CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 75

Musei a Ferragosto, a Torino vince la cultura

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Sono stati 15.741 i visitatori del Museo Egizio a cavallo delle festività di Ferragosto, da giovedì 14 a domenica 17 agosto 2025. Un dato leggermente superiore rispetto a quello registrato lo scorso anno: nel 2024 in 4 giorni di ponte si erano registrati 14.929 visitatori.

Le giornate che hanno avuto maggiore affluenza di pubblico quest’anno sono state venerdì 15 agosto con 4.728 ingressi sabato 16 agosto con 3.887 visitatori.

Ai Musei Reali di Torino, grande successo di pubblico durante il weekend di Ferragosto. Tra venerdì 15 e domenica 17 agosto 2025, sono stati emessi 5.653 biglietti. In particolare, 4.757 hanno consentito la visita alle collezioni permanenti, allo Spazio Leonardo e all’installazione multimediale Oculus Spei di Annalaura di Luggo, mentre sono stati 896 i biglietti staccati per ammirare l’esposizione Da Botticelli a Mucha. Bellezza, natura, seduzione, prorogata fino al 28 settembre 2025 nelle Sale Chiablese.

Ottima è stata anche l’affluenza libera, rilevata grazie a un applicativo digitale, nei Giardini Reali (5.343), l’area verde di straordinario valore monumentale e ambientale che ospita, fino al 16 settembre, la mostra personale dell’artista contemporaneo Giuseppe Maraniello.

A questi dati si aggiunge il grande successo dell’apertura straordinaria di mercoledì 13 agosto, giornata di chiusura infrasettimanale, in cui i Musei Reali hanno registrato oltre 1.300 ingressi.

Ecco invece i dati dei visitatori nei 3 giorni del ponte di Ferragosto (venerdì 15 – domenica 17 agosto 2025) alla GAM – Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, al MAO Museo d’Arte Orientale e a Palazzo Madama – Museo Civico d’Arte Antica di Torino.

GAM: 2.075 ingressi
MAO: 2.385 ingressi
Palazzo Madama: 5.056 ingressi

Totale FTM: nelle tre giornate sono stati 9.516 i biglietti staccati (6.508 nella sola giornata di Ferragosto).

Nel 2024 nei 4 giorni del ponte di Ferragosto (giovedì/domenica) i visitatori erano stati 9.130.

“La rosa s’aperse”: al Polo Museale di Druogno

Ampia selezione di opere grafiche e pittoriche raccolte in una suggestiva retrospettiva dedicata ad Elisabetta Viarengo Miniotti

Fino al 28 settembre

Druogno (VB)

Fin dal titolo – “La rosa s’aperse” – il messaggio è da subito ben chiaro. Il “viaggio” sarà tutto “ viaggio di poesia”. Poesia, di quella alta, che non ti lascia il tempo di tirare il fiato e ti porta inesorabilmente in quell’universo silenzioso e appartato fatto di armonia e bellezza dov’è giocoforza arrenderti allo smarrimento e alla pura contemplazione. Tant’è. Questo capita aggirandosi fra le sale espositive del “Polo Museale UniversiCà” di Druogno, storica località turistica della splendida Val Vigezzo (Verbano-Cusio-Ossola), che, fino a domenica 28 settembre, ospita, a cinque anni dalla scomparsa, un’ampia selezione di opere grafiche e pittoriche  dell’artista torinese Elisabetta Viarengo Miniotti, pittrice (allieva di Filippo Scroppo e di Giacomo Soffiantino all’“Accademia Albertina” di Torino) e straordinaria maestra di “incisione”, tecnica approfondita a Venezia al “Corso Internazionale di Incisione Sperimentale” sotto la guida di Riccardo Licata. Questo capita. E al sottoscritto, fidatevi!, è più volte capitato (“experientia docet”) trovandosi, più d’una volta, “vis à vis” con le opere dell’artista (Torino, 1937 – 2020). Realizzata dalla “Fondazione Elisabetta Viarengo Miniotti E.T.S.” (aperta a Torino, in via Villarbasse 30, dov’era lo studio della stessa pittrice), con il patrocinio di “Regione Piemonte”, “Provincia del Verbano-Cusio-Ossola”, del “Comune di Druogno”, dell’“Unione Montana Valli dell’Ossola” e della “Comunità Montana Val Vigezzo”, la rassegna è curata e presentata con fine maestria da Gianfranco Schialvino.

Che proprio a quella “rosa s’aperse” (poetico titolo della mostra e contenuto narrativo della “preziosa” acquaforte esposta in rassegna “Il giardino di re Mida” del 2015) s’appiglia per ricordarne la similare immediata affinità letteraria con il dannunziano “fiore s’aperse” dell’“Oleandro”dall’“Alcyone” del “Vate” pescarese (1903), pur propendendo per un miglior approccio alla “rosa fresca aulentissima”, celebre “contrasto” in “volgare” siciliano (XIII secolo) di Cielo d’Alcamo (giullare o poeta di corte?) poiché  “come la pagina miniata – annota Schialvino – di un ‘incunabulo di nostra gente’ l’avventura artistica di Elisabetta Viarengo Miniotti offre e richiede due metodi di lettura: quello dell’ammirazione per la sua perizia tecnica, che le consentiva di passare con disinvoltura dai pennelli agli acidi, dalle tele alla carta, dal bistro ai colori; e quello per i rischi che un artista ama ogni volta affrontare nella ricerca di soggetti nuovi, mai crogiolandosi su quel che ha già raggiunto in perfezione bensì gettandosi a capofitto in sempre diverse avventure”. E ogni pennellata, per Elisabetta, era davvero un “rischio”, una magnifica “avventura”. Rischio linguistico calcolato, rapido, corposo, inventivo, ma sempre in grado di bloccarsi all’istante, laddove l’impulso creativo rischiava di estromettere dai binari dell’“armonia” racconti di uomini e cose- di inquietanti “Arlecchini” nascosti dietro i tronchi biancastri delle betulle – di oggetti, figure e immagini di natura o di animali (poesia pura quella farfalla con la “polvere di giaggiolo” sulle ali!) che nelle sue opere diventavano “corpo unico” (esemplare in tal senso il corpo del nuotatore che diventa massa confusa fra acque ingorde e voraci) nel vigoroso abbraccio del colore o in una gestualità (per la quale si sono trovate importanti numerose assonanze e influenze con alcuni “grandi” dell’arte internazionale) ma che mai riuscì a sfiorarne il benché minimo tentativo di abbandonare la strada di una mai barattabile “singolarità”.

Nel campo soprattutto di “un’astrazione – scrive la critica d’arte e sua sincera amica Donatella Tavernache era piuttosto indefinitezza, poiché il finito, il netto, il fotografico era secondo lei limitante e in un certo senso ottundente”. Parole chiare di chi ben ne conosceva l’indole, l’onestà e l’afflato artistico. “Elisabetta non ha mai cercato clamore – aggiungono ancora i famigliari dell’artista cui si deve la nascita della ‘Fondazione’ a lei dedicata – eppure chiunque l’abbia conosciuta sa bene quanto fosse intensa la sua dedizione all’arte”. Alla visione di un mondo “di cui come famiglia e come ‘Fondazione’ ci sentiamo custodi, desiderosi di condividerla, di farla sbocciare ancora … come una rosa che continua ad aprirsi”.

Gianni Milani

“La rosa s’aperse”

Polo Museale UniversiCà, via Colonia 2, Druogno (VB); tel. 393/2611963 o www.universica.it  .

Fino al 28 settembre

Orari: luglio festivi; agosto, dall’1 al 17, tutti i giorni; dal 18 al 31, festivi; settembre su prenotazione

Nelle foto: Elisabetta Viarengo Miniotti “Giardino di re Mida”, acquaforte, 2015; “Nascondino (Arlecchino)”, olio su tela, 2011; “In vasca 2”, olio su tela, 2003; “Visitazione”, acquaforte a ceramolle, 20

Il TorinoFilmLab al Locarno Film Festival 2025

 

Il 78esimo Locarno Film Festival si è appena concluso con la vittoria di un film targato TorinoFilmLab. Il premio speciale della giuria del concorso internazionale  è stato assegnato, infatti, a White Snail di Elsa Kremser, (Austria), e Levin Peter ( Germania).

White Snail è il primo lungo di finzione del duo, che insieme ha già diretto altri titoli e che, nel 2021, ha partecipato al FeatureLab. Per i due registi il film racconta un punto di svolta nella vita di due giovani bielorussi, un atto di sfida verso lo stigma e l’esclusione, una fragile storia d’amore tra due outsider che mettono in crisi l’uno il mondo dell’altra, scoprendo così di non essere soli.
Per la competizione Cineasti del presente, il nuovo film dell’alumnus Minh Quy Truong, dal titolo “Hair, Paper, Water…” e diretto insieme a Nicolas Graux , è stato premiato con il Pardo d’Oro concorso Cineasti del Presente. Il film ha ricevuto anche la menzione per il Premio Pardo Verde, riservato alle opere  che meglio riflettono temi come l’ecologia e la sostenibilità.

Nel 2022 il TorinoFilmLab ha scelto Minh Quy Truong del Vietnam con il suo film ‘Viet and Nam’ come vincitore del TFL Co Production Fund di 50 mila euro, che ha poi esordito al Festival di Cannes 2024, nella sezione Un Certain Regard.

Mara Martellotta

La rubrica della domenica di Pier Franco Quaglieni

SOMMARIO: Aldo Cazzullo ad Alassio – Alaska -Lettere

Aldo Cazzullo ad Alassio
Cazzullo riceve il premio per l’informazione culturale ad Alassio . Con tutti i libri pubblicati sui temi più disparati, gli editoriali e le interviste (non settarie) che pubblica, credo sarebbe diventato difficile non conferirgli il premio alassino 2025. Anche la sua presenza televisiva sulla  7  è stata massiccia. Nessun giornalista, neppure Mieli, ha oggi la notorietà di Cazzullo che da giovane andava in vacanza a Loano, ma avrebbe aspirato ad Alassio. Poi la famiglia comprò una casa ad Andora e il sindaco Mauro  Demichelis  gli diede qualche anno fa le chiavi della città con notevole  preveggenza. Conosco Cazzullo da molti anni e anch’io in tempi lontani l’ho premiato nel suggestivo studio del pittore Enrico Paulucci a Torino. Ci affacciammo insieme sul balcone da cui si vede piazza Vittorio, il Po, il monte dei Cappuccini all’imbrunire: una suggestione indimenticabile.
Cazzullo ha le sue idee, ma sa anche rispettare quelle degli altri. Un fanatico   di un paesino ligure  ha suggerito ad un pronipote di Mussolini di chiedere a Cazzullo un contraddittorio  sui temi del fascismo allo scopo di creare un po’ di confusione. Da storico ho una visione del fascismo e di Mussolini diversa da quella di Cazzullo, ma quella del pronipote del duce mi appare priva totalmente di cultura storica e di attendibilità. Un libro scritto o fatto scrivere da altri che non merita di essere letto e neppure considerato. Approfittare del premio a Cazzullo per qualche minuto di visibilità mi  appare molto meschino.
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Alaska
Ogni passo verso la pace in un mondo in guerra che rischia un conflitto nucleare devastante da cui il mondo intero non si salverebbe, è sempre importante. Trump ha tentato senza successo di smuovere le cose, avviando un dialogo. Non credo che il vertice abbia dato risultati, ma va neppure considerato a priori un fallimento.
La storia è sempre imprevedibile e non bisogna cessare di sperare in altri passi successivi.  Parlarsi fa sempre bene. Certo il dignitario russo alla corte dello Zar con la maglietta dell’URSS appare un elemento che ha dell’ incredibile e forse è stata una provocazione per farsi notar e Ma sotto tanti punti di vista la Russia è tornata sovietica o è nostalgica dell’impero sovietico. Quell’impero dopo Yalta e la divisione delle sfere di influenza ha contribuito,  magari forzatamente e non certo per amore della pace, un equilibrio che ha evitato una terza guerra mondiale. E’ un ricordo lontano che ci indica come non sempre sono stati i pacifisti ad evitare le guerre. Proviamo a crederci anche noi. Non perdiamo nulla e troviamo una via magari illusoria per evitare a noi  le  troppe ansie ed alleviare  ai tanti attivisti in inutile e e mobilitazione  la fatica delle loro continue esibizioni in piazza.
LETTERE  scrivere a quaglieni@gmail.com
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Erba in piazza San Carlo
Sono stata  a fare una passeggiata in piazza San Carlo anche per vedere i cantieri della nuova via Roma che sembrano quasi quelli del Ventennio che rifece l’ intera via.
Vi mando due fotografie dalle quali, malgrado la siccità, appare come l’erba cresca  abbondantemente tra il porfido di piazza San Carlo. Torino città più verde d’Italia o incuria  anche nel salotto di Torino? Forse occorrerebbero due capre per brucare l’erba. Io vengo da Saluzzo, ma  la manutenzione della  mia città è ben diversa.
 Giorgina Bocca
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Io mi limito a transitare sotto i portici e non cammino mai nella piazza. Passo sotto i portici per vedere le vetrine e magari prendere un aperitivo da Stratta.  Gli artisti di strada mi infastidiscono come i vecchietti sulle panchine in piazza mi intristiscono. Non mi ero quindi  mai accorto dell’erba. Un fatto marginale perché l’incuria, da quando è stato istituito un apposito  assessorato alla cura della città ,è un  problema del centro e della  periferia . Sono lontani i tempi quando bastava un sms al sindaco Fassino per ottenere un intervento veloce. Oggi Torino – al di là dell’impegno del sindaco che apprezzo – ha alcuni assessori che andrebbero mandati a casa , ma gli equilibri politici precari impongono di non toccare nulla.
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La storia non si può attualizzare  
Ho assistito ad una recente presentazione ligure del suo libro su Pannunzio. Mi ha stupito  il tentativo di una presentatrice di “attualizzare Pannunzio“. Lei ha dissentito, ma è stato generoso, forse troppo generoso. È  stato  perfino troppo cavaliere. Lo dico da donna. Con un uomo avrebbe reagito diversamente. Buon Ferragosto!   Maria  Aicardi
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E ‘ stata una serata non positiva. Ometto il nome della signora in questione, ma preciso che  non è stata  ovviamente la presentazione della prof. Jaqueline Visconti che si è rivelata ancora una volta intellettualmente straordinaria .La storia è storia e attualizzarla è  un errore. Semmai essa va contestualizzata. Prevedere da che parte starebbe oggi  Pannunzio o chiunque altro  è una sciocchezza in cui cadono anche le persone acculturate. Se poi si vuole portarlo dalla propria parte per avvalorare le proprie ragioni politiche, è  operazione intellettualmente scorretta. Sono vecchi discorsi che chi è ideologizzato non può capire.

Addio a Pippo Baudo: due momenti memorabili al Salone del Libro di Torino

Questa sera, 16 agosto 2025, Giuseppe Raimondo Vittorio “Pippo” Baudo si è spento a Roma all’età di 89 anni, lasciando un segno indelebile nel panorama televisivo italiano.  Nato a Militello in Val di Catania il 7 giugno 1936, era un volto familiare delle famiglie italiane sin dai primi anni Sessanta. Laureato in Giurisprudenza, iniziò la sua carriera come cantante e pianista, debuttando in TV nel 1959. Conduce tredici edizioni del Festival di Sanremo, stabilendo un record. È l’ultimo dei grandi presentatori con Mike Bongiorno, Corrado, Enzo Tortora e Raimondo Vianello. Nel 2016 lo ricordiamo a Torino sul palco del Salone del Libro quando Baudo interviene insieme a Chiara Gamberale per presentare l’ultimo romanzo di Walter Veltroni, intitolato Ciao, nel quale l’autore ripercorre il rapporto con il padre Vittorio, storico radiocronista Rai. Baudo scherza sull’impatto emotivo e culturale del libro, invitando Veltroni a presentarlo più volte, perché non è solo un racconto intimo ma anche un affresco del nostro Paese. Tre anni dopo, Baudo torna al Salone per presentare la sua autobiografia Ecco a voi. Una storia italiana, scritta con Paolo Conti. In un incontro alla Sala Rossa del Lingotto dialoga con Valeria Parrella e ripercorre i retroscena di oltre cinquant’anni di carriera, tra aneddoti e memoria storica dello spettacolo e della tv italiana.

La pieve di San Pietro a Pianezza. Uno dei tesori oltre la cintura di Torino

 

Eretta sulla sponda del Dora Riparia nel XII secolo in stile romanico lombardo, con il tetto a capanna, e dedicata a San Pietro, la pieve di Pianezza, a pochi chilometri da Torino, offre uno spettacolo unico e, probabilmente, inaspettato grazie ai suoi affreschi, un ciclo dipinto, quasi interamente, da Giacomo Jaquerio e altri artisti della sua scuola. Il pittore fu il rappresentante della pittura tardo-gotica in Piemonte e le sue opere, grazie al duca Amedeo VIII, arrivarono fino a Ginevra.

Sconsacrata oramai da molto, un tempo fu luogo di preghiera di pellegrini e viandanti, e venne costruita, con molta probabilita’, al posto di un tempio pagano; in origine era costituita da una sola navata, ma in epoca gotica (tra il 300 e il 400) ne furono aggiunte altra due piu’ piccole. La facciata, in un primo tempo poco curata, fu riqualificata a fine ‘300 con mattoni rossi romanici e materiali di recupero mentre l’entrata fu collocata nella parte laterale da dove si accede anche al presbiterio. Durante l’ultima fase dei lavori sono stati dipinti il Cristo in Croce, una santa non identificata sul pilastro di entrata ed un’altra vicina all’immagine di Santa Margherita. Molto belle anche le vetrate colorate, copie create nell’800, i cui originali di Antoine de Lonhy sono conservati al Museo Civico Torinese di Palazzo Madama.

I Provana, una tra le cinque famiglie feudali piu’ importanti del Piemonte, volle fortemente le decorazioni della Pieve di San Pietro, tra queste, oltre a quelle gia’ citate, abbiamo la raffigurazione degli Apostoli, l’Annunciazione e il dipinto dedicato a Santa Caterina; nella cappella che porta il loro nome, invece, troviamo il dipinto sulla vita di San Giovanni in cui si riconoscono anche i simboli della famiglia: il liocorno e i tralci di vite.

La Pieve di San Pietro si aggiunge alle moltissime opere in stile romanico del Piemonte (chiese, castelli, abbazie) che venivano edificate perlopiu’ sulle strade devozionali, come la via Francigena che portava i pellegrini dall’Inghilterra fino a Roma.

Normalmente non e’ aperta al pubblico, ma si può visitare contattando gli uffici comunali o i gruppi di volontari dedicati. In questa chiesa, inoltre, e’ possibile celebrare matrimoni civili assecondando cosi’ la volonta’ di valorizzare ancora di piu’ il patrimonio architettonico della citta’.

MARIA LA BARBERA

Apertura su richiesta; prenotazioni presso l’ufficio URP 011/9670211 oppure
presso UNECON: 3333903669 – 3394620103 – 3356171376
unecon2019@gmail.com

Linea Cadorna, la Maginot italiana

Il sistema di fortificazioni che si  estende dall’Ossola alla Valtellina. Un enorme reticolo di trincee, postazioni di artiglieria, luoghi d’avvistamento, ospedaletti, strutture logistiche e centri di comando, collegate da centinaia di chilometri di strade e mulattiere, realizzato durante il periodo della prima guerra mondiale

Linea Cadorna” è il nome con cui è conosciuto  il sistema di fortificazioni che si  estende dall’Ossola alla Valtellina. Un enorme reticolo di trincee, postazioni di artiglieria, luoghi d’avvistamento, ospedaletti, strutture logistiche e centri di comando, collegate da centinaia di chilometri di strade e mulattiere, realizzato durante il periodo della prima guerra mondiale. Un’opera fortemente voluta dal generale Luigi Cadorna, capo di Stato Maggiore dell’Esercito (originario di Pallanza, sul lago Maggiore), con lo scopo di contrastare una eventuale invasione austro-tedesca proveniente dalla Svizzera.

Lo scoppio della guerra – il 23 luglio del 1914 –  e gli avvenimenti successivi tra cui l’invasione del Belgio neutrale e i cambi di alleanze tra le varie potenze europee, accentuarono i dubbi sulla volontà del governo elvetico di far rispettare la neutralità del proprio territorio. Così, una volta che l’Italia entrò in guerra  contro l’Austria  – il 24 maggio 1915 – , il generale Cadorna, per non incorrere in amare sorprese, ordinò di avviare i lavori difensivi, rendendo esecutivo il progetto di difesa già predisposto. Da quasi mezzo secolo erano stati redatti studi, progettazioni, ricognizioni, indagini geomorfologiche, pianificazioni strategiche, ricerche tecnologiche. E non si era stati con le mani in mano: a partire dal 1911 erano state erette le fortificazioni sul Montorfano, a difesa degli accessi dalla Val d’Ossola e dal Lago Maggiore,  e gli appostamenti per artiglieria sui monti Piambello, Scerré, Martica, Campo dei Fiori, Gino e Sighignola, tra le prealpi varesine e la comasca Val d’Intelvi. Anche la Svizzera, dal canto suo,  intensificò i lavori di fortificazione al confine con l’Italia, realizzando opere di sbarramento a Gordola, Magadino, Monte Ceneri e sui monti di Medaglia, nel canton Ticino. In realtà,tornando alla Linea Cadorna,quest’opera, nella terminologia militare dell’epoca, era definita come ” Frontiera Nord” o, per esteso, “sistema difensivo italiano alla Frontiera Nordverso la Svizzera”. E, ad onor del vero, più che una fortificazione collocata a ridosso della frontiera si tratta di una linea difensiva costruita in località più arretrate rispetto al confine, con lo scopo di presidiare  i punti nevralgici. Un’impresa mastodontica.

 

Basta scorrere, in sintesi,  la consistenza dei lavori eseguiti e delle spese sostenute per la loro realizzazione: “Sistemazione difensiva – Si svolge dalla Val d’Ossola alla Cresta orobica, attraverso le alture a sud del Lago di Lugano e con elementi in Val d’Aosta. Comprende 72 km di trinceramenti, 88 appostamenti per batterie, di cui 11 in caverna, mq 25000 di baraccamenti, 296 km di camionabile e 398 di carrarecce o mulattiere. La spesa complessiva sostenuta, tenuto conto dei 15-20000 operai ( con punte fino a trentamila, nel 1916, Ndr) che in media vi furono adibiti, può calcolarsi in circa 104 milioni”. Le ristrettezze finanziarie indussero ad un utilizzo oculato delle materie prime,recuperate sul territorio. Si aprirono cave di sabbia, venne drenata la ghiaia negli alvei di fiumi e torrenti; si produsse calce rimettendo in funzione vecchie fornaci e furono adottati ingegnosi sistemi di canalizzazione delle acque. Gli scalpellini ricavarono il  pietrame, boscaioli e falegnami il legname da opera, e così via. I requisiti per poter essere arruolati come manodopera, in quegli anni di fame e miseria, consistevano nel possedere la cittadinanza italiana, il passaporto per l’interno e i necessari certificati sanitari. L’età non doveva essere inferiore ai 17 anni e non superiore ai sessanta e, in più, occorreva che i lavoratori fossero muniti di indumenti ed oggetti personali. A dire il vero, in ragione della ridotta disponibilità di manodopera maschile, per i frequenti richiami alle armi, vennero assunti anche ragazzi con meno di 15 anni, addetti a mansioni di manovalanza, di guardiani dei macchinari in dotazione nei cantieri o di addetti alle pulizie delle baracche.  La manodopera femminile, definita con apposito contratto, veniva reclutata nei paesi vicini per consentire alle donne, mentre erano impegnate in un lavoro salariato, di poter badare alla propria famiglia e di occuparsi dei lavori agricoli. Il contratto era diverso a seconda dell’ente reclutante: l’amministrazione militare o le imprese private.

 

Quello militare garantiva l’alloggiamento gratuito, il vitto ( il rancio)  uguale a quello delle truppe, l’assistenza sanitaria gratuita, l’assicurazione contro gli infortuni, un salario stabilito in relazione alla durata del lavoro da compiere, alle condizioni di pericolo e commisurato alla professionalità e al rendimento individuale. Il salario minimo era fissato, in centesimi, da 10 a 20 l’ora per donne e ragazzi; da 30 a 40 l’ora per sterratori, manovali e braccianti; da 40 a 50 per muratori, carpentieri, falegnami, fabbri e minatori; da 60 ad una lira per i capisquadra. L’orario di lavoro era impegnativo e  prevedeva dalle 6 alle 12 ore giornaliere, diurne o notturne, per tutti i giorni della settimana. Delle paventate truppe d’invasione che, come orde fameliche, valicando le Alpi, sarebbero dilagate nella pianura padana, non si vide neppure l’ombra. Così, senza il nemico e senza la necessità di sparare un colpo, con la fine della guerra,  le fortificazioni vennero dismesse. Quelle strutture, negli anni del primo dopoguerra, furono in parte riutilizzate per le esercitazioni militari e , negli anni trenta, inserite in blocco e d’ufficio nell’ambizioso  progetto del “Vallo Alpino”, la linea difensiva che avrebbe dovuto – come una sorta di “grande muraglia” –  rendere inviolabili gli oltre 1800 chilometri di confine dello Stato italiano. Un’impresa titanica, da far tremare le vene ai polsi che, forse proprio perché troppo ardita, in realtà, non giunse mai a compimento. Anche nella seconda guerra mondiale, la Linea Cadorna non conobbe operazioni  belliche, se si escludono i due tratti del Monte San Martino (nel varesotto, tra la Valcuvia e il lago Maggiore) e lungo la Val d’Ossola dove, per brevi periodi , durante la Resistenza, furono utilizzati dalle formazioni partigiane. Infine, come tutte le fortificazioni italiane non smantellate dal Trattato di pace siglato a Parigi nel febbraio 1947, a partire dai primi d’aprile del 1949, anche la “linea di difesa alla frontiera nord” entrò a far parte del Patto Atlantico istituito per fronteggiare il blocco sovietico ai tempi della “guerra fredda”. Volendo stabilire una data in cui ritenere conclusa la storia della Linea Cadorna, almeno dal punto di vista militare, quest’ultima può essere fissata con la caduta del muro di Berlino, il 9 novembre 1989.

 

Da allora in poi, le trincee, le fortificazioni e le mulattiere sono state interessate da interventi di restauro conservativo realizzati dagli enti pubblici che hanno permesso di recuperarne gran parte  alla fruizione turistica, lungo gli itinerari segnalati. La “Cadorna” si offre oggi ai visitatori come una  vera e propria “Maginot italiana”,  un gigante inviolato, in grado di presentarsi senza aloni drammatici, come un sito archeologico dove è possibile vedere e studiare reperti che hanno subito l’ingiuria degli uomini e del tempo ma non quella dirompente della guerra. Tralasciando la parte lombarda che si estende fino alla Valtellina e restando in territorio piemontese, sono visitabili diversi percorsi, dal forte di Bara  – sopra Migiandone, nel punto più stretto del fondovalle ossolano –  alle trincee del Montorfano, dalle postazioni in caverna del Monte Morissolo al fitto reticolo di trincee e postazioni di tiro dello Spalavera  ( la sua vetta è uno splendido belvedere sul Lago Maggiore e le grandi Alpi), dalle trincee circolari con i camminamenti e la grande postazione per obici e mortai del Monte Bavarione fino alle linee difensive del Vadà e del monte Carza, per terminare con quelle  della “regina del Verbano”, un monte la cui vetta oltre i duemila metri, viene ostentatamente declinata al femminile dagli alpigiani: “la Zeda”.

Marco Travaglini

Lo strano caso del Dottor Bruneri e del Signor Canella

C’erano una volta i matti

Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce
Non tutte le storie vengono raccontate, anche se così non dovrebbe essere. Ci sono vicende che fanno paura agli autori stessi, che sono talmente brutte da non distinguersi dagli incubi notturni, eppure sono storie che vanno narrate, perché i protagonisti meritano di essere ricordati. I personaggi che popolano queste strane vicende sono “matti”,” matti veri”, c’è chi ha paura della guerra nucleare, chi si crede un Dio elettrico, chi impazzisce dalla troppa tristezza e chi, invece, perde il senno per un improvviso amore. Sono marionette grottesche di cartapesta che recitano in un piccolo teatrino chiuso al mondo, vivono bizzarre avventure rinchiusi nei manicomi che impediscono loro di osservare come la vita intanto vada avanti, lasciandoli spaventosamente indietro. I matti sono le nostre paure terrene, i nostri peccati capitali, i nostri peggiori difetti, li incolpiamo delle nostre sciagure e ci rifugiamo nel loro eccessivo gridare a squarcia gola, per non sentirci in colpa, per non averli capiti e nemmeno ascoltati. (ac)
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3. Lo strano caso del Dottor Bruneri e il Signor Canella
È il 10 marzo 1926, siamo in un cimitero ebraico di Torino, un rumore di cocci e terriccio desta l’attenzione del guardiano, che sorprende un signore intento a rubare un vaso di rame da una tomba. Immediatamente avvisate le autorità, il ladro viene arrestato e portato in Questura. L’uomo non riesce a esprimersi bene, non conosce il suo nome, non sa da dove viene, né quale sia il suo mestiere, non ricorda assolutamente nulla. Le uniche parole che riesce a dire sono in piemontese: “Monsu, ch’am rovin-a nen. Ch’am fasa ‘l piasì ‘d lasseme andè”. Lo smemorato si trova in uno stato di grande agitazione, preso dall’ansia tenta un maldestro suicidio, ma tutto ciò che ottiene è essere rinchiuso nel manicomio di Collegno, dove la sua identità diventa il numero 44.170. In Questura viene foto-segnalato e gli vengono prese le impronte digitali, il cartellino segnaletico così compilato è inviato a Roma, al Servizio centrale d’identità, ma senza risultati. Intanto, lo smemorato si ambienta nella sua nuova casa, lega particolarmente con un detenuto poco raccomandabile, il milanese Riccardo Testa, cocainomane e rapinatore, soprannominato il “commediografo ladro”, con lui trascorre molto tempo, soprattutto giocando interminabili partite a scacchi. Il rapporto di amicizia diventa forte e stabile, Testa addirittura dedica all’amico senza identità un sonetto dal titolo “L’amico ignoto” (2 dicembre 1926):
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“Io non so chi tu sia, mio grande amico
eppur l’anima tua m’appar sì bella
che a te m’affido come ad una stella
s’affidava il viator nel corso antico.
Tu credi e preghi ed ami e doni, e quella
luce serena degli occhi tuoi, l’intrico
dei miei pensieri scioglie ed affratella
contro l’oscuro e vigile nemico:
Il dubbio. Oh! Non lasciarmi più giammai
amico ignoto datomi da Dio!
Senza di te mi pare d’esser solo;
senza di te non riprendo il volo
oltre l’azzurre vette ed i nevai:
incontro al sol ed al Sovrano mio.”
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Lo smemorato continua la sua vita tranquilla all’interno del manicomio, gioca a scacchi, legge, produce addirittura alcuni saggi letterari e disegna discretamente alcune caricature di altri degenti, scusandosi quando questi ultimi si mostrano offesi; gli vengono, poi, attribuite alcune meditazioni filosofiche che egli esegue sotto i rami di uno specifico pino, chiamato “il pino di Canella”. Tutto pare tranquillo e statico, quando il 6 febbraio 1927 la sua fotografia viene pubblicata sul settimanale italiano più popolare, “La Domenica del Corriere”, accompagnata da mastodontiche parole: “Chi lo conosce?” È l’inizio di una vicenda bizzarra e misteriosa. 
A Verona una donna risponde inaspettatamente alla domanda, si tratta di Giulia Concetta Canella, che riconosce nell’uomo della fotografia suo marito Giulio Canella, letterato e docente, capitano della Brigata Ivrea inviata in Macedonia e dichiarato disperso il 25 novembre 1916, presso la località di Bitola. Svelata dunque l’identità dello smemorato, che si scopre quarantaseienne padovano, sposato con la cugina, figlia di un ricco possidente terriero che aveva grossi investimenti in Brasile.  La donna parte per Collegno per avere il riscontro definitivo: dopo dieci anni di lutto e dolore il suo sogno si era avverato, l’amatissimo marito era tornato da lei e dai loro due figli, Rita e Giuseppe. La scena dell’incontro viene immortalata da una copertina della “Domenica del Corriere”, la bislacca vicenda trova finalmente un lieto fine, il direttore del manicomio dimette lo smemorato che se ne va a Verona con la moglie tanto amata. Eppure la storia non finisce qui: il 3 marzo 1927 arriva alla Questura torinese una lettera anonima, firmata da una persona che si definisce “amico della verità e della giustizia”, in cui si segnala che l’ex ricoverato non è Giulio Canella ma Mario Bruneri, tipografo torinese con non pochi conti da regolare con la giustizia. La vicenda, dunque, ricomincia da capo. La Polizia recupera le impronte digitali di Bruneri e dall’analisi risulta che le linee papillari corrispondono a quelle dello smemorato. Tale riscontro non si era potuto effettuare precedentemente perché Bruneri non era schedato come criminale pericoloso e la polizia scientifica di Roma non disponeva, nel suo archivio, del suo cartellino segnaletico. Lo smemorato non è dunque il professor Canella, ma Mario Bruneri, sposato con Rosa Negro, padre di un figlio, Giuseppino, e amante di Camilla Ghidini, tutte persone che lo riconoscono e confermano questa seconda identità. La vicenda diventa un caso mediatico, la popolazione si divide in due fazioni, i bruneriani e i canelliani, moltissimi cittadini scrivono il proprio parere ai giornali e propongono prove fantasiose a sostegno della tesi che meglio piace. Inizia un vero e complesso processo, a colpi di prove scientifiche e testimonianze dirette, nessuna delle due donne si tira indietro, Giulia non si arrende nemmeno davanti alla prova inconfutabile delle impronte digitali, la proiezione del desiderio del ritorno del marito è talmente forte che le fa distorcere la realtà. Si effettua l’esame dei padiglioni auricolari, che in ben diciassette punti differisce da quello di Canella, ma nemmeno questa prova riesce a far cambiare idea alla Penelope veronese. A riprova che non si tratta di Canella c’è il fatto che l’uomo non conosce per nulla né il latino né il greco, non sa suonare il pianoforte, ha in generale una cultura molto approssimativa, ignora elementi teologici fondamentali, si dimostra l’esatto contrario di quello che doveva essere il professor Canella. Il neuropsichiatra Alfredo Coppola, perito del Tribunale, nella perizia sostiene che lo smemorato sia Bruneri e che egli abbia simulato, con grande capacità recitativa, un’amnesia cognitiva. Il caso dello smemorato di Collegno diviene tra i più conosciuti, non solo per l’insolita vicenda, ma anche perché si tratta della prima volta in cui sociologi e neuropsichiatri spiegano ai lettori semplici che cosa sia la memoria e che cosa significhi la rimozione dei ricordi in seguito a traumi. Giulia Canella non si smuove. È innamorata di suo marito, ora che lo ha ritrovato ancora di più, infatti rimane incinta altre quattro volte da quando i due si sono ricongiunti. Il caso Bruneri-Canella ha ulteriori sviluppi e con l’ordinanza del 23 dicembre 1927, il Tribunale dichiara che l’identificazione dello smemorato con Mario Bruneri non è stata raggiunta, non si possono quindi eseguire i tre mandati di cattura. Lo smemorato chiude i suoi rapporti con la giustizia, mentre la sua vera identità rimane ad ogni effetto, in bilico tra i due profili, quello del dotto Giulio Canella e quello del povero Mario Bruneri. Il 10 gennaio 1928 il Presidente del Tribunale autorizza la direzione del manicomio a dimettere lo smemorato, rinchiuso a Collegno il 12 marzo 1927, per affidarlo in custodia all’avvocato Gino Zanetti, che lo consegna definitivamente nelle mani di Giulia Canella. Il 5 novembre 1928 il Tribunale Civile di Torino ribalta l’ordinanza del Tribunale e identifica Mario Bruneri nello smemorato. I Canella ricorrono in appello. Il 7 agosto 1929 la Corte d’Appello di Torino conferma la sentenza di primo grado. I Canella ricorrono in Cassazione e l’11 marzo 1930 la Cassazione annulla la sentenza della Corte d’Appello di Torino per insufficiente motivazione, e rinvia gli atti alla Corte d’Appello di Firenze. Il 1 maggio la Corte d’Appello di Firenze conferma la sentenza di Torino, il 24 dicembre 1931 la Cassazione conferma la sentenza di Firenze. Per la giustizia italiana lo smemorato è definitivamente Mario Bruneri, il quale deve scontare le pene che gli sono state attribuite. Il 1 maggio 1932, grazie ad un’amnistia, lo smemorato viene rilasciato dal carcere di Pallanza e nel mese di ottobre parte per Rio de Janeiro, dove il probabile suocero gode di un’ottima reputazione e possiede vaste proprietà. In quelle terre viene accolto come Giulio Canella e lì muore il 12 dicembre 1941. Nell’ultimo periodo della sua vita si dedica allo studio della filosofia e scrive una serie di saggi. A distanza di trent’anni dalla morte dello smemorato il segretario di Stato del Vaticano, il cardinale Giovanni Benelli, precisa che la Chiesa riconosce nello smemorato il professor Giulio Canella e dunque Giulia Canella rimane la sua legittima consorte, come legittimi sono i figli nati dall’unione dei due. Nel 2014 viene effettuato l’esame del DNA sui diretti discendenti, i risultati riaprono l’indagine, dimostrando che, forse, lo smemorato era in realtà Mario Bruneri.
Alessia Cagnotto

“Appunti di volo” di Fernanda Core alla Patronale di Trino

Giovedì 21 agosto dalle ore 18 alle 20, presso Palazzo Paleologo in pza Garibaldi a Trino, si inaugura la mostra di oli, acquerelli, guache e disegni su carta tinta, nonché grafica e stampe della pittrice Fernanda Core. Una esposizione personale d’arte che viene proposta per il quarto anno consecutivo ed è ormai diventata una tradizione della Associazione del Lantarnìn per la festa patronale di Trino.

Il titolo della mostra è “Appunti di volo”, in edizione rinnovata. Sono opere che come scrive la critica Giuliana Bussola nella bella presentazione, riflettono su suggestioni scaturite dallo studio di artisti come Piero della Francesca, Segantini, Vittore Carpaccio, o Caspar David Friedrich, rappresentante del Romanticismo tedesco, e ci fanno intraprendere un viaggio nella leggerezza, lasciando per un momento le preoccupazioni che ci allarmano.
L’artista stessa considera il proprio lavoro come una cura, una via per immergersi altrove quando, come ora, la cronaca è dura, difficile da edulcorare, per certi versi insopportabile, e non abbiamo alcuna possibilità di intervenire per cambiarla.
Percorrendo la mostra la sensazione onirica è palpabile, e si snoda un racconto sia nel mondo del visionario, che in quello autobiografico, come nelle opere sulla Val d’Ayas, amato luogo di villeggiatura, o nei “ricordi” del viaggio negli Stati Uniti fatto con la madre.
Un sottile gioco tra realtà e immaginazione ” conclude Giuliana Bussola “che Fernanda Core riesce a trasmetterci con empatia cognitiva, alimentando l’interesse degli spettatori, facendoli coinvolgere nel grande mondo dell’Arte ”
La mostra prosegue fino al 31 agosto, con i seguenti orari:

venerdì 22- martedì 26 agosto ore 20,30/22,00

sabato 23 -domenica 24 agosto ore 17,00/22,00

lunedì 25 -sabato 30 -domenica 31 agosto ore 10,00/13,00 – 17,00/22,00

Prato Nevoso, 15mila al concerto in quota

Prato Nevoso, con la suggestiva cornice dell’Alpet Balma, nel comune di Frabosa Sottana, è stata la protagonista del 45° Concerto Sinfonico di Ferragosto, appuntamento simbolo dell’estate piemontese e tra i più attesi nel panorama culturale italiano.

L’evento si è aperto con un momento di forte valore simbolico: la sciatrice cuneese e leggenda olimpica Stefania Belmondo, ultima tedofora incaricata di accendere il braciere di Torino 2006, ha simbolicamente “passato il testimone” alle montagne che ospiteranno i prossimi Giochi Olimpici Invernali di Milano-Cortina 2026, creando un collegamento tra l’ultima regione italiana che ha ospitato le Olimpiadi e le prossime località che si preparano ad accoglierle.

Poi, la magia della musica: l’Orchestra Bartolomeo Bruni di Cuneo, diretta dal maestro Andrea Oddone, ha incantato il pubblico con un programma interamente dedicato alle colonne sonore di John Williams, da Superman a Harry Potter, da Schindler’s List a Star Wars.

Nato nel 1981, il Concerto di Ferragosto è organizzato dalla Cabina di Regia che riunisce Regione PiemonteFondazione Cassa di Risparmio di CuneoCamera di Commercio di CuneoProvincia di Cuneo ATL del Cuneese, con il supporto di RAI e Prato Nevoso Spa.
Ancora una volta, grazie allo Speciale TGR, a cura della redazione del Piemonte, il concerto è stato trasmesso in diretta nazionale su Rai 3 e in differita su Rai Italia, raggiungendo 174 Paesi nel mondo e portando così l’incanto delle Alpi Liguri nelle case di milioni di spettatori.

«Quando la cultura incontra la montagna, nasce un palcoscenico naturale capace di parlare al mondo – ha commentato l’assessore regionale allo Sviluppo e Promozione della Montagna, Marco Gallo -. Il Concerto di Ferragosto dimostra come arte e paesaggio, insieme, possano diventare motori di attrazione, emozione e sviluppo per le nostre vallate. Una montagna sempre più viva e vissuta tutto l’anno, capace di offrire esperienze autentiche che uniscono bellezza, identità e futuro».

Il pubblico, circa 15mila persone, ha raggiunto l’Alpet Balma a piedi lungo le strade bianche o con la telecabina panoramica, in un’ottica di mobilità sostenibile. Un’attenzione particolare è stata riservata all’accessibilità: grazie alla collaborazione con l’associazione Discesa Liberi, volontari dedicati hanno assistito le persone con disabilità durante salita e discesa dalla telecabina, garantendo comfort e sicurezza.