A sei mesi dal BIG BANG e in vista dell’apertura delle Officine Sud, hanno preso il via alle Officine Nord tre nuovi progetti con un unico focus tematico: il rapporto tra arte, tecnologia e innovazione
Dal 30 marzo scorso la programmazione delle Officine Nord delle OGR è entrata a pieno regime con il funzionamento simultaneo dei tre “Binari” dedicati alle Arti Visive. A sei mesi esatti dalla restituzione alla città di Torino della grande “cattedrale” industriale di corso Castelfidardo recuperata dalla Fondazione CRT, con lo “SPRING BANG” – il BIG BANG di primavera – le OGR definiscono completamente la mission della prima Manica, attraverso la realizzazione di tre nuovi eventi: la mostra “Social Facts” dell’americana, pioniera delle installazioni, Susan Hiller e i due progetti “Learn & Play! teamLab Future Park” e “The NewsRoom”, tutti incentrati sull’unico focus tematico del rapporto tra arte, tecnologia e innovazione.“Si tratta di tre inediti e sperimentali progetti che mirano a riaffermare Torino come centro gravitazionale per i mondi del contemporaneo e dell’innovazione – sottolinea il direttore Artistico delle OGR Nicola Ricciardi – Nei primi sei mesi dall’opening abbiamo battezzato un nuovo ecosistema per lo sviluppo e la crescita del capitale culturale, sociale ed economico del territorio, in continuità con la propria storia. Questo nostro ‘SPRING BANG’ è un ulteriore passo in tale direzione, ovvero quella di fare delle OGR un luogo della città e per la città, dove contenuti unici e discipline a volte contrastanti trovino sede di produzione e contaminazione, e dove progettualità internazionali e pubblici diversi per formazione, estrazione, interessi convivano e interagiscano”. Ecco, dunque, nello specifico i contenuti dei tre
progetti:
Il Binario 1 ospita fino al 24 giugno “Social Facts”, mostra personale dell’artista americana ma inglese d’adozione Susan Hiller, a cura di Barbara Casavecchia: un percorso coinvolgente e spettacolare (il titolo è l’espressione che l’artista utilizza spesso per descrivere l’oggetto del proprio lavoro) incentrato su una nuova video- proiezione monumentale intitolata “Illuminazioni” (2018), cui ha contribuito, con le proprie voci, un gruppo di volontari torinesi. Sul grande schermo si rincorrono voci e suoni e volti e astratte composizioni cromatiche a mezza strada fra realtà e irrealtà. A tenere campo sono dunque situazioni misteriose e inspiegabili derivanti anche, nelle forme e nei contenuti, dalle precedenti esperienze operative della Hiller, che prima di dedicarsi all’attività artistica (lavorando soprattutto nell’ambito dell’arte concettuale e realizzando anche singolari opere sonore), ha studiato cinema, archeologia, linguistica e antropologia.
Fino al 27 maggio il Binario 2 è invece dedicato a “The NewsRoom. Un’immersione sensoriale nelle notizie”, progetto realizzato da “La Stampa” creato per esplorare nuove forme di giornalismo, in collaborazione con il collettivo “Studio Azzurro” vincitore di numerosi riconoscimenti internazionali. Lo spazio prende in questa occasione la forma di una mostra e di uno show digitale, di un’esperienza di giornalismo narrativo e interattivo basato sull’approfondimento.
Il Binario 3, infine, diventa la casa di “Learn & Play! teamLab Future Park”, primo progetto permanente in Europa di “teamLab”, collettivo di sviluppatori giapponesi il cui successo è stato consacrato dal pubblico di Expo 2015. Il progetto accoglierà in un ambiente digitale interattivo i bambini dai 3 ai 10 anni, invitandoli a esplorare il confine tra arte e tecnologia attraverso un insieme di installazioni e postazioni immersive.
L’arte in tutte le sue declinazioni trova quindi definitivamente casa nelle Officine Nord, con un forte attenzione ai linguaggi sperimentali delle arti visive e performative – presenti negli spazi dei Binari 1, 2 e 3 – e della musica – ospitata all’interno della Sala Fucine – mentre la suggestiva architettura del Duomo diventa punto di raccordo e di divulgazione del complesso programma delle OGR, ospitando
conferenze, dibattiti e appuntamenti legati al Public Program.
“Spring Bang”
OGR – Officine Grandi Riparazioni, corso Castelfidardo 22, Torino; tel. 011/2764708 – www.ogrtorino.it
g.m.


Bob & Marys – Criminali a domicilio – Commedia. Regia di Francesco Prisco, con Laura Morante e Rocco Papaleo. Lui lavora in un’autoscuola, lei è casalinga, una coppia senza problemi se non fosse che la loro casa, ai limiti di un quartiere di degrado, non fosse presa di mira da una banda di delinquenti che la eleggono a magazzino per nascondere certa merce che scotta. La realtà è quella di Napoli, la storia ha autentiche radici nel passato ma il regista sceglie di inquadrarla con il cuore più che leggero. Durata 110 minuti. (Ambrosio sala 2, Massaua, The Space, Uci)
tormentata, non potendo neppure contare sulla figura del padre, un uomo che ama mettersi nei guai e perciò costretto a rapide fughe dalle cittadine del nord in cui ha appena trovato un lavoro. In un momento di sosta e di pace prolungate, Charley trova una sua piccola occupazione presso l’alcolizzato Del, si occuperà di un cavallo piuttosto male in arnese, quasi non più adatto alle corse di un tempo. Un giorno il ragazzo scopre che che l’animale sta per essere mandato al macello. Dal regista di “45 anni” con una premiatissima Charlotte Rampling, il giovane protagonista, bravissimo e premiato a Venezia con il premio Mastroianni, lo abbiamo visto come Paul Getty jr nel recente film di Ridley Scott. Durata 122 minuti. (Nazionale sala 1)
Chiamami col tuo nome – Drammatico. Regia di Luca Guadagnino, con Timothée Chalamet, Armie Hammer e Amira Casar. Nei dintorni di Crema, il 1983: come ogni anno il padre del diciassettenne Elio, professore universitario, ospita nella propria casa un borsista per l’intera estate. L’arrivo del disinvolto Oliver non lascia insensibile il ragazzo, che scopre il sesso con una coetanea ma che poco a poco ricambiato approfondisce la propria relazione con l’ospite. Un’educazione sentimentale, i libri e la musica, Eraclito e Heidegger, Bach e Busoni, l’ambiente pieno di libertà della sinistra, i discorsi insperati di un padre, il tempo scandito dalle cene e dalle discussioni su Craxi e Grillo, il vecchio factotum che di nome fa virgilianamente Anchise, passeggiate e discussioni, corse in bicicletta, ritrovamenti di statue in fondo al lago, nuotate in piccoli spazi d’acqua, felici intimità, in una delicatezza cinematografica (la macchina da presa pronta ad allontanarsi velocemente da qualsiasi eccessivo imbarazzo) che assorbe nei temi (“Io ballo da sola”) e nei luoghi (i paesini, i casali, la calura di “Novecento”) il passato di Bertolucci o guarda al “Teorema” pasoliniano. L’ultima opera di un regista (“Io sono l’amore”, “A bigger splash”) che con la critica di casa nostra non ha mai avuto rapporti troppo cordiali, osannato all’estero. La sceneggiatura firmata da James Ivory e tratta dal romanzo di André Aciman ha conquistato meritatamente l’Oscar. Durata130 minuti. (Eliseo rosso)
Il filo nascosto – Drammatico. Regia di Paul Thomas Anderson, con Daniel Day-Lewis, Vicky Krieps e Lesley Manville. Nella Londra degli anni Cinquanta, il famoso sarto Reynolds Woodcock è la figura centrale dell’alta moda britannica, eccellentemente coadiuvato dalla sorella Cyril: realizzano gli abiti per la famiglia reale (qualcuno ha visto il ritratto del celebre Norman Hartnell), per le stelle del cinema, per ereditiere, debuttanti e dame sempre con lo stile distinto della casa di Woodcock. Il grande sarto è anche un incallito e incredibile dongiovanni, nella cui vita le donne, fonte d’ispirazione e occasione di compagnia, entrano ed escono: fino a che non sopraggiunge la presenza della semplice quanto volitiva, a modo suo spregiudicata, Alma, una giovane cameriera di origini tedesche, pronta a diventare parte troppo importante della vita dell’uomo, musa e amante. L’ordine e la meticolosità, doti che si rispecchiano meravigliosamente nella fattura degli abiti e nella condotta di vita, un tempo così ben controllata e pianificata, vengono sovvertiti, in una lotta quotidiana tra uomo e donna. Film geometrico e algido quanto perfetto, forse scontroso, eccezionale prova interpretativa per la Manville e per Day-Lewis, forse il canto del cigno per l’interprete del “Mio piede sinistro” e di “Lincoln”, convinto da oggi in poi ad abbandonare lo schermo. Oscar per i migliori costumi. Durata 130 minuti.
Venezia, tredici candidature agli Oscar, arriva l’attesissima storia del mostro richiuso in una gabbia di vetro all’interno di un laboratorio governativo ad alta sicurezza (siamo negli States, in piena guerra fredda, il 1962) e del suo incontro con una giovane donna delle pulizie, Elisa, orfana e muta, dei tentativi di questa di salvarlo dalla cupidigia dei cattivi. Avrà l’aiuto degli amici (il disegnatore gay, lo scienziato russo pieno di ideali, la collega di colore), cancellando la solitudine e alimentando i sogni, in un’atmosfera che si culla sulle musiche di Alexandre Desplat, contaminate da quelle dei grandi del jazz degli anni Sessanta. Durata 123 minuti. (Ambrosio sala 3, Massaua, Eliseo Rosso, Reposi, Uci)
Hostiles – Ostili – Western. Regia di Scott Cooper, con Christian Bale, Rosamund Pike e Wes Studi. Nel 1892, due anni dopo il massacro di Wounded Knee, non ancora consolidata la pace tra indiani e visi pallidi, al capitano Joseph Blocker viene affidato l’incarico non facile di riportare nelle terre del Montana il vecchio capo Cheyenne Yellow Hawk, proprio il responsabile delle morti di molti soldati del capitano. Durante il lungo percorso molti fatti verranno a mutare i rapporti tra i due uomini, non ultimo la presenza di una donna cui gli indiani hanno distrutto l’intera famiglia. Paesaggi, personaggi che sanno d’antico, un genere che ha avuto vita gloriosa e che oggi, più che raramente, vede qualche debole accenno. Bale è un macigno, un trionfo di espressioni indurite, capace di conservare un’unica speranza nella scena finale, pieno di crudeltà e di piccoli affetti; il film è un vero capolavoro, nello spessore del racconto, nella cadenza che il regista sa imprimergli, nel vecchio quanto superbo impianto, nella rivisitazione di una intera Storia. Gli appassionati non se lo lascino sfuggire. Durata 127 minuti. (Greenwich sala 3)
Lady Bird – Drammatico. Regia di Greta Gerwig, con Saoirse Ronan, Lucas Hedges, Timothée Chalamet e Laurie Metcalf. Una storia che pesca nell’autobiografia, l’autrice, come il personaggio femminile del film, è nata a Sacramento, in California, e sin da giovane smaniosa di raggiungere la costa orientale per studiare e dedicarsi al cinema. Anche Christine sogna di iscriversi ad una università nella parte opposta degli States, sottrarsi alla madre autoritaria, alla figura del padre senza lavoro, a quel piccolo mondo che la circonda. S’inventa storie, fa fronte alle prime prove d’amore, dal risultato negativo, fa di tutto per mettersi in buona luce agli occhi dei compagni di scuola che sembrano valere più di lei, ricavandone delusioni, s’appiccica quel nome del titolo: quale sarà il suo futuro? Un ritratto femminile già visto altre volte, che cerca continuamente sfide interpretative e di regia: ma un film che non lascerà un grande ricordo di sé, a bocca asciutta nella notte degli Oscar. Durata 94 minuti. (Nazionale sala 2)
bella restauratrice, con un paio di aiutanti al seguito, che vive grazie alla pensione della nonna visto che lo Stato tarda a riconoscerle i quattrini che le deve per tutto il lavoro che ha svolto. E se la vegliarda passa a miglior vita? Spetterà alla ragazza ingegnarsi per la sopravvivenza, l’elettrodomestico del titolo fa al caso suo, le amiche un piccolo aiuto non lo negano e la pensione della nonna si potrà continuare a percepire. Durata 100 minuti. (The Space, Uci)
una moglie che ha deciso di lasciarlo, una rapina finita male che è costata la vita di parecchi suoi uomini. Dall’altra parte una banda di delinquenti, un curriculum di tutto rispetto, dall’addestramento paramilitare alla permanenza nelle patrie galere, il progetto studiato in ogni più piccolo particolare a svuotare la Federal Reserve Bank di Los Angeles ritenuta inespugnabile. Durata 140 minuti. (Massaua, Ideal, Lux sala 1, Reposi, The Space, Uci)
L’ora più buia – Drammatico. Regia di Joe Wright, con Gary Oldman, Kristin Scott Thomas, Lily James e Ben Mendelsohn. L’acclamato autore di “Espiazione “ e “Anna Karenina” guarda adesso al secondo conflitto mondiale, all’ora decisiva del primo anno di guerra, alla figura del primo ministro inglese Winston Churchill. Nel maggio del ’40, dimessosi Chamberlain e da poco eletto lui alla carica, inviso al partito opposto e neppure in grado di poter contare sui suoi colleghi di partito e sul re che lo tollera, mentre le truppe tedesche hanno iniziato a invadere i territori europei, Churchill combatte in una difficile quanto decisiva scelta, se concludere un armistizio con la Germania dopo la repentina caduta della Francia oppure avventurarsi nell’intervento di un conflitto armato. Mentre si prepara l’invasione della Gran Bretagna, si deve pensare alla salvezza del paese, grazie ad una pace anche temporanea, o l’affermazione con una strenua lotta degli ideali di libertà: una delle prime mosse fu il recupero dei soldati intrappolati sulle spiagge di Dunkerque (come già ad inizio stagione ci ha insegnato lo stupendo film di Christopher Nolan). Oldman s’è visto per il ruolo assegnare un Globe, ha meritatamente conquistato poche sere fa l’Oscar, un’interpretazione che colpisce per la concretezza, per gli scatti d’ira e per quel tanto di cocciutaggine e lungimiranza britannica che in quell’occasione s’impose. Uno sguardo al trucco dell’interprete: un secondo Oscar al film, premio agli artefici e alle tante ore di perfezione ogni giorno di lavorazione cui l’attore s’è sottoposto. Durata 125 minuti. (Greenwich sala 3)
Ricomincio da noi – Commedia. Regia di Richard Loncraine, con Imelda Stauton, Celia Imrie e Timothy Spall. Il film che con risate, un po’ di autentica commozione e grande successo aveva aperto l’ultimo TFF. Scoperto che il marito la tradisce da anni con la sua migliore amica (mai fidarsi!), la protagonista scopre, attraverso l’eccentricità della sorella, quei tanti amici che la circondano, il suo modo spensierato di affrontare e condurre la vita, di avere voglia di buttarsi alle spalle tutto quanto, magari iniziando con il frequentare una sala da ballo. La attendono ancora altre prove ma un non più giovane innamorato la farà decidere la nuova strada da intraprendere. Nessuno scossone ma una bella botta di vita comunque, per lo spettatore e per la terna d’attori che sono tra il meglio del cinema e del teatro inglesi, da ammirare. Durata 110 minuti. (Romano sala 3)
luoghi, per investigare sul ritrovamento del corpo martoriato di una ragazza scomparsa. Le dà sostegno e aiuto Cory, un navigato cacciatore impiegato a difendere il bestiame dagli attacchi dei predatori sempre in agguato, un animo tormentato, abbandonato dalla moglie dopo la scomparsa della figlia maggiore. Entrambi alla ricerca del colpevole, in un territorio dove ogni cosa sembra essere abbandonato alla violenza, in cui forse è necessario agire e rispondere esclusivamente con le sue stesse leggi. Dallo sceneggiatore di “Sicario” e “Hell or High Water”, terzo capitolo di una trilogia che ha affrontato il tema della frontiera americana oggi. Miglior regia a Un certain regard a Cannes lo scorso anno, grande successo al TFF. Durata 107 minuti. (Eliseo Grande, Ideal, Massimo sala 1 anche in V.O., Uci)
Brogi, Lorenzo Pedrotti e Viola Sartoretto. Tre storie che s’intrecciano per confluire insieme in un angolo di serenità. La giovane Gea, malata terminale, all’insaputa della famiglia si rifugia con un amico, forse innamorato di lei, in una valle piemontese al confine con il territorio svizzero. Là, in una borgata antica, fatta di case di pietra, dimenticata, vivono un vecchio frate eremita che ha raccolto negli anni una ricchissima biblioteca e un medico, in cerca di medicamenti alternativi, senza risposte certe, e per questo cacciato dalla civiltà che lo ha giudicato e condannato. Un’altra scommessa vincente per l’autore che tre anni fa con “E fu sera e fu mattina” divenne un caso cinematografico, ovvero budget ridotto all’osso e grande successo per i cinefili doc: anche adesso, con un amichevole passaparola, il film, accompagnato con amore dal suo autore, si sta dimostrando, anche se imperfetto, un invidiabile successo. Durata 110 minuti. (Reposi)
Tre manifesti a Ebbing, Missouri – Drammatico. Regia di Martin McDonagh, con Frances McDormand, Woody Harrelson, Sam Rockwell, Abbie Cornish e Lucas Hedges. Da sette mesi le ricerche e le indagini sulla morte della giovane Angela, violentata e ammazzata, non hanno dato sviluppi né certezze ed ecco che allora la madre Mildred compie una mossa coraggiosa, affitta sulla strada che porta a Ebbing, tre cartelloni pubblicitari con altrettanti messaggi di domanda accusatoria e di “incitamento” diretti a William Willoughby, il venerato capo della polizia, onesto e vulnerabile, malato di cancro. Coinvolgendo in seguito nella sua lotta anche il vicesceriffo Dixon, uomo immaturo dal comportamento violento e aggressivo, la donna finisce con l’essere un pericolo per l’intera comunità, mal sopportata, quella che da vittima si trasforma velocemente in minaccia: ogni cosa essendo immersa nella descrizione di una provincia americana che coltiva il razzismo, grumi di violenza e corruzione. Oscar strameritati per la protagonista e per il poliziotto mammone e fuori di testa di Rockwell. Durata 132 minuti. (Greenwich sala 2)
di
presente anche la data di morte, il 1950, e quindi nel 2020 sarebbero settant’anni tondi… Ma la situazione d’oggi, politica e culturale, rappresenta un contesto particolarmente interessante per un confronto storico-critico spregiudicato sul corpus pavesiano.
Jesi (Cesare Pavese, il mito e la scienza del mito, in “Sigma”, n. 3-4, 1964) e di Lorenzo Mondo, che su “La Stampa” dell’8 agosto 1990 rivelò parti censurate del Taccuino segreto di Pavese. Ma anche recentemente un altro piemontese illustre, Franco Ferrarotti, amico personale di Pavese, ha dichiarato l’impossibilità di considerarlo storicista, crociano o marxista (
FINO AL 14 APRILE
Architettura e seguito i corsi di incisione alla Libera Scuola di Nudo dell’Accademia Albertina– ho cominciato a dipingere e a disegnare sistematicamente e con ferma convinzione”. E proprio lì, la pittrice compra casa negli anni Ottanta. A Sa Costa, nella parte più antica della città. Il posto del cuore, in assoluto, dove ritorna ogni estate, “di cui mi sono innamorata e che ho cominciato a dipingere, osservandone i mille aspetti diversi, i suoi angoli, la sua luce, le sue ombre, i suoi colori, perfino i suoi rumori o i suoi silenzi. Ma a modo mio, vedendola sempre uguale e sempre diversa”. Nella sua casa di origini medioevali, una delle tante coloratissime edificate con pietre di trachite rosa e attaccate l’una all’altra, a baciarsi muro a muro – lungo strade parallele unite da verticali scalette – e dominate dal Castello dei Malaspina (XII-XIII secolo), nasce la maggior parte delle sue opere, già esposte in mostre personali e collettive, ma anche un libro-diario, un “carnet
de voyage”, dal titolo “Bosa e i suoi colori” pubblicato nel 2007 dall’editrice “Inchiostro Rosso”, in cui la Saraceno illustra i luoghi per immagini e parole manoscritte “con lo sguardo attento e paziente di un’esploratrice che ha preferito ascoltare piuttosto che parlare”. Un gesto d’amore per la “sua” città d’adozione.
e a dominare. Strade, viottoli e vicoli, interni di cortile con i resti di una serata fra amici o in famiglia, un tavolino una bottiglia due bicchieri e una testa in pietra sul muretto dove due mici paiono dialogare al chiar di luna, ancora lontani dal sonno a venire. I colori fanno breccia a fatica fra il nero del cielo e quello dei primi piani e delle quinte teatrali che hanno la sagoma di scure e larghe chiome appartenenti ad alberi secolari. Assente l’uomo. Di lui c’è silente traccia dietro quelle finestre chiuse e contornate di pietre di trachite, su cui s’abbattono con magnifica violenza larghe sciabolate di luce che danno calore e sagoma di racconto alla fitta oscurità della notte. Luoghi particolari. Che solo lì sembrano trovar ragione di esistere. Un po’ come per la collina raccontata da Cesare Pavese, non “un luogo tra gli altri, ma un aspetto delle cose, un modo di vivere”. Così è anche per la Bosa di Elena Saraceno, che racconta: “La cosa che continua a ispirarmi è questo miracolo naturale e architettonico ancora intatto nonostante gli anni di grande cambiamento che abbiamo vissuto. Se vai a Tentizzos o ti fai un giro nell’entroterra ti rendi conto che il territorio è ancora integro o se ti fai una passeggiata lungo i vicoli di Sa Costa si respira un’atmosfera eterna e sembra che la modernità abbia voluto risparmiare ‘Bosa e i suoi colori’”.
Operart – Via della Rocca 12, Torino 

barocchetto si trova nelle sovrapporte della Sala degli Archivi di Palazzo Reale e della Palazzina di Stupinigi in accordo con lo spirito arcadico Juvarriano. Senza dimenticare che Olivero fu anche valente disegnatore come attestano i circa180 disegni, contenuti in un volume del Museo Civico torinese, che erano stati attribuiti erroneamente, nonostante la sua firma, dal mercato antiquario inglese a Jacques Van Laer. Le opere in mostra rendono partecipi delle tradizioni popolari e della parabola della vita quotidiana con rappresentazione dettagliata, sincera e garbata dei soggetti in cui egli si identifica; si sente parte di quell’umanità semplice e vera intenerendosi al cospetto di madri che cullano o allattano infanti mentre vendono la merce nei mercati, gioisce ai giochi dei bimbi e alla vista dell’albero della cuccagna, s’inebria di vino durante la festa dei brentatori, prova lo stesso stupore dei popolani che guardano attraverso il “ mondo nuovo” del pantoscopio usato dagli ambulanti nelle fiere, è orgoglioso dell’eroismo dei soldati nell’accampamento, prega insieme ai fedeli alla festa della Madonna del Pilone. Le immagini riportano una Torino riconoscibile negli usi, costumi e vedute paesistiche ma suggeriscono aperture più vaste superando i limiti strettamente locali allargandoli ai molteplici aspetti di un’epoca di grandi cambiamenti e del sorgere di una nuova coscienza avviata alla modernità.
famoso dipinto di Rembrandt, sicuramente ricordato, non compare un simbolismo drammatico ma solo un’ispirazione iconografica e un virtuosismo tecnico dell’uso della luce e del colore. Più vicino sicuramente allo schietto realismo della “bottega del macellaio” di Annibale Carracci che coraggiosamente rompeva il tardo manierismo cinquecentesco, ormai l’Olivero nel 700 si sente a suo agio e libero di esprimersi secondo i propri interessi ben accettati da Vittorio Amedeo II che, pur consigliandogli una pittura più nobile, l’accoglieva benevolmente a Corte apprezzando i suoi dipinti di piccoli eventi pieni di poesia.
LE POESIE DI ALESSIA SAVOINI
Quella che è stata definita “la più grande rivoluzione culturale della storia” ha una data: 23 febbraio 1455. Pare fosse un venerdì e a Magonza, città tedesca sulle rive del Reno, oggi capoluogo della Renania-Palatinato, vedeva la luce il primo libro stampato a caratteri mobili in Occidente, la Bibbia nella traduzione latina di San Gerolamo
grazie all’innovazione dei caratteri riutilizzabili, nel giro un triennio – lo stesso tempo in cui veniva scritto un libro a mano – furono stampate 180 Bibbie in due volumi di 1282 pagine complessive, una quarantina su preziosa pergamena e le altre su carta di canapa importata dall’Italia. I libri stampati con la nuova tecnica, nel periodo compreso tra il 1453 e il 1500, vennero chiamati incunaboli e nel caso della Bibbia (con le sue
quarantadue righe di ciascuna pagina, disposte su due colonne) il carattere usato fu il gotico. I costi dell’impresa che segnò una rivoluzione nella diffusione del sapere e dell’istruzione si presentarono alquanto onerosi e Gutenberg, per finanziarla, dovette appoggiarsi all’orafo Johann Fust. Fu quest’ultimo, a fronte del successo, l’unico a trarne profitto. Infatti, prima che la produzione dei volumi fosse terminata, citò in giudizio Gutenberg con la richiesta di 2.026 fiorini, ossia il danaro da lui prestato con gli interessi. Al processo, Peter Schöffer, incisore che lavorò nell’officina di Gutenberg, testimoniò a favore di Fust contro l’inventore dei caratteri mobili. Gutenberg, non disponendo del
denaro per rimborsare il prestito, dovette cedergli i caratteri e l’attrezzatura per la stampa. Successivamente lo stesso Schöffer si mise in società con Fust e la loro stamperia pubblicò nel 1457 il Libro dei Salmi, primo esempio di stampa a colori. Solo attraverso le testimonianze dell’epoca fu possibile successivamente riconoscere i meriti del geniale tipografo tedesco, al quale non poté essere scippata anche la giusta fama. Di quella Bibbia, libro dal valore inestimabile, ne sono rimaste ora solo 48 copie custodite nelle più importanti biblioteche del mondo.
FINO AL 16 SETTEMBRE
proprietari con i quali Intesa Sanpaolo ha collaborato per questa edizione e per un imponente lavoro di recupero che ha coinvolto ben 205 professionisti del restauro, in tutt’Italia senza escludere il Centro Conservazione e Restauro “La Venaria Reale” con cui s’è stabilita da tempo una collaborazione continuativa.
dipinto” proveniente dal Museo Nazionale degli Strumenti Musicali di Roma. A chiudere, significativamente, il percorso espositivo una sala dedicata alle opere danneggiate dagli eventi sismici. In occasione della mostra sono previsti anche un ciclo di incontri divulgativi sul “restauro” ed una serie di laboratori didattici a cura dei Servizi Educativi de La Venaria Reale e del Centro Conservazione e Restauro. Inoltre, sempre nell’ambito di “Restituzioni”, Intesa Sanpaolo sosterrà il simposio internazionale “Anche le statue muoiono. Distruzione e conservazione nei tempi antichi e moderni” che si terrà il 28 e il 29 maggio prossimi a Torino, per affrontare il tema della “fragilità” del patrimonio culturale (“la cui perdita – sottolinea Giovanni Bazoli, presidente emerito di Intesa – sarebbe un vulnus della nostra identità nazionale”) con studiosi provenienti da tutto il mondo. Il Simposio è organizzato dal Museo Egizio di Torino, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e Musei Reali, in collaborazione con il Centro Ricerche Archeologiche e Scavi di Torino.