Dimore e palazzi storici chiusi di solito al pubblico aprono le porte sabato 24 e domenica 25 marzo per le giornate di primavera del Fai. La manifestazione, oltre a essere un momento di incontro tra il FAI e la gente, uniti nel festeggiare e raccontare la propria storia più bella e più nobile, è anche un importante evento di raccolta fondi e un’occasione per raccontare a tante persone gli obiettivi e la missione della Fondazione. Per questo, all’accesso di ogni luogo aperto verrà chiesto ai visitatori un contributo facoltativo, preferibilmente da 2 a 5 euro: i preziosi contributi raccolti saranno destinati al sostegno delle attività istituzionali del FAI. A Torino:
Prefettura
L’attuale palazzo della Prefettura nasce nella prima metà del Settecento come palazzo delle Regie Segreterie di Stato e, insieme all’Archivio di Stato (già Archivio di Corte), costituisce uno dei primi esempi, nel mondo occidentale, di architettura nata specificatamente con funzioni amministrative. Normalmente chiuso al pubblico, l’edificio reca la firma di tre grandi architetti al servizio dei principi sabaudi: Amedeo di Castellamonte, che concepì l’intera composizione della piazza, Filippo Juvarra, che ne definì l’articolazione interna e Benedetto Alfieri, che portò a compiuta realizzazione il grande cantiere attraverso la composizione classicista della facciata e la raffinata eleganza degli interni. La lenta ascesa dello scalone centrale conduce alla grandiosità della Galleria e di qui all’infilata delle sale di rappresentanza, allestite da Alfieri, affrescate da Francesco Gonin e arredate con i migliori pezzi provenienti dal mobiliere di Palazzo Reale e dalle Raccolte Civiche. Al termine del percorso emozionerà entrare nel semplice studio di Camillo Cavour, rimasto intatto dalla sua prematura scomparsa nel 1861. Dal 1997 il Palazzo è iscritto alla Lista per Patrimonio dell’umanità in quanto parte del sito seriale UNESCO Residenze Sabaude.
Apertura: sabato e domenica 10 – 18
Archivio storico dell’Ordine Mauriziano – Ospedale Umberto I
Apre in via eccezionale per le Giornate FAI l’ingresso storico dell’ospedale che affaccia su corso Turati, straordinaria porta d’accesso per ammirare il piano nobile dell’edificio, già sede del Gran Magistero dei SS. Maurizio e Lazzaro: l’Ordine mauriziano è un ordine cavalleresco di Casa Savoia nato nel 1572 dalla fusione dell’Ordine Cavalleresco e Religioso di San Maurizio e dell’Ordine per l’Assistenza ai Lebbrosi di San Lazzaro. L’Archivio Storico dell’Ordine Mauriziano è un istituto di conservazione di notevole rilevanza storica, tanto da essere considerato in Piemonte secondo solo all’Archivio di Stato di Torino per la tipologia e la ricchezza della documentazione presente (bolle pontificie, pergamene, mappe, cabrei, alberi genealogici, ecc.). La documentazione è conservata prevalentemente al piano nobile all’interno della sede storica dell’ordine e dell’ospedale. L’archivio conserva più di 2000 metri di documentazione riguardante l’esercizio delle attività attribuite all’Ordine, di natura militare-cavalleresca, assistenziale sanitaria, di istruzione, di culto, di gestione patrimoniale.
Apertura: sabato e domenica 10 – 18
Il Castello della Rotta
Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce
Castelli diroccati, ville dimenticate, piccole valli nascoste dall’ombra delle montagne, dove lo scrosciare delle acque si trasforma in un estenuante lamento confuso, sono ambientazioni perfette per fiabe e racconti fantastici, antri misteriosi in cui dame, cavalieri, fantasmi e strane creature possono vivere indisturbati, al confine tra la tradizione popolare e la voglia di fantasia. Questi luoghi a metà tra il reale e l’immaginario si trovano attorno a noi, appena oltre la frenesia delle nostre vite abitudinarie. Questa piccola raccolta di articoli vuole essere un pretesto per raccontare delle storie, un po’ di fantasia e un po’ reali, senza che venga chiarito il confine tra le due dimensioni; luoghi esistenti, fatti di mattoni, di sassi e di cemento, che, nel tentativo di resistere all’oblio, trasformano la propria fine in una storia che non si può sgretolare. (ac)
***
2 / Castello della Rotta
.
La geomanzia è un’antica arte divinatoria che si fonda sull’interpretazione dei segni naturali o artificiali presenti sul terreno, o sulla posizione di alcuni di essi rispetto a pianeti o costellazioni. Le antiche popolazioni ritenevano molto importante la componente astrologica nell’erigere edifici di culto, come testimoniano le chiese medievali tutte orientate verso ovest-est con l’ingresso a ovest e l’abside a est; le pagode della Cina e di tutto il sud est asiatico, invece, venivano erette solo dopo un’attenta indicazione dei geomanti, in modo che queste si trovassero ad essere nel miglior equilibrio con la natura. Per chi crede a queste storie, sembra che ci siano sulla nostra Terra zone pregne di energie sovrannaturali, talvolta benevole, talvolta inquietanti, ma sempre si tratta di luoghi strani, immersi in una atmosfera come mutevole, oggetto di racconti che hanno il sapore di antiche storie narrate da vecchie signore intorno a grandi falò. Vicino a Torino, città magica per eccellenza, si trova un luogo particolare, un castello che, nonostante l’aspetto morigerato, pare essere il più infestato d’Italia, si tratta del castello della Rotta. Mi trovo a Moncalieri, sono in compagnia della mia amica Martina, siamo arrivate alla meta dopo esserci perse a Villastellone e una volta giunte ci chiediamo se il posto sia effettivamente quello giusto. Lasciamo la macchina in una stradina sterrata che collega la via principale al castello, costeggiando un campo seminato e ben tenuto. Noto subito che il verde delle colture termina bruscamente nel giallo secco dell’erba che circonda la struttura, come ci fosse un secondo perimetro, invisibile ma invalicabile, come se un mondo finisse e un altro ne iniziasse. Continuo a fissare il cambio di colore, mi stupisce il fatto che sia così netto, a distanza di un passo la natura da fresca e rigogliosa avvizzisce quasi a causa un’antica fattura. Percorriamo il sentiero polveroso continuando a studiare ciò che ci circonda, sicuramente suggestionate dalle storie che già conosciamo riguardo al castello.
***
Tutto ci sembra sospettoso, i suoni si fanno stridenti, le macchine che ci sfrecciano attorno “gridano” e le loro “voci” strascicano nell’aria. C’è una leggera brezza, eppure l’unico albero ad esserne disturbato è il salice piangente che cresce di fronte all’ingresso del castello, ondeggia ritmicamente, pari ad uno sciamano intento in chissà quale danza propiziatoria. Il maniero non è grandissimo, non è nemmeno così alto, le pareti sono costituite da mattoni e sono traforate da piccole finestrelle dai vetri rotti. I pochi frammenti di lastra riflettono eccessivamente il sole, il riverbero luminoso colpisce la vista come contenesse in sé qualcosa di tagliente; il contrasto con l’interno non è una semplice contrapposizione luce-ombra, ma ricorda più una silenziosa quanto spaventosa dicotomia tra bene e male. L’ingresso principale è costituito da un serioso cancello ad arco, costruito in ferro, sopra il quale si staglia il bianco emblema della casata dei Valperga. Il sole incessante di quella giornata si scaglia contro il bassorilievo e risulta fastidioso osservarne il disegno: si tratta di un arbusto sovrastato da un becco. La lastra di pietra fu qui collocata nel 1455, dal Gran Priore dei Cavalieri gerosolimitani Giorgio di Valperga di Masino. Mi accorgo che io e la mia amica non parliamo, come non volessimo intimorirci a vicenda, stiamo ognuna concentrata a riguardare le proprie foto, lo facciamo con una meticolosità quasi morbosa, vedo che anche lei, come me, le ingrandisce all’impossibile e controlla che non ci siano strani aloni dietro le piccole finestre scure. Il portone è interamente ricoperto da scritte inneggianti a Satana. Esse sono di varia natura, quelle scalfite sembrano graffi animaleschi, quelle delineate con le bombolette ricordano gli schizzi di sangue di qualche animale sacrificale, per quanto sciocche, quelle parole incutono un certo timore, si evince che chi le ha incise o eseguite credeva fermamente nel gesto che stava compiendo.
***
La curiosità mi spinge ad andare avanti, ma la soggezione non aiuta la mia parte razionale ad emergere. Il castello ha origini medievali, i primi occupanti furono probabilmente Romani, in seguito venne occupato dai Longobardi, ai quali succedettero i Templari, che ne furono i padroni per oltre trecento anni; dopo di loro, verso il Cinquecento, divenne un bene dei Savoia. La roccaforte fu testimone, nel 1639, della disfatta di Tommaso Francesco di Savoia, principe di Carignano, inflittagli dall’esercito francese, successivamente, nel 1706, diventò un deposito di polvere da sparo durante l’assedio portato avanti dai Francesi nei confronti di Torino. Ci sono altre storie violente ambientate nelle inaccessibili stanze del castello: tra di esse la follia del re abdicatario Vittorio Amedeo II, re di Sardegna, che qui morì il 30 ottobre del 1732, dopo che il figlio Carlo Emanuele III lo costrinse a rimanere rinchiuso tra queste mura. Nel Settecento il castello cessò la sua funzione di fortilizio e venne adibito a dimora gentilizia. Continuo nel mio percorso e mi ritrovo in una sorta di cortile posteriore, qui la vegetazione ha assunto il completo controllo, erbacce e arbusti si intersecano come stessero lottando gli uni contro gli altri; in tale simbolico scontro greco romano il sole non prova nemmeno ad intromettersi e d’improvviso mi ritrovo sovrastata da un’ombra omogenea, che ricopre incondizionatamente le mura di sfondo, le finestre che si aprono su di essa, i resti ammuffiti di un vecchio pozzo e degli strani cumuli di rami che attirano la mia attenzione.
***
Mi avvicino a quest’ultima scoperta: non saprei definire quei rami se non come enormi nidi di qualche mitica creatura che viene a nascondersi in questi insoliti meandri. Interdetta mi allontano e con la coda dell’occhio ho l’impressione che qualcosa di scuro si muova sullo sfondo: un uccelletto nero si libera dalla sterpaglia e vola via verso il cielo, eppure l’ombra mi pareva troppo grande per appartenere ad un animaletto così piccolo. È strano, ma ho la netta sensazione di essere osservata, come se ci fosse una compresenza di occhi nascosti che mi fissa da dietro l’oscurità delle finestre, dal di dentro dei nidi, dagli angoli più bui che non riesco a mettere a fuoco, né con la vista, né con la reflex. Fingo di non farci caso, ma le fotografie che fino ad ora ho scattato in quella zona sono tutte micro mosse. Forse quello non è il posto per noi, forse con i nostri rumorosi calpestii abbiamo disturbato il sonno di qualche spirito che lì aveva deciso di assopirsi. Avevo svegliato il cavaliere, o il sacerdote criminale, o qualche nobile suicida? Avevo interrotto la lettura del cardinale? o forse avevo infastidito l’anziana tata che aveva perso il bambino affidatole, oppure l’uomo in nero che passeggia ancora nei luoghi della sua morte? Non ebbi il coraggio di esplicitare la domanda. Proposi di ritornare verso la macchina senza esprimere una motivazione precisa, ma non mi trovai in disaccordo con la mia amica. Sedute nell’autovettura ci diciamo che sarebbe interessante provare a tornare la notte del 14 giugno, quando, secondo alcune testimonianze, si potrebbe assistere alla comparsa di un corteo rituale di alcuni monaci ecclesiastici. Giro la chiave e la macchina non parte, come nei classici horror anni ’80, guardo Martina e scoppiamo in una fragorosa risata apotropaica e al secondo tentativo la vettura si riprende. Sto ancora rimuginando sul fatto di tornare o meno la notte del 14 giugno.
Alessia Cagnotto
STORIE DI UOMINI, CONFLITTI, RELIGIONI. FINO AL PRIMO MAGGIO
Ci esorta. Ci “implora” quasi Domenico Quirico, giornalista scrittore e grande inviato di guerra. Le sue parole, scritte ad accompagnamento narrativo della mostra ci strattonano con misericordiosa “violenza” per aiutarci e, in certo senso, “proteggerci” nella lettura più vera e profonda di quei centodieci scatti coraggiosi (per la maggior parte in bianco e nero) assemblati sotto il titolo ad effetto “Arma il prossimo tuo”, negli spazi espositivi del Museo Nazionale del Risorgimento, in Palazzo Carignano a Torino. “Abbiamo pietà, vi prego – scrive Quirico – degli uomini che vedete in queste foto. Sono alle soglie della morte, o forse un po’ al di là ma lo ignorano”. E come non averne di pietà di fronte allo sguardo muto e perfino imbarazzato di Sergey, il soldato ucraino ritratto fra i resti di Promzona, un tempo la zona industriale di Avdiivka, nel cuore dell’annosa guerra del Donbass, dove i due eserciti governativo e filorusso si fronteggiano a poche centinaia di metri l’un dall’altro? Sergey guarda fisso l’obiettivo. Non è il terribile mirino di un nemico kalashnikov, ma l’occhio amico di una macchina fotografica. Armato fino ai denti, nel cinturone il soldato si porta addosso (e in fondo al cuore) un ben visibile crocifisso di metallo. Il tempo infinitesimale di uno scatto e
un’improvvisa vicina esplosione fa fuggire in opposte direzioni il soldato e il fotografo, che non si incontreranno più. Sergey morirà un mese dopo, il 25 aprile del 2017, ucciso da un colpo di un mortaio. A raccontarlo è Roberto Travan, fotoreporter di lungo corso (caposervizio de “La Stampa”, per cui lavora dal 1989), che insieme al collega – anche lui blasonato, entrambi torinesi – Paolo Siccardi (free-lance e collaboratore dal 2000 del Settore Esteri di “Famiglia Cristiana”) firma la rassegna organizzata in Palazzo Carignano fino al prossimo primo maggio, con il supporto di Fujifilm Italia. E’ la prima volta di una mostra fotografica al Museo di piazza Carlo Alberto e l’obiettivo vuole essere quello di raccontare, come forse mai finora é stato fatto, quanto la fede e il supposto dovere di combattere in nome di un Dio, oggi come ieri, siano spesso l’elemento comune, la sottile “linea rossa, non sempre visibile, capace però di alimentare conflitti che per
questo paiono non poter finire”. Conflitti dannatamente eterni. Dove esaltazione e fanatismo si fanno armi spietate contro tutti e tutto. Fuori d’ogni atto umano che possa dirsi vero atto di fede religiosa. Dalla Repubblica Centrafricana al Sud Sudan al Kosovo alla Siria fino all’Afghanistan Israele e Ucraina, gli scatti fotografici esposti ci portano in quattro macro aree ad alta intensità bellica: Balcani, Europa e Caucaso, Medio Oriente e Africa. “Queste foto – scrive ancora Quirico – sono lampi di crudo dolore. La guerra e i segni di Dio: piccoli e grandi, pendagli e lapidi, chiese e moschee, segni tracciati sui muri e scritte che gridano Dio… La fede ottiene dall’essere umano ciò che nessun’altra dottrina ha mai ottenuto. Nel bene e nel male”. Nell’effimera gioia dei vincitori e nel pianto straziante dei vinti. E di chi resta. Nel grido di “Allah Akbar” urlato dai giovani combattenti dell’esercito siriano di liberazione, ritratti da Siccardi, che ad Aleppo si lanciano, votati al sacrificio, in battaglia o nella dolorante preghiera (la foto è sempre di Siccardi) alzata al cielo nella chiesa cattolica di Saint Andrews (Bor – Sud Sudan) per i cristiani Dinca massacrati dalle
truppe di etnia Nuer, per lo più composte da musulmani e animisti. Luoghi noti. Altri meno. Altri ancora sconosciuti. Lontani dai riflettori dell’informazione. “Luoghi in cui si continua a pregare. E a uccidere – e morire – in nome di Dio”. In atmosfere di laceranti macerie paesistiche e umane. Nel silenzio assordante che, in una foto di Travan, impietosamente avvolge la figura del sacerdote che a Talish (Nagorno- Karabakh) abbandona il villaggio, portando in salvo i simboli preziosi della sua fede, dopo la violenta offensiva dell’Azerbaijan. Il volto è chinato a terra, in una smorfia appena accennata di pietrificato trattenuto infinito dolore. E allora per davvero: “Abbiamo pietà, vi prego, degli uomini che vedete in queste foto… Camminano nudi nonostante i segni dell’Invincibile che portano addosso, nudi sotto lo sguardo di Dio”.
Gianni Milani
***
“Arma il prossimo tuo. Storie di uomini, conflitti, religioni”
Museo Nazionale del Risorgimento Italiano, piazza Carlo alberto 8, Torino; tel. 011/5621147 – www.museorisorgimentotorino.it
Fino al primo maggio . Orari: mart. – dom. 10/18
Sono alcuni ritratti di personaggi di casa Savoia ad accogliere il visitatore nelle sale della Fondazione Accorsi-Ometto in occasione della mostra Da Piffetti a Ladatte. Dieci anni di acquisizioni curata dal presidente Giulio Ometto e da Luca Mana, conservatore del Museo: l’esposizione di un centinaio di pezzi tra gli oltre duecentocinquanta – i mobili, i dipinti, le miniature, gli orologi, gli argenti e altro ancora – giunti nel palazzo di via Po attraverso acquisti e vendite, donazioni, aste, scoperte, recuperi importanti, scommesse con se stessi nel desiderio di un ritorno a casa che può anche aver voluto dire una lotta impari con il Louvre ad un’asta di Sotheby, come è avvenuto per la terracotta Il Trionfo della Virtù dovuta a Francesco Ladatte, donata dal settecentesco financier parigino Ange-Laurent de La Live de Lully ad una consorte dai costumi più che leggeri e strappata l’anno scorso per una cifra di circa 180 mila euro. Il risultato, tutto questo,
mai stabilizzato ma sempre in progredire (“con i miei collaboratori immagino un museo che possa cambiare continuamente aspetto, ben oltre la codificata raccolta museale”, è convinto Mana), dovuto alla volontà di presentare e di offrire al pubblico (“anche a quello giovane, di studi liceali, quello che – io ne sono convinto – in una crisi sociale ed economica, come è quella che stiamo vivendo, cerca appoggio nella bellezza e nel passato un punto di riferimento”) un patrimonio di arredi e di opere d’arte, inseguito non soltanto nel nostro paese ma nel mondo intero, una vasta collezione d’eccezione che rispecchi le ambientazioni e gli oggetti del XVIII e del XIX secolo, nell’impronta dell’accanita ricerca, dell’intelligenza delle scelte, nel riconoscimento costante di quello che amiamo definire come il “gusto Accorsi”.
***
Una raccolta, un patrimonio prezioso, che non è esclusivamente la visione della bella opera d’arte esposta ma che ha alle spalle storie diverse di appartenenza, di affetti, di passioni e di culture che già a loro volta, ben al di là del rapporto economico, hanno tentato di mantenerne intatta la presenza e di cancellarne per molti casi la dispersione in un imprecisato altrove. Dei ritratti, si diceva, che iniziano il ricco percorso. Come quello di Maria Luisa Gabriella di Savoia da bambina, ad opera di Louis-Michel van Loo, appartenuto ad una importante dinastia di pittori di origini olandesi, al seguito del padre nei vari viaggi professionali, da Torino a Roma e a Parigi, non ancora trentenne al servizio della corte sabauda per lasciare le fattezze di principi e principesse, ancora ritrattista a Madrid e in maniera definitiva alla corte di Luigi XV. Il quadro offre tutta l’impertinenza della principessina che tra eleganti abiti e un piccolo bosco alla sue spalle stringe un verde pappagallo ansioso di recuperare la propria libertà. O ancora il ritratto di Maria Giuseppina di Savoia, contessa di Provenza dovuto a François-Hubert Drouais (anch’egli legato alle corti europee, ci ha tramandato la Pompadour e la du Barry), sguardo educato e rispettoso, rosa tra le mani e velluto rosato attorno al collo forse a cercare di nascondere quella poca pulizia di cui a corte si vociferava e che il sovrano Luigi XV stigmatizzava nelle lettere scritte al di lei consorte, affinché la regale dama si lavasse un po’ meglio almeno quando doveva frequentare pranzi e balli. Accanto a quel Trionfo della Virtù che dicevamo strappato al museo parigino, importanti ancora del Ladatte le Allegorie dell’Inverno e dell’Autunno (da Parigi nel 2014), mentre prezioso biscuit degli anni 1790/1800 proveniente dalla manifattura di Meissen è La venditrice di amorini, ricavato da un dipinto pompeiano (fu proprietà di Galeazzo Ciano), una coppia di giovani ragazze nell’intento di
scegliere gli amori che una fattucchiera presenta loro, estraendoli da un leggero colonnato circolare.
***
Da osservare con attenzione i tanti esempi delle miniature che affollano angoli delle sale, vedute e paesaggi di anonimo come di Moreau e di Giuseppe Bison, le nevi e gli alberi di Angelo Cignaroli, i personaggi eleganti e impreziositi che ci accompagnano nella prima metà dell’Ottocento, donne, giovani uomini, gruppi familiari, dovuti all’acclamato Jean-Baptiste Isabey, a Jacques Le Gros, a Hyacinthe Mercier. Come nelle teche esplodono da un mondo antico le altre porcellane di Meissen – esempi montati su bronzo dorato guarnito di fiori in porcellana di Vincennes -, candelieri a più luci (quello in bronzo dorato, su modello di Juste-Aurèle Meissonier, rischiava di restare all’estero, mentre adesso, dopo il suo acquisto a Parigi nel 2016, è tornato nuovamente a Torino), coppie di doppieri, bouquet con scene pastorali, centrotavola, vasi, pot-pourri; e ancora pendole (quella detta “all’elefante”, attribuita a Jean-Joseph de Saint-Germain, maître fondeur dal 1748), orologi da tavolo o da mensola (di manifattura francese, della metà del XVIII secolo, frutto di una donazione, un orologio in bronzo, osso e smalti), argenterie e candelieri – di fattura napoletana o francese -, la maiolica torinese con i cinque vasi dell’Ardizzone. Come s’impongono gli esempi di porcellana cinese, della dinastia Qing, primo quarto del XVIII secolo o quella denominata “famiglia rosa”, della dinastia Qing, tarda Era Qianlong, 1736-1795).
***
Arrivando ai preziosi esempi di ebanisteria che si ammirano in mostra, davvero eccezionali le opere che ancora una volta dimostrano il genio del torinese Pietro Piffetti (1701 – 1777), nominato a trent’anni ebanista di corte, fino alla morte artefice, con preziose tarsie, dell’arredamento di corte, tra Palazzo Reale e Venaria, tra la Villa della Regina e Stupinigi. Il cofano-forte, 107 cm. di altezza, intarsiato di palissandro, pruno e avorio, risalente al 1750-1770 e acquistato da Sotheby’s nel 2013, appartenuto a Beatrice di Savoia all’interno della sua villa di Città del Messico; uno scrittoio databile al 1770 circa, un tavolo da centro o “buffetto” (del 1745 circa, Pietro Accorsi lo vendette all’inizio degli anni Quaranta a una signora della buona borghesia torinese, legata da una più che intima liaison al più importante industriale torinese: quando questi morì, se ne volle disfare e Accorsi lo riacquistò, secondo un patto tra i due, all’antico costo di vendita) e una coppia di armadi pensili, databili tra il 1735 e il 1740 (uno dei due in prestito alla Venaria per la prossima mostra sul Piffetti), legno tartaruga e avorio, due grandi medaglioni ad intarsio sulle ante, provenienti dalla casa di un’agiata coppia di coniugi torinesi e da questi conservati con affettuosa passione, un tempo segnalati come appartenenti alla scuola e oggi giudicati come opera propria del Maestro.
Elio Rabbione
Nelle foto:
Manifattura di Meissen (modello di Christian Gottfried Jüchtzer), La Venditrice di Amorini, 1790-1800, biscuit
Louis-Michel van Loo (Tolone, 1707 – Parigi, 1771), Ritratto di Maria Luisa Gabriella di Savoia da bambina, 1773, olio su tela
Pietro Piffetti (Torino, 1701 – 1777), Cofano-forte, 1750-1770, legno e avorio.
Pietro Piffetti (Torino, 1701 – 1777), Coppia di armadi pensili, 1735-1740, legno, tartaruga e avorio
Manifattura francese, Bouquet con scena pastorale, 1747-1749, Porcellana di Meissen montata su bronzo dorato guarnito di fiori in porcellana di Vincennes
L’occhio magico di Carlo Mollino
OLTRE 500 IMMAGINI IN MOSTRA DA “CAMERA” A TORINO
FINO AL 13 MAGGIO
Realizzati (in imponente quantità) nell’arco di un quarantennio, in mostra troviamo scatti fotografici che ci raccontano della genialità e dell’eclettico talento di un artista e di un uomo che in vita fu proprio tante tante “cose”. Fra i più noti e celebrati architetti italiani del Novecento, ma anche ardito designer e scrittore e intrepido pilota automobilistico amante del brivido della velocità, nonché aviatore, sciatore e (appunto) fotografo, autore di scatti ribollenti di bizzarre intuizioni, Carlo Mollino (Torino, 1905 – 1973) è ricordato dalla torinese Camera – Centro Italiano per la Fotografia- con una personale che mette insieme oltre 500 immagini, molte delle quali inedite e provenienti dalle Collezioni del Politecnico torinese, Archivi Biblioteca Gabetti e Fondo Carlo Mollino. Curata da Francesco Zanot, la rassegna è la più grande e completa mai realizzata sul tema ed evidenzia a fondo il ruolo privilegiato riservato dall’artista alla fotografia, vista sia come fondamentale strumento di documentazione del proprio lavoro, sia come originale e personalissimo mezzo espressivo, “occhio magico” del proprio vivere quotidiano. Figlio d’arte,
Mollino si imbatte e si invischia a tutto corpo nella fotografia fin da bambino, trafficando fra negativi, macchine fotografiche e pellicole da sviluppare, nella camera oscura ricavata dal padre Eugenio (ingegnere, anche lui appassionato fotografo) nella villa di famiglia a Rivoli. Dai primi scatti alle esperienze della maturità, la pura passione diventa per lui – passando fra i canoni obbligatori della
tradizione agli slanci di una sperimentazione che ne fortifica l’immaginario espressivo – atto creativo in cui regole e coscienza critica dettano leggi e riflessioni che lo conducono a pubblicare nel ’49 “Il messaggio della camera oscura”, colossale e – in quegli anni- fondamentale volume per la definitiva consacrazione e accettazione della fotografia fra le arti maggiori. Una dovuta “promozione” frutto di riflessioni e teoremi che ben si riflettono nelle quattro sezioni tematiche (impossibile seguire un criterio cronologico, data la vastità delle immagini esposte) in cui si articola la rassegna di Camera. In “Mille case” – titolo della prima- gli scatti raccontano il mestiere dell’architetto, il tema dell’abitare, con le immagini degli interni e dei primi edifici progettati fra gli anni Trenta e Quaranta, fra cui la casa della Federazione degli Agricoltori a Cuneo e la “mitica” sede della Società Ippica Torinese, progettata e realizzata nel ’40, incautamente demolita dal Comune nel ’60 per scaduta concessione (oggi sull’area sorge il Liceo Classico “Alfieri”) e di cui la mostra presenta un fotomontaggio –prima
versione del moderno photoshop? – realizzato con l’amico fotografo Riccardo Moncalvo. Nella stessa sezione troviamo anche still-life di oggetti domestici di sua creazione e una serie di istantanee riprese durante i suoi viaggi: dalle case in legno e paglia della campagna rumena al Guggenheim Museum di Frank Lloid Wright a New York, dai mulini olandesi alle vedute di Chandigarh, la “City Beautiful” dell’India settentrionale nata dal piano urbanistico disegnato da Le Corbusier. Di ispirazione surrealista e dada, la più libera e imprevedibile dell’intera mostra, è sicuramente la seconda sezione. A partire dal titolo: “Fantasie di un quotidiano impossibile”. Per ribadire ciò che spesso affermava lo stesso Mollino: “Tutto è permesso, fatta salva la fantasia”. Ecco allora immagini di vetrine che tanto avrebbe amato il “fotografo di Parigi” per eccellenza Eugène Atget (prediletto da Man Ray, suo vicino di studio a Montparnasse), oggetti e specchi dalle rare misteriose qualità, fotografie di altre fotografie, i singolari Draghi da passeggio fino alle
preziose immagini tratte dalla pubblicazione “Occhio magico” (da cui il titolo della mostra), voluta dallo stesso Mollino e di cui uscirono solo quattro numeri fra il ’44 e il ’45. All’uomo-artista amante della velocità coraggiosamente e indifferentemente praticata alla guida di un’auto da corsa o di un aereo o sugli sci (Mollino fu anche direttore della Coscuma – Commissione delle scuole e dei maestri di sci) è invece dedicata la terza sezione della rassegna. Titolata alla “Mistica dell’acrobazia”, riunisce fotografie che lo immortalano in passioni sportive da dinamico superman che lo porteranno a progettare (insieme a Mario Damonte e a Enrico Nardi) il famoso “Bisiluro”, automobile con cui partecipò nel ’55 alla “24 ore di Le Mans”. Di 180 fotografie è infine composta la quarta e più ampia sezione “L’amante del duca”, con le famose polaroid dei ritratti femminili (spesso e volentieri “donnine discinte” o di antica postura statuaria) e gli sciatori. In entrambi i casi, prevale l’esercizio di stile, la grammatica dell’artista scrupolosamente attento al controllo della posa, alle sinuose curve degli sci sulla neve e all’ossessiva e armoniosa ripetizione dei gesti.
Gianni Milani
***
“L’occhio magico di Carlo Mollino. Fotografie 1934 – 1973”
Camera – Centro Italiano per la Fotografia, via delle Rosine 18, Torino; tel. 011/881150; www.camera.to Fino al 13 maggio
Orari: lun.- merc. –ven.- sab.-dom. 11/19 – giov. 11/21; mart. chiuso
***
Le immagini:
– Carlo Mollino: “Mimì Schiagno”, 1952 – ’60 ca.
– Carlo Mollino e Riccardo Moncalvo: “Società Ippica Torinese”, fotomontaggio, 1941
– Carlo Mollino: “Stazione-Albergo al Lago Nero, Sauze d’Oulx”, 1947 ca.
– Carlo Mollino: “Lina Suwarowski”, 1936 -’39 ca.
– Carlo Mollino: “Ritratto (senza titolo)”, 1956 – ’62 ca.
Più di trent’anni dopo la direzione di Giorgio Strehler, nel 1986/87, la piece teatrale “Elvira” viene riproposta nella regia ed interpretazione di Toni Servillo, che lo sta portando in scena al teatro Carignano per la stagione del Teatro Stabile di Torino. Le riflessioni di Jouvet sul teatro e sul personaggio ritrovano la loro stringente attualità in questo apologo del teatro, della missione civile dell’attore e del suo mestiere, attraverso le sofferte meditazioni ed il rigore di un grande maestro del teatro medesimo. La piece consiste nella prova dell’incontro in cui donna Elvira comunica a don Giovanni il suo amore e la sua grande preoccupazione. Si tratta di una scena alla quale assistiamo e, da sempre, capace ogni volta di affascinarci come la prima volta. Il tessuto su cui Toni Servillo ha costruito il suo spettacolo è rappresentato da “Elvire Jouvet 40”, diario di lavoro in cui Brigitte Jacques trascrisse le “Sette lezioni sulla seconda scena di Elvira nel Don Giovanni di Moliere”, nella agile traduzione firmata da Giuseppe Montesano.
***
Toni Servillo interpreta e dirige quello che si può considerare l’apologia del mestiere dell’attore, capace di svelare parole, tecnica e rigore di una pietra miliare del teatro come Louis Jouvet, che affermava che “una messinscena è una confessione “. “Elvira – spiega Toni Servillo – porta il pubblico all’interno di un teatro chiuso, quasi a spiare tra platea e palcoscenico, con un’allieva ed un maestro impegnati in un vero e proprio momento di fenomenologia della creazione del personaggio”. L’allieva di Jouvet si chiamava Paula Dehelly, una giovane interprete che, dopo il diploma, a causa delle sue origini ebraiche, fu costretta ad abbandonare le scene e lasciare Parigi, per tornare a lavorare in teatro ed al cinema solo nel dopoguerra. La stenografa Charlotte Delbo, poco dopo le trascrizioni, entrò nella Resistenza e sopravvisse ad Auschwitz, utilizzando poi l’esperienza con Jouvet ed il ricordo delle battute di Moliere quali risposte attive all’orrore. Toni Servillo, grande interprete, dirige tre giovani attori, Petra Valentini, Francesco Marino e Davide Cirri, in una grande celebrazione del teatro, capace di far conoscere al pubblico la fatica, il dolore e la tensione che si provano affrontando il palcoscenico, insomma la segreta realtà dell’attore, messaggero di poesia e verità.
Mara Martellotta
Felice di essersi ripreso con S.O.B. – son of bitch la propria sfacciata rivincita sui produttori e sugli studios che per una decina d’anni l’avevano osteggiato, nel 1982 Blake Edwards firmò il film che molti considerano il suo capolavoro e il manifesto per eccellenza dell’eleganza e della bravura della consorte Julie Andrews, quel Victor Victoria che definì quanto i Cahiers du Cinéma avevano chiamato in precedenza Edwards touch. Un’ambientazione perfetta, gag infilate una dopo l’altra con una incredibile disinvoltura, un carico di intelligenza e raffinatezza, una sarabanda di travestimenti, canzoni e musiche, una artista in cerca di scrittura capace di convincere tutti di essere un uomo che finge di essere una donna, premi e incassi. La storia non era nuova. Già l’aveva portata sullo schermo il tedesco Reinhold Schünzel, esattamente cinquant’anni prima, ambientando la vicenda nei giorni della Repubblica di Weimar, tra barricate e disordini, con la grave crisi economica che attanagliava il paese, con l’estrema sinistra degli spartachisti e l’assassinio di Rosa Luxemburg, con il nazionalsocialismo che correva verso il potere. Liberamente ispirandosi a quella sceneggiatura – la fame e la solitudine di un’attrice che arriva dalla provincia, l’amicizia con l’immigrato Vito Esposito, la reinventata Viktoria che si finge Viktor, gli spettacoli en travesti e il successo insperato quanto grandioso, la vita notturna e il mondo nuovo che s’è aperto davanti, una baronessa/impresario dai più che dubbi costumi, una bionda ballerina di fila dal cuore grande, un attrezzista pieno di pratica filosofia che pare uscito dalle immagini di Cabaret, un giovane conte innamorato che vuole spalancare la porta dell’amore -, l’autrice Giovanna Gra e il regista
Emanuele Gamba propongono, all’insegna della simpatia di Veronica Pivetti, con Viktor und Viktoria uno spettacolo che intenerisce e diverte il pubblico ma che non convince appieno. Ne risulta uno svagato susseguirsi di scenette che hanno vita propria ma che con difficoltà riescono a dar vita ad un affresco unico e compatto, che vogliono farci spiare dal buco della serratura il mondo dello spettacolo con tutti i dolori e le gioie ma che a fatica ce lo sanno rendere con qualche benedetta zampata, che strizzano l’occhio ad un linguaggio (del tutto fuori luogo) e ad una realtà di oggi ma dimenticano di calarsi con convinzione in quella che fu la società del tempo. È come se non si volesse approfondire, sempre che si voglia dare alla Storia il posto che le spetta, se si volesse incentrare ogni sviluppo drammaturgico nell’attenzione al disordine sessuale di chi abita la scena, con un buon spazio ai doppi sensi che inevitabilmente accaparrano risate. Per cui lo spettacolo soffre di una certa “povertà” di scrittura soprattutto e di messa in scena, mentre le
ingombranti scenografie inventate da Alessandro Chiti (due alte quinte girevoli, che altrettanti volenterosi attrezzisti, accomunati negli applausi finali, pensano a manovrare per l’intera serata) sembrano rallentare il tutto. Dentro i costumi davvero belli, questi senza alcuna riserva, di Valter Azzini, la prof amata da mezza Italia – l’altra stravede – è servita malamente dal testo (assai meglio dalle canzoni brechtiane arrangiate da Maurizio Abeni) e non riesce, pur nella ricerca continua dell’effetto più che azzeccato, nella battuta veloce, nello sfruttamento appropriato di quella sua faccia da monella e incasinata cronica che tutti le conosciamo, a convincere appieno. Con lei Giorgio Lupano che ha quasi paura di farsi avanti con le emozioni e i sentimenti del suo conte, Yari Gugliucci che semina un po’ di napoletaneità in terra tedesca, Pia Engleberth, Nicola Sorrenti e l’amabilissima Roberta Cartocci, che comunque, a dispetto delle spiegazzature di cui sopra, la sala stracolma del Gioiello ha alla prima ampiamente applaudito. Si replica sino a domenica 18.
Elio Rabbione
Così da trovare la forza di vedere
Racconta e denuncia, Fatma Bucak. E le due azioni vivono nelle sue opere in perfetta simbiosi. Con il poetico recupero di memorie che paiono illuderci sulla possibilità (forse non del tutto perduta) di spazi ancora possibili per la redenzione umana e, di contro, la rabbiosa violenza e resistenza, ai limiti di incontenibili pazzie, contro i soprusi e le spietate repressioni di cui si nutrono nella realtà alcune voragini del genere umano
.
L’ARTE COME DENUNCIA SOCIALE E POLITICA NELLE OPERE ESPOSTE ALLA TORINESE FONDAZIONE MERZ. FINO AL 20 MAGGIO
.
Racconta e denuncia, Fatma Bucak. E le due azioni vivono nelle sue opere in perfetta simbiosi. Con il poetico recupero di memorie che paiono illuderci sulla possibilità (forse non del tutto perduta) di spazi ancora possibili per la redenzione umana e, di contro, la rabbiosa violenza e resistenza, ai limiti di incontenibili pazzie, contro i soprusi e le spietate repressioni di cui si nutrono nella realtà alcune voragini del genere umano. Voragini, mondi neppur troppo lontani. Ma spesso invisibili. Perché spesso non si vogliono o non si possono vedere. E conoscere e capire. Di qui il titolo esortativo affidato in lingua inglese alla mostra, organizzata dalla Fondazione Merz in collaborazione con la Fondazione Sardi per l’Arte: “So as to find the strenght to see” ovvero “Così da trovare la forza di vedere”. Progetto espositivo inedito e curato da Lisa Parola con Maria Centonze, si tratta della prima grande rassegna in uno spazio museale italiano dell’artista turca (formatasi fra Istanbul, Torino con studi all’Accademia Albertina e Londra) Fatma Bucak, che nelle sale della Fondazione di via Limone, a Torino, espone lavori fotografici, sonori, opere grafiche, video performativi e scultorei, alcuni realizzati appositamente per l’occasione. Suggestivo in proposito il lavoro site-specific che apre proprio il percorso espositivo. Il titolo è ” Enduring nature of thoughts”. Di fronte ci troviamo decine di catini smaltati posti a terra con logico rigore; tutt’intorno, il suono costante e amplificato di gocce che cadono e “sembrano alludere ad una serie di perdite invisibili”. Oggetti e suoni ossessivi nel loro costante e ansiogeno ripetersi. Che straniano dalla realtà. Presenze che includono e alludono, a un tempo, a dolorosi stati d’assenza. E l’iter prosegue con immagini e performance che diventano “voce di cronache dimenticate, narrazioni di pensieri inespressi, riesame delle ‘individualità’ escluse dalla Storia, di minoranze politiche o etniche, di strutture socio-culturali in opposizione al Potere”.
***
Sono i temi con cui si raffronta costantemente l’opera della Bucak, nata nel sud della Turchia – vicino al confine con la Siria – di appartenenza alla minoranza curda e dunque portatrice di una gravosa storia personale che profondamente incide sulla sua formazione poetica. In “Omne vivum ex ovo”, una donna in tunica bianca e a piedi nudi su macerie indefinite e indefinibili, infila uova nei buchi di mattoni distrutti: il tempo è immobile, tutto è fermo e silente nella tragicità di una guerra che si nutre di fragilità e pazzia, di cose di sogni di attese che svaniscono nel tempo di un nanosecondo. Ma possono rivivere in una sorta di big bang, quale sembra voler raccontare il video “Four ages of womann: Fall”, girato su una collinetta di terra rossa dove a tratti compare e scompare una donna nuda (la stessa di prima?) intenta a scagliare pietre in totale solitudine contro un nemico invisibile, come se decidesse di riemergere dall’azzeramento del paesaggio, per reinventarsi e riscrivere al femminile la propria storia. E dalle guerre la riflessione su confini e migrazioni. In “Damascus Rose”, un centinaio di piante di rose di Damasco– fra le varietà più antiche, oggi a rischio di estinzione per la fuga dei coltivatori a causa della guerra civile- trasportate dalla Siria a Torino, vengono innestate e coltivate in un letto di terra, con la speranza che mettano radici e crescano. La stessa di milioni di rifugiati siriani e un rimando, che addolora, al bisogno di appartenenza e origine. Ma ancor più straziante è il racconto di annullamento della memoria e delle storie individuali contenuto in “342 names”, litografie dedicate alle vittime di sparizione forzata in Turchia a seguito del colpo di stato militare del 1980, i cui nomi vengono sovrapposti l’uno sull’altro, fino a diventare macchie illeggibili. Pasticci grafici. Nomi innominabili, storie senza storia, vite senza vita. Pozzo di incredibile dolore anche le 117 lastre di zinco (“Fantasies of violence”) visibili fronte e retro sulle quali sono incisi segni astratti che riportano immagini di violenza frutto di un’attenta ricerca compiuta dall’artista su giornali internazionali di Turchia, Europa e America. Immagini interrotte dall’astrazione dei segni. Cristallizzate nell’essenzialità di forme che ancor più evidenziano (sul retro compare la narrazione letteraria dell’evento) la macabra rappresentazione dell’atto violento. Di brutture umane che dobbiamo trovare la forza di guardare e di vedere. La stessa che guida Fatma Bucak nella sua ricerca estetica. Nell’urlo (presunto) lanciato al cielo da quella nuda figura femminile che scaglia pietre a vuoto, in quel solitario paesaggio di terra rossa che potrebbe essere il primo seme di un nuovo mondo.
Gianni Milani
.
“Fatma Bucak. So a sto find the strenght to see”
Fondazione Merz, via Limone 24, Torino; tel. 011/19719437 – www.fondazionemerz.org
Fino al 20 maggio / Orari: dal mart. alla dom. 11 – 19
***
Nelle foto:
Villa Costantino Nigra
Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce
Castelli diroccati, ville dimenticate, piccole valli nascoste dall’ombra delle montagne, dove lo scrosciare delle acque si trasforma in un estenuante lamento confuso, sono ambientazioni perfette per fiabe e racconti fantastici, antri misteriosi in cui dame, cavalieri, fantasmi e strane creature possono vivere indisturbati, al confine tra la tradizione popolare e la voglia di fantasia. Questi luoghi a metà tra il reale e l’immaginario si trovano attorno a noi, appena oltre la frenesia delle nostre vite abitudinarie. Questa piccola raccolta di articoli vuole essere un pretesto per raccontare delle storie, un po’ di fantasia e un po’ reali, senza che venga chiarito il confine tra le due dimensioni; luoghi esistenti, fatti di mattoni, di sassi e di cemento, che, nel tentativo di resistere all’oblio, trasformano la propria fine in una storia che non si può sgretolare. (ac)
***
1 / Villa Costantino Nigra
.
È una di quelle giornate acquose. C’è una pioggia sottile che impregna il paesaggio ed i vestiti, la luce che illumina le cose pare scivolarci sopra, dando uno strano e dolce effetto ottico. È lo sfondo perfetto per la storia di oggi, che si incentra sul fantasma di una nobildonna, Virginia Oldoini, Contessa di Castiglione. Si dice che, talvolta, ella appaia mentre danza senza veli alla luce della luna, in un terrazzo di una villa ormai dimenticata, costruita sulle fondamenta di un antico castello. Parto in compagnia della mia amica Martina, chiacchieriamo disturbando la radio e la voce dispotica del navigatore, ci lasciamo Torino alle spalle, dirette verso il verde della provincia, fino a raggiungere la frazione di Villa Castel Nuovo, un piccolo comune di circa 414 abitanti, che al suo interno custodisce quello che un tempo era un gioiello di lusso ricercato, la villa della famiglia Nigra. La villa fu costruita probabilmente tra gli anni 50 e 90 dell’800, non è possibile essere più precisi a causa di un incendio, scoppiato agli inizi del ‘900, che distrusse tutti i progetti contenuti all’interno dell’archivio comunale. Per lo stesso motivo anche l’identità dell’architetto rimane una questione aperta, anche se è del tutto probabile che il progetto sia stato affidato a una personalità di rilievo nell’ambito del torinese.
***
Gli unici abitanti in cui ci imbattiamo sono un paio di gatti chiacchieroni che ci accompagnano per un breve tratto di salita, ma, non appena l’inclinazione del nostro sentiero aumenta, ci abbandonano, proprio davanti ad una piccola chiesetta adiacente ad un muro massiccio. Alzando lo sguardo faccio qualche passo indietro, estraggo la mia reflex e scatto la prima fotografia: guardandola per controllare le impostazioni, penso che sia il luogo perfetto per una storia di fantasmi. Davanti a me si ergono mura imponenti, la particolare luce del giorno le rende di un colore tra il grigio di un gatto certosino e il lilla del glicine, il muschio del tempo si espande su tutta la superficie e fa da amalgama tra i muri esterni e il cancello d’entrata, interamente in ferro, reso di un cupo color ruggine dalle intemperie e dall’abbandono. Al di là dell’ingresso si trova un giardino disordinato, con erba troppo alta e alberi dai rami invadenti, tutto è in procinto di essere inghiottito dall’edera. Attorno a quello che un tempo doveva essere un elegante cortile interno, si trova un porticato di colonne massicce, dietro le quali gli accessi all’interno della struttura si presentano come portali misteriosi, complici dell’ombra che non fa intuire dove conducano. Lo spettacolo che sto guardando è un quadro di C.D. Friedrich: tutto attorno è malinconico come le foglie lucide di pioggia e decadente come le mura scrostate che sorreggono un guscio vuoto. L’esterno della villa mantiene ancora una certa eleganza e austerità, aspetti supportati dall’antico progetto che prevedeva la fusione del presente edificio con il preesistente Castello di San Martino, di cui sono ancora visibili le fondamenta. Del castello si hanno poche notizie. Tantissime furono le battaglie che dovette sopportare, tra cui, probabilmente, la rivolta dei Tuchini che coinvolse tutto l’alto Canavese e molti altri scontri durante le guerre franco-spagnole. Il Castello uscì da questo periodo estremamente danneggiato. Ciò costrinse il proprietario, Pompeo I di Castelnuovo, a trasferirsi in un’altra residenza, a Castellamonte. Da questo momento in poi non si hanno più notizie del sito, fino al momento in cui Ludovico Nigra lo acquistò, insieme ai terreni circostanti.
***
Completamente opposta a quella esterna è la situazione interna, scavata dall’ingordigia dei curiosi che nel tempo hanno approfittato dello stato di abbandono su cui grava la villa, un tempo dotata di pavimenti sfarzosi, arazzi, affreschi sulle pareti e sui soffitti, ricca di splendidi suppellettili e di mobilia ricercata, tra cui una preziosa scrivania appartenuta a Napoleone I. Sono intrappolata in una strana atmosfera, l’unico suono che si percepisce è il vento che infastidisce gli alberi. Sembra che l’enorme edificio stia dormendo; l’aria che viene dall’interno è il suo respiro, gelido e arreso all’idea che nessuno verrà a interrompere quel riposo. Spinta da un’insolita e strana curiosità, oltrepasso quello che percepisco come lo sterno della villa, costituito da stanze sgombre e desolate, ascolto lo scrocchio dei miei passi fino a che non raggiungo il vero cuore pulsante: il terrazzo esterno. Qui vi è un balconcino in stile classico, che da una parte si affaccia a strapiombo sulla strada, dall’altra parte – a ridosso della collina- esso è costeggiato da una serie di colonne massicce, oltre le quali si insinua un altro giardino ribelle. Scatto un’altra fotografia, mentre la guardo sul monitor noto l’estrema delicatezza del viola del glicine che si appoggia al bianco sporco della balaustra: al di là, le verdi colline sbiadiscono nella foschia. In questo punto particolare della casa l’atmosfera si fa più dolce, come se la villa mettesse le mani a conca per proteggere qualcosa, l’illusione di un ultimo tentativo di preservare la bellezza della dama antica, di cui qui si avverte l’impercettibile presenza. La Contessa fu una donna bella, straordinaria, intrigante, abile in politica, amica, oltre che cugina, di Camillo Cavour che la inviò in Francia per sedurre e piegare alla causa piemontese l’imperatore Napoleone III. A Parigi Costantino Nigra conobbe la seducente Contessa e ne fu profondamente attratto. Esempio di vanità assoluta, lei stessa si definì “la donna più bella del secolo”, e nessuno osò mai contraddirla. Terrorizzata dal vedersi invecchiare sostituì gli specchi della sua abitazione con i propri autoritratti fotografici e smise di farsi vedere in pubblico. Consumata da tale narcisistica ossessione, si trasformò nello spettro della sua stessa bellezza.
***
La villa, se stai ad ascoltarla, ci racconta anche altre storie: le visite notturne di Re Vittorio Emanuele II e della sua scorta, gli incontri massonici nei sotterranei del castello, i cunicoli che si diramano nell’oscurità e raggiungono le colline più lontane. A partire dal suo primissimo proprietario, le mura della villa ospitarono solo personaggi molto discussi, fatto che aiutò a fomentare chiacchiere e leggende sul luogo. Ludovico Nigra era un cerusico di modeste condizioni, aveva aderito ai moti del 1821, motivo per cui non era molto stimato dai detentori del potere dell’epoca.Il figlio di Ludovico, Costantino, nacque all’interno delle stesse mura, l’11 giugno del 1828. Egli diventerà figura centrale del Rinascimento italiano, in qualità di segretario, prima di D’Azeglio, poi di Cavour. Anche Costantino però fu una figura controversa, prese parte a molti episodi che all’epoca destarono scalpore, uno dei più chiacchierati fu quello della distruzione di alcune lettere, scritte da Cavour e indirizzate all’amante Bianca Ronziani, il cui contenuto rimase per sempre segreto. Inoltre fu investito della carica di Gran Maestro della Massoneria del Grande Oriente d’Italia presso la Loggia Ausonia di Torino. Scatto altre fotografie degli interni, ma poi ritorno ancora sul terrazzo, in cui malia, storia e mistero vanno all’unisono. Il rumore della pioggia che aumenta mi avvisa che non c’è più nulla da perlustrare e fotografare, la penombra che si infittisce mi conferma che è ora di andare. Anche perché non bisogna approfittare troppo della gentilezza di chi ci ospita.
Alessia Cagnotto
Racconto di un trauma vissuto. Realizzato dalla coreografa canadese Crystal Pite. La rassegna è diretta per la prima volta da Anna Cremonini, in collaborazione con il Teatro Stabile di Torino
Il Festival Torinodanza, da quest’anno diretto da Anna Cremonini, che ha preso il testimone da Gigi Cristoforetti, quest’anno gioca d’anticipo presentando, nell’elegante cornice del teatro Carignano, giovedì 15 marzo, l’anteprima di tutta la rassegna, che è in programma alle Fonderie Limone il 17 e 18 maggio prossimi. Si tratta del lavoro dal titolo “Betroffenheit”, creato dalla coreografa Crystal Pite e dall’attore drammaturgo Jonathon Young, entrambi canadesi. Questa anteprima rappresenta un po’ il biglietto da visita della rinnovata edizione del Festival, che si impegna a mantenere la linea tracciata nel passato, ampliandone, però, i confini. Betroffehneit rappresenta, infatti, la fusione di danza e teatro contemporanei, creando un sottile fil rouge tra la stagione di prosa del teatro Stabile e la rassegna Torinodanza. Il termine tedesco oscilla come significato tra le parole sbigottimento, costernazione e vuoto. La radice della parola “treffen” significa ” incontrare” e ” betroffen” vuol dire “essere attento”. Betroffenheit rappresenta, quindi, lo stato di essere stato travolto, scioccato o stordito da un particolare evento, spazio o tempo che nessuna lingua è in grado di descrivere. I dialoghi dell’ uomo con se stesso diventano la colonna sonora di un’ossessione che struttura la coreografia di Crystal Pite, fondatrice a Vancouver della Compagnia Kit Pivot e sperimentatrice di numerose ricerche tra teatro e danza, con inserimento di marionette tra i danzatori.
***
Torinodanza inaugurerà il 10 settembre prossimo al Teatro Regio proponendo in un’unica serata due spettacoli piuttosto diversi tra loro, a firma di Sidi Larbi Cherkaoui, dal titolo “Noetic” ed ” Icon”, entrambi prodotti da Goteborgs OperansDanskompani , corpo di ballo dell’opera di Gotenborg, città svedese interessante nella costruzione di un repertorio molto originale in Europa. Cherkaoui diventa, così, artista associato del Festival Torinodanza per i prossimi tre anni di programmazione. Noetic fonda il proprio disegno creativo su elementi aerei supportati da elementi scenici che costituiscono affascinanti geometrie e forme; invece in Icon elementi di argilla danno vita alla scenografia e gli oggetti che ne derivano ancorano pesantemente al suolo forme e movimenti. In entrambi i lavori si celano domande universali. In “Icon” il coreografo si pone la questione del modo in cui la società contemporanea senta la necessità di crearsi sempre nuovi miti, vere e proprie “icone”, per poi distruggerle e sostituirle, in una spirale infinita. In ” Noetic” ci si interroga sul rapporto tra scienza e coscienza, forme fisiche e forme della mente. Il tema della contaminazione sarà al centro di questa edizione del festival, come nello spettacolo pluripremiato “The Great Tamer” di Dimitris Papaioannou, in programma alle Fonderie Limone dal 20 al 22 settembre prossimi, cui si aggiungerà la video installazione “Inside”, che sarà presentata nei nuovi spazi delle Ogr, sempre ad opera dell’ artista greco. The Great Tamer, il grande domatore, si richiama al concetto di Tempo, che, secondo la concezione omerica, agisce come domatore di illusioni. Siamo al crocevia tra danza, teatro ed arti visive, in una creazione che ben riflette la genialità del suo autore, Papaioannou, noto al grande pubblico per aver curato le Cerimonie di apertura e chiusura delle Olimpiadi di Atene del 2004.
Mara Martellotta
(foto mm – il Torinese)