CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 8

L’Orchestra Filarmonica di Torino accende i riflettori su Officina

Il 14 novembre prossimo la rassegna di musica da camera “Officina”, nel corso della quale giovani musicisti di talento animano il palco di Cascina Roccafranca, prevede un nuovo concerto. L’Orchestra Filarmonica di Torino accende i riflettori su “Officina”, che rappresenta uno degli orizzonti più dinamici e sperimentali del suo percorso artistico. Nata come naturale del progetto OFT Lab, “Officina” si propone oggi non più come semplice laboratorio, ma come una sorta di crocevia creativo, in cui la musica diventa terreno di scambio tra generazioni, stili, repertori e linguaggi. In questo spazio, in continua trasformazione, giovani interpreti e compositori si incontrano per dar vita a otto appuntamenti che, da ottobre a dicembre, il venerdì, alternando concerti pomeridiani e serali, animeranno il palcoscenico di Cascina Roccafranca, in via Rubino 45, la casa del quartiere di Mirafiori Nord che ospita l’iniziativa. Il programma di “Officina” intreccia classico, contemporaneo e jazz, con un’attenzione particolare alla nuova musica. Ogni concerto include una prima assoluta, commissionata a otto compositori emergenti provenienti dal Conservatorio Giovan Battista Martini di Bologna. Il 14 novembre sarà protagonista, in collaborazione con il Conservatorio Verdi di Torino, il quartetto Ipazia, composto da Mei Harabe e Samuele Leo ai violini, Fiamma Kamenchtchik alla viola e Elena Cavecchi al violoncello. I giovani musicisti proporranno il Quartetto op.18 n.1 in fa maggiore di Beethoven, il Quartetto in mi minore per archi di Giuseppe Verdi e il brano “Washi no yaiba”, di William Succi, classe 1995, in prima esecuzione assoluta.

“’Washi no yaiba’, che si traduce come ‘lame di carta’, è un brano per quartetto d’archi ispirato alla leggerezza del Washi, la tradizionale carta giapponese – ha dichiarato William Succi – qui immaginata come una lama sottile e affilata. La scrittura agile è tagliente degli archi richiama il gesto rapido e controllato del taglio, intrecciandosi con sonorità e armonie della musica giapponese contemporanea”.

L’appuntamento successivo sarà il 21 novembre alle ore 21, con il violino di Giulia Dainese e il pianoforte di Giorgia De Lorenzi, che proporranno brani di Beethoven, Amy Beach e la nuova pagina di Filippo Paris.

Biglietti: ingresso unico 5 euro – acquistabili presso la biglietteria dell’OFT, in via XX Settembre 58, Torino – oppure via mail a biglietteria@oft.it – 011 533387

Mara Martellotta

OFF Topic, “La più grande tragedia dell’umanità”

Per Iperspazi, la stagione 2025-2026 di Fertili Terreni Teatro , presso Off Topic, mercoledì 19 e giovedi 20 novembre alle ore 21 andrà in scena “La più grande tragedia dell’umanità”, uno spettacolo produzione Malmadur e Evoè! Teatro con i performer David Angeli e Theresa Maria Schlichtherle. Si tratta di un gioco di ruolo teatrale, adatto ad un pubblico di età superiore ai 14 anni, o, se si preferisce chiamato a decidere ed indirizzare il corso del racconto, “La più grande tragedia dell’umanità”,  presenta un meccanismo tanto spiazzante quanto in apparenza articolato , un impianto performativo in cui il pubblico è chiamato a dover scegliere tra due tragedie. Quella che viene votata come più grande rimane in gioco, per poi confrontarsi subito dopo con una nuova tragedia, mentre l’altra viene scartata.
Si tratta di una struttura ad eliminazione diretta, come si direbbe nel gergo sportivo , dove per alcune votazioni possono avere diritto di voto solo gli spettatori che hanno  vissuto la tragedia esaminata, per altre possono averlo solo gli spettatori  che non l’hanno vissuta, per altre ancora solo un numero  limitato di presenti.
Le tragedie oggetto di analisi e votazione verteranno su vari casi, dalla perdita di un cellulare a un amore tradito, da un parente malato a un’epidemia, passando per un genocidio come per l’esplosione del sole, ovvero la morte di un uomo solo in un paese di provincia, e molto altro ancora.
Il progetto originario ruota intorno a due temi principali, la spettacolarizzazione del dolore che viviamo quotidianamente su media e social network e la rappresentabilità del tragico.
Le tragedie da votare sono di volta in volta  portate in scena attraverso linguaggi espressivi, dalla recitazione alla musica, dalle immagini video ai documenti storici. Il numero complessivo delle stesse, sia che interessino  eventi storici o piccoli fatti privati, grandi personaggi o gente sconosciuta, sarà sconosciuto agli spettatori. A seconda del momento saranno presentate in un ordine stabilito o estratte a sorte. Il comune denominatore è sempre il diretto coinvolgimento con il pubblico, il mostrare il legame più stretto tra media e dolore, tra il fatto e i filtri attraverso cui siamo abituati a guardarlo. ”La più grande tragedia dell’umanità” rappresenta un impianto in continua evoluzione, work in  progress teatrale pronto a mutare a seconda del luogo in cui viene messo in scena e del tempo che vivono gli spettatori. Essa ri-crea e ri-scrive la realtà attraverso concetti universali  come la tragedia e il dolore, ammettendo di uscire sconfitto  da un eventuale confronto con la società che spettacolarizza il dolore. All’interno di un meccanismo-gioco l’obiettivo finale è  quello di turbare le coscienze, elencando le tragedie del quotidiano, mettendolo l’una con l’altra in competizione fra loro, tra serio e faceto, azzardando l’impossibile paragone tra dolori.
Il biglietto unico intero ha il costo di 13 euro se acquistato online, di 15 euro in cassa la sera dell’evento.
Resta la possibilità di lasciare il biglietto sospeso , tramite donazione online o con satispay, e di entrare gratuitamente per alcuni under 35 grazie ai biglietti messi a disposizione attraverso la collaborazione di Torino Giovani.
I biglietti si possono acquistare online sul sito www.fertiliterreniteatro.com

Mara Martellotta

Musical a Corte a Stupinigi: Wicked Musical

La storia delle streghe di Oz rappresenta un trionfo di Broadway, con musiche e liriche di valore straordinario del veterano Stephen Schwartz, capaci di mescolare il pop contemporaneo alla teatralità classica.

Domenica 16 novembre alle ore 19 si terrà un musical a corte alla Palazzina di Caccia di Stupinigi, dal titolo Wicked Musical , basato sul romanzo di Gregory Maguire  che racconta gli eventi precedenti al classico “Il Mago di Oz”.
Brani iconici come Defying Gravity, con le sue potenti note acute che sfidano la gravità, proprio come il personaggio di Elphaba, e Popular, sciocca e ironica, riflettono perfettamente le personalità contrastanti delle protagoniste. Altri brani memorabili includono l’intenso duetto “For Good” e la complessa No Good Deed, che mostrano la profondità emotiva e la versatilità  vocale richieste dalle interpreti. La musica di Wiched non è solo un  accompagnamento della storia, ma un elemento narrativo essenziale capace di guidare lo spettatore attraverso la trasformazione dei personaggi, creando momenti di intensa drammaticità combinati a sequenze più  leggere e dando vita a un’esperienza teatrale e cinematografica indimenticabile.

Musical a Corte

Salone d’Onore della Palazzina di Caccia di Stupinigi

Nichelino (Torino)

Wicked Musical

Info 0116279789

biglietteria@teatrosuperga.it

Mara Martellotta

“Riccardo Ghilardi. Piano sequenza la Mole” alle Gallerie d’Italia

Intesa Sanpaolo apre al pubblico alle Gallerie d’Italia  di Torino dal 12 novembre al 1 marzo 2026 la mostra curata da Domenico De Gaetano  e intitolata “ Riccardo Ghilardi. Piano sequenza la Mole”

Realizzata dalla Banca insieme al Museo Nazionale del Cinema, uno dei più importanti al mondo per la molteplicità delle sue attività  e la ricchezza del suo patrimonio e lo spettacolare allestimento all’interno della Mole Antonelliana, l’esposizione vuole celebrare  i 25 anni del Museo Nazionale del Cinema e il connubio tra la magia del cinema e quella dell’architettura.
Nasce così il racconto fotografico creato da Riccardo Ghilardi e dal curatore Domenico De Gaetano, un racconto che, come un  lungo piano sequenza, racconta il cinema e la sua storia dall’origine ai giorni nostri, la Mole e le collezioni del Museo, coinvolgendo le maggiori personalità del cinema nazionale e internazionale.
Attori e registi hanno interpretato in chiave personale l’allestimento scenografico del Museo, compresi gli spazi non visibili al pubblico o quelli difficili, come l’esterno della grande cupola. Così  la Mole Antonelliana è stata trasformata in un grandioso set, un luogo dove il sogno può diventare realtà,  proprio come avviene nel cinema. Tanti gli artisti fotografati da Ghilardi, tra i quali figurano Mathieu Almaric, Artem, Bérénice Bejo, Monica Bellucci, Barbara Bourchet, Tim Burton, Matilda De Angelis, Tonino De Bernardi, Willem Defoe, Silvia d’Amico, Rupert Everett, Isabella Ferrari, Alessandro Gassmann, Giancarlo Giannini, Peter Greenway, Ron Howard, Luca Marinelli, Giovanna Mezzogiorno, Zoe Saldana, Greta Scarano, Martin Scorsese, Katia Smutniak, Kevin Spacey, Sharon Stone  e Carlo Verdone.
L’esposizione presenta 42 opere fotografiche realizzate da Riccardo Ghilardi. In sedici di queste sarà possibile accedere tramite Qr Code e l’App delle Gallerie d’Italia a contenuti multimediali esclusivi, clip di backstage dello scatto e dichiarazioni degli artisti coinvolti nel progetto.
Nelle didascalie tecniche di ogni opera sono indicati i materiali originali del patrimonio museale utilizzati durante la realizzazione delle fotografie, fatto che sottolinea il profondo legame tra il progetto artistico e le collezioni del Museo Nazionale del Cinema.

Molteplici sono i livelli di lettura delle fotografie poiché ogni protagonista ha vissuto l’avventura a proprio modo e ogni fotografia racchiude una storia diversa. Alcuni sono colti in momenti di vita quotidiana, come se la Mole fosse la loro abitazione, mentre sorseggiano un tè in vestaglia,  altri hanno voluto interpretare i sogni proibiti ballando sulla cupola, molti altri hanno curiosato tra le collezioni del Museo, leggendo sceneggiature o giocando con le lanterne magiche,  altri si sono concentrati sugli allestimenti del museo. Alcune fotografie sono chiari riferimenti a capolavori della storia del cinema, quali Mary Poppins, Roma Città Aperta, Arancia Meccanica e Scarpette Rosse, molte sembrano provenire da film ancora da girare. L’effetto finale è  quello di trovarsi di fronte a tanti fotogrammi di un unico film dedicato al cinema, a Torino, alla Mole Antonelliana.
Particolare rilievo è dato alla partecipazione di Giovanna Mezzogiorno che nel progetto veste i panni di Maria Adriana Prolo, fondatrice del Museo Nazionale del Cinema e presta la sua voce e la sua presenza come narratrice del documentario di backstage che sarà proiettato all’interno della mostra.
Un volume raccoglie l’intero progetto fotografico e narrativo, si intitola “Il Tempio del Cinema”, edito da Allemandi ed è curato da Carlo Chatrian, direttore del Museo Nazionale del Cinema, in occasione del venticinquesimo anniversario del Museo alla Mole Antonelliana,  una sorta di cerniera che unisce le due sezioni connesse e speculari che la compongono, la Mole Antonelliana e il Museo con le sue collezioni e la città che lo ospita.
Per tutto il periodo della mostra i visitatori potranno usufruire di una scontistica reciproca sui biglietti d’ingresso al Museo Nazionale del Cinema e alle Gallerie d’Italia. Con il biglietto del Museo Nazionale del Cinema si ha diritto al biglietto gratuito alla mostra alle Gallerie d’Italia, viceversa con il biglietto delle Gallerie d’Italia di Torino si ha diritto al biglietto ridotto al Museo Nazionale del Cinema.

Riccardo Ghilardi , nato a Roma nel 1971, ha partecipato a Roma alla mostra collettiva internazionale FotoLeggendo, presentando “Pensieri nel silenzio”, un reportage fotografico sulle esperienze di una squadra operativa dei vigili del fuoco nella quale lui stesso aveva prestato servizio per diversi anni. Il lavoro artistico del fotografo si estende al mondo del cinema a partire dal 2008 e, in occasione della III edizione della Festa Internazionale del Film di Roma, tenutasi all’Auditorium Parco della Musica di Roma, presenta “Lo sguardo non mente. Tutta la verità in 1/125 di secondo attraverso gli occhi del cinema italiano”. Ha partecipato anche alla Biennale del Cinema di Venezia, a Ca Zanardi, quale evento ufficiale della 68esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia.

Mara Martellotta

Inviato dall’app Tiscali Mail.

Soprattutto “Raccontare” tra geometrie e denunce, macchie di colore e riuso di materiale

Sino al 19 novembre, negli spazi della galleria “Malinpensa by La Telaccia”

C’è una colomba bianca tra le opere esposte sino a mercoledì 19 negli spazi della Galleria Malinpensa by La Telaccia di corso Inghilterra 51. Una colomba con rafforzate pennellate grigiastre (pennellate che vedono l’uso delle stesse mani), uno spruzzo di rosso che sono le zampe ma anche una ferita aperta ben visibile – il tutto, quasi una crocifissione -, l’occhio è umano a innalzare il tratto animalesco. È un’opera di Rosalba Mangione, anche designer d’oggetti d’arredo e ceramista (come dimostrano i colorati piatti in vetro fusione) di origini siciliane, inquietante nella propria rappresentazione essenziale, nel messaggio di morte, un grumo pittorico in negativo del mondo d’oggi e (ormai) della nostra quotidianità, il grido di dolore di un essere umile, un tema che la pittrice sta approfondendo per simbologie nell’ultimo periodo d’attività.

Questa, come altre opere presentate, sono stati d’animo, sincerità espresse, amare riflessioni, partecipazione e presa di coscienza agli sconvolgimento che l’uomo ha prodotto e continua a produrre. Sono messaggi, immersi altresì nel colore, a voler identificare la debolezza e la forza che vivono nel mondo, le disequità e i soprusi, le violenze, a voler esprimere il gran carico di sensibilità, di emozioni, di denuncia: colpisce “La linea sottile tra Bene e Male” (acrilico, 2022), un rosso e un blu che non avranno mai modo d’incontrarsi e di fondersi, due separazioni nette e invalicabili, manichee, colpisce la “Rabbia” (un acrilico del 2019) dove forse un sole, fisso in un cielo opaco, riesce a illuminare una natura e un mare che è ancora attraversato da onde alte e minacciose, colpisce “Divisione”, un misto di acrilico e stucco del 2022, dove prevalgono le tinte chiare, forse la ripresa aerea di un mare di sghembo e di una spiaggia che è deserto, dove la presenza umana non è concepita. Mentre l’uomo, la donna, potevano apparire in opere precedenti, oggi l’essere umano non è concepito, tutto diventa umanamente brullo, ogni forma di vita cancellata, la distruzione è dietro l’angolo della vita di ognuno. Anche i colori (se pur Monia Malinpensa, che ha curato la mostra “Raccontare e raccontarsi”, parla di “consistenza, che si diffonde nell’opera con una gestualità molto personale e con una vibrante atmosfera rarefatta”, di “notevole stesura”) si sono quasi del tutto affievoliti, rimangono dei bluastri, s’affaccia qualche rosso, ma le espressioni di un precedente mondo surrealista non trovano più spazio.

La natura ce la rende Ernesto Belvisi, e i colori quasi gettati violentemente sulla tela, un simbolo per il tutto, guardando ad esempio ai “gigli” trasfigurati in lucenti lamelle di fuoco vivo, frutto di una gestualità potente ed estremamente libera, di una massiccia manualità, nella piena variazione degli elementi cromatici, posti su di un compatto fondo blu o lasciati liberi di cercarsi un proprio spazio nell’appoggio di pennellate alle loro spalle che paiono impazzite, vere e proprie sferzate di frusta colorata, quasi portatrici di una accogliente sensualità. Il colore come desiderio di vita e di bellezza, di luminosità, di sentimenti urlati, come apporto irrinunciabile di contrasti e di varietà cromatiche che s’impongono con grande forza nel loro dinamismo. Da disegni a mano sviluppati in digitale con l’aiuto del computer (è troppo azzardato dire che ci troviamo già dalle parti dell’AI, a chi stende queste note ancora di difficoltosa comprensione?) si sviluppano le opere del giovane Dario Frascone, dove si riconoscono appieno una concreta personalità che spinge a una ricerca che sarà in futuro capace di percorrere parecchie strade, una ricerca di simboli, una parcellizzazione delle superfici e gli incastri di soggetti, laddove pur nella presenza innegabile di una forte geometria e di una vena modernista si fa largo, con l’uso di legni antichi (intelligente manifestazione di riuso), di vecchia provenienza familiare – porte, cassetti, pareti d’armadi, quindi l’uso di materiali diversissimi -, un riscoperto sentimento, una filiazione fatta di affetti autentici, di ricordi e di riscoperte, una poetica cui è necessario da parte di chi guarda prestare una puntuale attenzione.

Legato a una figurazione di notevole elaborazione espressiva e a una fantasia costante, le composizioni tecniche dell’artista Mario D’Altilia regalano al fruitore molteplici sensazioni e riflessioni, che sono il risultato del suo fare arte”, sottolinea ancora Monia Malinpensa. Ci aggiriamo tra alcuni oli che sono corpi picassiani, tra donne “in poltrona” (2020) che, all’interno di più o meno elaborate scenografie (“anche per quanto riguarda il colore ho eseguito numerosi studi su carta e altre tipologie di supporto che mi hanno permesso di spaziare su tutte le tecniche pittoriche”, avvertiva l’artista in occasione di una precedente mostra), anch’esse intimamente simboliche, nelle loro uniformi blu e con acconciature simili a pennacchi vivono dentro a un mondo che colloca le proprie radici nella geometria e nelle formule matematiche, tra radici quadrate e numeri e linee, tra il trionfo dei cubi e dei parallelepipedi, una sorta adulta di Lego, tra moltiplicazioni e schemi e costruzioni che sono sculture e in qualche esempio guardano alla ”Grande Mela”, tra quello sguardo originalissimo che l’autore continua a definire “paesaggio tecnico”. Una fantasia a tavolino che non conosce limiti.

Elio Rabbione

Nelle immagini: Rosalba Mangione, “La colomba della pace”, acrilico su tela, cm 70 x 100, 2025; Ernesto Belvisi, “Giglio bianco”, acrilico su tela, cm 100 x 70, 2022; Dario Frascone, “No signal no party”, disegno a mano sviluppato in digitale, cm 50 x 50, 2023;Mario D’Altilia, “Paesaggio tecnico”, olio su tela, cm 70 x 50, 2020.

Il fuso di Kronos

In esposizione al “Museo del Tessile” di Chieri il Progetto artistico – interdisciplinare del kazako, d’origine, Lev Nikitin

Dal 13 novembre al 13 dicembre

Raccontare la propria vita, impresa tutt’altro che facile, attraverso gli strumenti, i più vari, dell’agire artistico. E, attraverso l’arte, cercare e , forse, trovare una via di fuga da quel terribile “fuso di Kronos” ( Kronos, ricordate? Il più giovane dei Titani, padre di Zeus, che nell’antica mitologia greca mangiava i suoi figli per paura di esserne spodestato) che imbriglia nella fitta rete della crudeltà l’esistenza di chi è altro da noi, del più debole, dei reietti, degli invisibili e degli espulsi dal comune vivere sociale. In un pensoso, toccante “Autoritratto” ad olio, con la pelle tormentata da simboliche presenze volatili che gli mortificano il viso, Lev Nikitin racconta proprio questa condizione dell’esistere “che è metafora – racconta – della violenza che si ripete”. E ancora: “ Kronos che divora i suoi figli non è solo un mito antico: è la logica attuale dei sistemi educativi, sociali, giuridici, artistici. E noi, per non essere divorati, gettiamo ogni giorno nella sua bocca simulacri filati con il nostro stesso’ fuso’ dell’essere”.

Non è mostra di facile intesa, ma gradevolissima e di alta qualità, “Il fuso di Kronos” (titolo emblematico di quanto sopraddetto) che, da giovedì 13 novembre a sabato 13 dicembre, la “Fondazione Chierese per il Tessile e per il Museo del Tessile” di Chieri dedica (con il sostegno della “Città di Chieri” e della “Regione Piemonte” e con il patrocinio dell’Associazione Culturale “Russkii” di Torino e della “Fondazione “Osten” di Skopje) al giovane Lev Nikitin. Nel complesso, sono 20 (un’installazione “site specific”, oli su tela e costumi teatrali) le opere dell’artista e attivista russo (ormai chierese d’adozione) accolto in residenza dal 2024.

Nato nell’ ’85 in Kazakistan, Nikitin si trasferisce in Russia nel 1993. Lascia Mosca nel 2022, in seguito al conflitto Russo-Ucraino e alle crescenti politiche discriminatorie nei confronti della comunità LGBTQ+. Nel 2023 ottiene asilo politico in Italia., aprendo un nuovo capitolo nella sua vita e nel suo lavoro. Dopo essersi sentito ignorato nel suo Paese d’origine, dove ha affrontato marginalizzazione e omofobia, l’artista trova in Piemonte e a Chieri l’opportunità di ricostruire il proprio senso di identità. E proprio questa nuova situazione aprirà un importante processo di “rinascita e ricostruzione della materia e dello spirito” attraverso la pittura, la scultura, la performance e il medium tessile.

L’abilità nel percorrere il gesto e il senso estremamente misurato e delicato (a tratti misteriosamente “sbiadito”) del colore gli derivano, in particolare nella pittura a olio, dalle “avanguardie” della grande Scuola della pittura russa post-espressionistica, corrente che molto, nelle sue varie articolazioni, ha influito sulla sua capacità di trasformare – sottolinea Melanie Zefferino, presidente della ‘Fondazione chierese per il Tessile e Museo del Tessile’ – passamanerie chieresi un poco ‘fané’ in scintillanti corpetti che possiamo immaginare indossati da ‘performer’ memori della Compagnia dei ‘Ballet Russes’ fondata da Sergej Pavlovič Djagilev e dei meravigliosi costumi di Léon Bakst”. Approdato qui viaggiando sul filo dell’arte – prosegue la presidente Zefferino – Lev Nikitin ha portato a Chieri la sua personale visione del mondo espressa creativamente con una tecnica tesa alla perfezione, facendo onore alle tradizioni culturali e artistiche di cui reca il prezioso bagaglio … E così abbiamo fatto noi perseguendo valori di inclusione e sviluppo dei talenti, così da poter oggi assecondare la ‘danza’ di Nikitin a Chieri e al suo Museo, ‘theatrum’ delle arti tessili con protagonisti internazionali in dialogo con le identità di una comunità plurale.

“Comunità plurale” che è obiettivo principe del Nikitin uomo ed artista. Arduo percorso, per la cui uscita “io artista – racconta Nikitin – come Penelope al telaio, lavoro segretamente disfacendo le trame di una tela ordita dal Titano più crudele”. Un processo che lo impegna nel campo multiforme di una tecnica ineccepibile, ma soprattutto sul piano dell’emotività e di antiche dolorose memorie difficili da mettere a parte; “un progetto artistico che si estrinseca – conclude Nikitin – anche come struttura teatrale  traendo ispirazione dal ‘Teatro della crudeltà’ di Antonin Artaud: un teatro che colpisce il corpo dello spettatore, che lacera il linguaggio, che rompe il ritmo e nega il conforto. In questo senso, il mio ‘teatro della crudeltà’ è precursore di un’etica di resistenza al vuoto. Rifiuta la narrazione, la mimica, l’illusione. Non spiega, ma costringe a vivere”. Dipanando, senza sosta, quella terribile infinita matassa del “fuso di Kronos”.

Gianni Milani

“Il fuso di Kronos”

Museo del Tessile”, via Santa Clara 6, Chieri (Torino); tel. 329/4780542 o www.fmtessilchieri.org

Dal 13 novembre al 13 dicembre. Orari: mart. 9/13; merc. 15/18 e sab. 14/18

Nelle foto: Lev Nikitin: “Autoritratto”, olio su tela; Parte dell’allestimento e “Costume teatrale”

“Arpagone” in scena al teatro Baretti

La stagione 2025-2026 del teatro Baretti, intitolata “Aurea Familia”, porterà in scena giovedì 20 alle ore 21, e venerdì 21 novembre alle ore 20, “Arpagone”, il nuovo e provocatorio spettacolo di Michele Santeramo, pluripremiato drammaturgo e regista che interpreta e reinventa la celebre figura di Moliére in una satira feroce sull’avidità e il valore della vita umana. I sette attori e attrici del territorio piemontese selezionati tramite call pubblica, Elena Aimone, Andrea Gaia Bosio, Christian Di Filippo, Elisa Galvagno, Francesco Gargiulo, Noemi Grasso e Jacopo Massara saranno protagonisti e testimoni in scena di una residenza-laboratorio intensiva, sotto la regia dello stesso Michele Santeramo. In questa riscrittura audace, Arpagone non si limita ad accumulare denaro, traffica in esseri umani e vende bambini nati in zone di guerra a coppie occidentali facoltose, con la promessa di un futuro migliore per tutti. È una commedia che tratta i temi delle adozioni illegali, del traffico di bambini, del desiderio di maternità e paternità, oltre alla crisi morale della società contemporanea. Il pubblico è invitato a immergersi nel soggiorno di Arpagone, coinvolto emotivamente e posto di fronte a scelte etiche sconvolgenti, tra responsabilità, amori, affari e tragedia. La storia si sviluppa in una trama avvincente che mette a nudo sogni, laure e contraddizioni umane tra trattative d’adozione, la richiesta estrema di un trapianto e il valore della vita umana. Arpagone interrogherà il pubblico chiedendogli: “Se fosse tuo figlio ad avere bisogno di un cuore, non lo strapperesti a mani nude dal corpo di un altro?”. Lo spettacolo mescola ironia tagliente e riflessione sociale, invitando gli spettatori a prendere parte attiva e consapevole al dibattito sul valore della vita. Lo spettacolo “Arpagone” è un viaggio nel cuore delle contraddizioni moderne, capace di unire il pubblico e gli artisti intorno alle domande fondamentali su giustizia, denaro, amore e responsabilità. Lo spettacolo fa parte degli appuntamenti “Come ali sulle radici”, progetto artistico e umano che unisce teatro e comunità, mettendo al centro la persona e le relazioni, realizzato nell’ambito di “Torino che spettacolo!”

Info e biglietti sul sito www.cineteatrobaretti.it
Cineteatro Baretti: via Baretti 4, Torino – 011 655187

Mara Martellotta

Il tesoro alla fine della solitudine: la letteratura del ritorno

L’Angolo della Poesia

Di Gian Giacomo Della Porta

“Mi trovo gettato sopra un’isola orribile e desolata senza alcuna speranza di uscirne, sono in un certo modo separato e isolato dal resto del mondo, infelice e per sempre”.

Così scrive Robinson Crusoe nel suo diario, battezzando la piccola terra dove si è salvato “Isola della disperazione”. Su quell’isola dovrà percorrere, da solo, tutte le tappe dell’evoluzione della civiltà umana, con la conquista del fuoco, l’agricoltura, la memoria. L’isola di Robinson è luogo di punizione e redenzione di un uomo colpevole di essersi avventurato per mare contro il volere della comunità, espresso perentoriamente dalla figura del padre.

A differenza della storia che si svolge su un’altra isola, dove la redenzione opera diversamente, per sortilegio, incanto, amore, e dove gli spiriti e i demoni dialogano con i personaggi, unificati alla fine dalla magia di Prospero, a differenza dell’isola della “Tempesta” di Shakespeare, dove si svolge una vicenda teatrale sinfonica, la storia di Robinson Crusoe e della sua solitudine è espressa nella forma del monologo. Non c’è concorso di voci ma una sola voce che parla nel deserto di un’isola sperduta nel mare.

La letteratura del secolo trascorso, e quella contemporanea, leggono prevalentemente il mondo come l’isola di Robinson, un luogo di prigionia e solitudine, e tendono a dimenticare il finale, il ritorno. Sembra esserci un tentativo di smitizzazione del mito d’avventura, conoscenza e mistero su cui si basa la letteratura d’Occidente: illusorie Penelope e Itaca, risibili le apparizioni delle dee e delle ninfe marine, sgraziate le voci che incantarono Ulisse, immotivato il viaggio e insignificante il ritorno. Dopo molto più di duemila anni il mondo legge il poema di Omero, non so se tra cento anni si leggerà l’”Ulisse” di Joyce. Certo la pensano diversamente dallo scrittore irlandese, in merito al mito di fondazione della nostra avventura letteraria e conoscitiva, gli autori che re immettono il passato nel presente, come Borges; certo prendono molto sul serio Odisseo e le sue avventure gli scrittori che gettano i semi della letteratura dal duemila in avanti, come l’africano Wole Soyinka o il caraibico Derek Walcott.

Più in generale, credo che la metafora della navigazione sia quella che esprime con maggiore potenza la nostra avventura umana nel mondo e la natura metafisica della letteratura: andare oltre, verso terre lontane, per tornare e restituire l’esperienza vissuta in forma di racconto, la visione tradotta in poesia. Il viaggio per mare, la partenza per l’isola, microcosmo perfetto, la discesa agli inferi che la memoria mantiene in vita come legame con il passato e unione della specie: queste grandi esperienze non sono morte perché la letteratura ha saputo preservarne il senso e il mistero, e la presenza nella nostra vita, se vissuta poeticamente, che non significa in modo sovreccitato o enfatico, ma guardando gli accadimenti nella luce che meritano.

Forse nessuna opera letteraria può esprimere il senso della nostra vita e della letteratura come la storia di quel ragazzo che salpa alla ricerca di un tesoro, seguendo una mappa, avventurandosi in mari lontani. La storia dell’uomo che dopo mille prodigi scopre che il vero miracolo è il ritorno. Perché solo il ritorno consente racconto, memoria, narrazione. Rendere comune a chi ascolta, a chi legge, l’avventura del tesoro, la sua ricerca, gli ostacoli, i misteri, ma anche la certezza che sotto qualche strato di terra, nascosto, sepolto, il tesoro esisteva.

Astrattismo Inverso: il primo concorso artistico della Città di Rivoli

 

Sabato 8 novembre Rivoli ha vissuto un momento significativo con la premiazione di “Astrattismo Inverso”, il primo concorso artistico promosso dalla Città di Rivoli nell’ambito del progetto “Rivoli Città d’Arte” con il contributo di TurismOvest.
L’iniziativa, realizzata in stretta collaborazione con i laboratori artistici cittadini — E20 d’Arte al Castello di Fulvio Bresciani, Galleria Belle Epoque di Diego Sestero, Imparalarte di Amelia Argenziano e Atelier di Pittura Lud Chamorro Art di Luisa Maria Diaz Chamorro — ha registrato un’ampia partecipazione e un pubblico numeroso, segno di una città sempre più coinvolta nella vita culturale e creativa.

Il concorso ha stimolato la creatività di molti artisti, che hanno saputo instaurare, attraverso le loro opere, un dialogo originale con l’arte astratta e con il Castello di Rivoli – Museo d’Arte Contemporanea. L’atmosfera di entusiasmo e condivisione che ha accompagnato la premiazione ha confermato la vitalità di un tessuto artistico in costante fermento.

«Investire nell’arte e nei laboratori creativi – ha dichiarato il Sindaco Alessandro Errigo – significa costruire un’identità più forte per Rivoli. La partecipazione registrata è un segnale di come la cultura, quando è condivisa, diventi un linguaggio capace di unire le persone e dare nuova vitalità alla città».

Si sono distinti Margherita Garetti, vincitrice del primo premio, seguita da Nunzia Lastella e Michela Fischetti, mentre a Monica Falchero è andato il quarto posto. Le menzioni di merito sono state attribuite a Sara ForlaniRosanna Costanzo e Roberto Trucco per l’originalità, la tecnica e la sensibilità artistica. Riconoscimenti speciali sono andati ai giovani talenti Emma Farfariello e Giorgio Cusanza, premiati con la menzione “Bambini” della Giuria.

Il percorso avviato con “Astrattismo Inverso” proseguirà nel 2026 con una mostra collettiva presso la Casa del Conte Verde, che offrirà nuova visibilità a tutte le opere partecipanti e confermerà Rivoli come luogo di incontro tra arte, comunità e innovazione culturale.

Il ratto del serraglio: rapiti dall’orchestra, non dalla regia

Di Renato Verga

Mozart, il più inafferrabile tra i genî, torna al Regio di Torino con Il ratto dal serraglio, opera che incarna perfettamente la sua doppia natura: musica che ride mentre riflette, scherza mentre sonda gli abissi dell’animo, si pavoneggia con le percussioni “turche” mentre cesella affetti d’alta scuola. La definizione di “inafferrabile” è quanto mai appropriata per un Singspiel che vive di contrasti,
praticando un funambolismo stilistico che mescola virtuosismo vocale, comicità tagliente e introspezione psicologica. La vicenda, tratta dal libretto di Gottlieb Stephanie il Giovane, fiorisce nel pieno della moda delle turcherie. Nel 1782 Mozart, appena liberatosi dal giogo dell’arcivescovo Colloredo, approda a Vienna e si concede tutti i piaceri dell’esotismo musicale: fanfare di giannizzeri, tamburi, triangoli, campanelli e un imperatore che borbotta «Troppe note», ricevendo la più lapidaria delle risposte: «Giusto quanto basta». Dopo un periodo di fortuna, l’opera quasi scompare dai radar italiani: troppa leggerezza per il nuovo gusto romantico, troppo audace quel gioco di sentimenti a doppia faccia. Bisogna attendere il Novecento perché Il ratto torni a mostrarsi in scena, e lentamente anche Torino accumula i suoi ricordi: Luigi Alva Belmont negli anni ’70, William Matteuzzi Pedrillo negli ’80, Livermore regista nel 2006. E ora, l’allestimento che arriva da Versailles, dove Michel Fau aveva creato uno spettacolo filologicamente barocco nel contesto dell’Opéra Royal. Il castello francese, però, tollera meglio certe voluttà scenografiche rispetto alla “molliniana” sala torinese. A Versailles la scenografia di Antoine Fontaine – moresca, coloratissima, tutta false prospettive – respirava in simbiosi con il luogo; a Torino diventa un po’ museale: graziosa ma staccata dal contesto. Anche la regia, ripresa da Tristan Gouaillier, appare più che sobria, incapace di imporsi su un’opera che invece richiede vivacità, gioco, ma anche introspezione. Gli esempi virtuosi non sono mancati: Christof Loy a Barcellona, McVicar a Glyndebourne. Qui, purtroppo, dopo un primo tempo piatto e un secondo un po’ più vivace, si arriva al tappeto volante di Selim senza un’idea di fondo. E gli interpreti non sono sempre a loro agio nelle lunghe parti recitate in tedesco; persino l’unico vero attore non riesce a dare spessore al personaggio del pascià. Sul fronte vocale la situazione è altalenante. Alasdair Kent, raffinato haute-contre e Paolino di classe nel Matrimonio segreto torinese, inciampa su Belmonte, ruolo che richiede smalto e sicurezza: l’aria d’ingresso traballa, la proiezione è modesta, le agilità faticano. Olga Pudova, gloriosa Regina della Notte ma meno convincente altrove, affronta Konstanze con disciplina, ma senza vera penetrazione emotiva e con prudenza eccessiva nelle arie virtuosistiche. Osmin di Wilhelm Schwinghammer possiede le note gravi, ma non il corpo sonoro per farle vibrare. Splendono invece i servitori: Leonor Bonilla è una Blonde irresistibile, luminosa e frizzante; Manuel Günther un Pedrillo vivace, spiritoso, tecnicamente solido. E poi c’è la vera stella della serata: Gianluca Capuano, che dal podio reinventa Mozart come un orologiaio del colore. L’ouverture brilla fin dalle prime note, con quella scrittura marziale che dà il tono esotico e il tema lirico che ammalia. Le “turcherie” diventano nella sua lettura un motore ritmico, non un soprammobile. Le dinamiche sono scolpite, i dettagli rifiniti, la teatralità palpabile: Capuano dà vita a un Mozart vibrante, duttile, mobile, coerente. Inafferrabile, sì – ma magnificamente vivo.