CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 600

Ando Gilardi Reporter. Italia 1950 – 1962

Alla GAM di Torino, il Paese che usciva dalla guerra raccontato negli scatti del poliedrico fotografo monferrino

Una giovane operaia sorride di un sorriso battagliero e orgoglioso, in sella a una grossa motocicletta, levando in alto e mostrando al fotografo una copia del rotocalco popolar – sindacale dall’emblematico titolo “Lavoro”, elegante e moderno (per i tempi) settimanale cigiellino pubblicato, negli anni del dopoguerra, dal ’48 al ’62. Con quest’immagine di vivace e vitale euforia, datata 1952, si apre la mostra che la GAM di Torino dedica, negli spazi della Wunderkammer all’alessandrino Ando Gilardi (Arquata Scrivia, 1921 – Ponzone Monferrato, 2012), fotografo e fotoreporter di denuncia nell’Italia degli anni appena fuori dai disastri materiali e immateriali del secondo conflitto mondiale. Curata da Daniela Giorgi, la rassegna é realizzata in collaborazione con la Fototeca Storica Nazionale Gilardi, ufficialmente fondata nel 1959 da Ando (al secolo Aldo, ribattezzato Ando da partigiano e tale rimasto – fors’anche partigiano – per tutta la vita) insieme alla moglie Luciana Barbarino. Nel complesso sono 55 le immagini esposte, attentamente selezionate in un mare di scatti eseguiti fra il 1950 e il 1962 e   che rappresentano anche l’occasione per valorizzare il recupero e la digitalizzazione dell’importante collezione di negativi del Fondo Ando Gilardi Reporter, portato a termine nel 2017 da ABF – Atelier per i Beni Fotografici di Torino. Le   istantanee in parete raccontano le ancora precarie condizioni di vita di molta gente impegnata a ricostruire e a ricostruirsi, a confrontarsi con il “poco” quotidiano accompagnato pur sempre da coraggiosi sorrisi e dalla dignità di un lavoro, quello degli operai e dei braccianti agricoli, riguadagnato a fatica e che in lontananza prospetta un riscatto che, qualche anno dopo, si chiamerà boom economico. Già in nuce, nell’immagine profetica dei tre bambini sorridenti seduti sotto il manifesto dei grandi magazzini Standa che, con fine acume pubblicitario, promettono a tutti risparmio e offerte speciali. Non mancano le foto di importanti manifestazioni sindacali (come quella con Giuseppe Di Vittorio, intervenuto a Pavia per le celebrazioni del 60° anniversario della Camera del Lavoro) o il fermo immagine su scioperi e occupazioni di fabbriche, a dimostrazione di una ripresa ancora tutta in salita, evidente (nella sua manifesta precarietà) nelle case-baracche del “Quartiere Shanghai” di Crotone con i panni stesi su cui spuntano allegre faccine di bimbi o nel trasporto, sempre nel Crotonese, dell’acqua corrente a dorso d’asino. Ma in giacca e cravatta. Di pasoliniana suggestione, è anche la foto del piccole garzone di bottega che, al Borghetto Nomentano di Roma, si prodiga ad aggiustare una bicicletta, regalandoci il tipico sorriso a “spazi vuoti” proprio dell’età. Spicchi di un mondo reale

colti da Gilardi – che non fu solo fotografo, ma anche giornalista (memorabili i suoi corsivi in prima pagina su “L’Unità”), nonché storico e critico della fotografia – con briosa capacità narrativa, concreta nella cristallizzazione dei fatti non meno che attenta alla loro trasposizione in chiave poetica ed emozionale. Il suo interesse per il “mistero chiamato Fotografia” nasce nell’immediato dopoguerra, allorché Ando viene reclutato nel Laboratorio di riproduzione fotografica dalla Commissione Interalleata per la documentazione dei Crimini di Guerra a supporto del processo di Norimberga e l’avventura prosegue senza pause negli anni, con acute riflessioni sul “potere dello scatto” e fino alle più recenti implicazioni artistiche delle tecniche di fotografia digitale. In mezzo, i lavori in mostra alla GAM di taglio decisamente post-neorealista, attenti alle campagne fotografiche d’oltre oceano promosse dalla Farm Security Administration nell’ambito del New Deal americano: scambi d’interesse, governati sempre da una sapiente, personalissima interpretazione del “suo” e del “nostro” inconfondibile vissuto quotidiano. La mostra alla GAM apre le attività di “ARCHIVIARE il Presente”, contenitore culturale per un progetto condiviso fra enti, associazioni culturali, centri polivalenti, gallerie, che avrà luogo nella prossima primavera e rientra nella kermesse “Fo-To Fotografi a Torino”.

Gianni Milani

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“Ando Gilardi Reporter.Italia 1950 – 1962”
GAM- Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, via Magenta 31, Torino; tel. 011/4429518 o www.gamtorino.it
Fino al 16 giugno
Orari: dal mart. alla dom. 10/18, lunedì chiuso
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Foto Ando Gilardi/Fototeca Gilardi

– “Giornali”, Genova, 1952
– “Bambini nell’Italia del dopoguerra”, Palermo, 1957
– “Giuseppe Di Vittorio”, Pavia, 1953
– Serie “Abitare a Crotone”, Crotone, 1954-’56
– “Acqua corrente a dorso d’asino”, Melissa (Crotone), 1954
– “Bambini”, Borghetto Nomentano di Roma, 1953 ca.

 

Esercito e Fondazione Cavour insieme per la cultura

L’accordo sottoscritto dal Comandante dell’Istituto Gen.D. Salvatore Cuoci ed il Presidente della Fondazione Nerio Nesi, prevede il consolidamento della collaborazione fra le due storiche realtà culturali subalpine

Firmato a Palazzo Arsenale il rinnovo della convenzione fra il Comando per la Formazione e Scuola di Applicazione dell’Esercito e la Fondazione Camillo Cavour di Torino. L’accordo sottoscritto dal Comandante dell’Istituto Gen.D. Salvatore Cuoci ed il Presidente della Fondazione Nerio Nesi, prevede il consolidamento della collaborazione fra le due storiche realtà culturali subalpine. Visite didattiche, scambio di saperi, convegni e seminari sono alcune delle iniziative contemplate nella convenzione. Al centro dell’intesa vi è infatti l’impegno a conservare e divulgare l’eredità culturale e il patrimonio di valori di una delle figure chiave della storia del nostro paese. Il documento è stato firmato nella sala di Palazzo Arsenale dedicata proprio al grande statista piemontese. Forse non tutti sanno che lo stesso Cavour fu anche ufficiale dell’Armata Sarda e ottenne le spalline da luogotenente a soli quindici anni. Nella sala di Palazzo dell’Arsenale a lui dedicata è anche custodito lo spadino da allievo ufficiale dello statista. Nata ufficialmente nel 1957, la Fondazione Cavour ha come scopo la promozione degli “studi cavouriani e le iniziative rivolte ad approfondire la conoscenza dell’opera del Conte Camillo Benso di Cavour” e di mantenere “nella condizione attuale il castello già dei Benso di Cavour, sito in Santena”. L’accordo siglato questa mattina pone l’accento sul proficuo inserimento del Comando nel tessuto sociale torinese e più in generale sullo sforzo compiuto dall’Esercito a beneficio della collettività.  

Liberi Liberi

Racconti, curiosità ed eventi…la musica al servizio della gente

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Smettila di parlare….

Guardando il muro!!!

E….. se qualcosa mi devi dire….

Dimmelo “duro”! “

Siamo nel 1989 e la penna è quella di un certo Vasco Rossi. L’album è Liberi Liberi e la canzone in questione, traccia numero 7, è un vero urlo contro il destino. Mai in un brano fu descritta cosi bene la rabbia verso un sistema, addirittura contro Dio, mai come in questo brano, l’autore parla del male di vivere che lo affligge. Bonolis un giorno gli chiese: ”come sta oggi Vasco Rossi?” ed il ragazzo di Zocca rispose: ”non mi posso lamentare anche perchè…se mi potessi lamentare…” Pochi hanno capito questa risposta, nemmeno il “paolo” nazionale, ma col genio dei grandi poeti, c’è dentro tutto il nuovo Vasco, quello del post 50. Faccio la parafrasi: non mi posso lamentare, perché “sulla carta” sono una persona davvero fortunata, soldi, successo… eppure soffro lo stesso. Soffro di un male interiore che non si può spiegare, se non con le canzoni. Ma non ho il diritto di piangere, perchè, ripeto, sono consapevole di essere fortunato, malgrado tutto. Altre persone stanno molto peggio di me. Torniamo al brano, è evidente che Rossi si stia, fin dall’inizio, rivolgendo ad una donna che non ha il coraggio di dirgli in faccia qualcosa di veramente brutto. “guardami quando mi parli…” Quattro parole a dipingere un quadro dai colori più che nitidi. Questo è il Vasco nazionale, che piaccia o meno, un vero genio. una brutta cosa da dire, un forte imbarazzo, un ipocrisia di circostanza da parte di lei e il carattere forte di lui che vuole sapere, che vuole affrontare di petto la realtà. Ed ecco che la rabbia esce con forza, ma, per una volta, è una rabbia serena. La rabbia di chi non può fare nulla, ma che non si sente in colpa. Emblematica la frase: “la chiamerò sfortuna, maledetta sfortuna!!!” Non credo alla fortuna o alla sfortuna io, Chiara De Carlo, credo che ognuno sia l’artefice della propria vita, credo che se qualcosa può andare storto, beh., lo farà, indipendentemente da tutto e da tutti. Ma vi lascio con una frase che mi fa sorridere ogni volta! “La fortuna è cieca, ma la sfiga ci vede benissimo – e spesso prende anche la mira.” (Roberto “Freak” Antoni) Vi invito ad ascoltare la versione di una sfortunata per antonomasia, la grande Mia, vi farà impazzire, spero! Con me ha funzionato

https://www.youtube.com/watch?v=F72Y9Hsx4QA

 Chiara De Carlo

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Chiara vi segnala i prossimi eventi… mancare sarebbe un sacrilegio!
 

Donne (in nero) a Torino, un polittico a più cornici

A Torino passando per via Garibaldi, poco prima di arrivare all’incrocio con via XX Settembre, si può vedere un presidio tutto al femminile, fatto di un ampio striscione, volantini e della forza delle sostenitrici che fanno parte delle Casa delle Donne di Torino e che partecipano con la loro manifestazione al movimento delle Donne in Nero ogni ultimo venerdì del mese dalle ore 18 alle 19

Donne in Nero il movimento a cui la Casa delle Donne di Torino afferisce, è nato in Israele nel 1988 e da allora in varie parti del mondo manifesta principalmente contro la guerra e contro il ruolo tradizionalmente attribuito alla donna nei confronti dei conflitti, un ruolo di passività e remissività. Donne in Nero si impegna affinché sia le condizioni di pace sia le prospettive che la pace porta con sé non siano dimenticate e inoltre chiede che nessuna guerra sia messa a tacere. donne (in nero) è anche una serie che collega le donne in nero che rispondano a due caratteristiche: facciano parte della storia dell’arte e siano legate alla città di Torino. Per la terza uscita della serie donne (in nero) come di solito vediamo qualcosa di pittorico, ossia il Polittico di Sant’Anna di Gaudenzio Ferrari (1475/1480-1546), in parte conservato ai Musei Reali. L’opera esposta nella Galleria Sabauda è composta da quattro parti, di cui tre una in fila all’altra e la quarta sopra. La scena centrale ritrae Sant’Anna, la madre di Maria, che regge sulle gambe il bambin Gesù mentre Maria è accanto. Ed è proprio da lì che partiamo, dallo spazio che separa la madre e il bambino. Maria ha un vestito rosso e, ancora una volta, indossa un mantello nero, portato su una spalla sola a ricordo della sua purezza. Il cedere e il sostenere di Sant’Anna è un gesto antico che Gaudenzio Ferrari sapientemente ci mostra, così come ci mostra l’abbraccio che dà sollievo nella parte di destra e la fuga, a sinistra, mentre il Salvator Mundi sovrasta- nella realtà fisica del polittico così come nella simbologia- le azioni e le scelte umane. Ma scegliamo la scena centrale come la più significativa per il polittico perché la tensione dell’avvicinamento è così evidente -nel mentre in cui Santa Maria si congiunge al piccolo- che sembra di sentire il contatto delle mani e lo sfiorarsi delle teste.  Nella precedente uscita della serie donne (in nero) abbiamo detto qualcosa sul polittico, è stato anticipato come un’opera plurale e fin qui abbiamo visto il perché, le scene che si svolgono sotto la paziente attesa, potremmo dire sotto l’Eternità del Salvator Mundi sono molteplici, ritraggono Gioacchino Cacciato dal Tempio e l’incontro tra Gioacchino e Sant’Anna presso la Porta Aurea, ma abbiamo anche detto di una musicalità che il polittico porta con sé, cioè la melodia suggerita dai due angeli musicanti alle spalle delle due sante. La scena centrale è la più significativa per riconoscere all’italiano Gaudenzio Ferrari una delle sue più belle caratteristiche, quella del riempimento, dello scorcio, della prospettiva; come non soffermare lo sguardo sull’orizzonte del quadro per riconoscervi il blu oltremare che nelle giornate buone si vede nell’aldilà degli alberi di un remoto bosco alpino, lo stesso tratteggiato nella seconda tavola Gioacchino che abbraccia Sant’Anna alle spalle di Gioacchino, come per raccontarci qualcosa del suo passato; lo stesso che si intravede in un punto insignificante sui tetti, là sulla casa oltre l’arco, alla fine dello scorcio prima che sia di nuovo cielo, nella scena di Gioacchino cacciato dal tempio, lo stesso blu da cui il Salvator Mundi sembra emergere rasserenandosi.  Gaudenzio Ferrari -di cui parleremo ancora per la serie donne (in nero)- è stato un pittore molto prolifico, per questo le sue opere sono catalogate su base decennale. Il Polittico di Sant’Anna è del 1508, si trova dunque, per chiunque volesse approfondire, tra le opere del primo decennio del XVI secolo, periodo in cui seppur in una fase iniziale della sua carriera, è già considerato magister e lavora su commissione. Il polittico, realizzato per la chiesa di Vercelli, conta altri due pezzi oltre a quelli dei Musei Reali di Torino, le due tavole sono alla National Gallery di Londra, raccontano dell’annunciazione dell’arcangelo Gabriele e di Santa Maria vergine. 

Elettra -ellie- Nicodemi

 
 
https://www.museireali.beniculturali.it/opere/polittico-di-santanna/
 

"Sanremo The Story", ultimi giorni

C’è tempo fino al 24 Marzo  per visitarla

 

Al Centro Commerciale ‘Parco Dora’, a Torino in Via Livorno angolo via Treviso prosegue con successo ‘Sanremo The Story’, la straordinaria e ricca mostra itinerante interamente dedicata al Festival della Canzone Italiana.

Il percorso emozionale che caratterizza ‘Sanremo The Story’ vanta la presenza di cimeli originali (dischi in vinile, documenti, abiti di scena) del Festival di Sanremo, accompagnati da monitor che proiettano video documentari, su di un’area di 80 metri quadrati con un’ampia varietà di teche con 45 e 33 giri originali del Festival di Sanremo e strumenti musicali originali dell’epoca impiegati durante la kermesse. La mostra è visitabile dal lunedì al venerdì dalle 09.30 alle 12.30, e dalle 16.30 alle 19.30. Sabato e domenica dalle 11.00 alle 20.00. Ingresso libero con offerta minima pari a 1 Euro che verrà interamente devoluta per sostenere il progetto ‘Alternanza Scuola Lavoro’ del Liceo Classico Musicale ‘Camillo Benso Conte di Cavour’ di Torino, i cui allievi forniranno il servizio di guida durante gli orari di apertura della mostra.

Tutte le informazioni sul sito www.parcocommercialedora.it e sulla relativa pagina FB del Centro Commerciale ‘Parco Dora’.

 

L'isola del libro

La rubrica settimanale delle novità in libreria

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Søren Sveistrup “L’uomo delle castagne” –Rizzoli- euro 20,00

E’ uno dei thriller più belli tra quelli letti di recente ed è all’inseguimento di un killer particolarmente spietato che arriva direttamente dalla Danimarca e dalla penna di Søren Sveistrup. Potremmo dire che, sul solco tracciato da Stieg Larsson (lo scrittore svedese che ci aveva catturati con la sua trilogia Millenium, morto nel 2004) oggi c’è un altro scrittore nordico abilissimo nell’imbastire trame sanguinarie che non lasciano scampo e tengono il lettore avvinghiato fino all’ultima pagina. Sveistrup è nato a Copenaghen nel 1968, adottato da piccolo, ha trascorso l’infanzia sull’ isola di Thurø, a sud della Danimarca. E’ autore della serie tv “The killing” che ha conquistato milioni di telespettatori, ed ha scritto la sceneggiatura de “L’uomo di neve” tratto dal thriller di uno scrittore cult come Jo Nesbø. Ritmo incalzante e colpi di scena che sarebbero perfetti per lo schermo li troviamo anche in questo suo primo romanzo “L’uomo delle castagne” che ha riscosso grande successo in patria ed è tradotto in 25 paesi. E’ un thriller ad alta tensione. La trafila di morte – in cui l’assassino seriale firma i suoi omicidi lasciando sulla scena del crimine degli inquietanti omini fatti di castagne e fiammiferi- si annuncia con il massacro di un’intera famiglia nella fattoria di Ørum, nell’ottobre 1989. Anni dopo -oggi- a Copenaghen vengono prima torturate e mutilate, poi brutalmente uccise, delle giovani madri. Scene dell’orrore su cui indagano Naia Thulin, poliziotta della Omicidi (prossima all’agognato trasferimento) e il nuovo arrivato Hess, agente di collegamento allontanato dall’Europol, che ancora non ha metabolizzato la tragica morte, 5 anni prima, della giovane moglie incinta di 7 mesi. I due devono lavorare fianco a fianco ma l’intesa non sarà facile da trovare: lei ferma nelle sue   posizioni e risoluta, lui uomo complesso ma di grande intuizione. Eppure finiranno per fare squadra ed avanzare come dei panzer nelle indagini. Scoprono che dietro le madri uccise ci sono vicende sottese di abusi e violenze sui minori, incuria nei confronti dei figli, denunce anonime e affidi familiari. E sullo sfondo, a complicare la già avvincente trama, c’è anche il rapimento della figlia dodicenne del ministro degli Affari Sociali Rosa Hartung, avvenuto un anno prima. Capro espiatorio della vicenda è un giovane hacker che si pensa abbia ucciso la ragazzina, l’abbia fatta a pezzi e poi nascosta chissà dove. Insomma, preparatevi a stanare il vero colpevole.

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Kurt Vonnegut “Il grande tiratore” – Feltrinelli- euro 17,00

Kurt Vonnegut, morto nel 2007, è stato un grande scrittore e saggista americano: considerato uno dei massimi autori di fantascienza che poi ha virato su un mix di elementi fantastici, satira politica, sociale e di costume. E aveva pubblicato questo romanzo nel 1982. “Il grande tiratore” è Rudy (voce narrante) che a 50 anni si guarda indietro e racconta le strampalate vicende della sua famiglia. Una storia di destini che iniziano e finiscono con l’apertura e la chiusura di (quelli che l’autore definisce) spiragli della vita.. un modo bellissimo di circoscrivere le avventure terrene comprese tra nascita e morte. Nell’incipit Rudy esordisce «…Ero anch’io un batuffolo di indifferenziata nientità, poi, piff, s’è aperto all’improvviso uno spiraglio, uno spioncino. Luce e rumore si sono riversati dentro il nulla …». Ed ecco la venuta al mondo. Rudy racconta di suo padre Otto Walz, erede di una ricca famiglia di Midland City, nell’Ohio, il cui patrimonio era stato accumulato vendendo un intruglio al limite del ciarlatano. Il suo spiraglio si era aperto nel 1892, e la sua vita era stata degna di un romanzo. Convinto di avere talento artistico aveva ottenuto dai genitori di iscriversi all’Accademia di Belle Arti a Vienna, dove aveva incontrato un giovane poverissimo che di nome faceva Adolf Hitler. I lavori di entrambi non avevano convinto gli insegnanti ma Otto aveva simpatizzato con l’austriaco e comprato un suo acquerello. Una pessima idea perché –come scrive Vonnegut – forse se non l’avesse fatto Hitler sarebbe morto di stenti già nel 1910. Dopo la parentesi viennese, Otto torna a Midland City e costruisce una casa grandiosa e bizzarra in cui custodisce una preziosa collezione di armi da fuoco. Ancora non può saperlo, ma questo, anni dopo, segnerà il destino di suo figlio Rudy. Intanto Otto gongola quando in Germania il suo amico Adolf diventa Primo Ministro e per celebrarne il successo espone una bandiera con svastica. Ma la 2° Guerra Mondiale sta per deflagrare e il vanto diventa pura vergogna. A complicare la vicenda sarà il giovane rampollo Rudy che si mette a sparare a vanvera e colpisce a morte una casalinga incinta. La disgrazia è solo l’inizio della catastrofe che finirà per travolgere tutta la famiglia.

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Margherita Belgiojoso “Là dove s’inventano i sogni” –Guanda- euro 19,00

Il libro ripercorre le vite di 16 donne russe, raccontate in altrettanti capitoli collegati tra loro da una sorta di staffetta ideale in cui si passano il testimone. Risultato: un grande affresco al femminile della storia degli ultimi due secoli dell’ex Unione Sovietica. L’autrice, che ha studiato storia dell’arte ed economia, ha vissuto più di 10 anni in Russia, l’ha attraversata in lungo e in largo scrivendone per le maggiori testate italiane. Ora ritrae scrittrici, attrici, poetesse, ballerine, rivoluzionarie e dissidenti le cui vite si sono intersecate in alcuni casi, facendole incontrare, convivere e lottare per ideali comuni. Tutte donne e vite straordinarie. Ci sono nomi altisonanti, come quello di Svetlana, figlia prediletta di Stalin, che dopo anni in adorazione del padre, dovrà fare i conti con la sua crudeltà, finirà per allontanarsene e lasciarsi alle spalle la Russia. Aleksandra Kollontaj, prima ministro donna della storia russa -unica tra i 15 ministri del governo di Lenin- che adottò misure draconiane per l’emancipazione femminile, compresa una dura battaglia per la legalizzazione dell’aborto. C’è la poetessa Anna Achmatova inorridita per gli orrori perpetrati da Stalin – in un mese aveva fatto   fucilare 6500 persone- disperata quando furono arrestati il suo compagno e suo figlio. E c’è la scrittrice Nina Berberova che riesce a scappare in America e sbarca il lunario passando da un lavoro a un altro, fino ad insegnare letteratura a Yale e Princeton, abilissima nell’osservare l’atteggiamento dei russi emigrati negli States. Ci sono le rivoluzionarie come Marija Volkonskaya e molta Siberia; ma anche danzatrici ed attrici come Ljubov’ Orlova, il sorriso del cinema sovietico. Il libro si chiude con la coraggiosa dissidente Elena Bonner che nel 1975 andò ad Oslo a ritirare il Premio Nobel per la Pace assegnato al marito Andrej Sacharov. Lui lo condivise con le centinaia di prigionieri rinchiusi nelle carceri di Brežnev; ma il segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica non perdonò questo smacco e nel 1980 fece prelevare Sacharov e lo mandò al confino. L’epilogo invece è dedicato ad Anna Politkovskaja che l’autrice conobbe personalmente negli anni in cui lavorava come giornalista a Mosca…Queste sono solo brevi anticipazioni, il libro racchiude molto di più e si legge piacevolmente come un grande romanzo corale.

Il poliedrico Yann Tiersen e il rock di Joe Jackson

Gli appuntamenti musicali della settimana
Lunedì. Al Pala Alpitour si esibisce Florence+ The Machine. Al Teatro Concordia di Venaria, sono di scena i Maneskin. Al Teatro Colosseo arriva Yann Tiersen.
Martedì. Al Jazz Club suonano gli Elephant Claps. Al Circolo della Musica di Rivoli si esibisce William Basinski preceduto dagli Ozmotic. Al teatro Colosseo suona la Glenn Miller Orchestra.
Mercoledì. Al Blah Blah si esibisce Bob Malone. All’Auditorium del Lingotto suona Ludovico Einaudi.
Giovedì. Al Magazzino di Gilgamesh si esibisce l’armonicista blues Giles Robson. Al teatro Colosseo canta Roberto Vecchioni. All’Hiroshima Mon Amour è di scena Giovanni Lindo Ferretti mentre allo Spazio 211 suonano Lemandorle. Al Milk si esibisce il trio del vibrafonista Andrea Dulbecco.
Venerdì. Al Jazz Club è di scena il trio del pianista Dado Moroni. Al Pala Alpitour canta Antonello Venditti. All’Hiroshima Mon Amour suonano i Persiana Jones. All’OffTopic si esibisce Pacifico. Al Folk Club suona il quartetto del contrabbassista Luca Curcio con Gavino Murgia. Allo Spazio Hydro di Biella si esibisce il sassofonista Nubya Garcia mentre Fred Wesley in trio è di scena al Fassino di Avigliana. All’Espresso Italia di Pinerolo suonano gli Haunted Summer.
Sabato. Al Phenomenon di Fontaneto d’Agogna si esibisce il chitarrista Al Di Meola. Al teatro Colosseo arriva Joe Jackson. Al Circolo della Musica di Rivoli si esibisce Laraaji con il duo Petrella-Tomat. Al Magazzino di Gilgamesh il blues della vocalist Cara Lippman. Al Bunker si esibisce The Horrorist.
Domenica. Al Teatro Colosseo è di scena Ermal Meta con Gnu Quartet mentre al Pala Alpitour si esibisce Shawn Mendes.
 

Pier Luigi Fuggetta

 

Nel solco di Camillo Cavour

A Palazzo Lascaris, una mostra dedicata allo statista piemontese nell’anniversario dell’Unità d’Italia
Inaugurata il 14 marzo scorso, qualche giorno prima dell’anniversario dell’Unità d’Italia – che ogni anno cade il 17 marzo, giorno in cui nel 1861 venne per l’appunto proclamato il Regno d’Italia – la rassegna dedicata, nella “Galleria Spagnuolo” di Palazzo Lascaris , a Camillo Benso Conte di Cavour (fra i principali artefici di quell’unità nazionale, che in verità lui godette ben poco, morendo a soli 50 anni, il 6 giugno dello stesso 1861) vuole illustrare del grande “tessitore”, ministro del Regno di Sardegna prima e poi primo ministro dal 1852 fino alla morte, il singolare percorso umano, culturale e politico, con particolare riferimento alla sua vicenda famigliare. Che s’intreccia non poco con i destini dello stesso Palazzo di via Alfieri a Torino, oggi sede del Consiglio Regionale del Piemonte, e che fu abitazione del marchese Gustavo Benso Cavour, fratello maggiore di Camillo, fino al 1833, anno di morte della moglie Adele Susanna Lascaris. Fra suggestive “evocazioni storiche e artistiche”, l’iter espositivo si apre con l’ intenso “Ritratto di Camillo Benso di Cavour”, olio su tela del 1868, appartenente a Palazzo Lascaris e realizzato a Pavia da Luigi Fognola, sicuramente ispirato dal celeberrimo “Ritratto” del Conte (dagli “occhi cerulei per non dir bigi” scintillanti sotto gli inconfondibili occhiali, secondo un’acuta descrizione dell’amico, deputato e poi Senatore del Regno di Sardegna, Michelangelo Castelli) eseguito nel 1864 da Francesco Hayez, conservato presso la Pinacoteca di Brera a Milano e di cui in mostra troviamo una perfetta copia. A seguire e a far da contrappunto a questi due iconici “Ritratti” di Cavour, in rassegna ne troviamo altri raffiguranti alcuni fra i più stretti famigliari del Conte (dal bisnonno, eroe della battaglia di Guastalla, al nonno in abiti da caccia e al padre “Michele Antonio”, effigiato in giovanile età) insieme ad altri dedicati a figure, comunque partecipi alle vicende umane e politiche del Conte e della sua famiglia; dipinti molto interessanti sotto il profilo storico ed estetico, come quello raffigurante “Carlo Piossasco” (generale e ambasciatore al servizio dell’Elettore di Baviera, appartenente a una delle tante famiglie nobili imparentate con i Cavour), olio su tela del 1747 a firma del pittore danese Johann Georg Ziesenis e quello di “Margherita Pallavicini Mossi” immortalata da adolescente nel 1908 dal ritrattista livornese Vittorio Matteo Corcos e figura importante nella storia ultima dei Benso, poiché (vedova nel 1947 del marchese Giovanni Visconti Venosta che lasciò il complesso cavouriano di Santena alla Città di Torino) fu proprio lei ad istituire la Fondazione Camillo Cavour il 18 aprile 1955. Da segnalare anche un grandioso dipinto che rappresenta “Vittorio Emanuele II in visita a Cremona” nel 1859 accanto ad alcuni capolavori di patriottica memoria come “La strage di Brescia” olio su tela realizzato da Faustino Joli nel 1849. La rassegna, per meglio guidarci sulle orme e “nel solco” del grande statista risorgimentale propone anche un’efficace grafica con la “linea del tempo”, in cui si illustrano le principali fasi della vita pubblica e privata del Conte, nato a Torino nel 1810 in quel Palazzo Benso di Cavour o Casa Cavour (all’angolo fra le odierne via Lagrange e via Cavour), in cui venne anche fondato nel 1847 lo storico giornale “Il Risorgimento”. Non mancano ovviamente, ben esposte in mostra, diverse immagini del Castello e del Parco settecentesco, residenza estiva di tutta la famiglia Benso, a Santena. Progettato il primo, fra il 1712 e il 1722, da Francesco Gallo – già architetto di Vittorio Amedeo II di Savoia – e il secondo dall’architetto paesaggista di corte Xavier Kurten, il complesso architettonico di Santena fu fatto costruire (sulle rovine di un’antica fortificazione munita di torri e circondata da mura e fossati) da Carlo Ottavio Benso, primo nobile della casata, ed è oggi una casa – museo aperta al pubblico che ospita anche la tomba di Camillo Cavour. Il Palazzo è inoltre sede della Fondazione Camillo Cavour, ente morale riconosciuto dalla Presidenza della Repubblica (patrimonio materiale e immateriale della Nazione) e del Centro Studi Cavouriani “Giovanni e Margherita Visconti Venosta”.

Gianni Milani


“Nel solco di Camillo Cavour”
Palazzo Lascaris – “Galleria Spagnuolo”, via Alfieri 15, Torino; tel. 011/5757378 o www.cr.piemonte.it
Fino all’11 aprile
Orari: dal lun. al ven. 9/17
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Nelle foto:
– Luigi Fognola: “Ritratto di Camillo Benso di Cavour”, olio su tela, 1868, Consiglio Regionale del Piemonte
– Copia da Francesco Hayez: “Ritratto di Camillo Benso di Cavour”, olio su tela, 1864, Fondazione Cavour, Santena

– Johann Georg Ziesenis: “Ritratto di Carlo Piossasco”, olio su tela, 1747, Fondazione Cavour, Santena
– Vittorio Matteo Corcos: “Ritratto di Margherita Pallavicini Mossi”, olio su tela, 1908, Fondazione Cavour, Santena
– Il Castello Cavour di Santena
– Particolare del Castello Cavour

Dove il sogno di volare diventò realtà

Il trasporto merci aereo e le compagnie cargo oggi sono la regola e Boeing, Airbus ed Antonov solcano i cieli in lungo e in largo

 Eppure tutto ciò è possibile grazie alla temerarietà di qualcuno che, nel lontano 7 novembre 1910, riuscì per la prima volta a trasportare un imballaggio con 88 chili di seta per 105 chilometri da Dayton a Columbus (Ohio) in un’ora di tempo circa. Era Philip Orin Parmelee (1887-1912), detto “Skyman”, a bordo del biplano Wright Model B, pioniere di tante sfide nei cieli americani (grazie ai fratelli Wright) e dunque protagonista del primo viaggio cargo della storia. Chiunque guardi qualsiasi modello di biplano di quell’epoca, noterà senz’altro la quantità di ingranaggi e ruote dentate che consentivano il funzionamento di quei velivoli; erano anche i “gears” in movimento a realizzare l’antico sogno umano del volo. “The gears were on the move” si sarebbe detto… e lo si sarebbe ripetuto più di 50 anni dopo, quando nella primavera del 1965, sulle ceneri dei The Del Tones, si formò a Columbus la band The Gears, composta da Tom Radowski (V, chit), Bob Alwood (chit), Wes Richards (V, b), Joe Gargani (V, batt). Nell’estate 1966 si sarebbero aggiunti Joe Daniels (V, org) e Jim Lynch (chit, in sostituzione di Radowski), con la definizione di un repertorio stabile fondato sulle comuni influenze di Beatles, Rolling Stones, Rascals, Standells, Paul Revere & The Raiders. La gestione manageriale fu dapprima “home made” (affidata a Hillard Ebrom, zio del bassista Richards) poi alla DJ Productions di Johnny Garber e Dick Pickett, che ampliarono il territorio di azione dei The Gears a tutto l’Ohio e fino a Parkersburg, Ravenswood, Lesage e Huntington (West Virginia). La band prediligeva i clubs (adult o teen) in tutta l’area di Columbus e dintorni e toccava locali come “The Sugar Shack” di Chillicothe, “The Inferno” di Mansfield, “The Gators Hut” di Mt. Vernon e ovviamente il frequentato “Valley Dale Ballroom” di Columbus; svariate furono anche le partecipazioni a Battle of the Bands, soprattutto presso gli Ohio State Fairgrounds. Tra 1967 e 1968 The Gears modificarono nuovamente formazione, con l’ingresso di Randy Armstrong (chit, subentrante a Lynch) e Mike Shoaf (b, al posto di Richards) e affrontarono l’esperienza della sala di registrazione. Ne scaturirono due 45 giri, usciti probabilmente a breve distanza nell’arco del 1968: “Feel Right” [B. Alwood – J. Daniels] (1001; side B: “Explanation”), inciso presso i McKenzie Studios di Larry McKenzie a Columbus, con etichetta Hillside; “Come Back To Me [B. Alwood – J. Daniels] (813L-2546; side B: “Sooner Or Later”), prodotto da Ray Allen a Cincinnati con etichetta Counterpart records. E’ da rilevare il passaggio dal carattere garage crudo del primo singolo alla natura ibrida del secondo, che presenta fattezze psych pop/rock con arrangiamenti con fiati e alternanza di breaks di organo e chitarra. Dopo l’autunno 1968, usciti i due singoli sopra citati, la vita della band trascorse senza particolari sussulti, ma anche priva di nuovi stimoli; il raggio d’azione delle esibizioni stentava ad allargarsi oltre i confini dell’Ohio e il sound stesso faticava a trovare una propria direzione chiara e definita. Il repertorio non si arricchì più di brani originali e tendeva a languire sulle cover già più che note di Lovin’ Spoonful, Outsiders, Rascals e Paul Revere & The Raiders; inoltre i continui cambi di formazione finirono per indebolire ulteriormente la coesione interna del gruppo e portò The Gears a sciogliersi in data imprecisata, probabilmente entro il 1970.
 

Gian Marchisio


 

Quando i matti escono fuori

C’erano una volta i matti

Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce

Non tutte le storie vengono raccontate, anche se così non dovrebbe essere. Ci sono vicende che fanno paura agli autori stessi, che sono talmente brutte da non distinguersi dagli incubi notturni, eppure sono storie che vanno narrate, perché i protagonisti meritano di essere ricordati. I personaggi che popolano queste strane vicende sono “matti”,” matti veri”, c’è chi ha paura della guerra nucleare, chi si crede un Dio elettrico, chi impazzisce dalla troppa tristezza e chi, invece, perde il senno per un improvviso amore. Sono marionette grottesche di cartapesta che recitano in un piccolo teatrino chiuso al mondo, vivono bizzarre avventure rinchiusi nei manicomi che impediscono loro di osservare come la vita intanto vada avanti, lasciandoli spaventosamente indietro. I matti sono le nostre paure terrene, i nostri peccati capitali, i nostri peggiori difetti, li incolpiamo delle nostre sciagure e ci rifugiamo nel loro eccessivo gridare a squarcia gola, per non sentirci in colpa, per non averli capiti e nemmeno ascoltati. (ac)

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10. Quando i matti escono fuori
Negli ultimi anni al manicomio di Collegno c’erano solo pazienti anziani, quelli che erano arrivati lì giovanissimi e lì avevano vissuto per cinquant’anni, quelli che erano più spaventati da quella inaspettata e pesante libertà, nettamente in contrasto  con la prospettiva di spirare tra le mura di Collegno, luoghi che ormai avevano imparato a conoscere bene. C’erano invece pazienti che non ebbero troppa paura di uscire all’aria aperta, come Oreste, il classico matto buono del villaggio, che viveva sotto il ponte di via XXV aprile a Cavoretto, insieme al cane Gary Cooper. L’uomo si rivolgeva alle suore per un rasoio e qualche abito pulito, e il problema dei soldi lo risolveva andando a chiedere l’elemosina nei negozi della zona, alcuni commercianti gli offrivano volentieri un po’ di cibo e un bicchierino. Oreste era arrivato a Cavoretto quando chiusero il manicomio di Collegno, si presentò alla cittadinanza con un sacchetto dorato di caffè messo in testa come la mitria di un vescovo, vestito con colori sgargianti: gli abitanti del posto lo accettarono con un misto di pena e di affetto. Quando si ammalava c’era sempre qualche donna che gli portava delle medicine, altri gli regalavano dei vestiti vecchi, un po’ tutti lo aiutavano a tirare avanti. Coloro che gli lasciavano dei soldi gli raccomandavano di non berseli subito, perché faceva male bere tanto, ma Oreste non era poi così convinto, e subito andava a spendere l’elemosina in un bar. Per sdebitarsi, in inverno spazzava la neve dai marciapiedi e durante l’autunno le foglie secche e in generale cercava di tenere pulito quanto poteva. Ogni tanto gridava e improvvisava dei discorsi complicati in cui bofonchiava di ponti da costruire, denari da elargire e in mezzo ci metteva delle parole inventate. C’erano dei momenti in cui si arrabbiava nei confronti di non si sa che cosa e imprecava contro il niente, forse verso un destino che non era stato poi tanto buono con lui. Gli venne regalata una bicicletta e lui subito la gettò nel fiume, perché ci teneva davvero tanto a quel gentile pensiero e così nessuno avrebbe mai potuto rubargliela. Un Natale aveva deciso di rendere grazie a qualcuno in particolare e così iniziò a strimpellare una vecchia chitarra, rivolto verso un angolo buio della chiesa in cui non c’era nulla: il dio dei matti forse non si mostra facilmente come il dio dei normali. Oreste morì nel 2009, vecchio e stanco, in ospedale, aveva lasciato tutto nel suo giaciglio sotto il ponte, in modo che Gary Cooper potesse farci la guardia.

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 Lucia era un’artista, scriveva poesie e dipingeva, sosteneva di essere la Madonna e di essere la fidanzata di Dio. Adorava irrompere in chiesa e disturbare le funzioni, soprattutto i matrimoni. Una volta aveva spiegato che le pareva di essere circondata da diavoli e che le volessero tutti male, perciò dipingeva, perché non sapeva parlare. Diceva che l’arte l’aveva salvata, che le bastava quello e l’affetto di poche persone per vivere e stare in piedi. Vito indossava un cappello scuro a tesa larga e suonava la tromba sotto i portici della Certosa di Collegno, in genere si cimentava nell’Aida di Verdi e per quello era impazzito, perché non riusciva a fare gli acuti con la tromba. Vito era anche un grafomane, scriveva frasi e aforismi sui muri, tra i tanti uno aveva colpito nel segno: “Elettricità, no”.  Anche Jimmy, un vecchio marinaio, aveva conosciuto l’ebrezza dell’elettroshock, ma lui preferiva non parlarne. A Torino, tra i matti più conosciuti, c’era Zeus, acronimo di Zanetti Edoardo Unico Signore. Zeus si aggirava per le vie della città avvolto in una lunga tunica e con dei sandali ai piedi, aveva una fascetta di cotone legata in testa, la barba incolta e i capelli lunghi fin sulle spalle. Non era cattivo, né un violento, entrava nei negozi tentando di provare giacche che non avrebbe mai comprato, mangiava goloso coni gelato al gusto pistacchio, si impegnava a vendere sciarpe della Juventus davanti allo Stadio Comunale, o al Balôn, la gente lo scansava perché in effetti la tunica emanava un odore difficile da sopportare per più di qualche minuto. Al suo fianco c’era Maria, una donna più anziana di lui, con i capelli dal colore indefinito, che gli camminava davanti illuminandogli la strada con un cero acceso, e intanto che andava avanti gridava: “Zeus ti vede!” Ecco l’autore di quelle innumerevoli scritte affiancate ai disegni del triangolo con l’occhio disegnato all’interno. Zeus veniva da Collegno, sosteneva che, dopo l’elettroshock, il suo cervello fosse diventato elettrico e lui, di conseguenza, un Dio elettrico. Era molto dispiaciuto di non poter fare più miracoli, perché era stanco, non più giovane e un po’ acciaccato, ma soprattutto non poteva più fare affidamento sul nettare che gli permetteva le azioni miracolose e divine: sosteneva infatti che dal proprio liquido seminale scaturivano i suoi divini poteri, ma, con il tempo, anche quell’umore così potente si era indebolito. Un giorno si fece stampare dei bigliettini con scritto sopra: 

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DIO
PER QUALSIASI PROBLEMA TELEFONATEMI
ALLO 011.00.00.00

(In caso d’assenza vi risponderà la segreteria elettromeccanica del Paradiso).
Quando si sentì prossimo alla dipartita, Zeus disse di essere favorevole alla cremazione, poiché chi viene seppellito viene mangiato dai vermi e dà loro la propria anima, “così i vermi diventano sempre più intelligenti”.

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L’ultimo paziente dimesso da Collegno fu un operaio di sessantadue anni, l’uomo oltrepassò i cancelli il 4 giugno 1998 e dopo di lui la struttura venne ufficialmente chiusa. Qualcuno, però era rimasto dentro, e proprio non voleva andar via. Era Roberto Contartese, ex insegnante genovese di lettere e filosofia al liceo, ultimo di cinque figli, ricoverato lì da vent’anni. Roberto era stato rinchiuso a Collegno perché viveva in attesa della fine del mondo e di una guerra atomica che avrebbe distrutto tutto. Lo avevano trovato in una casa di campagna, nascosto tra il materasso e la rete, per evitare le radiazioni. Era rimasto lì immobile per giorni, senza bere né mangiare, in attesa dell’inevitabile Apocalisse. Roberto venne internato, il dottor Annibale Crosignani lo curò e parve guarito. Con il dottore, Roberto aveva instaurato un rapporto di fiducia e perfino di “rispetto intellettuale”; dal canto suo il medico gli permetteva anche di tenere delle lezioni all’interno della struttura e lo aveva in gran conto. Quando gli dissero che poteva tornare a casa, Roberto andò in crisi nuovamente, questa volta il delirio riguardava la paura dell’avvelenamento.  Quando Collegno chiuse, gli proposero un bell’appartamentino a Grugliasco, ma lui rifiutò categoricamente, così l’unica soluzione trovata dal dottor Giorgio Tribbioli fu quella di riadattargli l’ex appartamento di don Gilardi, il cappellano, all’interno dello stesso manicomio. Contartese si trasferì nel suo nuovo piccolo antro con i suoi libri e i suoi autori preferiti: San Tommaso, Kant, Shopenauer, Campanella, Moro, Bacone, Freud e Jung. Si portò dietro anche alcuni volumi di poesia e narrativa, che leggeva ogni tanto tra una sigaretta e l’altra, (ne fumava ottanta al giorno). Non ci fu storia, non uscì vivo da Collegno, lo trovarono morto lì, per un male del corpo e non della mente, a sessantanove anni. L’ultima anima di Collegno se n’era andata via in sordina, come tantissime altre che nel tempo erano spirate silenziose tra le mura del manicomio. Chissà quanti di quei fantasmi sono ancora lì, come i tristi spettri di via Giulio, che ancora non si capacitano di aver sofferto tanto. Chissà se noi normali potremmo mai comprendere la folle tragedia che i matti hanno vissuto, per colpa nostra, per la nostra paura del diverso e di essere scoperti noi stessi come diversi. Chissà quando avremo il coraggio di guardarci così da vicino per scoprire che a una certa distanza, nessuno è normale.

 

Alessia Cagnotto