I premi del 37° TFF
Una macchina che precipita da una scogliera. A bordo c’è la moglie di un poliziotto, che tempo dopo è ancora alla ricerca degli strumenti per elaborare il lutto e che continua ossessivamente a ristrutturare la casa di famiglia. È la vicenda di A white, white day, opera seconda del regista islandese Hlynur Pàlmason che la giuria presieduta da Cristina Comencini – con Fabienne Fabe Francia), Bruce McDonald (Canada), Eran Riklis (Israele) e Teona Strugar Mitevska (Macedonia), lodata autrice di Dio esiste e il suo nome è Petrunya – ha decretato miglior film del 37° TFF (premio di Euro 18.000). Un forte ritratto umano, l’analisi profonda della rabbia e del dolore, non disgiunti dal dubbio che lentamente avvolge l’uomo sull’infedeltà della scomparsa.
Poi arrivano gli altri premi: e allora sono altri dubbi – di giochi, di mosse a tavolino, di voglia di non scontentare nessuno, pur muovendosi tra le acque instabili, poco sicure, decisamente impoverite rispetto agli anni passati, che hanno quotidianamente attraversato questa edizione – ad occupare anche la scrittura di chi prende a sommare queste ultime note. Il Premio Fondazione Sandretto Re Rebaudengo va al tunisino Rêve de Noura della regista Hinde Bouyemaa, altra opera seconda, la fotografia di una donna che già non ci aveva convinto appieno per quella debolezza ad approfondire oltre la quotidianità e le sensazioni del momento il dramma femminile diviso tra un marito che esce dal carcere, ma non ha certo il desiderio di cambiare abitudini, ed un nuovo amore che non si rivelerà all’altezza.
Le migliori attrici sono le due interpreti del russo Dylda, i migliori attori sono la coppia Battiston/Fresi di Il grande passo, opera seconda di Antonio Padovan: e allora sorge spontanea la domanda perché mettere sullo stesso piano i due corpulenti e somiglianti nostri attori? perché non voler (o poter?) accorgersi quanto Battiston reciti assai più di testa, quanto poco gli basti, un brusco movimento, un silenzio di poco prolungato, un gioco più o meno percettibile degli occhi, per costruire lo spessore del suo Mario, folle ed emarginato. Fresi recita più di pancia, mette in primo piano la sua corporatura e giustamente ironizza (il regista l’aiuta con le inquadrature), è bravo e cattura lo spettatore ma forse è ancora alla ricerca di una precisa definizione, di una solida dimestichezza con i suoi personaggi, di uno studio che vada tecnicamente alle radici. Pollice decisamente verso, senza se e senza ma, per la miglior sceneggiatura a Wet season di Anthony Chen (Singapore), brutto esempio di banalità e di luoghi comuni per nulla intimamente sfaccettati che annegano la storiella tra l’insegnante di cinese e il suo allievo. Fortunatamente, ci ha pensato la Scuola Holden ad assegnare un premio per la miglior sceneggiatura a El hoyo: “Un film che onora il genere fantastico. Sorprendente e tagliente, sociale, abissale, piramidale, alimentare e verticale. Un’idea di spazio sviluppata senza un attimo di tregua”. Tanto per rimettere le cose un po’ al loro posto. All’americano, regista Paul Shoulberg, Ms. White Light soltanto il premio del pubblico: e questo ancora la dice lunga su certi giudizi.

Sono rimasti fuori titoli di cui avevamo detto nei giorni scorsi, sensibili, maturi, pronti a catturare l’attenzione e il cervello, che non davano la sensazione di girare a vuoto, che affrontavano problemi e tematiche del nostro (povero) vivere quotidiano a volte con una stupenda sicurezza: non erano tanti i titoli in mezzo a cui andare a scavare, forse era necessario guardare con occhio più attento. O forse stiamo facendo un discorso di semplici preferenze. Anche questo è il succo di un festival. Legarci a questo o quel titolo. Assolutamente da cancellare, questo sì, anche dalla memoria, quelli più che sbiaditi passati sullo schermo in questi giorni di proiezione: e, lo diciamo ancora una volta, quest’anno non erano pochi, circa una metà dell’intero pacchetto del concorso.
Elio Rabbione
Nelle immagini, nell’ordine, scene da “A white, white day”, “”Il grande passo” e “Wet season”

tutto il mondo. E’ un viaggio unico ed emozionante che racconta le incredibili conquiste dell’uomo nelle esplorazioni spaziali, toccando in concreto (fatto salvo un breve accenno all’immaginifico e letterario sogno di Jules Verne, con il suo “De la Terre à la Lune” del 1865) gli anni di feroce rivalità nella corsa allo spazio, in tempi di conclamata “guerra fredda”, fra l’Unione Sovietica – cui si deve il lancio in orbita del primo satellite artificiale, lo Sputnik, e la missione di Jurij Gagarin, primo uomo a volare nello spazio, portando a termine la propria missione nell’aprile del 1961 a bordo della Vostok 1 – e gli Stati Uniti, che il 20 luglio del 1969, con il programma Apollo 11, arrivarono allo sbarco dei primi uomini sulla Luna. E il viaggio continua fino al “cessate le armi” e alla fattiva collaborazione fra le due superpotenze che nel luglio del 1975 porta la capsula sovietica Soyuz ad agganciarsi in orbita a una navicella americana del programma Apollo, “in un abbraccio di grande potenza simbolica”. Che porta alla creazione di quella Stazione Spaziale Internazionale (ISS) – per la quale proprio la torinese “Thales Alenia” collaborò nella progettazione e costruzione del veicolo spaziale Cygnus destinato al trasporto cargo – in cui il visitatore s’imbatte all’ingresso dell’esposizione e che rappresenta forse uno dei più alti gradi di complessità e di integrazione tecnologica e scientifica mai raggiunta, coinvolgendo molte nazioni, Italia compresa. Di qui hanno scattato le loro fotografie i nostri Samantha Cristoforetti, prima donna italiana negli equipaggi dell’Agenzia Spaziale Europea, e (Astro)Luca
Parmitano, primo italiano ad effettuare un’attività extraveicolare (EVA) nel luglio del 2013, con ben sei ore e sette minuti di passeggiata spaziale. Fra oggetti autentici e fedeli riproduzioni, si arriva ancora alla scoperta della plancia comandi dello Shuttle, adibito dagli States a missioni in orbita intorno alla terra, allo Sputnik, ai lanciatori della NASA, fino all’enorme veicolo spaziale Orion, la grande “novità” del prossimo futuro, che sarà utilizzata nell’esplorazione umana degli asteroidi e degli spazi cislunari, in vista di un futuro sbarco su Marte. Di sicura attrazione, infine, lo Space Camp: centinaia di metriquadri di pura interattività dove, grazie ai simulatori, i visitatori potranno sperimentare le sensazioni che provano gli astronauti durante l’addestramento, dalla microgravità alla perdita dell’orientamento spaziale. Guidati dai Pilot si potrà provare l’emozione di guidare uno Shuttle, sperimentare l’assenza di gravità fluttuando nello spazio o simulare la rotazione Multi-Axis a bordo di una navicella spaziale. Con 1/6 Gravity si potrà ancora scoprire l’emozione di camminare sulla Luna o partecipare all’addestramento dei piloti con l’F18 Simulator Pilot.

Giovedì 12 alle 20.30 e venerdì 12 alle 20, all’Auditorium Toscanini, l’






Lo stesso certamente non si può dire per Riccardo Spinotti – figlio di Dante, grande direttore della fotografia, candidato due volte all’Oscar, diviso tra Italia e States, collaborazioni con Cavani e Olmi e Cristina Comencini, Michael Mann e Garry Marshall e Michael Apted, Tornatore e Benigni – e sua moglie Valentina De Amicis, che debuttano con
Tacendo del protagonista che ha l’espressività delle ostriche che occupano
Pollice verso anche per l’unico film tedesco in concorso,