanno permesso ai combattenti peshmerga non solo di cacciare i soldati del Califfo ma anche di occupare un territorio ben più ampio della tradizionale regione curda. La preoccupazione maggiore di Erdogan è che l’allargamento del territorio curdo in Siria possa rafforzare l’obiettivo di puntare a una nazione curda a cavallo tra Turchia, Siria e Iraq. Ben presto i curdi dovranno vedersela con il regime di Damasco che intende riprendere il controllo delle zone orientali ricche di petrolio e gas e con le minacce di intervento militare provenienti dalla Turchia. Idlib è l’altra città, a nord-ovest della Siria, nelle mire di russi, turchi e iraniani. Ma qui bisogna fare i conti con le fazioni di al Qaeda che hanno costituito una sorta di emirato e controllano un’ampia fetta del governatorato di Idlib, fuori dal controllo dei governativi siriani e sotto l’influenza dei turchi e di gruppi loro alleati. L’improvvisa avanzata dei qaedisti sta mettendo a rischio centinaia di migliaia di civili sostenuti dagli aiuti di varie organizzazioni umanitarie. Ma non c’è pace neppure ad Aleppo, i cui quartieri occidentali vengono ancora raggiunti da missili provenienti dalla zona di Idlib mentre nella parte orientale di Aleppo, rasa al suolo dalla guerra, la ricostruzione stenta a decollare. Una situazione che continua preoccupare la minoranza cristiana sempre più intenzionata a lasciare la Siria in cui i cristiani oggi non sono più del 2-3% mentre prima della guerra erano circa il 10% della popolazione.

Dal settimanale “La Voce e il Tempo”

 
 
 
 

La "mezzaluna" del croissant e il "kapuziner" viennese

Correva l’anno 1683 quando Vienna – capitale dell’Impero d’Asburgo – venne circondata dalle truppe ottomane che, partite da Istanbul, serravano l’Europa in una morsa dalla  Spagna fino ai Balcani. La battaglia che ne conseguì  divenne il punto di svolta, a favore degli europei, nelle guerre austro-turche, segnando l’arresto della spinta espansionistica ottomana nel continente.

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E questa, come s’usa dire, è la storia.  L’evento fu accompagnato da tante leggende e alcune di queste sono davvero curiose. Le due parti in lotta basarono le sorti dello scontro anche sulla disponibilità delle scorte alimentari. L’assediato cercava di demoralizzare gli assedianti sfoggiando le provviste come se ne disponesse in abbondanza mentre gli assedianti,  a loro volta, per sfiancare l’avversario, cercavano di  tagliare  le vie di rifornimento ai generi alimentari di prima necessità. Si narra che i viennesi, per intaccare il morale dei turchi, s’ingozzavano platealmente con paste a base di burro e farina.  Erano i kipferl , gli antenati dei croissant, modellati a mezzaluna, molto simili al simbolo delle insegne arabe. Una scelta, quella della forma, voluta dai fornai viennesi per sbeffeggiare le insegne ottomane e festeggiare lo scampato pericolo e la croissant-2vittoria. Un’idea tanto semplice quanto straordinaria fino al punto di  condizionare abitudini e gusti culinari di mezza Europa. La ricetta e il nome del croissant ( “crescente”, come la luna)  per come è giunta a noi  trae origine dalla Francia dove, nel 1736,  un ufficiale austriaco –  August de Zong –  importò l’arte della pasticceria viennese, compresa la preparazione dei famosi kipferl, aprendo una Boulangerie Viennoiseal numero 92 della parigina rue de Richelieu. Un vero successo va comunque sudato e il croissant dovette attendere un bel po’ ( fino al 1891)  prima di essere menzionato in un libro di ricette e ancor oltre (nel 1938 ) per fare la sua comparsa ufficiale sul testo fondamentale della cucina francese: la croissant3Larousse gastronomique. Così, con tenacia e perseveranza, sbocconcellato o divorato in quattro e quattr’otto,  il croissant si è  fatto largo nella parte più dolce dell’arte culinaria. Le leggende legate alla battaglia di Vienna non si esauriscono nei panetti a mezzaluna ma ci raccontano anche di come i turchi , ormai in fuga, si lasciarono alle spalle le loro scorte di caffè. Un ufficiale polacco di origini ungheresi – Jerzy Franciszek Kulczycki –  apprezzando l’aroma dei chicchi che bruciavano negli incendi della  battaglia, decise di utilizzare  i sacchi di caffè abbandonati dall’esercito ottomano per aprire la prima caffetteria viennese, una rarità nell’Europa del tempo. Altra storia è quella che indica lo scontro consumatosi sul Monte Calvo come un’occasione in qualche modocroissant1 decisiva anche per l’invenzione del “cappuccino”, intestandola a Marco da Aviano, frate dell’ordine dei cappuccini, inviato dal Papa a Vienna con l’obiettivo di convincere le potenze europee ad una coalizione contro i Turchi che stavano assediando la città. Pare che durante il soggiorno viennese il religioso entrò nella già citata caffetteria e, gustando un caffè dall’aroma piuttosto deciso, chiese un po’ di latte per addolcirlo . Chi lo servì esclamò “Kapuziner!” , guardando lo strano intruglio bevuto dal frate. Vero o falso, storia o leggenda che sia, resta un fatto: prendere al mattino un cappuccino – o anche un caffè – con un croissant , equivale ad un ottimo avvio di giornata.

Marco Travaglini

Tra giallo e realtà. La morte sospetta di Imane Fadil

Nota: l’artIcolo e’ stato chiuso nei giorni scorsi prima dei recenti sviluppi 
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Si apre un nuovo giallo. Quello di Imane Fadil che, fino alla sua tragica morte, era sconosciuta ai più. Nessuno ricordava che fu coinvolta nei Bunga Bunga di celebre memoria

Era una modella, con brevi apparizioni in tv, in programmi di scarsa audience, ma con il sogno di diventare giornalista sportiva. Più di lei era diventata celebre Ruby per le inchieste che l’avevano coinvolta assieme all’ex premier Silvio Berlusconi per alcune millantate parentele con il presidente Mubarack e alcuni apericena. La morte sospetta, a soli 34 anni, tinge di giallo la sua scomparsa e si fa largo l’ipotesi di un possibile omicidio. A questo punto, i riflettori si riaccendono su di lei perché c’è la supposizione che sia stata avvelenata e si torna a scandagliare la sua vita, ma molto di più la sua morte e sul come ciò sia accaduto. La ragazza viveva con il terrore di essere spiata e infatti diceva in giro, alle sue amiche “Mi spiano” o “mi stanno avvelenando”. Era una fobia, ma la sua morte fa aprire un’inchiesta alla Procura. Imane viene ricoverata alle porte di Milano, nella clinica Humanitas di Rozzano, il 29 gennaio. Da accertare perché abbia scelto di farsi ricoverare proprio all’Humanitas (l’ospedale fondato da Gianfelice Rocca di Techint) e chi l’abbia accompagnata al Pronto soccorso. I sintomi riportati nell’anamnesi vanno dalla spossatezza a forti mal di pancia, gonfiore del ventre, dimagrimento rapido, ma niente di più. Dal referto delle analisi non emergono valori sospetti, tutti i valori sono entro la soglia. Se le analisi di routine non danno riscontri, il 27 febbraio i medici dell’Humanitas chiedono una consulenza al Centro Antiveleni dell’Istituto Maugeri di Pavia per eseguire esami approfonditi in merito alla presenza di 50 metalli. I risultati arrivano per telefono il 1° marzo (per coincidenza, proprio il giorno della morte di Imane). Per il Centro Antiveleni di Pavia non sono presenti in sintesi livelli tossici. Fra sospettare di essere avvelenati e morire per avvelenamento cambia tutto . Seppur tutto rientra nella norma, la Procura non ne è convinta e affida l’autopsia all’anatomopatologa Cristina Cattaneo, il medico legale più conosciuto d’Italia (si è occupata tra l’altro degli omicidi di Yara Gambirasio , Lidia Macchi ed Elisa Claps). L’autopsia, in programma tra mercoledì 20 e giovedì 21 marzo, forse svelerà il mistero. L’altro caso di morti sospette per radiazioni, risale ai tempi delle guerre nei Balcani e agli avvelenamenti per uranio impoverito. La morte di Fadil si tinge di Giallo e la sua salma non può essere avvicinata da nessuno per ordine della Procura.

 

Markale, il "mercato delle stragi" di Sarajevo

Vječna Vatra è la “fiamma eterna”, al centro di Sarajevo, all’angolo tra la Maršala Tita e Fehradija, la via pedonale principale del centro storico. Quella del memoriale alle vittime militari e civili della seconda guerra mondiale e ai partigiani, si dice sia l’unica fiamma che non si è mai spenta nemmeno sotto l’assedio

E’ un monumento dall’alto valore evocativo. La lapide ricorda una data, il 6 aprile del 1945. Il giorno della liberazione della capitale bosniaca dall’occupazione nazista e della   vittoria di serbi, bosniaci e croati che insieme riconquistarono la libertà. Insieme, uniti come le dita di una mano chiusa a pugno per resistere e colpire sotto le insegne dell’esercito partigiano di Tito. La dimostrazione visiva di una lotta comune, segnata dall’antifascismo  degli slavi del sud. Poi, dalla Vječna Vatra si va in direzione del mercato di Markale. La strada è breve: neanche il tempo di tirare il fiato e compare la piazza con i banchi di ferro e di legno del coloratissimo mercato della frutta e della verdura. Come in tutti i mercati c’è un via vai di gente. Donne anziane e ragazze si aggirano con le loro sporte tra cassette colme di patate, cetrioli e zucchine, peperoni rossi e verdi, sedano, mele e pere, gialli limoni, lunghe carote di un’arancio sfolgorante, melanzane dai riflessi violacei, cipolle e lunghe trecce d’aglio. Per non parlare dei funghi e delle varietà di frutta secca. Si rimane storditi dall’effluvio di profumi e dall’esplosione dei colori. Il vociare fitto è la colonna sonora di questo luogo d’incontro dove si chiacchiera, si ascoltano gli inviti dei venditori a comprare i loro prodotti, le domande curiose di chi, prima di scegliere, vuol sapere, soppesare, valutare la convenienza tra la merce e il prezzo. Nei mercati c’è vita e quello di Sarajevo non fa eccezione. Non si dovrebbe far molta fatica ad immaginare cosa poteva essere questo luogo d’incontro durante l’assedio sul finire degli anni ’90, con le poche cose offerte a prezzi da mercato nero, pagate a prezzo d’oro o scambiate per sigarette. Negli occhi di molti si nota ancora quel velo di tristezza e di dolore accumulati negli anni degli stenti e della guerra. In fondo al mercato, lungo la parete, una lunga lapide rossiccia ricorda i caduti delle stragi di Markale. Sì, stragi al plurale, poiché per due volte le granate serbe hanno massacrato i civili in questo mercato, nel cuore antico di Sarajevo. La prima volta, il 5 febbraio del 1994: 67 morti e 142 feriti. La seconda, il 28 agosto 1995, quando l’ultimo di cinque colpi di mortaio causò la morte di 37 civili e il ferimento di novanta. Adriano Sofri era là, quel giorno di febbraio del 1994. Così lo racconta: “Arrivammo in mezzo alla strage, cominciavano appena a raccattare i corpi e i feriti. C’ era un rumore terribile di pianti, di urla, di richiami concitati, di auto caricate alla rinfusa che sgommavano via. C’ era una gamba artificiale, staccata e diritta sul suolo. C’ erano scarpe, è incredibile come le scarpe si spandano nelle carneficine. C’ erano uomini grandi e grossi che soccorrevano e piangevano a dirotto. Toni Capuozzo si buttò nella falcidie, io non seppi fare niente. Da giorni avevo adottato, e viceversa, una banda di ragazzini che faceva capo a quella piazza del mercato. Avevo appuntamento con loro là, ogni giorno fra le tre e le quattro. Conoscevo ormai quasi una per una le persone del mercato, le vecchie che vendevano calzettoni fatti a mano e bacche selvatiche, il bambino che vendeva a malincuore un gallo, i vecchi che vendevano rubinetti e distintivi e medaglie, le fioraie: ero il più prodigo compratore di fiori della città. Anche quando mancavano il pane e le candele, a Sarajevo le case avevano voglia di fiori; e poi tutti avevano qualche tomba fresca alla quale destinare un fiore. I morti di Markale furono 68, i feriti nessuno li ha contati”. E’ necessario, a questo punto, raccontare qualcosa in più, oltre il sangue, l’odore della morte, il fumo tra le macerie. E’ la storia di una seconda violenza, quella del tentativo di rimuovere, nascondere, negare. Quello del mercato di Sarajevo è un caso tra i più clamorosi. Bisogna tener conto, innanzitutto, che quella guerra fu seguita dai media come mai era accaduto prima e come mai accadde dopo. Per diverse ragioni, quella bosniaca fu una guerra che entrò direttamente nelle case di tutti e in tutto il mondo. Le immagini erano in presa diretta, senza filtri. I giornalisti potevano documentarla fino nei minimi particolari sia con i mezzi moderni della tecnologia sia con quelli tradizionali degli inviati che, taccuino alla mano e reflex al collo, rischiavano del loro sulla front line. E poi, diciotto anni fa, i giornalisti erano più liberi di fare il proprio lavoro, non erano “embedded” come al giorno d’oggi. “Embedded” è una parola inglese che, applicata ai giornalisti, equivale a dire che quest’ultimi sono “incastrati” nell’esercito, che si muovono solo con le truppe, con l’impossibilità di informarsi da fonti che non siano quelle dei comandi militari (in uno studio di una università americana , su 750 articoli presi in esame le fonti in “divisa” rappresentavano l’unica voce nel 93 per cento dei casi).   Risulta evidente come questo voglia dire che oggi, agli inviati di guerra, è concesso di vedere, sentire, filmare e trasmettere solo quello che conviene alle gerarchie militari che li hanno autorizzati. In Bosnia la realtà stava lì, sotto gli occhi di tutti. C’erano le prove, sanguinanti e urlanti. Nessuno poteva dire di non sapere. In centinaia sono andati in Bosnia Erzegovina come inviati di guerra”, scrive Azra Nuhefendic. “Giravano ovunque pareva loro, guardavano, toccavano, filmavano, registravano, vivevano con gli accerchiati, soccorrevano le vittime, entravano nelle città assediate, brindavano con i criminali, dibattevano con presidenti, ministri, generali, osservavano i bombardamenti dalle posizioni di tiro. A Sarajevo alcuni giornalisti si appostavano nei luoghi dove, solitamente, i cecchini uccidevano i passanti, o dove si faceva la fila per qualcosa. Sapevano che prima o poi potevano filmare la morte in direttaA volte addirittura veniva offerto “un assaggino”, come è successo al mio collega e amico che lavorava per l’agenzia AP a Belgrado. Mi
raccontava che, quando visitava le posizioni dei serbi sopra Sarajevo, gli offrivano grappa e anche, se gli faceva piacere, di
 “sparare un po’ sulla città”. Nonostante l’enorme mole di testimonianze dei sopravvissuti, un infinità di libri, le innumerevoli fosse comuni scoperte e aperte, le tonnellate di documenti sui quali si basano le sentenze del Tribunale dell’Aja, c’è chi cerca di negare tutto, di ricostruire le vicende con la menzogna, di distorcere le verità documentate. Un cumulo di menzogne per tentare, in modo maldestro ma insidioso, di ricostruire la storia, modificando i fatti e ribaltando le responsabilità. Ecco allora la leggenda macabra – di matrice serba e cetnica – secondo cui i bosniaci musulmani “si uccidevano da soli”. Un “argomento” utilizzato spesso quando si parla del massacro al mercato di Markale. In questo caso le autorità serbe negarono ogni responsabilità, accusando il governo bosniaco di aver bombardato la propria gente per suscitare lo sdegno internazionale e il possibile intervento NATO. Nel caso della seconda strage, l’allora presidente della Republika Srpska, Radovan Karadžić, affermò che a Markale “è stato tutto una messa in scena e una frode.” Non solo. Inviò una lettera ai presidenti di Russia e Stati Uniti, Eltsin e Clinton, affermando: “Dalle immagini TV si vede chiaramente che i cadaveri sono stati manipolati, e che tra i ‘cadaveri’ ci sono anche pupazzi di stoffa e plastica.” Un giornalista serbo bosniaco , Risto Džiogo, andò oltre,ricostruendo in modo vergognoso lo scempio del mercato. Nello studio della televisione di Pale, dove lavorava, mise per terra dei pupazzi di plastica e di stoffa sdraiandovisi accanto e fingendo di essere uno dei serbi morti che sarebbero stati utilizzati nella messa in scena a Markale. Ma già dal giorno dopo delle prime granate perse avvio il martellamento del regime di Slobodan Milošević e dei media serbi contro “il complotto bosniaco”, producendo “spiegazioni” e svelando i “retroscena” del massacro. Ovviamente, autoassolvendosi. Nel marzo del 1995, il ministero dell’Informazione della Repubblica di Serbia produsse un documento intitolato “Dossier Markale Market“ nel quale gli autori spiegavano che la “auto-vittimizzazione” dei musulmani proveniva dalla stessa “mentalità islamica” e che faceva parte dell’assioma per cui “è un onore morire per l’Islam”. Puro razzismo e spregevole menzogna, ovviamente. Ma, a forza di menzogne e di propaganda, s’insinua il tarlo.Si citarono documenti segreti, si pubblicarono “prove storiche”. Venne chiamato in causa un testimone ( rigorosamente anonimo) , pronto a giurare che “la notte prima del massacro sul mercato sono stati portati i cadaveri, e che la maggior parte dei feriti musulmani proveniva dai campi di battaglia di Mostar e Vitez”. Ancora Azra Nuhefendic, giornalista bosniaca che vive e lavora a Trieste: “Come a cerchi concentrici queste affermazioni, ripetute varie volte, aumentavano e si diffondevano nel tempo e nello spazioUn quotidiano di Belgrado, “Kurir”, nel 2009, scriveva che i servizi segreti albanesi del Kosovo “ possiedono una copia del piano dei bosniaci che prova la teoria secondo cui la strage di Markale fu tutta una messa in scena del governo di Sarajevo”. Il Presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik, ogni tanto riattizza il mito e ripete che “la strage di Markale è stata una messa in scena, come anche la strage dei giovani a Tuzla” . Persino Radovan Karadžić, nel suo processo davanti al Tribunale dell’Aja, non perse l’occasione per stare zitto e ripetè quello che diceva all’epoca in cui guidava il governo di Pale: “Il massacro al mercato di Markale 2 è stato organizzato dalle forze governative bosniache, e la maggior parte dei corpi ritrovati erano vecchi cadaveri e manichini“.
Ma davvero i  “bosniaci si sparavano da soli”? In un rapporto sulla seconda strage di Markale il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha concluso che “tutti e cinque i proiettili erano stati sparati dall’esercito della Republika Srpska”. Davanti al Tribunale dell’Aja è stato documentato che, nel caso della prima strage. “il colpo di mortaio, senza alcun ragionevole dubbio, è arrivato dalle posizioni dell’esercito dei serbi bosniaci”. L’ex capo degli affari civili delle Nazioni Unite in Bosnia, David Harland, davanti all’Aja , ha testimoniato che lui personalmente aveva suggerito all’allora comandante delle Nazioni Unite, Rupert Smith, “di fare una dichiarazione neutra” per non allarmare i serbo bosniaci, che sarebbero stati in questo modo avvisati degli imminenti attacchi aerei della NATO contro le loro posizioni. “Se avessimo puntato il dito contro i serbi, le truppe dell’UNPROFOR, stazionate nel territorio sotto il controllo dell’esercito serbo bosniaco, potevano essere esposte ad attacchi di rappresaglia”, ha spiegato Harland. Questa versione venne confermata dal generale Rupert Smith davanti al Tribunale dell’Aia e in un suo libro. Smith ha sostenuto che già allora (ndr. 1995) aveva una relazione tecnica secondo cui “al di là di ogni ragionevole dubbio il proiettile era arrivato dalle posizioni dell’esercito serbo bosniaco”. E sui musulmani che si sparavano da soli? Confermando di aver sentito queste voci, dichiarò che “nessuno mai mi ha dato una prova di ciò”. Ovviamente, verrebbe da dire. Intanto, due generali serbi, Dragomir Milošević e Stanislav Galić, sono stati processati e condannati, rispettivamente a 33 anni di carcere e all’ergastolo, per l’assedio e il bombardamento di Sarajevo, comprese le stragi di Markale. C’è chi ancora dà credito al grido di “al lupo, al lupo”, di matrice serba. Dove, evidentemente, il lupo è bosgnacco. E’ ignoranza, pigrizia nel cercare la verità, menefreghismo, voglia di rimuovere tutto perché tanto i morti sono morti ? Può darsi. Ma chi ha responsabilità   politiche, chi fomenta il   nazionalismo, che insiste sulle falsità non lo fa per ignoranza, ma per uno scopo ben preciso. Azra Nuhefendic , in un bell’articolo, parlando di questo, cita George Orwell: “Il linguaggio politico è progettato per rendere la bugia veritiera, l’omicidio rispettabile, e per dare al vento un aspetto solido”. Il mercato, intanto, si sta svuotando. I banchi sono tristi, senza la merce. Un vecchio ritira le sue patate in una cassetta e un altro – avranno la stessa età? – rovista tra gli scarti della verdura alla ricerca di qualcosa da buttar in pentola. E’ un istantanea della città che ha bisogno di normalità ma sente sulle spalle la fatica e la stanchezza del passato.

Marco Travaglini

Industria Felix premia le migliori 53 imprese

Sarà presentata giovedì a Torino l’inchiesta sui bilanci in Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta: i nomi

Sono 53 le imprese più competitive e primatiste di bilancio di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta a cui giovedì 21 marzo a Torino a La Centrale saranno assegnati riconoscimenti in base all’inchiesta giornalistica realizzata dal nuovo periodico nazionale Industria Felix Magazine, diretto da Michele Montemurro, in collaborazione con l’Ufficio Studi di Cerved Group S.p.A., la data driven company italiana e una delle principali agenzie di rating in Europa, dopo aver analizzato i bilanci dell’anno 2017 (gli ultimi disponibili nel complesso) di poco più di 8.300 società di capitali con sede legale in Piemonte e fatturati/ricavi compresi tra i 2 milioni e i 28,6 miliardi di euro, di circa 2.200 società con sede legale in Liguria e fatturati/ricavi tra i 2 milioni e i 3,7 miliardi di euro, di circa 550 società con sede legale in Valle d’Aosta e fatturati/ricavi compresi tra 500mila e 852 milioni di euro. La circostanza sarà la prima edizione di Industria Felix – Il Piemonte, la Liguria e la Valle d’Aosta che competono (ingresso su invito), organizzata da Industria Felix Magazine in collaborazione con Cerved, Università LUISS Guido Carli, Associazione culturale Industria Felix, Regione Puglia e Puglia Sviluppo (con un intervento finanziato a valere sulle risorse dell’azione 3.5 del POR Puglia 2014/2020 “Attrazione degli investimenti e interventi di sostegno all’internazionalizzazione delle imprese pugliesi”), con i patrocini di Confindustria, Comune di Torino e Ansa (media partner), con la partnership nazionale di Banca Mediolanum, Mediolanum Private Banking, Lidl Italia e con quella regionale di Chieffi e Gemma Consulting, Consorzio Sfera e Natulia. «I bilanci del 2017, sulla base dei quali premiamo le migliori imprese di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta, indicano che è stato un anno particolarmente positivo soprattutto per le pmi piemontesi, che hanno accresciuto il fatturato a tassi record nell’ultimo decennio (+5,7% tra 2017 e 2016) e sono tornate a livelli di redditività vicini a quelli pre-crisi (Roe a 11,8%)». A dichiararlo è Valerio Momoni, direttore Marketing e Business development di Cerved Group S.p.A., che aggiunge: «D’altra parte alcuni indicatori più sensibili alla congiuntura, come le chiusure volontarie d’impresa e i ritardi dei pagamenti,  evidenziano nell’ultima parte del 2018 segnali di rallentamento o di inversione di tendenza».  Tra gli altri interverranno l’assessore alle Attività produttive del Comune di Torino Alberto Sacco, il presidente dell’Unione Industriale Torino Dario Gallina, il presidente della Piccola Industria di Confindustria Piemonte Gabriella Marchioni Bocca, il presidente di Confindustria Valle d’Aosta Giancarlo Giachino, il responsabile dell’Ufficio studi di Cerved Guido Romano, il Regional manager e il Private banker di Banca Mediolanum Pierpaolo Zoppi e Francesco Mecca, il dirigente del Servizio Incentivi Pmi e Grandi Imprese della Regione Puglia Claudia Claudi, il portavoce del Comitato Scientifico di Industria Felix Filippo Liverini (Confindustria), il presidente del Consorzio Sfera Michele Chieffi e l’amministratore di Natulia Alfonso Ricciardelli. La giornata si aprirà con un convegno organizzato in collaborazione con Uit e Cerved dal titolo “Accelerare la crescita delle pmi”.

La tappa inaugurale di Industria Felix 2019 si è svolta il 5 marzo scorso a Milano, con le conclusioni del presidente nazionale di Confindustria, Vincenzo Boccia. 

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ELENCO 53 IMPRESE DA PREMIARE ED ADERENTI

PIEMONTE

Alessandria: Bianchimpianti srl, Leoni Italy srl, Newlast Italia srl. Asti: Ar srl, Bosca spa, Mia srl Unipersonale. Cuneo: Al bistrot dei Vinai srl, Cantine dei Marchesi di Barolo spa, Ferrero spa, Ferrero Commerciale Italia srl, Ferrero Industriale Italia srl. Novara: Schaeffler water pump bearing Italia srl, Vinzia fratelli spa. Torino: Across srl, Denso thermal systems spa, Dylog Italia spa, Fca Italy spa, Ge Avio srl, Iren Energia spa, Mistral tour internazionale srl, Spazio spa, Synergie Italia – agenzia per il lavoro – spa, Vodafone Italia spa. Verbano: Travi e profilati di Pallanzeno srl. Vercelli: Versoprobo Società cooperativa sociale, Zschimmer & Schwarz Italiana spa. 

LIGURIA

Genova: Almo nature spa, Ansaldo energia spa, Cambi casa d’ aste srl, Docks lanterna spa, F.I.P. Formatura iniezione polimeri spa, Iren mercato spa, P.L. Ferrari & Co srl, Rina spa, Spinelli srl. Imperia: Coseva Soc. Coop., Munters Italy spa. La Spezia: Euroguarco spa, La Spezia container terminal spa, Sanlorenzo spa, Termomeccanica spa. Savona: Continental brakes Italy spa, Doppia-J srl, Infineum Italia srl, Noberasco spa, Coop Liguria Società cooperativa di consumo. 

VALLE D’ AOSTA

Aosta gas srl, Engineering D.Hub spa, Funivie Monte Bianco spa, Hotel Bellevue Cogne srl, Nuova Auto Alpina srl, Technos Medica srl, Thermoplay spa.

ITALIA IN RECESSIONE, L’IMPORTANZA DELLA LEGGE 3/2012

L’Italia della crisi ha prodotto un fenomeno nuovo, altresì conosciuto come ‘sovraindebitamento’ o ‘fallimento del privato’: situazioni derivanti da esposizioni finanziare o debitorie gigantesche, divenute ormai ingestibili, che di fatto impedirebbe a chiunque – cittadini, consumatori, artigiani, piccole e medie imprese – di uscirne, ipotecandosi così, di fatto, vita, futuro e professione. “Si deve l’intelligenza e la lungimiranza del Presidente Emerito della Repubblica Sergio Napolitano l’aver consentito a tale, importante legge, l’ingresso dalla porta principale, nello scenario legislativo italiano, qual e strumento atto a risolvere situazioni altrimenti impossibili, detto Legge 3/2012“, spiega Serafino Di Loreto, già stimato Avvocato e tra i soci fondatori storici di ‘SDL Centrostudi SPA’, azienda che per prima, dal 2010 a oggi, ha fornito sull’intero territorio nazionale una risposta efficace e pronta al dilagante tema dell’usura e dell’anatocismo bancari. Attraverso alcune distinte procedure, oggi l’italiano sovraindebitato può disporre di differenti strade risolutive per potersi chiamare fuori dall’eccesso di debiti maturati in ambito privato e professionale, che possono altresì, come molteplici casi dal 2015 a oggi dimostrano, anche essere stralciati fino all’80% del monte esposizione complessivo. Salvando vite, evitando dunque tragici finali, preservando l’occupazione, riassestando la gestione di soggetti d’impresa attorno al perno del buon senso: in due parole, facendo tabula rasa del passato per guardare al presente e al futuro con rinnovata fiducia, finalmente liberi dai vincoli pregressi” dichiara Serafino Di Loreto.

 

Picchia la compagna incinta di quattro mesi e la manda in ospedale

DALLA LIGURIA
I carabinieri di Genova hanno arrestato un uomo di 32 anni di origini albanesi per maltrattamenti in famiglia. L’uomo era rincasato completamente ubriaco e durante una lite con la convivente, incinta al quarto mese, ha iniziato a picchiarla. Lei è riuscita a chiamare i soccorsi e il compagno è stato arrestato. Ora la donna è ricoverata in ospedale.

Tra il tutto bene e il ridicolo dei parlamentari ucraini

Ci siamo molto spesso preoccupati per la situazione politica in Ucraina e degli scontri con la vicina Russia, ma possiamo smettere di preoccuparci

Quando un Parlamento può occuparsi di vietare l’ingresso a cantanti italiani, siano essi Albano oppure Toto Cutugno, vuol dire che va tutto bene. La notizia è stata rilanciata dall’Ansa che l’ha ripresa, a sua volta, dalla Testata Online “Economistua.com” che riporta che un gruppo di deputati ucraini ha chiesto al capo dei servizi di sicurezza (Sbu) Vasily Gritsak di vietare l’ingresso in Ucraina al cantante Toto Cutugno per le sue presunte posizioni filorusse. Viktor Romanyuk, primo firmatario della mozione, ha confermato la notizia, senza minimamente ravvedersi. Il possibile divieto di ingresso a Cotugno – l’eterno secondo della musica italiana- segue quello fatto in precedenza nei confronti di Albano. I due, sempre in cerca di pubblicità, ne saranno contenti perché qualcuno gliela fa gratis. A scanso di equivoci, Cotugno si affretta a precisare: “Sono molto sorpreso e dispiaciuto per questa notizia. Un gruppo di deputati ucraini vorrebbero impedirmi di cantare in un Paese che amo e che ama la mia musica? E’assurdo”. Tuttavia è preoccupato perché, il prossimo 23 marzo, ha in programma un concerto a Kiev, affiancato dall’orchestra sinfonica della capitale ucraina. Altrettanto sconcertato lo è anche il suo manager, Danilo Mancuso che dice che i biglietti sono già stati tutti venduti. Intanto, anche in Italia, fra problemi seri e altri serissimi, abbiamo ancora l’affair delle foto osé dell’ex presidente della Commissione Giustizia della Camera, Giulia Sarti. La rete è di tutti e niente viene dimenticato, però essere un pochino più accorti ci starebbe…!

Tommaso Lo Russo

 

ATTACCO CRISTIANO “NEL NOME DI LEPANTO”

FOCUS INTERNAZIONALE / STORIA  di Filippo Re
C’è perfino un richiamo alla celebre battaglia di Lepanto nella strage di musulmani compiuta a Christchurch in Nuova Zelanda da un gruppo di terroristi di estrema destra (almeno 49 morti e decine di feriti). Sui caricatori delle armi usate per il massacro nelle due moschee neozelandesi compaiono anche i nomi di due italiani, considerati dai terroristi “idoli” da seguire nella lotta ai musulmani. Oltre a Luca Traini, il giovane che a Macerata, un anno fa, aprì il fuoco contro alcuni immigrati africani, figura anche il nome di Sebastiano Venier, che fu doge della Repubblica di Venezia per meno di un anno, dal 1577 al 1578, quando morì. Il 7 ottobre 1571 Sebastiano Venier fu uno dei protagonisti della battaglia di Lepanto in cui la grande e invincibile flotta ottomana fu sconfitta dalle forze della Lega santa cristiana. Partecipò attivamente allo scontro militare, pur avendo già 75 anni, e uccise numerosi turchi con la sua balestra che veniva ricaricata da un marinaio perchè il vecchio ammiraglio non aveva la forza sufficiente nelle braccia. Sebastiano Venier viene anche ricordato come il doge che in pantofole sconfisse la flotta del sultano. Durante la battaglia fu ferito a un piede ma continuò a combattere in pantofole sul ponte della galea, sicuro del fatto che con le ciabatte si sarebbe mosso più facilmente sul ponte della “Capitana”, bagnato di acqua e di sangue, rispetto agli stivali da combattimento. Le spoglie del vincitore di Lepanto riposano a Venezia nella Basilica dei Santi Giovanni e Paolo (San Zanipolo) accanto a quelle di un altro illustre ammiraglio veneziano, quel Marcantonio Bragadin, scorticato vivo dai turchi a Famagosta, sull’isola di Cipro, nello stesso anno di Lepanto. Se da una parte gli estremisti islamici rivendicano i loro attacchi armati parlando di lotta ai crociati e ai cristiani, gli estremisti cristiani citano volentieri i grandi successi militari della storia contro i turchi che a quell’epoca incarnavano la potenza dell’islam sunnita. Non per nulla, il primo statista a parlare di grave atto terroristico contro i musulmani compiuto in Nuova Zelanda è stato il presidente turco Erdogan che aspira a guidare, da condottiero supremo, l’islam sunnita, come un tempo facevano i sultani della Mezzaluna. I cenni alla storia, anche molto remota, sono frequenti e tornano drammaticamente di attualità.

Bimbo di un mese muire nel degrado. La mamma non è rintracciabile

DAL LAZIO
La donna ha cercato di rianimarlo tentando  di farlo respirare, ma vedendo  che il bimbo di poco più di un mese non si riprendeva, ha chiamato il 118. Per  il neonato non c’era nulla da fare. Il fatto è avvenuto ieri a Tor San Lorenzo, località balneare vicino a Roma, in un complesso di edifici in preda al degrado. Il neonato non era con la madre, al momento irrintracciabile perché pare fosse fuggita in Francia alcuni giorni fa, ma con una donna romena di 63 anni alla quale la donna lo aveva affidato. La morte sarebbe avvenuta per cause naturali, il medico legale non avrebbe riscontrato segni di violenza. Il decesso potrebbe  essere stato causato da un rigurgito, il soffocamento o una patologia che non era stata diagnosticata. E’ stata comunque disposta l’autopsia.