Gianandrea Noseda torna sul podio dell’Orchestra e Coro del Teatro Regio di Torino, dal 16 al 25 gennaio prossimi, dirigendo Turandot, il capolavoro incompiuto di Puccini, nel nuovo allestimento e regia di Stefano Poda, che si preannuncia come una delle più sensazionali degli ultimi anni. Poda, autore dalla raffinata poetica metafisica e onirica, torna al Regio di Torino dopo i successi ottenuti con Thais e
Faust. Turandot è la grande incompiuta del Novecento. La volontà di Gianandrea Noseda è quella di rispettare fedelmente il manoscritto autografo del maestro, seguendo la partitura fin dove arrivò Puccini, ovvero la piccola marcia funebre dopo la morte di Liu’, senza alcun finale postumo elaborato da Alfano o Berio. Il soprano Oksana Dyka, con il suo timbro abbagliante e fulgido, riesce a rendere la ieraticita’ della principessa di ghiaccio; accanto a lei un giovane tenore in grande ascesa, Jorge de Leon, interpreta un Calaf fresco e possente. Erika Grimaldi interpreta, invece, Liu’, personaggio che, in questa versione, assume un inedito spessore drammatico, sottolineato dalle rare doti della cantante lirica.
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Nella Turandot ogni personaggio gioca un ruolo ben preciso, nulla è lasciato al caso. Quelli che nel primo atto sembrano i ministri della morte, ci appaiono nel dispiegarsi dell’opera in una luce diversa, più morbida e umana. Descrivono la loro vita con melodie nostalgiche, abbandonandosi ai ricordi di un’esistenza felice. Riescono, insieme alla piccola Liu’, a creare intorno ai personaggi principali un’atmosfera tale da allentare la tensione emotiva dei protagonisti. Ciò che rende anche molto singolare questa opera pucciniana è la rapida trasformazione della protagonista, della gelida principessa, così statica e rigidamente sacrale, poi così repentinamente diversa nel finale. Il processo che porta alla progressiva umanizzazione di Turandot è reso evidente da una serie di contrapposizioni che emergono chiare sin dall’inizio dell’opera: tramonto e alba, sole e luna, amore e odio, crudeltà e asservimento. L’elenco di questi opposti potrebbe proseguire con vita-morte, vittoria-sconfitta, freddo-caldo. Tutti questi elementi rendono palese il contrasto che dilania la stessa Turandot, che, alla nuova alba, illuminata dalla luce del sole, si scopre umana e innamorata.
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Anche se la più celebre aria della Turandot rimane l’universalmente nota “Nessun dorma”, riveste un posto di rilievo quella dedicata alla piccola schiava, “Non piangere Liu'”. Quando la Turandot venne rappresentata per la prima volta, il 25 aprile 1926, Puccini era morto da un anno e mezzo. Malgrado il primo atto fosse stato entusiasticamente applaudito dal pubblico del Teatro alla Scala di Milano, l’accoglienza riservata al secondo atto non andò oltre un puro atto di cortesia. Il terzo atto venne interrotto dopo la morte di Liu’; il direttore Arturo Toscanini depose la bacchetta e disse: “Qui finisce l’opera, perché a questo punto il Maestro è morto”. Così incompiuta sarà la Turandot diretta al teatro Regio dal maestro Noseda.
Mara Martellotta
Giornalisti e pubblico, ieri, all’incontro con Carlo Verdone per la presentazione di “Benedetta follia”
richiusi, in un comprensibile misto di grande stanchezza (la tivù della Befana se l’è fatta proprio tutta!) e di personaggio “malincomico” che si porta addosso da anni -, negli ultimi giorni Milano, Bologna, Firenze, è una vita che stringo mani e ascolto persone, figuratevi se un selfie non me lo faccio volentieri! Presentare il film perché il film lo merita, io ci credo molto, è molto divertente e le sorprese sono molte, con il divertimento che dobbiamo alla platea c’è questo finale con un bel messaggio rassicurante, che è come una carezza sul viso di una persona, un momento di tranquillità”.
dei social ma è pure seria ed equilibrata… già, i nuovi mezzi di comunicazione: chissà se è un bene o un male, boh! non lo so, andiamo avanti così”. Anche Ilenia è soddisfatta di questo ruolo di borgatara che irrompe nel negozio a imporsi come nuova aiutante, quando tra abbigliamento e comportamento il livello è decisamente azzerato e il suo inglese raggruppa un paio di parole e niente più: “Io sono vissuta con il cinema di Carlo, come i miei amici, come l’intero pubblico, ha rappresentato tanto nella mia vita, a 13 anni vedevo i cartelloni di “Viaggi di nozze” e mi divertivo a ripetere le battute del film. Adesso sono qui con questa Luna che lo tira fuori dalla depressione e ho cercato di dargli il massimo, spero di esserci riuscita”. Verdone, tranquillo, accenna un sorriso: “E io l’aiuto nel suo essere fragile, nonostante questi atteggiamenti vivaci, condivido certi punti irrisolti, come il rapporto con il padre”.
sempre volentieri, è la città del cinema, tutti mi accolgono sempre con affetto, è giusto che io incontri il pubblico, all’interno di un cinema, davanti al grande schermo”. Già, i grandi schermi in grande sofferenza, la crisi del cinema italiano che nello scorso anno ha visto un calo del 46% degli spettatori: “Abbiamo cominciato a perdere pubblico dal 2007, la crisi è cominciata lì, le prime avvisaglie, i primi scricchiolii – è sicuro Verdone. Ma è anche consolatorio: “Ma se è vero che un pubblico ha abbandonato le sale, un altro ha lasciato la tivù. L’interesse è un altro, si sta di più su internet, si frequentano altre piattaforme e il pubblico giovane va alla ricerca della serie, quello che appassiona, che lega. È una tendenza diversa, noi dobbiamo cercare di dare il meglio, di far meglio i nostri film nella scrittura, mentre li giriamo in un tempo che non deve essere ridotto, mentre li promuoviamo come io sto facendo in questi giorni”. Anche il cinema deve trasformarsi, “le sale stesse vanno trasformate, devono essere maggiormente dei punti di incontro, dove si sappia creare l’evento, magari con librerie e ristoranti”. 
Assassinio sull’Oriente Express – Giallo. Regia di Kenneth Branagh, con Judi Dench, Michelle Pfeiffer, Johnny Depp, Penelope Cruz e Branagh nelle vesti di Hercule Poirot. Altra rivisitazione cinematografica del romanzo della Christie dopo l’edizione firmata da Sidney Lumet nel ’74, un grande Albert Finney come investigatore dalle fiammeggiati cellule grigie. Un titolo troppo grande per non conoscerlo: ma – crediamo, non foss’altro per il nuovo elenco di all star – resta intatto il piacere di rivederlo. Per districarci ancora una volta tra gli ospiti dell’elegante treno, tutti possibili assassini, una partenza da Istanbul, una vittima straodiata, una grande nevicata che obbliga ad una fermata fuori programma e Poirot a ragionare e a dedurre, sino a raggiungere un amaro finale, quello in cui la giustizia per una volta non vorrà seguire il proprio corso. Durata 114 minuti. (Ambrosio sala 2, Massaua, Eliseo Blu, Ideal, Lux sala 1, Uci)
Lante della Rovere e Paola Menaccioni. Guglielmo, in depressione stabile, è il proprietario di un negozio di arredi sacri e abbigliamento d’eccellenza, per il piacere e l’eleganza della moltitudine di porporati romani. Depresso anche per il fatto che la moglie lo ha appena abbandonato perché innamorata proprio della commessa del suo negozio: quando come un ciclone entra nella sua vita una ragazza di borgata. Durata 109 minuti. (Massaua, Due Giardini sala Nirvana, Ideal, Lux sala 2, Reposi, The Space, Uci)
Come un gatto in tangenziale – Commedia. Regia di Riccardo Milani, con Paola Cortellesi, Antonio Albanese, Claudio Amendola e Sonia Bergamasco. Quando gli opposti si attraggono. Ovvero l’incontro tra Giovanni, intellettuale di sinistra, abitazione nel centro di Roma, tutto quadri e libri, in riunione a Bruxelles a parlare di periferie e di quanto sia opportuna la contaminazione tra l’alto e il basso, e Monica, borgatara di una periferia stracolma di extracomunitari, piena di tatuaggi, dal più che dubbio gusto nel vestire, consorte in perenne debito con la giustizia: incontro che nasce quando i due ragazzini dell’una e dell’altra parte iniziano un filarino che punta deciso al futuro. E se l’incontro portasse l’intellettuale e la borgatara a rivedere le loro antiche posizioni? Durata 98 minuti. (Massaua, Greenwich sala 1, Ideal, Reposi, The Space, Uci)
“Rio” e dell’”Era glaciale”), libro del ’36 su cui franchisti prima e nazisti poi non poco s’accanirono (era, inevitabilmente, nell’animo di Gandhi). La vicenda del toro decisamente pacifista diverte oggi bambini e anche adulti dal cuore pronto a rilassarsi, pronti a simpatizzare con un animale che è destinato a combattere nell’arena ma che al contrario preferisce circondarsi di fiori, fugge da chi gli impone quelle regole, stringe amicizia con una piccola animalista. Lieto fine che s’impone, al fianco del “pericolosissimo” toro altri simpatici personaggi, tra cui da non lasciarsi sfuggire la capra Lupe. Durata106 minuti. (Massaua, Ideal, Uci)
Jumanji – Benvenuti nella giungla – Avventura. Regia di Jake Kasdan, con Dwayne Johnson, Karen Gillan e Jack Black. Un fenomeno che ha più di vent’anni (eravamo nel 1996) e che ricordiamo ancora oggi per il personaggio, Alan Parrish, interpretato dal compianto Robin Williams, attore al culmine del successo dopo la prova in “Mrs. Doubtfire”. Hollywood non dimentica e rispolvera un passato di ottimi botteghini. Messi in punizione nella scuola che frequentano, quattro ragazzi scoprono un vecchio videogame. Una volta dato il via al gioco, essi vengono catapultati all’interno del sorprendente meccanismo, ognuno con il proprio avatar. Assumeranno altre sembianze, entreranno nell’età adulta: ma che succederebbe se la loro missione fallisse e la vita di ognuno finisse intrappolata nel videogame? Durata 119 minuti. (Massaua, Greenwich sala 3, Ideal, Reposi, The Space, Uci)
Morto Stalin se ne fa un altro – Commedia. Regia di Armando Iannucci, con Steve Buscemi, Micael Palin, Olga Kurylenko, Simon Russel Beale. Scozzese di nascita ma napoletanissimo per origini paterne, Iannucci ci ha dato una delle opere più godibili degli ultimi anni, ricca di effetti sulfurei, di una sceneggiatura che supera con facilità la risata fine a se stessa per immergersi nella satira più corrosiva, per graffiare e far sanguinare un mondo ben sistemato sugli altari. Il vecchio castiga ridendo mores, in folclore politico. Ovvero la morte del baffuto Stalin, che ha appena impartito l’ordine che gli sia recapitata la registrazione di un concerto che però registrato non lo è stato. Orchestra, pubblico e pianista dissidente, tutti di nuovo al loro posto. Ma le preoccupazioni sono e saranno ben altre: quella sera stessa, era il 28 febbraio 1953, il dittatore è colpito da un ictus e le varie epurazioni delle vette
sanitarie in odore di tradimento fanno sì che le cure non possano arrivare che in ritardo e infruttuose. Cinque giorni dopo, passato lui a miglior vita, può così cominciare l’arrembaggio alla poltrona tanto ambita da quanti tra i collaboratori l’hanno vistosamente sostenuto o tacitamente avversato, a cominciare da un atterrito Malenkov chiamato da un ridicolo Consiglio a reggere le sorti dei popoli. Senza dimenticare, tra il tragico e il ridicolo, le mosse dei tanti Mikoyan, Zukov, Bulganin, Molotov e Berija in atteggiamenti da vero macellaio sino a Nikita Kruscev (un impareggiabile Steve Buscemi, ma ogni personaggio si ritaglia un momento di gloria), astutissimo nel saper raccogliere le tante intenzioni, lotte, sospetti, accuse, sparizioni dei propri colleghi, e capace di afferrare il primo posto. Tutto questo sullo schermo, applaudito al recente TFF, risate e sberleffi come non mai: apprezzato, ma allo stesso temo ti chiedi quanto sia stato giusto cancellare la vena tragica di quelle giornate. E del poi. Durata 106 minuti. (Centrale, anche in V.O.)
Napoli velata – Drammatico. Regia di Ferzan Ozpetek, con Giovanna Mezzogiorno, Alessandro Borghi, Beppe Barra, Luisa Ranieri, Anna Bonaiuto. In una Napoli piena di ambiguità e di misteri, in bilico tra magia e superstizione, tra follia e razionalità, Adriana, ogni giorno a contatto con il mondo dei non-vivi per la sua professione di anatomopatologa, conosce un uomo, Andrea, con cui trascorre una notte di profonda passione. Si sente finalmente viva ed è felice nel pensare ad un prossimo appuntamento. A cui tuttavia Andrea non verrà: è l’inizio di un’indagine poliziesca ed esistenziale che condurrà Adriana nel ventre della città e di un passato, dove cova un rimosso luttuoso. Durata 110 minuti. (Eliseo Rosso, Ideal, Massimo sala 1, Reposi, Romano sala 1, The Space, Uci)
de burini che a forza di mettere in banca preziosi euri e cucinare supplì si comprano pure un castello. E chi li tiene più. Ma se il non trascurabile malloppo va mantenuto, non resta che fare del borgo nato uno stato indipendente, dopo referendum d’obbligo manco fosse la Catalogna, girare le spalle all’Italia e uscendo dall’euro dare nuova vita alla moneta locale. Nel frattempo, si ritrova l’occasione per inalberare De Sica con una capigliatura bionda grano che manco Donald e lasciare la nuova first lady tra le braccia e le manette e le fruste di Massimo Ciavarro manco tra le stanze del piacere di “Cinquanta sfumature…”. Di qualsiasi colore siano. Durata 96 minuti. (Uci)
La ruota delle meraviglie – Drammatico. Regia di Woody Allen, con Kate Winslet, Justin Timberlake, James Belushi e Juno Temple. Inizio anni ’50, pieni di colore nella fotografia di Vittorio Storaro o rivisti in quelli ramati di un tramonto, un affollato parco dei divertimenti a Coney Island, quattro destini che s’incrociano tra grandi sogni, molta noia, paure e piccole speranze senza sbocco. Ginny è una ex attrice che oggi serve ai tavoli, emotivamente instabile, madre di un ragazzino malato di piromania, frequentatore di assurde psicologhe; Humpty è il rozzo marito, giostraio e pescatore con un gruppo di amici, che ha bevuto e che ancora beve troppo, Carolina è la figlia di lui, rampolla di prime nozze, un rapporto interrotto da cinque anni, dopo la fuga di lei con un piccolo ma quantomai sbrigativo gangster che adesso ha mandato due scagnozzi a cercarla per farla stare zitta, ogni mezzo è buono.
Rapporto interrotto ma la casa di papà è sempre quella più sicura. E poi c’è il giovane sognatore, Mickey, che arrotonda facendo il bagnino e segue un corso di drammaturgia, mentre stravede per O’Neill e Tennessee Williams, artefice di ogni situazione, pronto a distribuire le carte, facendo innamorare l’ultima Bovary di provincia e poi posando gli occhi sulla ragazza. Forse Allen costruisce ancora una volta e aggroviglia a piacere una storia che è il riverbero di ogni mélo degli autori anche a lui cari, impone una recitazione tutta sopra le righe, enfatizza e finge, pecca come troppe volte nel suo mestiere di regista, non incanta lo spettatore. La (sua) vittima maggiore, che più risente del debole successo è la Winslet di “Titanic”, che pur nella sua nevrotica bravura non riesce (o non può, obbediente alla strada tracciata dall’autore) a calarsi appieno nel personaggio, come in anni recenti aveva fatto la Blanchett in “Blue Jasmine”. Durata 101 minuti. (Ambrosio sala 3, F.lli Marx sala Harpo)
grande circo, figlio di un povero sarto, da sempre innamorato di Charity che diverrà sua moglie (pur non disdegnando un occhio ad altre relazioni) e che fu il sostegno della sua attività imprenditoriale, l’uomo che con fatica e lungimiranza seppe far fonte ad un destino che allineava frettolosamente successi e batoste, l’uomo che raccolse con dignità sotto il suo tendone uomini altissimi e nani e donne barbute. Come sotto vicenda, accanto a lui, il ricco Phillip (Efron) capace di fuggire dalla sua condizione agiata per rifugiarsi nel mondo circense che gli farà conoscere l’amore di una trapezista. Durata 110 minuti. (Ideal, Uci)
Tre manifesti a Ebbing, Missouri – Drammatico. Regia di Martin McDonagh, con Frances McDormand, Woody Harrelson, Sam Rockwell, Abbie Cornish e Lucas Hedges. Da sette mesi le ricerche e le indagini sulla morte della giovane Angela, violentata e ammazzata, non hanno dato sviluppi né certezze ed ecco che allora la madre Mildred compie una mossa coraggiosa, affitta sulla strada che porta a Ebbing, tre cartelloni pubblicitari con altrettanti messaggi di domanda accusatoria e di “incitamento” diretti a William Willoughby, il venerato capo della polizia. Coinvolgendo in seguito nella sua lotta anche il vicesceriffo Dixon, uomo immaturo dal comportamento violento e aggressivo, la donna finisce con l’essere un pericolo per l’intera comunità, mal sopportata, quella che da vittima si trasforma velocemente in minaccia: ogni cosa essendo immersa nella descrizione di una provincia americana che coltiva il razzismo, grumi di violenza e corruzione. Da parte di molti “Tre manifesti” è già stato giudicato come il miglior film dell’anno, i quattro recenti Golden Globe spianano la strada verso gli Oscar. Durata 132 minuti. (Ambrosio sala 1, Eliseo Grande, Greenwich sala 2, Uci)
Tremblay. Auggie è un bambino di dieci anni, una malformazione cranio facciale ha fatto sì che non abbia mai frequentato la scuola. Quando i genitori prendono la decisione che è venuta davvero l’ora di affrontare il mondo degli altri, per il ragazzino non sarà facile. Al tavolo di Auggie, in refettorio, nessuno prende posto, un gruppetto di compagni continua a divertirsi a prendere in giro il suo aspetto. Poi qualcuno comunicherà ad apprezzarlo e ad avvicinarsi a lui. Durata 113 minuti. (Massaua, Due Giardini sala Ombrerosse, F.lli Marx sala Groucho, Lux sala 3, Massimo sala 2, Reposi, The Space, Uci)
Artissima si apre al digitale. La ormai tradizionale fiera d’arte contemporanea di Torino che si tiene il primo week end di novembre inaugura il 2018 con la seconda edizione del progetto digitale
www.artissima.it e i canali social di Artissima propongono un ricco palinsesto di conversazioni, incontri e visite guidate. Dai i video dedicati alle Walkie Talkies by Lauretana, ai filmati degli Ypsilon St’Art Tour. Un ecosistema digitale, dinamico capace di dialogare con il proprio pubblico di appassionati e affezionati 365 giorni all’anno.
prendere appieno il testimone passatogli dal padre, nella doppia veste di interprete e regista, con la volontà di un grande rispetto nei confronti dell’antico disegno di Garinei e Giovannini, uniti nella scrittura a Jaja Fiastri, ma pure con l’intento di sfrondare e di attualizzare quanto di più legato a quell’epoca o alle corde dei primissimi interpreti ci possa ancora essere.
piani di una nuova procreazione. E tanto altro ancora – con argomenti all’interno che hanno attraversato i decenni, come il celibato dei preti, allora insormontabile più di adesso, o il tema dell’accoglienza, quantomai attuale – sotto le note di Armando Trovajoli (come dimenticare l’inno del titolo o “Notte da non dormire”, “Peccato che sia peccato” o il festoso “Concerto per prete e campane” che ci hanno accompagnato dalla prima edizione!) oggi guidate da Maurizio Abeni, già assistente del maestro, pronto a dirigere l’orchestra dal vivo di sedici elementi, sotto quella scenografia ingegnosa di Giulio Coltellacci ripresa da Gabriele Moreschi, grande sorpresa per l’epoca, con tanto di doppio girevole e l’arca che invade maestosa il palcoscenico, in attesa della finale colomba riconciliatrice. Del vecchio team è rimasto Enzo Garinei, per 500 repliche divertentissimo sindaco Crispino e oggi a sostituire il mitico Renati Turi nella “voce di Lassù”; Emy Bergamo è Consolazione, Marco Simeoli il nuovo sindaco, Piero di Blasio Toto, mentre Clementina ha oggi la voce e i tratti di Beatrice Arnera, uscita fuori da affollati e precisi provini. Le coreografie portano ancora la firma di Gino Landi e vedono all’opera 17 artisti, cantanti e artisti.
La presentazione del libro il prossimo 17 gennaio a Torino 
Domenica 14 gennaio 2018, alle ore 15.30, sarà presentato l’atteso volume Chiese e vita religiosa a Cocconato. Storia, arte, tradizioni in un territorio di confine del Piemonte centrale, curato dall’antropologo Gianpaolo Fassino e da Franco Zampicinini
inquadrano nella sua multiforme creatività l’opera di uno dei massimi protagonisti della scena artistica novecentesca e che ci tornano alla memoria di fronte a ciò che troviamo scritto, brevi manu, da Sergio Saccomandi su un semplice foglio bianco riposto in bacheca e in bella vista fra le circa quaranta opere – dipinti e grafiche – ospitate fino a domenica 21 gennaio negli spazi della Casa del Conte Verde, in via Fratelli Piol a Rivoli. Classe ’46, torinese (ma da oltre trent’anni impegnato a inventarsi una nuova vita sui colli canavesani di Barbania), Saccomandi scrive nero su bianco: “L’arte è un gioco preso seriamente e non una cosa seria presa per gioco”. Saltellanti giravolte di parole assai affini a quelle di Munari se l’arte, per l’appunto, è da intendersi come “gioco”. Così come per l’eclettico artista milanese aveva da essere e com’è per Saccomandi. Un gioco dove finzione e realtà – sempre
borderline – si intrecciano con garbata misura, ma con porte portoni e finestre tutte spalancate all’invenzione alla fantasia alla magia di voci e di suoni che arrivano non si sa da dove né da chi per raccontare mirabilia cariche di silente poesia e di mistero. Il “mistero nelle cose” appunto, come suggerisce il titolo della rassegna di Rivoli dedicata a Sergio Saccomandi, allievo all’Accademia Albertina di Paulucci e Calandri e già titolare della Cattedra di Discipline Pittoriche presso il Liceo Artistico di Torino; pittore sicuramente fra i più interessanti e raffinati nel panorama dell’arte contemporanea (al suo attivo più di sessanta personali e moltissime collettive a livello nazionale e internazionale), ma anche da oltre quarant’anni “uomo di teatro”. Particolare non da poco per capire a fondo la sua pittura. Regista, scenografo e, lui stesso, attore (è fra i fondatori nel ’75 del Gruppo Teatro Specchio di Cirié), Saccomandi considera il teatro come il suo “amore clandestino”, in perenne ma benefico conflitto e confronto con la pittura, “l’amore di sempre”. Ecco allora i paesaggi (quelli canavesani soprattutto, ma anche gli arditi “capricci veneziani”) che trasudano mestiere e processi di
segno e colore di impronta rinascimentale nella certosina perfezione e nell’assoluto rigore della complessiva composizione pittorica. Ma realtà assolutamente “spaesate”, surreali e improbabili, se fluttuanti su armoniose teorie di nuvole e cieli plumbei o su geometriche colline innevate o ancora su vuote e sontuose poltrone (il ciclo delle “sedie”) che tanto ricordano “Les Chaises” di Ionesco, pièce teatrale portata per altro dallo stesso artista in palcoscenico. Paesaggi come pagine di narrazione popolate di “strane”– pur se rigorosamente concrete e identificabili – presenze in primo piano, messe lì a bella posta per tirare la volata prospettica al nucleo centrale della scena: ambigue contraddittorie presenze che, di volta in volta, possono essere un gatto, un rospo, il muso dolce di una mucca che fa capolino a margine di un quadro, oppure un gallo, un oggetto d’arredo, segnali stradali accanto a materassi usurati, così come un cavolo o un uovo rotto “col tuorlo che pare galleggiare sull’albume” accanto a una caraffa che porta lo sguardo su una zuppiera emersa da un nero fondale (quinta
teatrale) traboccante di spaghetti (o che altro?). Siamo davvero al “teatro dell’assurdo”. Tenuto in piedi dalla bravura di un “burattinaio” di eccellenza che cerca finanche, ma invano, d’ingabbiare la scena attraverso i virtuosismi di una linea bianca tracciata (parrebbe) per contenere in improbabili geometrie le forme nette, contestualmente inspiegabili, di un rompicapo per il quale non necessita poi tanto trovare il bandolo della matassa. Va bene così! Troppo grande è la suggestione di universi pittorici che ci fanno incredibilmente e piacevolmente volare in alto. Sù sù. Senza barriere né vincoli di confine. Totalmente liberi. In fondo, racconta lo stesso Saccomandi, “dipingere è come partire, buttare giù tutta la zavorra, essere leggeri leggeri, avere in tasca solo il biglietto dell’andata”. Per il ritorno, se proprio vogliamo, tocca a noi pensarci.
PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione
serie, è troppo occupato in Marocco a farsi di droga con l’amico Mick Jagger) e vecchio genitore, l’una troppo trattenuta, studiata a tavolino (Michelle Williams), l’altro un incrocio troppe volte tra un racconto natalizio di Dickens e Paperon de’ Paperon di disneyana memoria. Disturbano le scene ad effetto, il taglio dell’orecchio su cui la macchina da presa indugia o il disperdersi nel plumbeo cielo inglese dei fogli di giornale che la mater dolorosa ha mandato in regalo perché la controparte si possa rendere conto dello stato del sangue del suo sangue; sono fuori luogo, da cartolina del sud, i rapitori con aria truce ma anche con tarantella e tamburello neppure in grado di calarsi una calzamaglia sul viso quando accompagnano alla latrina il prigioniero, da debole raccontino come le comparse italiane ingaggiate per l’occasione. Siamo in pieno ridicolo con la scampagnata nel covo delle Brigate Rosse dello svogliato negoziatore Mark Wahlberg, pregasi suonare il campanello per ritrovare foto di Lenin e gagliardetti autoreferenziali, siamo all’imbroglio cinematografico se si pretende di far crepare, immerso tra i propri fantasmi notturni e tra i bagliori horror del camino, Getty I che invece se ne andrà al Creatore due anni dopo, con molte colpe (all’inizio fu la frase “ho 14 nipoti, se comincio a pagare per uno, finirà che me li rapiranno tutti quanti”) e poco ravvedimento: richiedendo indietro al nipote la somma sborsata (si era partiti da 17 milioni di dollari, si arrivò a poco meno di due miliardi di lire) con gli interessi del 4%. Ci si stupisce in ultimo che l’autore di Thelma & Louise, del Gladiatore e di Alien si sia lasciato aggrovigliare in un finale da copione televisivo, con vittime carnefici e soccorritori che si mettono a giocare a guardie e ladri sotto il protettivo suono delle pale degli elicotteri, che più arrivano i nostri! non potrebbe essere. È mancato lo studio di un grande tema come quello dell’Avidità (con la a maiuscola), analizzata con il Denaro che si fa Essere umano e privata di tutto un contorno che continua a saper troppo di facile caricatura, è mancata la profondità del racconto, pubblico e privato. O anche soltanto il buon senso.