CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 90

L’isola del libro

RUBRICA A CURA DI LAURA GORIA

Judith Hermann “A casa” -Fazi Editore- euro 18,00

 

E’ splendido il romanzo della scrittrice tedesca nata nel 1970 a Berlino, cresciuta nel settore occidentale della città tedesca, poi trasferitasi negli anni Novanta nell’ex parte orientale. Una delle più importanti autrici di lingua tedesca.

A casa” è la storia della protagonista quasi 50enne (della quale il nome non compare mai) che decide di cambiare vita. Via da tutto e tutti, in una nuova casa priva di ricordi, vicina al mare sulla costa nordorientale della Germania. Andarsene altrove per riappropriarsi della sua esistenza, trovare una nuova dimensione, nuovi incontri e maturare una maggiore consapevolezza di se stessa.

Non è uno strappo radicale, più semplicemente decide di mettere parecchi chilometri di distanza dalla sua esistenza di prima. Chiude una porta e ne apre un’altra. Via dal ripetitivo e vuoto lavoro in una fabbrica di sigarette, dal marito Otis col quale l’amore è finito da tempo, ma col quale continua a comunicare via lettera. A distanza c’è anche la figlia Ann, che se n’è andata in giro per il mondo allo scoccare dei 18 anni.

La protagonista, nella casa scalcinata e isolata sul polder (che però sente solo sua), è vicina al paesino in cui il fratello Sascha, 60enne scapolo, un po’ sfaticato e indolente, gestisce un pub, ed è proprio da lui che lavorerà.

Poi un po’ di cose accadono: Sascha si innamora di una ragazzina, Nike, che ha la metà dei suoi anni ed un passato di dolore profondissimo.

Nella vita della protagonista arriva anche un’artista che vive poco lontano; quasi coetanea, si chiama Mimi ed è un’ex fiamma di Sascha. Anche lei sta tessendo una nuova trama della sua vita. E’ tornata dopo anni di lontananza dalla fattoria di famiglia e si sta riavvicinando al fratello Arild che ha preso in mano le redini dell’allevamento di maiali e vive isolato dopo essere stato lasciato dalla moglie che l’aveva allontanato da tutti.

Solitudini diverse che si intersecano per nuovi inizi; dalle nuotate della protagonista e Mimi nelle acque del mare gelido ai giri in bicicletta. Arild e Nike fanno parte del nuovo quadro, in cui centrale è il tema della casa, intesa come guscio di relazioni, affetti, sentimenti, radici e tantissimo altro. Un romanzo scritto divinamente che ci porta nelle possibili traiettorie di nuovi inizi, nuovi legami, nuove ripartenze dopo gli errori del passato.

 

 

Dido Michielsen “L’isola della memoria” -Editrice Nord- euro 19,00

Dido Michielsen (nata nei Paesi Bassi nel 1957, ma di origini giavanesi) è autrice di svariate biografie e saggi, mentre questo suo romanzo –ispirato alla vita della sua trisavola- è il primo tradotto in Italia. Per scriverlo è andata alla scoperta di Yogyakarta sull’isola di Giava, si è fatta guidare nei luoghi dei suoi antenati, ha cercato e ricostruito le atmosfere che aleggiano nel libro.

Protagonista è un personaggio femminile che colpisce il cuore con la sua difficilissima esistenza a Giava in epoca coloniale. E’ Isah, nasce nel 1850 a Yogyakarta ed ha il privilegio di crescere nella città-palazzo fortificata del sultano dove la madre lavora come tintora di batik e sarta per le signore della famiglia del sovrano. Isah gioca con le nipoti del sultano e ne subisce anche le angherie, imparando presto che c’è un reticolo inscalfibile di ranghi diversi.

Quando ha 16 anni si ribella al matrimonio combinato dalla madre, se ne va di casa e imbocca una strada perigliosa. Diventa la “Nyai” giovane fanciulla giavanese al servizio di un colono e sua amante; lui è Gey, un ufficiale dell’esercito coloniale olandese di stanza a Giava.

Vive nella sua casa dove gestisce la servitù e sogna di mettere su famiglia con lui. Lo compiace in tutto e nascono due bambine, Pauline e Louisa. Isah si illude che Gey le riconosca e la sposi. Invece lui si dimostra l’omuncolo che è, indifferente alla sorte della giovane e delle figlie, parte per l’Olanda dove l’attende la giovane destinata a diventare sua moglie.

E’ la discesa di Isah agli inferi. Sola, disonorata, senza mezzi, sa di non poter offrire un futuro alle figlie mezzosangue. E’ costretta a darle in adozione a una coppia di coloni olandesi amici di Gey che le crescerà come europee.

Pur di restare accanto alle bambine accetta di diventare la loro “babu”, la bambinaia che le cresce ma non può svelare di esserne la madre. E’ l’inizio di una vita piena di sacrifici, ingiustizia e sofferenze. Vittima impotente delle angherie e della cattiveria della padrona di casa, che la considera feccia, e si vendica delle attenzioni che il marito ha per la giovane madre

L’autrice segue l’amaro destino di Isah che verrà separata dalle figlie, le cercherà inutilmente e infine morirà in miseria e solitudine a 67 anni.

Questa è la sua storia, ma anche quella di migliaia di donne giavanesi che nei 150 anni di dominazione olandese hanno vissuto nell’ombra, senza voce né diritti, concubine, serve e madri dimenticate.

 

 

Barbara Kingsolver “Demon Copperhead” -Neri Pozza- euro 22,00

Il riferimento al “David Copperfield” scritto dal grande Charles Dickens è voluto e per niente casuale; anzi sembra sia stato in un certo senso lo spirito del grande scrittore inglese ad aver suggerito l’idea a Barbara Kingsolver. L’autrice 68enne nata nel Maryland, durante un tour in Gran Bretagna ha trascorso un week end a Bleak House, l’antica dimora di Dickens oggi trasformata in hotel; ed è tra quelle mura cariche di atmosfera, nello studio in cui lui scrisse David Copperfield, che qualcosa le ha ispirato il romanzo.

L’idea è quella di narrare la storia di uno dei tanti ragazzi che la vita mette a durissima prova ancor prima di venire al mondo. Ed ecco la genesi del grande romanzo degli Appalacchi, nel sud della Virginia, in una zona rurale e povera degli Stati Uniti, dove la Kingsolver fa nascere Demon.

Partorito in una misera mobil house da una 18enne in preda ad alcool e droghe, Demon Copperhead, ovvero “testina di rame” (chiamato così per i capelli rossi) parte già dal lato sbagliato della sorte. Il resto è un imponente romanzo di formazione che segue il ragazzo nell’affrontare le prove più dure; dalla miseria alla mancanza di un padre, dagli scontri col patrigno alla morte della madre.

Una vita complicata e in affanno, tra fughe, assistenti sociali, sogni di successo come stella del football, pillole di oppioidi e tantissimo altro. Un romanzo che trasuda humour, passione e voglia di emergere dei “Deplorables”, ovvero gli infelici e invisibili d’America alle prese con povertà ed esclusione infantile. Uno spaccato di realtà che la Kingsolver in parte conosce bene e altrettanto bene ha raccontato, tanto da vincere il Premio Pulitzer 2023…e non fatevi spaventare dalla mole di lettura.

 

 

Will Ferguson “Felicità” -Accento Edizioni- euro 18,00

Cosa succederebbe se scoprissimo il segreto della felicità? Forse sarebbe la fine del mondo che conosciamo. Niente di apocalittico, ma un’ipotesi comunque accattivante che ci prospetta Will Ferguson in questo scoppiettante romanzo.

Al centro di tutto c’è un libro di self-help (auto-aiuto) pubblicato quasi per caso. Edwin Vincent de Valu, alias Eddy, è un editor mediocre che lavora alla Panderic Books Incorporated, sempre alla ricerca del best seller da dare alle stampe. Gli viene affidato il compito di rendere pubblicabile un pesantissimo tomo di 1000 pagine destinate al macero. Si intitola “Quello che ho imparato sulla montagna” inviato alla casa editrice da uno sconosciuto Tupak Soiree.

Eddy convince l’editore di avere per le mani un capolavoro di marketing e futuro campione di vendite; così si ritrova a dover rimaneggiare e rendere più appetibile il testo.

Il manuale insegna ai lettori ad aver maggior cura di se stessi, a orientarsi verso una vita più spirituale che materiale. E’ un successo planetario che conduce le persone ad essere buone, a cambiare completamente la loro scala di valori. Ed è l’inizio della fine della società consumistica che conosciamo. Le conseguenze però sono travolgenti: la gente impara a fare a meno di un’infinità di cose e l’intera economia vacilla.

Un romanzo ironico e irriverente in cui scompaiono le aziende del tabacco, i fast-food, i negozi di alcolici e la vendita di stupefacenti…perché grazie al manuale l’umanità individua i pochi elementi semplici della felicità, incamminandosi su una vita priva di vizi e piaceri superflui….ma non finirà qui. Rinunciare a tutto per trovare pace interiore e felicità è davvero la formula vincente?

 

 

Rock Jazz e dintorni a Torino: Depeche Mode e Roberto Vecchioni

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GLI APPUNTAMENTI MUSICALI DELLA SETTIMANA 

Lunedì. All’Imbarchino il duo di elettronica Crystal Pussy. La PFM torna all’Alfieri nel tributo  a Fabrizio De Andrè.

Martedì. All’Alfieri la cover band Big One reinterpreta le musiche dei Pink Floyd. All’Osteria Rabezzana si esibiscono Tiziana Cappellino e Alberto Marsico. Al Colosseo canta Loredana Bertè. Al Fortino “Canti resistenti” con Mattia Martinengo e Anna Spray.

Mercoledì. Al Lambic si esibiscono i Tribot. All’Alfieri per 2 sere consecutive è di scena Levante. Al Colosseo Belinda Davids reinterpreta le canzoni di Whitney Houston. Al Blah Blah suonano i Black Violence.

Giovedì. L’Istituto Musicale di Rivoli presenta Tomasz Ignalski con Giulia Bi. All’Hiroshima Mon Amour si esibisce Piotta. All’Hilton del Lingotto suona il quintetto del sassofonista Bobby Watson. Al Colosseo arriva Roberto Vecchioni. Al Blah Blah si esibisce King Salami & The Cumberland Three. Allo Spazio 211 è di scena Hannah Jadagu.

Venerdì. All’Audiodrome di Moncalieri si esibisce Fatboy Slim. Al Folk Club canta Norma Winston in quartetto. Al Concordia di Venaria per 2 giorni consecutivi si esibisce Giò Evan. Allo Ziggy suonano gli HypNOgeO e Blue Lies. Al Colosseo si esibiscono I Musici di Francesco Guccini. Allo Spazio 211 è di scena Jozef van Wissem. All’Hiroshima arriva Giancane. Al Blah Blah suona la chitarrista Sara Ardizzoni.

Sabato. Allo Ziggy sono di scena i Guineapig. All’Inalpi Arena sold out per i Depeche Mode. Al Bunker tecno con Skee Mask e Zenker Brothers. Al Magazzino di Gilgamesh si esibisce la vocalist JJ Thames. Al Magazzino sul Po suona il trio Lalalar.

Domenica. Al Blah Blah si esibiscono i Pom.

Pier Luigi Fuggetta

Il cav. Carlo Antonio Napione (Torino, 1756 – Rio de Janeiro, 1814) presupposti e pretesti per una postilla

La Storia ha il delicato compito di far conoscere la verità di quelli che non ci sono più. Talora allo storico è permesso di formulare delle ipotesi, che altri potranno, nel tempo, verificare e anche smontare, ma tutti dovremo sempre rispettare scrupolosamente la verità …

Carlo Antonio Napione a Rio abitava non lontano da dove, prima di rientrare a Torino nel 1985, ho vissuto i miei ultimi anni in Brasile. Ai suoi tempi si parlava di “Morro do Castello” (cioè Collina del Castello) mentre, negli anni Ottanta, là non rimaneva più traccia di una zona alta e il nome designava appena una regione al Centro della città, vicina all’Aeroporto Santos Dumont. Quella zona era nata nel 1922 a seguito dello spianamento della collina omonima, ma, con lo spostamento di terra e altri materiali di sgombero, si alterò irreversibilmente la morfologia del territorio, non solo eliminando ogni traccia dell’altura, ma addirittura ricolmando alcune insenature della costa. Per documentare visivamente l’ambiente, ricorro qui a un delicato acquarello del 1809, mentre più avanti darò testimonianza dei funerali di Napione al convento di Sant’Antonio a Rio con l’immagine dello stesso luogo con un corteo funebre (la litografia è tratta dal libro «Voyage pittoresque et historique au Brésil» che il parigino Jean Baptiste Debret pubblicò a Parigi da Firmin Didot et frères tra 1834 e 1839, dopo aver vissuto a Rio per quindici anni, a partire dal 1816).

Nell’ambito del Castello, Napione era proprio di casa, e tra noi, torinesi, sebbene distanti nel tempo, si venne a creare una buona sintonia intanto che, per conoscerlo, indagavo su di lui e lo studiavo. – Ai miei tempi, quando si facevano questi studi dal Sud America, si partiva un po’ svantaggiati, perché, non essendoci ancora internet, i contatti si svolgevano esclusivamente per posta, e questo costringeva a lunghi periodi di attesa tra la richiesta e l’arrivo delle informazioni (che spesso non arrivavano neppure) …

Personalmente, non mi lamento affatto di aver utilizzato ancora i mezzi di comunicazione più tradizionali. Infatti, così facendo, ho meglio apprezzato in un lettera di Napione per il fratello, quando scriveva di doversi affrettare per chiudere la pagina poiché la candela stava consumandosi ma, col moccolo ancora acceso, avrebbe ancora dovuto sciogliere la ceralacca per sigillarla, prima di consegnarla al postiglione che era pronto a partire… perché sono quelle delle considerazioni di grande vivacità. Su quei fogli però, le annotazioni di chi aveva ricevuto le lettere, non sono meno significative perché ci permettono di dire come non fosse poi così lento il servizio postale internazionale tra Sette e Ottocento! Soprattutto, tornando alle considerazioni sulle nostre corrispondenze però, dirò che quelle lettere mi hanno permesso di stabilire buoni contatti con studiosi di tutto il mondo (dei quali conservo gli autografi), in particolare voglio ricordare che, dall’Italia, Luigi Bulferetti mi rispose subito (chiamandomi “collega”, titolo che, subito, mi premurai di rettificare) e poi mantenne con me un’amicizia che sarebbe durata fino alla sua morte (per questo mi domando perché mai, a richiesta di un innominato e innominabile referee, io dovrei raccontare di un mio alunnato presso di lui, se mai ci fu?). Nella Rio de Janeiro, di quei miei anni, incontrai anche il generale di divisione Francisco de Paula e Azevedo Pondé, storico militare di fama mondiale (il cui nome Luciano Tamburini pretendeva che io rettificassi per adeguarlo alla forma errata riportata da un repertorio statunitense)! Ma, lasciamo da parte quelle assurde pretese, posso ricordare che, in entrambi i Paesi, i due studiosi furono i primi che, negli anni Sessanta, si occuparono di Napione. (Io, che sono intervenuto collegando le indagini e gli studi fatti in Europa con quelli brasiliani, sono stato il primo a fare questa sintesi, rimediando alla dicotomia che è nelle biografie di tanti i personaggi le cui vite si sono svolte su continenti diversi.

Ho dedicato una ventina d’anni ai miei approfondimenti, e li ho conclusi pubblicando gli esiti dei miei studi in due corposi volumi (le cui copertine riprendo qui sopra), (che, prima che fossero stampati, un’operatrice culturale, che a Torino ha voce in capitolo, con tutta la delicatezza dell’elefante nel negozio di porcellane, definì un “mastodonte”). Ora per allora le ribatto che per un personaggio come Napione, la cui vita fu ricca di attività e di viaggi, non bastava un profilo minimo ma, poiché su di lui si era detto poco o nulla, era necessario ricostruirne la storia e, siccome i documenti che lo riguardano erano tantissimi e per lo più inediti, bisognava raccoglierli, studiarli, renderli pubblici un po’ come si fa nelle cause di canonizzazione dei santi.

Non si trattava neppure di un lavoro semplice perché si doveva ricollegare il periodo piemontese (e europeo) della sua vita a quello portoghese (e brasiliano), quindi, una volta raccolti i documenti in giro per il mondo, era necessario trascriverli (ed erano tanti) e poiché, tra quelli, molti erano in Portoghese, Svedese e Tedesco, bisognava tradurli, mentre si poteva credere che, trascritti, bastasse solo pubblicare quelli in Italiano e Francese (però, se si pensa al riferimento a Lagrangia nelle carte di Papacino D’Antoni che vi ho già segnalato, si può pensare che serva a poco pubblicare i documenti dopo averli recuperati, e questo anche se li abbiamo anche trascritti e annotati)!

Napione fu un artigliere, un chimico, un mineralogista e un metallurgo notevole, e in vita aveva avuto onori (come le nomine a Cavaliere dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, di Torre e Espada, Grande de Portugal) e riconoscenze [quali la chiamata alle: Reale Accademia delle Scienze di Torino, Societät Der Bergbaukunde (Società Montanistica di Germania), Kungl. Vetenskapsakademie (Accademia delle Scienze di Stoccolma), Jenaische Mineralogische Societät (Società Mineralogica di Jena), Academia Real de Sciencias e Sociedade Real, Maritima, Militar, e Geografica di Lisbona], nel tempo aveva poi anche assunto (come specificherò più avanti) diversi incarichi di responsabilità, ma la sua vita, un po’ come quella della più parte di noi, non fu mai distinta per degli atti eroici, ché, come, da giovane, ebbe a scrivere al fratello, nello scendere e salire per le miniere dell’Alta Europa, si trovava soddisfatto anche se era stanco come un mulo e sporco come un maiale!

Mi domando allora a chi giovi sapere che nella biografia sintetica, che di lui pubblicò il Dizionario Biografico degli Italiani, citando i miei studi, qua e là, quasi di proposito, abbia disseminato notizie fake che non si potranno mai confermare. Io lo segnalo domandandomi che senso ha per la Storia dire che un simile racconto è ispirato ai miei studi? Infatti quelle affermazioni mi denigrano, accusandomi indirettamente di falsità, e screditano il mio onesto e scrupolosissimo lavoro … – allora ribatto, ricordando che i pezzenti “più fortunati” vivono nella Capitale, perché sanno che, se allungano la mano sulle cose degli altri, ci sarà sempre un’indulgenza plenaria che concederà loro l’assoluzione piena della colpa e, senza che sia loro richiesto di restituire il mal tolto e senza che debbano nemmeno scusarsi, non saranno mai tenuti a pentirsi di nulla? – Ben altra cosa sono il senso di dignità e l’orgoglio per un “bel lavoro” fatto che i nostri vecchi, geograficamente più vicini a Cornelis Jansen e a Jehan Cauvin (vulgo: Giansenio e Calvino), ci hanno trasmesso col ricordo della loro sana e serissima operosità!

Ma torniamo alla fine del nostro Napione che, per essere avvenuta nella “cidade maravilhosa”, fu davvero tutta tinta di colori foschi, non già da quelli vivaci di un carnevale carioca (dove con l’aggettivo intendo, come si deve, la città di Rio e non “tutto ciò che è brasiliano”, come erroneamente riferiscono tanti comunicatori disinformati). Su di essa domina il grigio con cui terminano tanti sogni e si sviluppano, per l’intera durata, gli incubi … per questo ora ritornerò meglio sull’ultimo periodo della sua vita, perché devo definire alcuni aspetti che avevo lasciato appena accennati. Nella fattispecie, nel capitolo 16° del mio Napione, accenno a una Donna Gertrude Maria Pereira Caldas, la quale, dopo aver assunto, per il nostro, un ruolo di governante, nel testamento, fu da designata sua erede universale. Dopo la pubblicazione del mio saggio, sono ritornato su quel personaggio femminile… in nessuno degli Almanacchi storici (quello di Lisbona per il 1807, ripubblicato integralmente nella «Revista do Instituto Histórico e Geográfico Brasileiro» Apêndice ao vol. 290 – 1971, e quello di Rio per il 1811, ripubblicato integralmente nel vol. 282 – 1969 della stessa rivista) non c’è traccia di lei… Questo potrebbe significare che fosse ancora troppo giovane, poiché i nostri documenti sono tutti di un intorno di tempo prossimo al 1814! Però tanto giovane io predo che non lo fosse, all’assumere la gestione e la custodia dell’abitazione del nostro cinquantaseienne.

Il Torinese abitava nel così detto “Calabouço” (nome che significa letteralmente “dungeon” e indica una “prigione”, una “segreta” o un “sotterraneo”, ma che, analogamente all’italiano “dongione”, può anche essere usato per la torre interna di un castello) su quei locali io già scrissi che erano accolti in una struttura, decentrata rispetto al vero e proprio castello, nei quali aveva funzionato una prigione e che erano stati scelti perché, in essi, Napione avrebbe installato anche il suo laboratorio chimico. Non dimentichiamo che si occupava di esplosivi (motivo per cui il laboratorio doveva presentare caratteristiche particolari e, nel caso, i muri rinforzati di una prigione potevano andare bene anche per quest’altro uso) e, poi, che, tra gli elementi che, normalmente, maneggiava, c’erano l’arsenico e il mercurio, solo per ricordarne due tra i più velenosi (ma di questo, se mai se ne occuperà chi vorrà approfondire il suo decesso) … Certamente poi, quella casa era frequentata dai militari subalterni suoi collaboratori. Ora, se ricordiamo che egli era Direttore della Fabbrica della Polvere e del Real Orto Botanico della Laguna Rodrigo de Freitas, Is­pettore Generale di Artiglieria, Consigliere di Guerra del Consiglio Supremo Militare, Is­pettore della Real Giunta degli Arsenali, Fabbriche e Fonderie, e che per quegli incarichi lui, che era straniero era apprezzato a corte e pagato bene, si può immaginare che questo causasse qualche gelosia, se non anche invidia tra alcuni esponenti dell’ambiente militare portoghese; e poiché si sa che, alla corte portoghese di Rio, erano abbastanza comuni i complotti e le congiure… così … dobbiamo ipotizzare che succedesse proprio contro di lui che, da qualche anno, essendo venuto meno il Conte di Linhares, aveva perso il protettore ufficiale, che non solo era ministro della guerra, ma un suo personale amico da lunga data, profondamente legato all’ambiente torinese dove aveva vissuto parecchi anni e aveva sposato un’Asinari di San Marzano!

Ma torniamo al Brasile! Casualmente, nella História Geral do Brasil di Francisco Adolfo de Varnhagen (vol. 3, t. V), ho ritrovato per ben due volte il nome di un portoghese, proprietario in Olinda, provincia di Pernambuco: Manuel José Pereira Caldas. La prima volta il 6 marzo, e l’altra, durante il governo repubblicano provvisorio di quelle terre, il 18 maggio 1817. Il nome, alla data del 9 maggio 1817, è accompagnato dall’epiteto di Robespierre della rivoluzione di Pernambuco e, nello stesso anno, un’efemeride ne chiarisce bene il perché, infatti riferisce che: «Il governo repubblicano di Pernambuco manda a fucilare un uomo impiegato al servizio del mare, per mantenere comunicazioni con il blocco del porto. Per questo e altri eccessi di potere contro gli europei, Manuel José Pereira Caldas meritò il soprannome di Robespierre». (Ephemerides nacionaes colligidas pelo Dr. J. A. Teixeira de Mello e publicadas na Gazeta de Noticias – tomo 1° – Rio de Janeiro, 1881, p. 295). Altri scritti più recenti poi, come la tesi di dottorato di Breno Gontijo Andrade (A Guerra das Palavras: cultura oral e escrita na Revolução de 1817, discussa a Belo Horizonte nel 2012), permettono di connotare meglio il personaggio. Così sappiamo che era portoghese di nascita, “doutor” (dottore, laureato in diritto), che iniziò la sua carriera in Brasile, nell’allora provincia della Paraiba, dove fu “ouvidor” (cioè: difensore civico), e che si dedicava anche all’amministrazione di uno zuccherificio di sua proprietà. In ultimo si ricorderà che, all’inizio del 1817, passava già i sessant’anni di età, quindi, citando lo storico Oliveira Lima, sapremo, ed è ciò che più importa, che era “dedicadíssimo à República e foi sanguinario nos seus ditos e pareceres, o que se confirma na documentação” e che, per quei suoi “pregi”, fu incaricato di scrivere la costituzione repubblicana di Pernambuco.

Uniti dallo stesso cognome (il quale è comune nella città portoghese di Braga), non sappiamo se e in che grado fosse parente della Gertrude, governante del generale, ma ci sono buoni presupposti per pensarlo e, quindi, per immaginarli coinvolti in un complotto ordito contro Carlo Antonio Napione, per questo ipotizzo che la morte del Cavaliere avvenisse per un omicidio deciso da un complotto ordito da un gruppo di rivoluzionari (vicini a quei repubblicani di Pernambuco che si sarebbero messi in luce per i fatti successivi) infatti, alla corte di Rio, essi contavano sull’appoggio di chi, appartenendo alla loro stessa organizzazione segreta, li avrebbe coperti e protetti… L’ipotesi non è così stravagante: nell’America Latina del tempo dominata dall’emblematica e sanguinaria figura di Simón Bolívar. Per questi motivi crediamo che la nostra non sia un’ipotesi del terzo tipo…

Carlo Alfonso Maria Burdet

(Dedico queste pagine alla memoria di Andrée MansuyDiniz Silva, Luigi Bulferetti e Raimondo Luraghi, storici di fama mondiale che, nel corso degli anni, seppero esprimermi la loro amicizia insieme alla stima per i miei studi).

“Time Square”, a Torino, è in Borgo Crimea a “Flashback Habitat”

Blasonate “opere d’arte” si specchiano in consumistiche “insegne pubblicitarie” …  e il match è davvero curioso. Senza vincitori né vinti!

Fino al 31 marzo 2024

Corso Giovanni Lanza 75, Torino. Siamo in Borgo Crimea. Qui ha sede da un anno, “Flashback Habitat. Ecosistema per le Culture Contemporanee”, la “casa della cultura condivisa, dove arte e vita sono strette in un binomio indissolubile”. E qui, fino al 31 marzo del prossimo anno, 16 “Stanze” racconteranno di “una metaforica piazza dove convivono a tu per tu” un’insegna pubblicitaria e un’opera d’arte, più o meno datata più o meno (ma prevale il “più”) blasonata. Siamo in “Time Square”, non nella celebre, turbolenta “Times Square” di Manhattan-New York, ma in “Time Square” (al singolare) dove  le parole “tempo” e “piazza” si “scontrano e ricompongono in nuovi significati”. Da questa sensazione nasce l’idea di Alessandro Bulgini, direttore artistico di “Flashback Habitat”, di realizzare la “strana” ma perfino “geniale” (e in ogni stranezza c’è sempre un po’ di genialità) mostra “Time Square. L’arte in piazza trascende il tempo”, che intende “indagare – spiega Bulgini – le connessioni tra arte e vita, esplorando frizioni e convergenze, nello specifico tra insegne pubblicitarie e opere d’arte come accade nelle piazze contemporanee. Un dialogo o, meglio, un match, sviluppato in sedici stanze rappresentative di sedici ipotetiche piazze”“La mostra – continua Bulgini che ne è anche curatore – è stata realizzata con lo stesso fare poetico che caratterizza la nostra idea di ‘Habitat’ dove le eccellenze si confrontano e si potenziano nel loro stratificarsi ed é stata resa possibile grazie all’amicizia con Paolo Genta, geniale architetto e paesaggista e Roberto Spiccia, eccellente artigiano. Entrambi hanno messo a disposizione la loro sensibilità e il loro sapere per rendere completa l’opera”. Per un attimo si possono chiudere gli occhi e riaprendoli non è poi così bizzarra la sensazione di trovarci in una “piazza” dei nostri giorni, stratificazione di tempi, di mode, di paesaggi che hanno mille volte cambiato faccia e mille volte architetture case palazzi. Piazze dove convivono gente e forme e strutture le più diverse, “che da entità geografiche si trasformano in entità socioculturali”. Mai come oggi ci appare accettabile e chiara la risposta del genio, unica e inimitabile icona della Pop Art, Andy Warhol a chi gli chiedeva cosa più gli fosse piaciuto di Firenze. Molto semplice la sua risposta: “La cosa più bella di Firenze è McDonald’s”. Parole da non intendersi come irriverenti nei confronti di una città che, ben si sa, è scrigno di arte superba, ma in cui Warhol ben riassumeva l’idea di luogo dai mille riflessi e dalle mille facce tutte compatibili e condivisibili fra loro. Pur nelle loro più stupefacenti diversità. E allora eccoci alle nostre 16 “piazze” realizzate in “Flashback Habitat”. “Per ogni piazza, su di un lato un’insegna spenta sul bianco algido e minimale della parete a rappresentazione della modernità, sull’altro un’opera su una parete dipinta con colori che hanno riferimenti alla storia dell’arte”. Sedici opere che convivono con sedici insegne pubblicitarie. E anche bene, sotto l’aspetto della mis-en-place. Nulla da dire. E voilà. Si inizia con l’enorme simbolo giallo-rosso a forma di conchiglia di capasanta della “Shell” messo a confronto con la scultura quattrocentesca in legno del viandante “San Rocco” di Giovan Angelo Del Maino, per incontrare (Stanza 2) la “Signorina Grandifirme” realizzata per “Essevi Ceramica Lenci” nel ’37 dal cuneese di Carrù Sandro Vacchetti messa a dialogare con l’insegna della “Peugeot”,  mentre la metafisica “Piazza d’Italia – Malinconia” di De Chirico (1949), viene risvegliata dai suoi onirici voli attraverso il duro confronto con l’insegna di “McDonald’s”. Il rarissimo capolavoro tipografico “Theatrum Sabaudiae” (1697), monumentale opera descrittiva di tutti i domini del duca di Savoia, un vero e proprio mix di finzione e realtà, fronteggia il simbolo della “Lancia”, uno scudo blu con lancia dal sapore araldico; altrove la “Vergine Addolorata” (XVII secolo) di Giuseppe Antonio Petrini si raffronta con l’insegna (bella in grande, come l’Azienda almeno tempo fa) della “Fiat”. Altra “Stanza”: l’opera del fotografo Gabriele Basilico “Beirut” (1991) documenta lo stato di devastazione della capitale del Libano dopo quindici anni di guerra civile, di fronte all’insegna della “Tamoil” che ci racconta lo stesso Libano negli anni 80. E l’iter prosegue, come “match fatti talvolta di coincidenze, altre volte di prolungamenti di storie, di combinazioni fortuite, tutti incontri che stimolano la nostra abilità di elaborare i dati e il nostro immaginario”.

Gianni Milani

“Time Square. L’arte in piazza trascende il tempo”

Flashback Habitat, corso Giovanni Lanza 75, Torino; tel.393/6455301 o www.flashback.to.it

Fino al 31 marzo 2024

Orari: ven. sab. dom. 11/19

Nelle foto: Giovan Angelo del Maino “San Rocco”, scultura lignea, 1490-’95 con “Shell”; Giuseppe Antonio Petrini “Vergine addolorata”, olio su tela, XVII secolo con “Fiat”; Giorgio De Chirico “Piazza dìItalia – Malinconia”, olio su tela, 1949 con “McDonald’s”; Gabriele Basilico “Beirut”, fotografia stampa ai sali d’argento del 2002 con “Tamoil” di Antonio Jordan

La rubrica della domenica di Pier Franco Quaglieni

SOMMARIO: Basaglia o Tobino? – La Pro Cultura Femminile – Lettere

Basaglia o Tobino?
Il centenario della nascita dello psichiatra Franco Basaglia che volle la chiusura dei manicomi, ma non capì che non bastava chiuderli perché i malati di mente potessero guarire, suscita ancora oggi costanti polemiche su un tema delicato e angoscioso per migliaia e migliaia di famiglie che hanno avuto o hanno un malato psichico che la chiusura dei nosocomi  abbandonò a sé stessi.
La legge 180  del 1978, scritta male ed applicata peggio, resta una legge non adeguata ,anche se la colpa fu dei basagliani perché il maestro morì nel 1980, appena due anni dopo. Tanto più lucida fu la posizione di Mario Tobino che si oppose alla utopia  buonista di Basaglia, vedendo nella riforma dei luoghi di cura il modo di curare con umanità quelli che venivano definiti  senza pietà matti. Tobino, invitato da me a Torino, fu contestato e non gli venne consentito di parlare. La vera colpa di tutto è dei piccoli seguaci di Basaglia che non ebbero il suo coraggio, la sua intelligenza  e la sua cultura, pur ritenendosi degli eroi come tanti medici torinesi di cui oggi nessuno parla , ma che si ritennero dei rivoluzionari ovviamente comunisti. Per pietà non ne faccio i nomi. Si cercarono, sgomitando, notorietà  effimera e immeritata, speculando con l’aiuto di giornalisti codardi, sulla chiusura di Collegno.  Anche un avvocato ultracentenario morto di recente fu della partita: non si sa  davvero con quale competenza , ma volle esserci anche lui. Già il solo termine “Psichiatria democratica” avrebbe dovuto far inorridire ed oggi dovrebbe  suscitare un riso di scherno per le vere follie demagogiche nate dall’eterno ‘68.
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La Pro Cultura Femminile
Sono stato a parlare di Bobbio alla Pro Cultura Femminile, nata a Torino nel 1911 che neppure il fascismo osò chiudere. E’ la più antica associazione culturale torinese e insieme all’Aci di Irma Antonetto è  stata la protagonista assoluta della cultura torinese, molto meglio del celebrato Antonicelli che aveva dietro di se’ il Pci, per non parlare di certi club femminili e femministi odierni fatti da madamazze, come le definiva Montanelli, più casalinghe frustrate che donne colte.
Ricordo la presidente Augusta Guidetti Grosso, anglista di fama, con cui trattenni un ottimo rapporto per tanti anni. Ho cercato di imparare ad organizzare un po’ di cultura, guardando all’esempio suo e di Irma Antonetto. La prof. Grosso, pur essendo moglie del sindaco di Torino e famosissimo giurista, era una donna totalmente libera da obbedienze di partito come dimostrò di essere anche il marito. La Grosso invitò a parlare nel 1966 il deputato missino Tripodi su Gozzano e i Crepuscolari. La conferenza non suscitò scandalo ed io studente di liceo andai ad ascoltarla perché già amavo Gozzano prendendo preziosi appunti che mi servirono per la Maturità. Con la prof. Grosso si stabilì un rapporto nel tentativo vano di mettere d’accordo l’associazionismo culturale torinese che in tempi successivi venne manu militari conquistato e piallato dal circolo dei lettori e dal Polo del 900. Ambedue però sbagliarono nella loro operazione di pulizia etnica e di egemonizzazione perché la Procultura e il centro che presiedo non si piegarono. Anche la prof. Grosso non avrebbe mai accettato di ammainare la bandiera gloriosa di oltre 100 anni di cultura libera.
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LETTERE scrivere a quaglieni@gmail.com
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Le Regionali di giugno
quaglieni penna scritturaDa quanto vedo, i candidati alle Regionali non sono dei migliori soprattutto nel centro – destra, mentre il centro – sinistra è ancora in affanno su un presidente che non avrà successo dalle urne, anche se si alleasse con Appendino in persona e trovasse l’appoggio del quasi novantenne Salza. Mi sorprende che i moderati di Portas si nascondano nella lista civica senza far dimettere il  loro assessore nella Giunta Lo Russo, tenendo il piede in due scarpe. L’assessore moderato in Giunta deve dimettersi! E che dire dell’”assenteista cronico” in Comune dove voleva fare il sindaco, il rag. Damilano, che candida un suo socio o dipendente nell’ industria delle acque, senza considerare il lampante conflitto di interesse con la Regione in tema di acque minerali, bene pubblico e non privato della famiglia Damilano?  Già la lista civica di un vicesegretario di Fi appare ridicola.  Mi sembra che si parta molto male. Negli altri partiti sempre gli stessi nomi senza ricambi. Nessun nome che riguardi la cultura, articolo ormai fuori moda. Posso dirlo? Mi appare un casino.  Vito Lo Cascio
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Sono totalmente fuori dalla mischia e non intendo esprimere giudizi specifici su operazioni che dimostrano ancora una volta la povertà della politica di oggi, a destra e a sinistra. Ambedue mancano di una classe dirigente locale e nazionale. Ma il peggio è in Calenda e in Renzi che ormai dovrebbero limitarsi a passare le proprie ore ai giardinetti . “Torino bellissima” appare politicamente ormai morta, pur avendo avuto ed avendo molti consiglieri comunali in carica. Un bel progetto che non è stato coltivato. Adesso anche “Torino bellissima” si rifugia sotto l’ombrello protettivo di Cirio. La lista civica dovrebbe portare voti, qui sembra invece che tutti si attacchino a Cirio per sperare in un seggio sicuro. Molti si illudono perché i seggi sicuri sono solo quelli del listino di cui non si sa nulla.
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Matteotti
Il centenario del delitto Matteotti moltiplica i libri sul tema, da parte di ex comunisti che hanno sempre disprezzato il socialista Matteotti. Libri stantii, ripubblicati con lievi correzioni che negano o svalutano il valore socialista di Matteotti per ripetere la solita vulgata antifascista. In testa a tutti si distingue il Polo del ‘900 e l’istituto Salvemini, come sempre allineato e coperto sull’estrema sinistra dopo la morte di Valerio Castronovo, uno storico vero.  Gino Lugli
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Sono anch’io impegnato con un piccolo libro per ricordare Matteotti e quindi mi astengo dal dare giudizi. Certo la storia è molto distante da certi autori che sono dei politicanti di lungo corso o dei semplici giornalisti che non sanno la storia.

Raffini: ritratti di artisti, galleristi e critici

Un lavoro fotografico di Mauro Raffini nato da un’idea di Gerry Di Fonzo nel 2012, oggi esposto in una rinnovata veste nello studio fotografico di Gianni e Edoardo Oliva, sede del Museo Eikòn. La mostra a cura di Sandra Raffini propone ritratti di galleristi, curatori, critici e storici dell’arte… Uno sguardo curioso sulla scena dell’arte e i suoi protagonisti, artefici di una nuova stagione artistica a Torino e dintorni.
Eikòn dialoga con i fotografi italiani e stranieri, organizza mostre e oltre ad esporre la propria collezione e i prestiti è museo virtuale (sul web) e itinerante. Affianca i giovani fotografi, progettando mostre collettive e collabora con le scuole di fotografia presenti sul territorio interagendo con studenti ed insegnanti.

Occhio al giaguaro

CALEIDOSCOPIO ROCK USA ANNI 60

Uno dei maggiori problemi che da sempre affligge la storia del rock a livello internazionale e in tutte le epoche è la fitta rete di omonimie tra etichette; la questione è sempre risultata estremamente complessa ed articolata, in molti casi di difficilissima definizione, specialmente quando uno stesso nome andava ad interessare localizzazioni territoriali omogenee o, ancor peggio, allorquando ad un’omonimia perfetta si sovrapponeva anche una quasi identica estensione temporale. Esistono infatti casi a volte inestricabili in cui il lasso temporale di vita di un’etichetta andava a complicare (anziché semplificare) il dilemma, conducendo molto spesso a clamorosi “vicoli ciechi” in cui risultava impossibile scindere l’identificazione di un’etichetta rispetto ad un’altra sostanzialmente e inconsapevolmente “gemella”.

Un esempio di nome assai diffuso tra i “labels” discografici in tutto il pianeta è “Jaguar Records”, che letteralmente compare in ogni continente (anche qui in Italia) e in ogni epoca, coprendo i più diversi generi musicali e i più differenziati stili. Inutile dire che nei soli Stati Uniti si sono registrate omonimie multiple a decine e decine, rese ancor più spinose (specialmente nei decenni 60 e 70) da etichette davvero scarne e scheletriche nelle indicazioni di sedi, produttori e distributori, prive perfino di minimi accenni perlomeno ad indirizzi cittadini di qualche luogo di incisione. Va da sé che quando ci si trova di fronte a “tabulae rasae” ed omonimie… ci sono ben poche vie d’uscita se non i numeri di matrice. Tanto peggio era nel fitto ginepraio delle etichette medio-piccole (di cui era inoltre impossibile stabilire se fossero entità autonome o sottoetichette secondarie per generi specifici).

Tra queste, tuttavia, mi piace puntare i fari su una “Jaguar Records” di Little Rock (Arkansas, probabilmente con sede in 1804 Johnson Street), nota agli appassionati di psych garage per un interessante 45 giri dei “Blues Foundation” che è quintessenza del genere garage “tardo”, in anni in cui al “fuzz” crudo e puro erano ormai subentrati suoni già evoluti e mutati. Questa etichetta si distingueva per il logo con cucciolo di giaguaro in riposo, scritta rossa in corsivo, fondo giallo senape (ma talvolta anche blu con scritta argento) e soprattutto per il fiero logo che recitava “Jaguar Records means GOOD sound”.

Come in molti altri casi di quel periodo (ricco di evoluzioni a volte fulminee) la vita dell’etichetta fu caratterizzata da incisioni sporadiche e fu alquanto limitata, se si pensa che restò operativa nel solo triennio 1967-1969; ciononostante è potuta entrare in alcune “compilations” recenti proprio grazie alle due incisioni che nella lista qui di seguito verranno puntualmente messe in risalto:

– The Federal Union “Can’t Stop, Can’t Go / A Day Without Time” [Acetato] [c.1967];

– THE ROUSTABOUTS “Just You And Me / Lonely Blues” (102) [1968];

– BLUES FOUNDATION “It’s Called Love / Summer Will Soon Be Gone” (81040) [1968];

– The Sound Investment “Ask The Lonely / Happy Song” (90344) [1969];

– Harold Troxler with The Singles “Old Antioch / Steal Away” (90466) [1969].

Gian Marchisio

Il Museo Egizio festeggia il suo bicentenario a Lisbona con Christian Greco

Il 14 marzo un pubblico vario e qualificato è confluito a Lisbona in occasione della conferenza “Il Museo Egizio e le sfide del futuro: Ricerca, inclusione e transizione digitale“, tenuta dal suo direttore Christian Greco. L’evento, organizzato dall’Istituto Italiano di Cultura di Lisbona, si è distinto come contributo significativo alla celebrazione del bicentenario della fondazione del museo, consentendo di tracciare nuovi orizzonti per il museo del futuro e di anticipare gli ambiziosi progetti di questa centrale istituzione torinese, all’insegna dell’apertura, dell’inclusione e del coraggio.

Presso la splendida cornice dell’auditorium del Museo della Farmacia di Lisbona tra il numeroso pubblico presente sono intervenute diverse personalità del mondo accademico locale. Oltre al direttore del Museo della Farmacia e presidente dell’Associação Portuguesa de Museologia, João Neto, erano presenti in sala António Carvalho, Direttore del Museu Nacional de Arqueologia (MNA) e gli archeologi intervenuti nel convegno “The Khedives’ Gift”, parimenti organizzato dall’Istituto: Alessia Amenta, curatrice del Reparto Antichità Egizie e del Vicino Oriente dei Musei Vaticani, Paola Buscaglia, restauratrice e coordinatrice del Laboratorio di Scultura Lignea della Fondazione Centro Conservazione e Restauro “La Venaria Reale”, Patricia Rigault-Deon del Museo del Louvre, Anne Haslund del Museo nazionale danese, Daniel Soliman del Museo nazionale delle antichità di Leida, Jaume Vilaró Fabregat e Agnese Iob.

L’incontro, moderato dal direttore dell’Istituto Stefano Scaramuzzino, è stato incentrato sul rinnovamento permanente del concetto di museo, aperto verso la città e il mondo e incardinato sull’asse della ricerca, visitabile secondo paradigmi mutevoli. Un luogo in cui la collaborazione e la scoperta accademica, con l’ausilio delle nuove tecnologie, diviene base per la partecipazione delle comunità.

Come riferito dallo stesso Greco l’anno del bicentenario sarà attraversato da profonde trasformazioni sia dal punto di vista architettonico, sia con riallestimenti innestati sugli ultimi risultati della ricerca internazionale. Il museo si rinnova in un’ottica di apertura metaforica e fisica verso la città, attraverso la rifunzionalizzazione dei suoi spazi. Il pubblico ha così potuto sia assistere ad esempi di integrazione delle nuove tecnologie all’interno degli spazi attuali, sia interrogarsi sulle tematiche che il mondo museale deve affrontare per guidare il dibattito delle società e restare al passo con i nuovi valori emergenti: rimozione degli ostacoli materiali e normativi all’accesso al sapere, dialogo con le sensibilità delle culture dei luoghi di rinvenimento delle opere, trattamento dei resti umani.

Particolare emozione hanno suscitato l’annuncio del film documentario “Uomini e Dei – Le Meraviglie del Museo Egizio” (2023) e l’illustrazione delle coraggiose riformulazioni dell’iconica galleria e del cortile del palazzo barocco dell’Accademia delle Scienze, sede del Museo, che diverrà uno spazio coperto, accessibile liberamente e profondamente connesso con l’interno del Museo.

La presentazione del volume “Alla Ricerca di Tutankhamon“, pubblicato nel 2023 in occasione del centenario della storica scoperta di Howard Carter e ristampato nel 2024 in seconda edizione, è stata fortemente intrecciata alle tematiche presentate, consentendo di aprire un dibattito con il pubblico sugli interrogativi che l’archeologo e i musei si pongono nel rapporto col passato, e sulla consapevolezza della centralità del metodo e delle forme espositive, tanto negli allestimenti quanto nelle pubblicazioni. Nella sessione di autografi che ha seguito la conferenza il volume ha registrato il tutto esaurito.

Oggi al cinema. Le trame dei film nelle sale di Torino

A cura di Elio Rabbione

Anatomia di una caduta – Drammatico. Regia di Justine Triet, con Sandra Hüller. Sandra, Samuel e il loro figlio ipovedente Daniel vivono da un anno in una remota località di montagna. Quando Samuel viene trovato morto fuori casa, viene aperta un’indagine per morte in circostanze sospette. Nell’incertezza, Sandra è incriminata: si tratta di un suicidio o di un omicidio? Un anno dopo Daniel assiste al processo della madre, una vera e propria dissezione dei rapporti tra i genitori. Durata 150 minuti. (Romano sala 3)

Ancora un’estate – Drammatico. Regia di Catherine Breillat, con Léa Drucker e Samuel Kircher. Anne è un avvocato specializzato nella difesa di minori abusate. Ha un marito, Pierre, e due bambine adottate. Un giorno arriva nella loro bella casa Théo, diciassettenne figlio di primo letto di Pierre. I due inizialmente non si sopportano per poi invece essere attratti l’uno dall’altra con tutte le conseguenze che questa relazione può comportare. Durata 104 minuti. (Nazionale sala 4)

Dune – Parte 2 – Avventura/Fantascienza. Regia di Denis Villeneuve, con Timothée Chalamet, Zendaya, Josh Brolin, Charlotte Rampling e Christopher Walken. Il mitico viaggio di Paul Atreides quando si unisce a Chani e ai Fremen: è sul sentiero di guerra per vendicarsi dei cospiratori che hanno distrutto la sua famiglia. Di fronte a una scelta tra l’amore della sua vita e il destino dell’universo conosciuto, Paul si sforza di prevenire un terribile futuro che soltanto lui può prevedere. Durata 166 minuti. (Massaua, Due Giardini sala Ombrerosse, Eliseo, Fratelli Marx sala Groucho, Ideal anche V.O., Lux sala 2, Massimo, Reposi sala 1, The Space Torino, Uci Lingotto anche V.O., The Space Beinasco, Uci Moncalieri)

Estranei – Fantasy/Drammatico. Regia di Andrew Haigh, con Andrew Scott, Paul Mescal, Claire Foy e Jamie Bell. Una notte, nel suo condominio quasi vuoto nella Londra contemporanea, Adam ha un incontro casuale con un misterioso vicino di casa, Harry, che spezza il ritmo della sua vita quotidiana. Mentre si sviluppa una relazione tra i due, Adam è ossessionato dai ricordi del passato e si ritrova attratto nella città di periferia in cui è cresciuto e nella casa d’infanzia in cui i suoi genitori sembrano vivere, proprio come il giorno della loro morte, trent’anni prima. “Estranei” è stato designato Film della Critica dal SNCCI con la seguente motivazione: “Raccontando il tormento interiore per la perdita dei genitori e la scoperta della propria omosessualità, Adam cerca una riappacificazione con se stesso, la famiglia e il mondo, attraverso la conoscenza di Harry. Haigh si conferma eccelso narratore contemporaneo dei sentimenti, grazie a una ricognizione spettrale dei protagonisti e un senso smisurato di perdizione tra sensi di colpa e amori tragici. Un film impalpabile sul dolore inconsolabile, dove la realtà perde i propri confini e il pensiero si fa immagine. Durata 106 minuti. (Ambrosio sala 2 anche V.O.)

Green Border – Drammatico. Regia di Agnieszka Holland. Nelle insidiose foreste paludose che costituiscono il cosiddetto “confine verde” tra Bielorussia e Polonia, i rifugiati provenienti dal Medio Oriente e dall’Africa che cercano di raggiungere l’Unione Europea si trovano intrappolati in una crisi geopolitica cinicamente architettata dal dittatore bielorusso Lukašenko. Nel tentativo di provocare l’Europa, i rifugiati sono attirati al confine dalla propaganda che promette un facile passaggio verso la UE. Pedine di questa guerra sommersa, le vite di Julia, un’attivista di recente formazione che ha rinunciato a una confortevole esistenza, di Jan, una giovane guardia di frontiera, e di una famiglia siriana si intrecciano. A distanza di trent’anni da “Europa Europa”, il nuovo toccante lungometraggio della Holland ci apre gli occhi, parla al cuore e ci sfida a riflettere sulle scelte morali che ogni giorno persone comuni di trovano ad affrontare. Il film è stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI con la seguente motivazione: “Con un approccio duro e sconvolgente, in un bianco e nero che rende ancora più drammatica la situazione, la regista polacca descrive il trattamento violento e crudele subìto dai migranti al confine tra Polonia e Bielorussia, mettendo in luce, oltre all’ovvio aspetto disumano, la volontà di ogni Stato di usare a scopo politico il flusso di gente disperata che ha perso tutto.” Durata 147 minuti. (Greenwich Village sala 3)

Memory – Drammatico. Regia di Michel Franco, con Jessica Chastain e Peter Sarsgaard. Sylvoa è un’assistente sociale, con una vita semplice e organizzata tra figlia, il lavoro, le riunioni degli Alcolisti Anonimi. Tutto va in pezzi quando Saul, un antico compagno di scuola, la accompagna a casa dopo una riunione tra ex compagni di scuola. Saul ha perso la memoria e forse in tempo di gioventù le ha usato violenza: l’incontro inaspettato sconvolgerà entrambi, perché apriranno la porta al passato, tra vecchie disperazioni e nuovi sorrisi che vengono a rimarginare le ferite. Sarsgaard per il ruolo di Saul ha vinto la Colpi Volpi all’ultima Mostra di Venezia. Scrive Maurizio Porro nelle colonne del Corriere della Sera: “Grazie alla fiducia dell’autore nell’irrazionale peso lordo della tenerezza, alla fine ci ritroviamo con due soldi di speranza sull’orizzonte di uno psicodramma che invita a dimenticare le memorie e a ricominciare daccapo. Si tratta di un cinema che si mette alla prova, spesso parla senza parole ma è molto empatico, basta guardare a quello che resta fuori dell’inquadratura, quell’impalpabile stimolo a gettarsi sempre dal più alto trampolino dei sentimenti.” Durata 100 minuti. (Nazionale sala 3)

Oppenheimer – Drammatico. Regia di Christopher Nolan, con Cillian Murphy, Emily Blunt, Robert Downey jr, Kenneth Branagh e Matt Damon. La storia del ruolo di Robert Oppenheimer, i cui studi condussero alle scoperte legate alla bomba atomica, con il conseguente utilizzo durante le stragi di Hiroshima e Nagasaki durante laSeconda Guerra Mondiale. Film vincitore di sette premi Oscar, tra cui quelli di miglior film e miglior regia, di migliore attore protagonista e non protagonista. Durata 190 minuti. (Massaua, Ideal, Nazionale anche V.O., The Space Torino, Uci Lingotto, The Space Beinasco, Uci Moncalieri).

Past Lives – Commedia. Regia di Celine Song, con Greta Lee, Teo Yoo e John Magaro. Na-young e Hang-seo sono fidanzatini ai tempi della scuola ma i genitori di Na-young devono trasferirsi da Seoul a New York. Da questa dolorosa separazione trascorrono dodici anni, dopo i quali Na-young, che ora si chiama Nora, e Hang-seo riescono a ritrovarsi e a comunicare via Skype. Di fronte all’impossibilità di incontrarsi nello stesso luogo, Nora sceglie di interrompere la relazione a distanza e concentrarsi sulla propria carriera di scrittrice nella metropoli americana. Dopo altri dodici anni, Hang-seo vola a New York per vedere Nora. Durata 93 minuti. (Eliseo, Nazionale anche V.O.)

Perfect Days – Drammatico. Regia di Wim Wenders, con Koji Yakusho. Hirayama conduce una vita semplice, scandita da una routine perfetta. Si dedica con cura e passione a tutte le attività della sua giornata, dal lavoro come addetto alle pulizie dei bagni pubblici di Tokyo all’amore per la musica, ai libri, alle piante, alla fotografia e a tutte le piccole cose a cui si può dedicare un sorriso. Nel ripetersi del quotidiano, una serie di incontri inaspettati rivela gradualmente qualcosa in più del suo passato. Durata 124 minuti. (Greenwich Village sala 2, Nazionale anche V.O.)

Povere creature! – Commedia fantastica. Regia di Yorgos Lanthimos, con Emma Stone, Mark Ruffalo e Willem Defoe. Tratto dal romanzo dello scrittore Alasdair Gray, il film – candidato con undici candidature ai prossimi Oscar e Leone d’oro a Venezia – è la storia dello scienziato God, deformato nel fisico e sfigurato nel volto, inviso a tutti e considerato pazzo per gli esperimenti che conduce, e di Bella, morta suicida, che lui riporta in vita, immettendole il cervello del feto che la ragazza aveva dentro di sé. Bella un giorno imparerà a leggere e a scrivere come pure una propria vita sessuale che la spingerà a seguire un giovane avvocato in un lungo viaggio: mentre costui avrà la peggio da quella convivenza, Bella la userà per ribadire a tutti la propria libertà e quella totale emancipazione che altri hanno cercato di cancellarle. Vincitore di quattro premi Oscar, tra cui migliore attrice protagonista a Emma Stone. Durata 141 minuti. (Ambrosio sala 3 anche V.O., Massaua, Fratelli Marx sala Chico anche V.O., Greenwich Village sala 3, Ideal, Lux sala 3, Reposi sala 5, Romano sala 1, The Space Torino, Uci Lingotto, The Space Beinasco, Uci Moncalieri)

Race for Glory – Audi vs Lancia – Azione. Regia di Stefano Mordini, con Riccardo Scamarcio e Daniel Brükl. La lotta automobilistica tra Cesare Florio, che non ha altra aspirazione se non vincere il campionato del mondo di rally, e la tedesca Audi, superiore per risorse finanziare e materiale tecnico e umano. L’idea vincente di Florio è la creazione della Lancia 037, un modello centrale di grande potenza e due ruote motrici: una prova di forzacontro la casa d’automobili tedesca e contro il suo direttore sportivo, emblema di tecnica e precisione. Sarà necessario rispondere con quelle stesse armi. Durata 104 minuti. (Massaua, Ideal, Reposi sala 3, The Space Torino, Uci Lingotto, The Space Beinasco, Uci Moncalieri).

La sala professori – Drammatico. Regia di Ilker Çatak, con Leonie Benesch. Quando uno dei suoi studenti viene sospettato di furto, l’insegnante Carla Nowak decide di andare in fondo alla questione. Stretta tra i suoi ideali e il sistema scolastico, le conseguenze delle sue azioni minacciano di distruggerla. “La sala professori” è stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani con la seguente motivazione: “Nel microcosmo di una scuola tedesca “a tolleranza zero”, il regista mostra come la democrazia, nell’illusorio tentativo di risolvere un banale caso, finisca con lo stravolgere privacy, libertà, dignità delle persone e soprattutto la ricerca della verità. Lo sguardo accusatorio di una webcam finisce col destabilizzare una situazione sotterraneamente già nervosa, mettendo in crisi indagini e relazioni, dove tutti, insegnanti, studenti e genitori, escono sconfitti. Durata 90 minuti. (Eliseo, Romano)

La terra promessa – Drammatico. Regia di Nikolaj Arcel, con Mads Mikkelsen e Amanda Collin. 1775, Il capitano Ludvig von Kahlen, dopo aver combattuto per molti anni nell’esercito, una volta in congedo dopo la fine della guerra, decide di realizzare un progetto che sembra una pura e semplice utopia. L’idea è quella di rendere coltivabile la brulla e arida brughiera che copre una vasta area del Paese. Gli viene concessa la possibilità solo perché non chiede finanziamenti immediati ma solo un titolo nobiliare e dei diritti di proprietà qualora l’impresa avesse buon esito. Non sa che ad attenderlo c’è un nobile latifondista privo di qualsiasi senso morale che si ritiene, senza averne alcun diritto, proprietario del terreno. Durata 120 minuti. (Classico)

The Holdovers – Commedia drammatica. Regia di Alexander Payne, con Paul Giamatti, Dominic Sessa e Da’Vine Joy Randolph. Natale 1970. Un solitario quanto bisbetico insegnante di una scuola del New England è costretto a rimanere nell’istituto, durante le vacanze natalizie, con uno studente la cui madre ha deciso all’ultimo di partire per le vacanze con il suo nuovo marito e con la capocuoca che ha perso da poco tempo il figlio, caduto in Vietnam. I primi tempi di convivenza sono tutt’altro che facili; ma a poco a poco, affrontando sentimenti e dolori, ricordi del passato fino a quell’istante messi da parte, i tre sapranno riconciliarsi con le proprie esistenze. Oscar migliore attrice non protagonista, meritatissimo, a Da’Vine Joy Randolph. Durata 90 minuti. (Greenwich Village sala 1)

Un altro ferragosto – Commedia. Regia di Paolo Virzì, con Silvio Orlando, Sabrina Ferilli, Christian De Sica, Laura Morante e Vinicio Marchioni. In una sera d’agosto del 1996, nella casa di Ventotene dove il giornalista Sandro Molino trascorreva le vacanze, la sua compagna Cecilia gli rivelò di essere incinta. Oggi Altiero Molino è un ventiseienne imprenditore digitale e torna a Ventotene col marito fotomodello per radunare i vecchi amici intorno al padre malato, per regalargli un’ultima vacanza in quel luogo per lui così caro. Non si aspettava di trovare l’isola in fermento per il matrimonio di Sabry Mazzalupi con il suo fidanzato Cesare: la ragazzina goffa figlia del bottegaio romano Ruggero, è diventata una celebrità del web e le sue nozze sono un evento mondano che attira i media e anche misteriosi emissari del nuovo potere politico. Due tribù di villeggianti, due Italie apparentemente inconciliabili, destinate ad incontrarsi di nuovo a Ferragosto, per una sfida stavolta definitiva. Durata 115 minuti. (Massaua, Ideal, Reposi, The Space Torino, Uci Lingotto, The Space Beinasco, Uci Moncalieri)

La zona d’interesse – Drammatico. Regia di Jonathan Glazer, con Christian Friedel e Sandra Hüller. Una casa confortevole, un ampio giardino in cui invitare gli amici per un rinfresco, i bambini a cui accudire, i pettegolezzi con le amiche, le gite al lago: ma anche un alto muro grigio che divide quella confortevole casa e quella famiglia dal campo di concentramento di Auschwitz. Lui e lei sono Rudolf Höss e la moglie, lui integerrimo impiegato di stato, pronto a fare carriera, anche a lasciare il campo se qualcuno dall’alto glielo richiede; lei che segue più dappresso la vita di casalinga, di padrona di casa, per nulla d’accordo se dall’alto arrivano ordini simili. Una lunga quotidianità che accompagna indifferente quella normalità del male che in modo tranquillo si viene a instaurare tra le stanze, tra le persone, tra quegli esseri che continuano a considerarsi umani. Le aiuole dei fiori, la piscina, l’allegria e la spensieratezza in contrapposizione al limitare dello spazio, alle ciminiere che spuntano verso l’alto, il puzzo che incredibile inonda ogni cosa, le ceneri che sono utili a concimare l’orto di casa. Film crudo e crudele ma necessario, avverso a certi rigurgiti dell’oggi, un documento “rappresentato” dal regista, una ricchezza di fotografia, le grandi interpretazioni degli attori principali. Oscar come miglior film straniero. Durata 105 minuti. (Ambrosio sala 1, Centrale anche V.O., Due Giardini sala Nirvana, Fratelli Marx sala Harpo e sala Chico, The Space Torino, Uci Lingotto, The Space Beinasco, Uci Moncalieri)