CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 9

“Scrittorincittà” a Cuneo

Ritorna, nel capoluogo della “Granda” e per la sua 27^ edizione, la rassegna dedicata alla promozione “in toto” della lettura

Dal 12 al 16 novembre

Cuneo

Tema di quest’anno, pensato e realizzato con raffinata intelligenza, “CERCHI”Cinque giorni (da mercoledì 12 a domenica 16 novembre) e oltre 200 ospiti in programma. Organizzato dall’Assessorato alla Cultura del “Comune di Cuneo” e dalla locale “Biblioteca Civica” – in collaborazione con la “Provincia di Cuneo” e la “Regione Piemonte” – da ormai 27 anni “Scrittorincittà” è sicuramente, e non solo in Piemonte, uno degli appuntamenti culturali più attesi, tappa conclusiva di una “promozione della lettura che si sviluppa durante l’intero arco dell’anno, coinvolgendo scuole, associazioni e cittadini in un dialogo continuo con i libri e con le idee”. Dalla poesia, alla saggistica, dalla narrativa al racconto, il Festival rappresenta per il grande pubblico l’occasione per incontrare, e con essi dialogare, gli autori più amati, italiani e non, in una sorta di grande “Cerchio”, tema e manifesto realizzato dall’illustratrice milanese Francesca Gastone“perché come esseri umani– spiega la Gastone –  abbiamo bisogno di stare in ‘cerchio’, di ritrovarci … di sentirsi parte di una civiltà, ognuno col proprio posto e senza esclusioni”. E proprio per questa ragione, ogni anno, una particolare attenzione viene dedicata ai bambini e ai ragazzi e che, quest’anno, vedrà più di 20 incontri dedicati alle famiglie e ben 100 per le scuole. A cura di Stefania ChiaveroMatteo CorradiniRaffaele RibaGiorgio Scianna e Andrea Valente, il programma (con incontri sparsi in tutta la città) prenderà il volo, mercoledì 12 novembre e vedrà in contemporanea, a partire dalle 17,30, diversi incontri incentrati sui più vari argomenti trattati in forma letteraria e narrativa. Oltre 200 gli ospiti, si diceva. Per consultare il programma completo e per eventuali prenotazioni, è dunque giocoforza rimandarvi al sito: www.scrittorincittà.it.

Presenza, di certo, fra quelle più attese e di maggior richiamo, quella che si terrà proprio in chiusura della prima giornata, con Roberto Saviano, che, a partire dal suo ultimo libro “L’amore mio non muore”, terrà una lectio inedita preparata appositamente per il pubblico di “Scrittorincità”. Quattordici gli appuntamenti di giovedì 13 novembre. Da segnalare, nel tardo pomeriggio, quello celebrativo del 250° anniversario della nascita di Jane Austen, fra le autrici più amate di sempre, cui il Festival dedica un incontro fra Carolina Capria, autrice del libro “Per sempre tua. La vita, le battaglie e l’universo di Jane Austen” e Chiara Codecà, che ha riunito in un unico volume alcune delle citazioni più argute e profonde tratte dai romanzi dell’autrice inglese. Nel pomeriggio di venerdì 14, è atteso a Cuneo l’arrivo dei primi autori internazionali: dal romeno Costica Bradatan impegnato a raccontare il filo che unisce attraverso i secoli figure come Socrate e Thomas More, Ipazia e Giordano Bruno, il monaco vietnamita Thích Quang Đúc e il filosofo ceco Jan Patočka, ognuno di loro disposto a morire per difendere le proprie idee e la giornalista olandese Judith Koelemeijer, che ha trasformato in un “racconto biografico” i suoi studi sulla storia di Esther “Etty” Hillesum, scrittrice olandese di fede ebraica uccisa ad Auschwitz, colmando così un vuoto durato più di ottant’anni.

Ancora scrittori stranieri, sabato 15 novembre: dall’americana Elizabeth George, il cui romanzo “Assassinio in Cornovaglia” vede nuovamente protagonista l’ispettore Thomas Lynley alla scrittrice britannica Joanne Harris, autrice di “Chocolat”, da cui è tratto il noto film, e che a Cuneo presenterà il “prequel”“L’apprendista del cioccolato”, fino allo spagnolo Fernando Aramburu, già vincitore nel 2018 del “Premio Strega Europeo” e che in Italia ha recentemente vinto il riconoscimento per autori internazionali “Premio Malaparte”. Due incontri da non perdere, fra i tanti, di domenica 16 novembre: nell’insolita veste di scrittore Enzo Iacchetti, che, in “25 minuti di felicità”, racconta con ironia la sua vita d’artista, dagli inizi al “Derby” fino alla televisione, restituendo il ritratto di un uomo che non smette di cercare allegria e giustizia. Imperdibile, infine, l’incontro con Don Luigi Ciotti, che, nel suo appello “Lettera sul razzismo agli adulti di domani”, si rivolge direttamente ai giovani, parlando loro di empatia e cittadinanza, opponendo accoglienza alla paura del diverso. Da segnalare anche alcuni interessanti eventi dedicati, per l’occasione, alla “Città di Cuneo”. Uno, in particolare, mi piace segnalare: la presentazione, domenica 16, alle 10,30, di “Rendiconti Cuneo 2025” (Nerosubianco), curato dalla “Biblioteca Civica”. Domanda in premessa: “Chi lo dice che Cuneo è una ‘città morta? Che non succede mai nulla?”. A smentirlo appieno, questo almanacco cuneese che sorprende, stupisce, talvolta incanta. Un altro modo, inedito, di guardare la città.

Per riscoprirla. Stefania Chiavero, Dora Damiano, Piero Dadone, Fabio Daziano e Roberto Martelli intervistano i protagonisti di tante esperienze che, insieme, raccontano un anno, tutt’altro che “vuoto” della città.

Per info e programma completo: Comune di Cuneo, tel. 0171/1444823 o www.scrittorincittà.it

g.m.

Nelle foto: Francesca Gastone “Manifesto” Festival; Roberto Saviano copy Pasqualini, Musacchio, Fucilla MUSA; Enzo Iacchetti copy Giuliano Plorutti; Don Luigi Ciotti

Una lotta privata e quella di un intero paese, per una eccellente opera prima

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Sugli schermi “Anemone” di Ronan Day-Lewis

PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione

Un attore immenso come Daniel Day-Lewis, di dura scuola britannica, che ha navigato tra teatro e cinema soprattutto, tre Oscar all’attivo più altrettante candidature, Golden Globe e Bafta a mitraglia, deciso otto anni fa a ritirarsi dallo schermo dopo la prova del “Filo nascosto” – lo aveva già fatto dopo l’insuccesso di “The Boxer”, quando si rifugiò a Firenze e si fece assumere come apprendista calzolaio, lasciando che poi fosse Scorsese a resuscitarlo come il “macellaio” Cutting in “Gangs of New York” -, torna ora tenacemente e meravigliosamente in pista per scrivere con il figlio Ronan la sceneggiatura e farsi protagonista di “Anemone”. Ronan, che ha radici ben salde nella scrittura e nel cinema, la mamma essendo Rebecca Miller regista e il nonno Arthur commediografo e la nonna quella Inge Morath, fotografa, che gli ha trasmesso la passione per la pittura e per l’immagine: e sarebbe sufficiente la bellezza della fotografia, tra interni rischiarati dal fuoco e dalle poche lampade e i paesaggi sconfinati, dipinti tra il rosso di un tramonto e il raggrupparsi grigiastro che precede una grandinata salvifica e un temporale, di Ben Fordesman, doverosamente presente nel cast e artefice di un lavoro a cui il regista non può non aver partecipato (certe macchie di boscaglia riprese dall’alto).

Tutto accade a Sheffield e nei luoghi poco lontani, il taciturno Jem vive con Nessa e con il figlio di lei, Brian, un giovanissimo irrequieto e solitario, che al momento buono sa menar le mani, che porta in sé chissà quali segreti (ha appena reso malconcio un ragazzo, quelle nocche sbucciate gliele vedremo per tutti i 120 minuti). Perché Ronan Day-Lewis inizia a raccontare la sua storia e la dilata oltre misura (certe opere prime che hanno la smania di voler dire tutto e subito), dando in gran bella veste cenni e brandelli di fatti e di ricordi allo spettatore, in un montaggio altrettanto frastagliato e scomposto, un attimo incastrato nell’altro a distante e tempi lontanissimi, offrendo indizi e frasi smozzicate, riempiendola di scene di cui a un primo sguardo ti chiedi la necessità, silenzi continui e sguardi calibrati intrecciati che valgono più di mille parole: ma palpabilmente la affascina, quella storia. Jem, che ha soltanto con sé una moto e una antica parola d’ordine con due coordinate, è andato alla ricerca di Ray, suo fratello e padre del ragazzo, un recluso dal mondo, una casa in mezzo alla foreste, con i primi piani degli alberi e dei rami che s’intersecano, in un mare di verde e di ombre che è una bellezza. Faticoso il film, cupo, raggomitolato in se stesso, angoscioso, costruito a tratti su dialoghi che sanno troppo di tavolino e di scrittura, che a poco a poco si scopre nella descrizione di una amara vicenda, i rapporti cancellati tra padri e figli in cui una madre (Samanta Morton) vorrebbe porsi ad ago della bilancia, che da ristretta, familiare, particolare angoscia si prende spazio per espandersi a una intera nazione, una guerra, il dramma delle sommosse e gli attentati che leggemmo nei pub, le bandiere in fiamme, l’Ira e la lotta, i rastrellamenti e le prigioni: si procede nella curiosità, nella sicurezza sempre più forte delle capacità di un ragazzo che con “Anemone” entra nel mondo del cinema.

Ripetiamolo, non è di facile presa “Anemone”, è un percorso accidentato, un muoversi con lentezza e con circospezione, dall’una e dall’altra parte della barricata, ci si può anche inciampare, cadere in quelle tante simbologie – soprattutto nella seconda parte – di cui il film s’arricchisce ma lasciando ancora lo spettatore nel bisogno di decifrare (la tempesta di ghiaccio che s’abbatte sulla fragilità del fiore del titolo, il grande pesce che scende la corrente del fiume). Al comando di quasi ogni inquadratura c’è la prova potente di Daniel Day-Lewis (un altrettanto ottimo Sean Bean gli fa da spalla, principalmente muta e il giovane Samuel Bottomley è sicuramente una promessa), massiccio, sguardi e movimenti in pieno calibro, primi piani pronti a confessare tutto il passato e l’incertezza del presente, ancora silenzi e le zuffe e i balli, due monologhi che dovrebbero far scuola, che danno sempre maggior spessore al personaggio, che ne delineano le sofferenze e la lotta combattuta per poterle superare, la rivincita sul prete che parecchi anni prima ha abusato di lui e l’uccisione di un ragazzo nel pieno della lotta armata, in una qualche strada di una città. La guerra di un paese e i rapporti dentro una famiglia, quegli stessi temi che più di trent’anni fa Day-Lewis aveva già affrontato come Gerry Conlon in “Nel nome del padre” di Jim Sheridan, divenendo una degli attori più prestigiosi del cinema mondiale.

Memorial Egidio Forti: “In cil e jé une Stele”

Sabato 15 novembre prossimo, alle ore 21, si terrà al teatro della Provvidenza, in via Asinari di Bernezzo 34/A, un concerto dedicato ad un amico, dal titolo “In cil e jé une Stele”, quinta edizione del Memorial Egidio Forti.

Egidio Forti, Gigi per gli amici, fu direttore del coro Edelweiss di Torino per circa dieci anni, e di lui rimangono bellissimi ricordi e profonda stima in chi l’ha conosciuto e frequentato in amicizia sul lavoro e in ambito corale. Sarà l’eccellenza del coro Cai Uget, giunto quest’anno alla soglia dei suoi ottant’anni di attività, ad avere il piacere di esibirei.

Ingresso a offerta libera – prenotazione  obbligatoria – telefono: 353 3928235 – whatsapp: 340 9941201

Mara Martellotta

Al teatro Astra lo spettacolo che si ispira al vampiro di Bram Stoker

Con Dracula, lo spettacolo che si ispira al vampiro di Bram Stoker, si inaugura martedì 11 novembre alle ore 21 la stagione del Teatro Astra TPE di Torino. Il direttore artistico Andrea De Rosa ha voluto dedicare alle persone che si trovano ad affrontare esperienze estreme questa prima pièce teatrale, tale da farle diventare dei mostri.
“Il mostro è l’essere – secondo Andrea De Rosa – che a qualsiasi prezzo rifiuta la morte. Mostruoso è il desiderio di prolungare la vita oltre ogni limite”.
Il Conte Dracula non è più da tempo un personaggio nato dalle fantasie popolari e dalla penna di Bram Stoker. È un vero e proprio mito dell’età moderna, diventata simbolo di un’immortalità vissuta come una condanna. La sua vicenda, elaborata in una nuova versione da Fabrizio Sinisi, evoca il sogno contemporaneo di un corpo che potrebbe diventare immortale tramite i progressi della tecnologia; mentre il Vampiro, eterno e solo, ricerca una via di fuga dalla propria natura, gli altri personaggi lottano per affermare il valore della mortalità. È davvero un dono vivere per sempre o è invece una maledizione? La nuova produzione del TPE è liberamente ispirata al celebre romanzo di Bram Stoker, e prende vita grazie al testo di Fabrizio Sinisi e alla visione registica di Andrea De Rosa. Sul palco Michelangelo Dalisi, Marco Cacciola, Marco Divsic, Michele Eburnea, Chiara Ferrara e Federica Rosellini, che danno corpo a questa complessa riscrittura del mito. L’allestimento scenico è stato curato dallo stesso De Rosa, in collaborazione con Luca Giovagnoli, le luci sono di Pasquale Mari e il suono di G.U.P. Alcaro. I costumi sono firmato da Graziella Pepe, e Marco Corsucci all’assistenza di regia.
La messa in scena di Dracula ha inizio martedì 11 novembre, alle ore 21, e durerà fino al 30 novembre. Sicuramente una lunga vita sul palcoscenico torinese per questo romanzo che ha un intenso passato teatrale. Furono la mogli di Stoker e l’amico Hamilton Deane a immaginare, a partire dal romanzo, una rappresentazione scenica che mantenesse l’alone di mistero e la forza orrorifica, è al teatro che si deve il mantello di seta nera, ed è dal palcoscenico che emerge la figura di Bela Lugosi, l’attore ungherese protagonista del primo spettacolo su Dracula.
Gli spettatori saranno accolti in un teatro Astra del tutto rinnovato: la particolarissima scelta registica di Andrea De Rosa prevede un ampliamento e un ripensamento dello spazio scenico, che lo porterà ad occupare spazi inusuali, inducendo gli spettatori a guardare lo spettacolo con un nuovo sguardo, e a farsi guidare dalle voci e dai suoni per rintracciarne la fonte misteriosa.

“Nel romanzo di Bram Stoker -afferma De Rosa – il male prende forma nel personaggio di Dracula, che viene definito Nosferatu, il non morto. Il Vampiro è l’incarnazione di un corpo che non può morire, ma che non riesce neanche a vivere davvero, perché per mantenersi in vita è costretto a nutrirsi del sangue di altre creature, condannando le sue vittime a una sorta simile alla sua. Credo che il grande successo di questo mito leggendario moderno dipenda dal fatto che riusciamo a ritrovare quel desiderio universale di sfuggire alla morte che ci accompagna, rivelandone il lato mostruoso: vivere per sempre significa portare con sé il peso di una solitudine eterna. Dracula è la storia di un uomo che non riesce a morire, e di un pubblico che accetta di guardare negli occhi questo suo desiderio mostruoso, cosiccome il Conte Dracula non è solo un personaggio letterario, ma un vero e proprio archetipo della nostra modernità, e anche il suo castello è diventato un luogo che appartiene al mito. La dimora del Vampiro è un teatro di apparizioni ed epifanie, un luogo onirico dove le leggi dello spazio-tempo vengono sovvertite. Il castello di Dracula è il luogo di uno sprofondamento, di un deragliamento del pensiero e del sogno. Per questo motivo abbiamo trasformato in modo radicale la normale struttura del teatro Astra, facendone uno spazio evocativo e misterioso, livido e asettico, un grande altare spettrale dove si svolge un rito antico e, contemporaneamente, moderno”.
“Perché Dracula è un mostro ?– si chiede Fabrizio Sinisi – non solo perché si nutre del sangue delle sue vittime, ma perché è mostruoso il dono che porta: un’eternità che pesa come una condanna, un tempo estenuante e interminabile, un forte desiderio di non morire che diventa quasi negazione della vita stessa. Dracula è un mostro, in quanto simile al Dioniso de ‘Le Baccanti’ o al ‘Mefistofele’, perché introduce nel mondo umano qualcosa di estraneo, affascinante, prodigioso e terribile, che ci spaventa, ma che non può fare a meno di attrarci”.

I suoni sono ferrosi, ruvidi e lividi, espressioni di una prigione dell’anima e di un battito pulsante che squarcia le vene, e che finalmente apre un varco alla luce per un attimo, per sempre. I costumi di Dracula raccontano invece una figura che attraversa epoche, contamina luoghi, sospesa tra la vita e la morte, come una malattia che non guarisce. Intorno a lui ogni personaggio è bloccato nel proprio presente, prigioniero di un tempo immobile. Gli abiti evocano eleganza e inquietudine, tracciando il segno di questa dannazione eterna.

TPE Teatro Astra – via Rosolino Pilo 6, Torino

Info e biglietti: disponibili su tpeteatroastra.it

Mara Martellotta

In scena al Gobetti la pièce “Anna Cappelli” dell’autore napoletano Annibale Ruccello

Debutto martedì 11 novembre, alle ore 19.30, presso il teatro Gobetti, della pièce teatrale “Anna Cappelli” di Annibale Ruccello, diretta dal drammaturgo e regista argentino Claudio Tolcachir, interpretato da Valentina Picello, recentemente insignita del premio ANCT -Associazione Nazionale dei Critici di Teatro. La scenografia è di Cosimo Ferrigolo, le luci di Fabio Bozzetta. Lo spettacolo, co-prodotto da Carnezzeria, Teatro di Bari e Teatro di Roma, Teatro Nazionale in collaborazione con AMAT & Teatri di Pesaro per RAM Residenze Artistiche Marchigiane, resterà in scena al Gobetti fino a domenica 16 novembre prossimo. Al centro del testo di Ruccello, che il regista argentino Claudio Tolcachir non aveva conosceva prima, cosiccome le precedenti interpretazioni italiane di Anna Marchesini o di Maria Paiato, vi è la protagonista femminile Anna, giovane impiegata, oppressa dalla famiglia e dalla padrona di casa, una giovane che tenta con tutte le sue forze di emanciparsi per costruire la vita che ha sempre desiderato. Cruciale nel suo percorso è l’incontro con l’ingegnere Tonino Scarpa, che le propone una convivenza a due condizioni: no al matrimonio e ai figli. Nonostante l’offerta di Tonino non rispecchi del tutto i sogni di Anna, lei accetta, e i successivi tentativi della donna di autodeterminarsi si trasformeranno presto in ossessione, fino ad approdare a un tragico epilogo.

“Si tratta di un testo che si interroga sul ruolo della donna nel tempo – dichiara Claudio Tolcachir – l’indipendenza, la prospettiva di futuro e la solitudine, la mancanza di mezzi e risorse emergono con un umorismo pungente e assurdo all’interno della pièce, che ci conduce attraverso i labirinti della mente di un personaggio inconsueto e pieno di contraddizioni, commovente e imbarazzante al tempo stesso. Ognuno di noi potrebbe incrociarla nella propria vita, ma potremmo anche sentirci come lei, così impotenti da prendere le decisioni peggiori. La pièce teatrale è un gioiello sul corpo di un’attrice unica, Valentina. La sua sensibilità, la sua immaginazione, l’infinita delicatezza del suo humour danno a questo testo un’impronta unica e fresca. Una proposta molto netta: questa donna, il pubblico e la vita in mezzo a loro, lo humour e la tragedia mischiati, quel sorriso doloroso che attraversa gli spettatori e non li lascia mai indifferenti”.
Annibale Ruccello, scomparso nel 1986, a trent’anni, è oggi un autore di culto, dalla voce lirica e beffarda. Arrivato dalla scuola di Roberto De Simone, rappresenta la punta di diamante della drammaturgia napoletana accanto a Enzo Boscato e Manlio Santanelli. Attraverso i suoi testi ha raccontato la deriva della nostra società servendosi di una scrittura oscillante tra la verità del dialetto e la parodia, intrecciando echi storici con il quotidiano. “Anna Cappelli” si può considerare come una black comedy tra ossessione e solitudine.

Teatro Gobetti – via Rossini 8, Torino

11 – 16 novembre “Anna Cappelli”

Orario: martedì, giovedì, sabato ore 19.30 / mercoledì, venerdì ore 20.45 /dedicata ore 16

Biglietteria: teatro Carignano, piazza Carignano 6, Torino – 011 5169555 – biglietteria@teatrostabiletorino.it

Mara Martellotta

Rock Jazz e dintorni a Torino: Edoardo Bennato e Richard Galliano

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GLI APPUNTAMENTI MUSICALI DELLA SETTIMANA

Lunedì. Al Lambic suona il fisarmonicista Richard Galliano. Al Teatro Alfieri arriva Edoardo Bennato.

Mercoledì. Al teatro Colosseo si esibisce Filippo Graziani. All’Off Topic è di scena il trio Fonema- Garau- Giachino. All’Hiroshima Mon Amour suonano i Mùm.

Giovedì. All’Hiroshima sono di scena gli Studio Murena. Al Magazzino sul Po si esibiscono gli Aldways + Dirty Noise. Al Blah Blah suonano i Fvzz Popvli + Giulia.

Venerdì . Al teatro Colosseo si esibiscono i 40 Fingers. All’Off Topic è di scena Anna And Vulkan. Al Magazzino sul Po suonano gli Earth Ball + Shizune. All’Hiroshima si esibiscono i Sarafine. Al Cap 10100 sono di scena Generic Animal and Devin YU. Al Circolino suonano gli After Dark Experience. Al Blah Blah si esibiscono I Monaci del Surf.

Sabato. Allo Spazio 211 è di scena Mille. Al Blah Blah suonano gli Scream 3 Days + Deathox.

Domenica. Alla Divina Commedia si esibiscono i Girinsoliti. Al Blah Blah suona Bob Wayne special guest Munly J Munly.

Pier Luigi Fuggetta

A Torre Pellice “Una Torre di libri”

Il festival letterario “Una Torre di libri” torna a novembre e dicembre a Torre Pellice con nuovi appuntamenti “fuori stagione”. Si parte venerdì 14 novembre alle 21 con la presentazione di “Ed ecco, io vi manderò il diluvio” di Stefano Fenoglio, in dialogo con Marco Baltieri e il pastore Davide Rostan. Il secondo appuntamento è in programma sabato 22 novembre alle 17, quando Monica Cristina Gallo presenterà “18 + 1. Diciotto anni e un giorno” insieme a Claudio Foti. Venerdì 28 novembre alle 21 sarà lo stesso Claudio Foti a parlare del suo libro “Sopravvissuto. Il dramma di Bibbiano”, dialogando con Lorenzo Tibaldo. Sabato 29 novembre alle 17 Egon Botteghi presenterà invece “Storie di genitori trans*”, in un confronto con l’avvocata Sara Moiso. “Una Torre di Libri – Fuori Stagione” proseguirà venerdì 5 dicembre alle 21 con “La libertà è un organismo vivente” di Beppe Battaglia, a confronto con Andrea Bouchard e con il pastore Ciccio Sciotto. Venerdì 12 dicembre alle 21 sarà la volta del volume “Donne e religioni in Italia” di Alessia Passarelli ed Elisabetta Ribet. Infine, sabato 13 dicembre alle 17 verrà presentato “La traccia di Toni” di Gian Luca Gasca, in dialogo con Roberto Rigano.

Promossa dal Comune di Torre Pellice e patrocinata dalla Città metropolitana di Torino, la rassegna è stata realizzata in collaborazione con gli organizzatori dell’edizione estiva di “Una Torre di Libri” e con diverse associazioni locali. Tutti gli appuntamenti sono ad ingresso gratuito e si svolgeranno nella Civica Galleria Filippo Scroppo di via via Roberto d’Azeglio 10.

La generazione Z, ultima anche dell’alfabeto

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni

Pier Franco Quaglieni

La generazione Z forse è una delle tante semplificazioni sociologiche volte a creare categorie di persone. Io ho sempre diffidato dalla sociologia ,ma in effetti  la generazione Z esplosa quest’anno nelle manifestazioni pro Pal non è una semplice catalogazione sociologica. Ha riempito le piazze italiane e ha occupato le università, lasciandosi andare anche al vandalismo . L’episodio di uno studente torinese che ha puntato una pistola (per fortuna giocattolo, ma del tutto simile al vero) contro un suo docente, lascia un po’ sbigottiti anche se le generalizzazioni sono sempre sbagliate e non basta un caso per creare un fenomeno. La generazione Z sarebbe  la generazione dei nati a partire dagli ultimi anni ‘90, quelli  che invece del biberon hanno convissuto con i pc e gli Smartphone. In parte può essere una definizione temporale vera, ma in parte i tanti difetti che ho voluto elencare, raccogliendo esempi attinti negli ambiti più disparati,  a ben vedere, appartengono anche ad altre generazioni, compresa, almeno in parte , anche alla mia .I giovani della generazione Z – è stato scritto autorevolmente  –  a scuola- quando l’hanno frequentata – hanno scelto studi tecnici e scientifici, schifando quelli classici. Il Latino e il Greco sono supplizi arcaici e inutili a loro modo di vedere da evitare. A scuola – va detto a loro parziale discolpa – hanno avuto professori più simili a profumieri o profughi, come diceva nei momenti di ironica  sincerità il vecchio Bruno Segre. Prof. imbevuti dei peggiori cascami settantottini, iscritti al Cobas della Scuola, sempre pronti a scioperare. Erano così distanti dalla funzione docente da parlare  solo sempre sempre di salario. Non potevano capire cosa dovesse essere un professore e infatti hanno impersonificato  i nuovi travet in jeans e giacca a vento. Fare una lezione degna di questo nome era un obiettivo impossibile. I loro allievi della generazione Z  non sanno cosa sia una cravatta o un abito completo o anche solo una giacca  o un paio di  scarpe in pelle. Hanno una divisa h 24 fatta di vestiti a volte anche sbrindellati che loro considerano i migliori.

Si presentano agli esami universitari scamiciati, come per altro ,fanno tanti loro professori. Non leggono giornali, al massimo sfogliano “ Il fatto“ e snobbano la Tv, anche se amano Crozza e la Litizzetto. Non leggono neppure libri e non sanno cosa sia una biblioteca o tentare di costituirne una personale. Non sanno neppure chi siano i grandi Classici. Di fronte ad un terzina dantesca si troverebbero in serio imbarazzo, anche potendo usufruire di note. Quando scrivono, i periodi formati di soggetto, verbo, complementi sono un retaggio del passato. La sintassi del periodo è cosa del tutto sconosciuta.  Quando ascoltano un discorso fatto da altri che non siano  i loro coetanei, stentano a capire il senso del discorso. Se leggono un testo che non sia la cronaca di una partita di calcio, si arenano dopo poche righe. Tendono a dare del tu a tutti indiscriminatamente ,non rispettano i titoli accademici degli altri, ritengono che uno sia uguale ad uno. Infatti sovente votano grillino. Vedono in Appendino la loro leader maxima. Vogliono ridurre o, meglio, annullare le disuguaglianze perché questo è  l’unico modo che hanno per far  carriera, demolendo quella degli altri. Da ambientalisti doc amano la decrescita felice delle città, vanno in bici e pretendono, quando sono in sella, la precedenza assoluta. Amano tantissimo anche i monopattini su cui vanno senza fare uso del casco. Ritengono la cultura un inutile retaggio del passato e vivono solo nel presente. Sono aridi, totalmente privi di ideali, forse anche abbastanza cinici.

Il pc è come una protesi del loro cervello che, di norma, ha dimensioni minime. Stranamente del passato si ricordano solo del fascismo e credono che esso sia vivo e vegeto anche oggi. Lo combattono a colpi di slogan in cui confondono la Resistenza italiana con il 7 ottobre del massacro degli israeliani, sono totalmente privi di senso della storia, mancano di coordinate culturali, anche le più elementari. Se, per assurdo, dovessero ripetere ciò che fecero i partigiani, si rivelerebbero totalmente privi di coraggio. La Patria per loro è un’idea truffaldina. Sanno a memoria solo l’inizio dell’articolo 11 della Costituzione che recitano come una giaculatoria laica .Hanno invidia nei confronti di chi ha fatto una qualche carriera, disprezzano gli anziani verso cui manifestano un’evidente e cinica ingratitudine. Non amano visitare gli ammalati, anche se sono loro parenti. La religione per loro è un orpello del passato (al massimo sono filo islamici), non vanno neppure al cimitero a visitare i nonni della cui benevolenza pure  hanno goduto in modo smisurato.  L’inverno demografico  è in prevalenza causa loro perché considerano il matrimonio un qualcosa di arcaico, mentre vedono l’omosessualità una delle cose più naturali e vedono nella fluidità sessuale un diritto civile. Il loro femminismo è totale e assoluto almeno a parole.

Poi nella vita privata ognuno si regolerà come vuole. Questa generazione lascerà ai posteri le macerie di un nichilismo neppure consapevole che li ha resi vecchi prima ancora di invecchiare. Non pensano a mettere su famiglia, ma gigioneggiano con l’auto di papà, quando il monopattino non basta. Ovviamente non hanno mai pensato ad associarsi ad un‘associazione culturale che forse  ritengono l’anticamera dell‘obitorio. In fondo non sanno neppure mangiare in modo adeguato .Sono quasi sempre vegani intransigenti  e intolleranti e sono la causa inconsapevole  del declassamento della cucina e dei ristoranti perché a loro piace solo il panino imbottito all’amerikana, ovviamente quello prediletto dal nuovo sindaco di New York. Hanno un‘idea della droga molto edulcorata ed a volte ricorrono ad essa  per trovare delle emozioni.  Cosa verrà fuori da questa generazione Z ? Forse la fine del mondo o almeno un secondo diluvio universale. Forse continuerà all’infinito il grigiore del nuovo millennio in attesa di una terza guerra mondiale. Le “magnifiche sorti e progressive “ sono con loro comunque  davvero finite.

“Bianco al Femminile”. In mostra sei secoli di autentici capolavori tessili

Appartenenti alle Collezioni di “Palazzo Madama”

Fino al 2 febbraio 2026

Occasione contingente, il riallestimento della “Sala Tessuti”. Da questa pratica incombenza, nasce una mostra di notevole valore culturale, storico e didattico che racconta, attraverso sei secoli di altissima arte tessile una storia che passa per ricami minuti e intricati e preziosi merletti, arrivando al più iconico degli abiti femminili di colore bianco, il colore naturale della seta e del lino: l’abito da sposa. Si presenta così la mostra dal titolo (non per nulla) di “Bianco al Femminile” curata da Paola Ruffino e allestita nella “Sala Tessuti” di “Palazzo Madama” fino a lunedì 2 febbraio 2026. In rassegna, trovano adeguato spazio cinquanta manufatti tessili, appartenenti alle Collezioni del Palazzo che fu “Casa dei secoli” per Guido Gozzano, di cui sei restaurati per questa precisa occasione e quattordici esposti per la prima volta: autentici capolavori nati dal sorprendente lavoro (più che artigianale) passato, per tradizioni secolari, attraverso “mani femminili” che hanno operato con minuta diligenza sul “ricamo in lino medievale”, così come sulla lavorazione dei “merletti ad ago” o “a fuselli” o ancora sul “ricamo in bianco su bianco”. Donne artigiane, donne artiste, donne “autrici, creatrici, nonché raffinate fruitrici e committenti di tessuti e accessori di moda”. Comune fil rouge, per tutte, il colore bianco, colore “in stretta connessione, materiale e simbolica, proprio con la donna”. E che trova il suo massimo apice in Francia e in Europa, sul finire del XVIII secolo, complice il fascino esercitato dalla statuaria greca e romana su una moda che guarda, affascinata non poco, all’antico. “Le giovani – si legge in nota – adottano semplici abiti ‘en-chemise’, trattenuti in vita da una fusciacca; il modello del ‘cingulum’ delle donne romane sposate, portato alto sotto al seno, dà avvio ad una moda che durerà per trent’anni. I tessuti preferiti sono mussole di cotone, garze di seta, rasi leggeri, bianchi o a disegni minuti, come le porcellane dei servizi da tè”.

Dal XIV – XV secolo fino al Novecento (dietro l’angolo) l’iter espositivo prende avvio dai primi “ricami dei monasteri femminili”, in particolare di area tedesca e della regione del lago di Costanza (lavorati su tela di lino naturale e poi diffusisi, per la povertà dei materiali e per la facilità di esecuzione, anche in ambito domestico – laico, per la decorazione di tovaglie e cuscini) per poi passare a documentare la lavorazione del “merletto” nell’Europa del XVI e XVII secolo che vide protagonisti i lini bianchissimi e la straordinaria abilità delle “merlettaie veneziane e fiamminghe”. In rassegna una scelta di bordi e accessori in pizzo italiani e belgi illustra gli eccezionali risultati decorativi di quest’arte “esclusivamente femminile”, che nel Settecento superò gli stretti confini della casa o del convento e si organizzò in “manifatture”. E proprio l’inizio della “produzione meccanizzata” causò, nel XIX secolo, la perdita di quell’insostituibile virtuosismo nell’arte manuale del “merletto”, che riemerse invece nel ricamo in filo bianco sulle sottili “tele batista” (in trama fatta con filati di titolo sottile) e sulle “mussole” dei “fazzoletti femminili”. Quattro splendidi esemplari illustrano l’alta raffinatezza raggiunta da questi accessori, decorati con un lavoro a ricamo che restò sempre un’attività soltanto al femminile, anche quando esercitata a livello professionale.

L’esposizione si conclude nel XX secolo con uno dei temi che più vedono uniti la donna e il colore bianco nella nostra tradizione, l’ “abito da sposa”, con un abito del 1970, corto, accompagnato non dal velo ma da una avveniristica cagoule (cappuccio), scelta non scontata “che ribadisce la forza e la persistenza del rapporto tra l’immagine della donna e il candore del bianco”.

La selezione di tessuti è accostata nell’allestimento a diverse “opere di arte applicata”, fra cui miniature, incisioni, porcellane e legature provenienti dalle Collezioni del “Museo”. 

In occasione del nuovo allestimento delle Collezioni Tessili, “Palazzo Madama” propone, inoltre, un laboratorio di cucitura in forma meditativa” a cura di Rita Hokai Piana nelle giornate di sabato 15 e 22 marzo, 5 12 aprile,  dalle ore 10 alle ore 13. Tutte le info su: www.palazzomadamatorino.it

Gianni Milani

“Bianco al Femminile”

Palazzo Madama – Museo Civico d’Arte Antica, piazza Castello, Torino; tel. 011/4433501 o www.palazzomadamatorino.it

Fino al 2 febbraio 2026

Orari: lun. e da merc. a dom. 10/18; mart. chiuso

 

Nelle foto: “Sala Tessuti” (Ph. Studio Gonella); Caracò, Italia 1750-60; Corpetto, Germania sud-occidentale, 1750-75